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"Una scuola su tre a rischio sicurezza", di Luciana Cimino

In una scuola su tre (su due al sud) mancano i certificati di sicurezza. Migliaia stanno su territori a rischio sismico o idrogeologico. Non è solo l’intonaco che cade, l’infiltrazione d’acqua, l’umidità. Lo stato dell’edilizia scolastico nel nostro Paese è drammatico, al punto che in alcune città le amministrazioni si trovano nel dilemma se aprire una scuola non a norma o lasciare a casa i bambini. Casi come quello di Catanzaro, dove 5 scuole hanno chiuso perché inagibili negli ultimi due anni e dove solo questa estate il prefetto ha sospeso l’ordinanza che avrebbe impedito le attività in altre due primarie del centro, o come quello di Campobasso, dove il sindaco qualche giorno fa ha minacciato di rinviare l’apertura delle sue 30 scuole se non avesse avuto dal ministero la deroga sulla certificazione anti incendio, fotografano una realtà al limite dell’emergenza. Una situazione con la quale il governo Monti ha iniziato a fare i conti: fra pochi giorni il Ministero dell’Istruzione presenterà un rapporto sulle condizioni degli edifici scolastici, una sorta di mappatura ufficiale con relativi interventi. Intanto è già stato destinato un miliardo di euro per la messa in sicurezza degli edifici. Altri fondi specifici per 4 regioni con condizioni particolarmente problematiche (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia) arriveranno a breve. «Soldi veri – sottolineano al Miur – che partono subito». Anche perché il quadro che Cittadinanza Attiva, Legambiente e Fcl Cgil, che ogni anno stilano rapporti sulla sicurezze degli istituti, è da vera e propria «emergenza nazionale». Dei 42mila edifici scolastici presenti in tutta Italia il 29% non ha il certificato di agibilità sanitaria, il 42% quello di agibilità statica, il 47,81% non rispetta le norme anti incendio. Più del 60% non è dotato neppure di scale di sicurezza o porte anti panico (elaborazione Flc Cgil su dati Miur e Lega Ambiente). E poi ci sono le strutture con l’amianto (11,13%) e quelle con il radon, un gas radioattivo. «Se poi aggiungiamo che per via della loro ubicazione territoriale le nostre scuole sono soggette al rischio sismico, idrogeologico, vulcanico, industriale, il panorama assume tratti drammatici tanto da connotarsi come una emergenza», commenta Massimo Mari, responsabile nazionale edilizia scolastica Flc Cgil. Ma non è solo la messa in sicurezza straordinaria a mancare. Gli enti locali non hanno più i fondi neanche per la manutenzione: crescono infatti fino a costituire il 56% del totale gli edifici che negli ultimi 5 anni non hanno goduto di nessun tipo di intervento. «A fronte di questa situazione – spiega Adriana Bizzarri, responsabile scuola di Cittadinanza Attiva – le risorse messe in campo finora sono state totalmente inadeguate e poi la lentezza nell’ erogazione dei fondi non aiuta gli enti locali. Noi chiediamo per prima cosa al Ministro Profumo di rivedere il numero di alunni per classe, il sovraffollamento aggrava il quadro ed è un rischio». Intanto partiranno a breve i primi cantieri previsti dal governo. «C’è un grande lavoro da fare, la situazione è nota: oltre il 60 per cento delle scuole ha più di 40 anni ma stiamo facendo di tutto per velocizzare», spiega il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria aggiungendo che l’esecutivo sta seguendo due direzioni: «La messa in sicurezza delle scuole che ne hanno bisogno e la costruzione di nuovi edifici, ecocompatibili, a risparmio energetico. Nuove anche come impostazione, con laboratori e spazi di aggregazione, aperte al territorio anche in orario di chiusura delle normali attività». «Il ministro Profumo lo ripete da tanto tempo: questo è la nostra idea di scuola, poi con la crisi non è una cosa che si può far rapidamente ma c’è un segnale di forte inversione di tendenza che arriva con questi fondi». I fondi sono quelli stanziati dai Ministri Barca (Coesione territoriale) e Profumo e concertati con gli enti locali. «Tutti soldi che non erano stati utilizzati e che invece adesso vengono riallocati sulle scuole e resi immediatamente disponibili». Le tipologie di interventi individuate da Barca e Profumo nel Piano di Azione e Coesione riguardano soprattutto l’efficienza energetica, la messa a norma degli impianti, l’abbattimento delle barriere architettoniche, la dotazione di impianti sportivi e il miglioramento dell’attrattività degli spazi. «Il fine – spiegano nel documento – è quello di incidere sugli attuali aspetti di criticità dell’edilizia scolastica». «Non solo materne o licei ma anche strutture professionali con esigenze specifiche – spiega Rossi Doria – Il numero di scuole da mettere in sicurezza è una delle partite che giochiamo di concerto con le Regioni a questo si aggiungono le scuole di nuova concezione sulle quali puntiamo molto come modello del futuro. La cosa interessante è che ci sono consorzi di comuni o singoli enti locali che stanno venendo da noi disposti a dismettere le vecchie scuole e a partecipare alla spesa, stiamo pensando insieme come finanziare nuove scuole e di che tipo. Per questo in questi giorni stiamo approntando una squadra specifica al Ministero voluta da Profumo proprio per aiutare questo processo negli enti locali».

L’Unità 11.09.12

"Una scuola su tre a rischio sicurezza", di Luciana Cimino

In una scuola su tre (su due al sud) mancano i certificati di sicurezza. Migliaia stanno su territori a rischio sismico o idrogeologico. Non è solo l’intonaco che cade, l’infiltrazione d’acqua, l’umidità. Lo stato dell’edilizia scolastico nel nostro Paese è drammatico, al punto che in alcune città le amministrazioni si trovano nel dilemma se aprire una scuola non a norma o lasciare a casa i bambini. Casi come quello di Catanzaro, dove 5 scuole hanno chiuso perché inagibili negli ultimi due anni e dove solo questa estate il prefetto ha sospeso l’ordinanza che avrebbe impedito le attività in altre due primarie del centro, o come quello di Campobasso, dove il sindaco qualche giorno fa ha minacciato di rinviare l’apertura delle sue 30 scuole se non avesse avuto dal ministero la deroga sulla certificazione anti incendio, fotografano una realtà al limite dell’emergenza. Una situazione con la quale il governo Monti ha iniziato a fare i conti: fra pochi giorni il Ministero dell’Istruzione presenterà un rapporto sulle condizioni degli edifici scolastici, una sorta di mappatura ufficiale con relativi interventi. Intanto è già stato destinato un miliardo di euro per la messa in sicurezza degli edifici. Altri fondi specifici per 4 regioni con condizioni particolarmente problematiche (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia) arriveranno a breve. «Soldi veri – sottolineano al Miur – che partono subito». Anche perché il quadro che Cittadinanza Attiva, Legambiente e Fcl Cgil, che ogni anno stilano rapporti sulla sicurezze degli istituti, è da vera e propria «emergenza nazionale». Dei 42mila edifici scolastici presenti in tutta Italia il 29% non ha il certificato di agibilità sanitaria, il 42% quello di agibilità statica, il 47,81% non rispetta le norme anti incendio. Più del 60% non è dotato neppure di scale di sicurezza o porte anti panico (elaborazione Flc Cgil su dati Miur e Lega Ambiente). E poi ci sono le strutture con l’amianto (11,13%) e quelle con il radon, un gas radioattivo. «Se poi aggiungiamo che per via della loro ubicazione territoriale le nostre scuole sono soggette al rischio sismico, idrogeologico, vulcanico, industriale, il panorama assume tratti drammatici tanto da connotarsi come una emergenza», commenta Massimo Mari, responsabile nazionale edilizia scolastica Flc Cgil. Ma non è solo la messa in sicurezza straordinaria a mancare. Gli enti locali non hanno più i fondi neanche per la manutenzione: crescono infatti fino a costituire il 56% del totale gli edifici che negli ultimi 5 anni non hanno goduto di nessun tipo di intervento. «A fronte di questa situazione – spiega Adriana Bizzarri, responsabile scuola di Cittadinanza Attiva – le risorse messe in campo finora sono state totalmente inadeguate e poi la lentezza nell’ erogazione dei fondi non aiuta gli enti locali. Noi chiediamo per prima cosa al Ministro Profumo di rivedere il numero di alunni per classe, il sovraffollamento aggrava il quadro ed è un rischio». Intanto partiranno a breve i primi cantieri previsti dal governo. «C’è un grande lavoro da fare, la situazione è nota: oltre il 60 per cento delle scuole ha più di 40 anni ma stiamo facendo di tutto per velocizzare», spiega il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria aggiungendo che l’esecutivo sta seguendo due direzioni: «La messa in sicurezza delle scuole che ne hanno bisogno e la costruzione di nuovi edifici, ecocompatibili, a risparmio energetico. Nuove anche come impostazione, con laboratori e spazi di aggregazione, aperte al territorio anche in orario di chiusura delle normali attività». «Il ministro Profumo lo ripete da tanto tempo: questo è la nostra idea di scuola, poi con la crisi non è una cosa che si può far rapidamente ma c’è un segnale di forte inversione di tendenza che arriva con questi fondi». I fondi sono quelli stanziati dai Ministri Barca (Coesione territoriale) e Profumo e concertati con gli enti locali. «Tutti soldi che non erano stati utilizzati e che invece adesso vengono riallocati sulle scuole e resi immediatamente disponibili». Le tipologie di interventi individuate da Barca e Profumo nel Piano di Azione e Coesione riguardano soprattutto l’efficienza energetica, la messa a norma degli impianti, l’abbattimento delle barriere architettoniche, la dotazione di impianti sportivi e il miglioramento dell’attrattività degli spazi. «Il fine – spiegano nel documento – è quello di incidere sugli attuali aspetti di criticità dell’edilizia scolastica». «Non solo materne o licei ma anche strutture professionali con esigenze specifiche – spiega Rossi Doria – Il numero di scuole da mettere in sicurezza è una delle partite che giochiamo di concerto con le Regioni a questo si aggiungono le scuole di nuova concezione sulle quali puntiamo molto come modello del futuro. La cosa interessante è che ci sono consorzi di comuni o singoli enti locali che stanno venendo da noi disposti a dismettere le vecchie scuole e a partecipare alla spesa, stiamo pensando insieme come finanziare nuove scuole e di che tipo. Per questo in questi giorni stiamo approntando una squadra specifica al Ministero voluta da Profumo proprio per aiutare questo processo negli enti locali».
L’Unità 11.09.12

"Ricerca, 800 milioni ai giovani scienziati", di Eugenio Bruno

Una buona notizia per i giovani scienziati arriva dall’Ue. Il Consiglio europeo della ricerca (Cer) ha selezionato i 536 studiosi alle prime armi che si divideranno i quasi 800 milioni di euro previsti per gli «Starting Grant 2012». Del gruppo fanno parte ricercatori di 41 nazionalità e 21 Paesi; 24 quelli di provenienza italiana. Si tratta del finanziamento più importante mai erogato dall’organizzazione paneuropea costituita nel 2007 per finanziare la ricerca d’avanguardia e promuovere l’eccellenza scientifica nel Vecchio continente. Le sovvenzioni di avviamento del Cer sono destinate a ricercatori a inizio carriera di qualunque nazionalità purché si siano già stabiliti in Europa oppure siano disposti a stabilirvisi.
Ogni finanziamento può raggiungere i 2 milioni di euro per un periodo massimo di 5 anni. Per sostenere una nuova generazione di studiosi di punta viene poi previsto che ogni vincitore del «Grant» possa comporre il proprio team attingendo al bacino di oltre 3.000 studenti di dottorato e post-dottorato. Come avviene per tutte le iniziative del Cer anche questa selezione parte dal basso: i singoli partecipanti hanno indicato area di interesse e proposta di ricerca; la scelta è stata effettuata attraverso una valutazione inter pares effettuata da 25 commissioni composte da scienziati di fama mondiale.
Per gli «Starting Grant 2012» sono giunte 4.741 domande, con un aumento del 16% rispetto all’anno scorso. In crescita anche le risorse a disposizione che sono salite dai 670 milioni del 2011 ai quasi 800 di quest’anno (+19,4%). Il 44% delle 536 proposte prescelte appartiene alle scienze fisiche e ingegneristiche, il 37% alle scienze della vita e il 19% alle scienze sociali e umane. I progetti premiati coprono un’ampia gamma di settori. Si va dagli impatti sociali della cooperazione transmediterranea nel settore delle energie rinnovabili, passando per le protesi uditive a laser fino alla tecnologia ottica di rilevazione a distanza per le opere di ingegneria civile.
Passando all’identikit dei vincitori emerge un’età media di circa 37 anni. Con una quota di donne pari al 24% del totale (che significa il 21% in più rispetto al 2011). Il Paese più gettonato è il Regno Unito con 131 progetti. Seguito da Germania (78) e Francia (73). Solo settima invece l’Italia che, con le sue 24 proposte, viene preceduta anche da Olanda (51), Svizzera (33) e Spagna (29). Ma se si passa ad analizzare la graduatoria per nazionalità dei beneficiari il quadro muta e il nostro Paese sale in quarta posizione con 42 studiosi dietro i 131 tedeschi, i 68 britannici e i 67 francesi. A conferma di come da noi il problema della fuga di cervelli sia tutt’altro che superato.
Nel commentare i dati la commissaria europea per la Ricerca, Máire Geoghegan-Quinn, ha dichiarato: «In un’economia della conoscenza globale abbiamo bisogno di nuove idee per competere. Per questo motivo investire nella ricerca di punta di livello mondiale e nella prossima generazione di scienziati rappresenta una delle grandi priorità dell’Europa. Dopo solo cinque anni – ha aggiunto – le sovvenzioni del Cer godono di fama mondiale e ci aiutano a trattenere e attrarre i migliori».
L’attività del Cer non si esaurisce con gli «Starting Grant». Nel futuro prossimo il suo ruolo, che si inserisce nel settimo programma quadro per la ricerca e l’innovazione, è destinato ad accrescersi. Così come la sua dotazione finanziaria visto che la Commissione europea ha recentemente proposto di incrementarne il bilancio dai 7,5 miliardi del periodo 2007-2013 a oltre 13 miliardi di euro nel nuovo programma quadro “Horizon 2020” (2014-2020).

Il Sole 24 Ore 11.09.12

"Ricerca, 800 milioni ai giovani scienziati", di Eugenio Bruno

Una buona notizia per i giovani scienziati arriva dall’Ue. Il Consiglio europeo della ricerca (Cer) ha selezionato i 536 studiosi alle prime armi che si divideranno i quasi 800 milioni di euro previsti per gli «Starting Grant 2012». Del gruppo fanno parte ricercatori di 41 nazionalità e 21 Paesi; 24 quelli di provenienza italiana. Si tratta del finanziamento più importante mai erogato dall’organizzazione paneuropea costituita nel 2007 per finanziare la ricerca d’avanguardia e promuovere l’eccellenza scientifica nel Vecchio continente. Le sovvenzioni di avviamento del Cer sono destinate a ricercatori a inizio carriera di qualunque nazionalità purché si siano già stabiliti in Europa oppure siano disposti a stabilirvisi.
Ogni finanziamento può raggiungere i 2 milioni di euro per un periodo massimo di 5 anni. Per sostenere una nuova generazione di studiosi di punta viene poi previsto che ogni vincitore del «Grant» possa comporre il proprio team attingendo al bacino di oltre 3.000 studenti di dottorato e post-dottorato. Come avviene per tutte le iniziative del Cer anche questa selezione parte dal basso: i singoli partecipanti hanno indicato area di interesse e proposta di ricerca; la scelta è stata effettuata attraverso una valutazione inter pares effettuata da 25 commissioni composte da scienziati di fama mondiale.
Per gli «Starting Grant 2012» sono giunte 4.741 domande, con un aumento del 16% rispetto all’anno scorso. In crescita anche le risorse a disposizione che sono salite dai 670 milioni del 2011 ai quasi 800 di quest’anno (+19,4%). Il 44% delle 536 proposte prescelte appartiene alle scienze fisiche e ingegneristiche, il 37% alle scienze della vita e il 19% alle scienze sociali e umane. I progetti premiati coprono un’ampia gamma di settori. Si va dagli impatti sociali della cooperazione transmediterranea nel settore delle energie rinnovabili, passando per le protesi uditive a laser fino alla tecnologia ottica di rilevazione a distanza per le opere di ingegneria civile.
Passando all’identikit dei vincitori emerge un’età media di circa 37 anni. Con una quota di donne pari al 24% del totale (che significa il 21% in più rispetto al 2011). Il Paese più gettonato è il Regno Unito con 131 progetti. Seguito da Germania (78) e Francia (73). Solo settima invece l’Italia che, con le sue 24 proposte, viene preceduta anche da Olanda (51), Svizzera (33) e Spagna (29). Ma se si passa ad analizzare la graduatoria per nazionalità dei beneficiari il quadro muta e il nostro Paese sale in quarta posizione con 42 studiosi dietro i 131 tedeschi, i 68 britannici e i 67 francesi. A conferma di come da noi il problema della fuga di cervelli sia tutt’altro che superato.
Nel commentare i dati la commissaria europea per la Ricerca, Máire Geoghegan-Quinn, ha dichiarato: «In un’economia della conoscenza globale abbiamo bisogno di nuove idee per competere. Per questo motivo investire nella ricerca di punta di livello mondiale e nella prossima generazione di scienziati rappresenta una delle grandi priorità dell’Europa. Dopo solo cinque anni – ha aggiunto – le sovvenzioni del Cer godono di fama mondiale e ci aiutano a trattenere e attrarre i migliori».
L’attività del Cer non si esaurisce con gli «Starting Grant». Nel futuro prossimo il suo ruolo, che si inserisce nel settimo programma quadro per la ricerca e l’innovazione, è destinato ad accrescersi. Così come la sua dotazione finanziaria visto che la Commissione europea ha recentemente proposto di incrementarne il bilancio dai 7,5 miliardi del periodo 2007-2013 a oltre 13 miliardi di euro nel nuovo programma quadro “Horizon 2020” (2014-2020).
Il Sole 24 Ore 11.09.12

"I doveri di un governo", di Chiara Saraceno

Un Ministro dello Sviluppo che, quando faceva il banchiere, ha contribuito a salvare l’Alitalia (a spese del contribuente) non può limitarsi a dire agli arrabbiatissimi lavoratori dell’Alcoa che non c’è niente da fare. È troppo tardiva la correzione di ieri: ormai il danno è fatto. Ed è sperabile che il ministro del Lavoro non riprenda il refrain che le è caro. Ovvero che: «Il lavoro non è un diritto. Bisogna meritarselo, anche con il sacrificio». Di sacrifici dei lavoratori, specie manuali, è purtroppo piena la storia anche recente, anche di ieri, con l’operaio di Taranto ustionato gravemente mentre lavorava a mettere a norma uno degli impianti più scandalosamente pericolosi del nostro paese. Di fronte alla crescita inarrestabile della disoccupazione, cui si unisce quella della inattività per scoraggiamento e disperazione, nessuno, tanto meno chi governa, può permettersi di dire alternativamente che non c’è nulla da fare e che se non si ha lavoro è perché non lo si merita abbastanza. Il problema del mercato del lavoro italiano, della disoccupazione giovanile che non rallenta, della disoccupazione dei quaranta-cinquantenni, delle donne che non ce la fanno a tenere insieme il doppio carico di lavoro pagato e non pagato, in una situazione in cui i pochi servizi disponibili vengono ridotti e i datori di lavoro hanno sempre più il coltello per il manico, non dipende certo dal fatto che tutti questi soggetti non si meritano abbastanza un posto di lavoro decente. Non vorrei che, dopo l’ottocentesca distinzione tra poveri meritevoli e immeritevoli, ora se ne inventasse una analoga per i lavoratori, per nascondere così le responsabilità sia della politica che dell’imprenditoria e della finanza per la crisi economica in cui ci troviamo e le crescenti disuguaglianze che sta producendo.
La crisi economica e sociale che stiamo attraversando non è certamente responsabilità principale di questo governo, come ci viene ricordato continuamente con toni da salvatori della patria ora da uno, ora dall’altro ministro e dallo stesso presidente del Consiglio (anche se non pochi di coloro che ora ne fanno parte hanno avuto non irrilevanti responsabilità politiche ed economiche in passato). Sia il caso Taranto sia il caso Alcoa testimoniano di quanta insipienza politica e imprenditoriale sia stata capace la nostra classe dirigente. Tuttavia il governo non può chiamarsi fuori dalle proprie
responsabilità di fronte al destino di migliaia lavoratori e lavoratrici e delle loro famiglie. La politica del rigore non solo non basta, ma può provocare, se non corretta e compensata, danni sociali, oltre che economici, gravissimi e di lungo periodo. I tafferugli, le intemperanze avvenute ieri a Roma nel corso della manifestazione degli operai dell’Alcoa sono la spia di una tensione che sta montando e si incattivisce anche perché non trova una sponda credibile, un orizzonte di azione praticabile. È vero che l’Alcoa era una azienda pesantemente sussidiata, che ha tratto il proprio profitto sia dal lavoro dei suoi operai che dal finanziamento pubblico. È stato probabilmente uno sbaglio spendere così risorse che avrebbero potuto essere meglio investite per produrre occasioni di lavoro più sostenibili. Ma oggi non si possono cambiare le regole senza farsi carico del destino di chi alla fine risulta essere più vittima che beneficiario di quelle scelte. Perché ha lavorato, ha fatto il proprio dovere, in cambio di una paga modesta. Non c’è politica di rigore che tenga. Occorre, per questi operai e per le migliaia di altri lavoratori che rischiano di perdere il lavoro nelle prossime settimane e mesi, o di non trovarlo quando lo cercano, preparare occasioni di lavoro sostenibili, in primis nella produzione di quei beni collettivi di cui il nostro paese ha tanto bisogno: cura dell’ambiente, dei beni culturali, delle persone non autosufficienti. La politica del rigore ad ogni costo non sta dando i risultati sperati. La luce in fondo al tunnel sembra più una chimera che una speranza. E comunque gli individui e le famiglie devono poter vivere ogni giorno ed avere un orizzonte temporale minimo per fare progetti e alimentare speranze.
Invece di ripeterci che il lavoro non èun diritto esigibile e che il governo non può garantire il lavoro a tutti, il governo dovrebbe ricordarsi che l’articolo 4 della Costituzione affida allo stato una grande responsabi-lità, quella di promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro. Meglio se contestualmente investe e fa investire nella produzione di beni collettivi. Se non ora, quando?

La Repubblica 11.09.12

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“Perché da noi il salvataggio è impossibile”, di LUCA RICOLFI

Come si fa a non stare dalla parte dei lavoratori dell’Alcoa? Non è certo colpa dei salari operai se la multinazionale americana sta chiudendo alcuni stabilimenti non solo in Sardegna, ma in Europa (dismissioni sono in corso anche in Spagna).

Ma la vera domanda viene a questo punto: posto che una volta tanto il costo del lavoro, la produttività, l’assenteismo, gli scioperi non c’entrano nulla, che cosa si può fare?

Per rispondere bisogna ricapitolare alcuni dati di fondo della situazione dell’Alcoa. Lo stabilimento sardo di Portovesme finora è rimasto in Sardegna per due ragioni di fondo. Primo, perché la domanda di alluminio non era fiacca come oggi.

Secondo, perché lo Stato italiano, che fa pagare l’energia uno sproposito (+30% rispetto alla già alta media europea) all’Alcoa concedeva tariffe superagevolate, naturalmente facendole pesare sulla bolletta di tutti noi, famiglie e imprese che pagano l’energia elettrica a prezzo pieno. Questo avveniva per ragioni puramente politiche, ossia per salvare voti e posti di lavoro, o meglio per salvare voti pagandoli in posti di lavoro. Ma pagandoli quanto? Un calcolo molto rozzo, basato sulla spesa totale negli ultimi 15 anni e sul numero di posti di lavoro salvati, suggerisce che ogni posto di lavoro sia costato ai contribuenti circa 200 mila euro l’anno. Una follia, vista la leggerezza delle buste paga degli operai.

Ora le autorità europee hanno stabilito che quelli erano aiuti di Stato (si vedeva a occhio nudo, ma abbiamo finto di dover attendere un pronunciamento ufficiale) e la multinazionale americana ha capito che non c’è più trippa per gatti. Smantellerà un po’ di stabilimenti in Europa, e ne costruirà uno megagalattico in Arabia Saudita, ovvero in un posto dove è più conveniente produrre.

Ora torniamo alla nostra domanda di partenza. Che cosa si può fare?

Mi spiace essere crudo, ma la sola risposta che mi sento di dare è: niente. O meglio: molto di assistenziale e nulla di industriale. Siamo in Europa, e gli operai che perdono il lavoro hanno diritto a qualche forma di sostegno del reddito, e a essere aiutati nella ricerca di un posto di lavoro nuovo. Ma non raccontiamoci la fiaba che spingere un’azienda straniera a produrre in perdita sul nostro suolo sia «politica industriale», o sia una scelta razionale. La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente, per l’incredibile matassa di vincoli e regolamenti che ci siamo dati negli anni. E in alcuni paesi europei, fra cui l’Italia, l’energia (in particolare elettrica) costa troppo, come ha giustamente fatto notare il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.

Il guaio, tuttavia, è che quello dell’energia è solo un sovraccosto del produrre in Italia, uno dei tanti. Accanto all’energia ce ne sono innumerevoli altri: tempi della giustizia, tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione, adempimenti burocratici, corruzione, prestiti bancari, tasse sul lavoro, tasse sulle imprese. Per questo, a partire da oggi, «La Stampa» – insieme con la Fondazione «David Hume» – proporrà una serie di dossier sui sovraccosti del produrre in Italia, con l’obiettivo di costruire – alla fine – un super-indice che possa dare un’idea quantitativa di qual è il sovrapprezzo che un’impresa deve pagare per operare in Italia anziché in un altro paese appartenete all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le 34 economie più sviluppate del pianeta.

Io capisco che, non essendoci un solo euro in cassa e non riuscendo a tagliare né i costi della politica né gli sprechi, i nostri governanti siano affezionati all’idea delle riforme a costo zero. Ma mi permetto di metter loro una pulce nell’orecchio: se vogliamo che la gente torni a trovare lavoro non c’è riforma a costo zero capace di raggiungere l’obiettivo in tempi ragionevoli. Le riforme che costano nulla vanno fatte senz’altro e prima possibile, ma è ingenuo illudersi che possano bastare se non si abbassa – e di molto – il costo del produrre in Italia.

La Stampa 11.09.12

"I doveri di un governo", di Chiara Saraceno

Un Ministro dello Sviluppo che, quando faceva il banchiere, ha contribuito a salvare l’Alitalia (a spese del contribuente) non può limitarsi a dire agli arrabbiatissimi lavoratori dell’Alcoa che non c’è niente da fare. È troppo tardiva la correzione di ieri: ormai il danno è fatto. Ed è sperabile che il ministro del Lavoro non riprenda il refrain che le è caro. Ovvero che: «Il lavoro non è un diritto. Bisogna meritarselo, anche con il sacrificio». Di sacrifici dei lavoratori, specie manuali, è purtroppo piena la storia anche recente, anche di ieri, con l’operaio di Taranto ustionato gravemente mentre lavorava a mettere a norma uno degli impianti più scandalosamente pericolosi del nostro paese. Di fronte alla crescita inarrestabile della disoccupazione, cui si unisce quella della inattività per scoraggiamento e disperazione, nessuno, tanto meno chi governa, può permettersi di dire alternativamente che non c’è nulla da fare e che se non si ha lavoro è perché non lo si merita abbastanza. Il problema del mercato del lavoro italiano, della disoccupazione giovanile che non rallenta, della disoccupazione dei quaranta-cinquantenni, delle donne che non ce la fanno a tenere insieme il doppio carico di lavoro pagato e non pagato, in una situazione in cui i pochi servizi disponibili vengono ridotti e i datori di lavoro hanno sempre più il coltello per il manico, non dipende certo dal fatto che tutti questi soggetti non si meritano abbastanza un posto di lavoro decente. Non vorrei che, dopo l’ottocentesca distinzione tra poveri meritevoli e immeritevoli, ora se ne inventasse una analoga per i lavoratori, per nascondere così le responsabilità sia della politica che dell’imprenditoria e della finanza per la crisi economica in cui ci troviamo e le crescenti disuguaglianze che sta producendo.
La crisi economica e sociale che stiamo attraversando non è certamente responsabilità principale di questo governo, come ci viene ricordato continuamente con toni da salvatori della patria ora da uno, ora dall’altro ministro e dallo stesso presidente del Consiglio (anche se non pochi di coloro che ora ne fanno parte hanno avuto non irrilevanti responsabilità politiche ed economiche in passato). Sia il caso Taranto sia il caso Alcoa testimoniano di quanta insipienza politica e imprenditoriale sia stata capace la nostra classe dirigente. Tuttavia il governo non può chiamarsi fuori dalle proprie
responsabilità di fronte al destino di migliaia lavoratori e lavoratrici e delle loro famiglie. La politica del rigore non solo non basta, ma può provocare, se non corretta e compensata, danni sociali, oltre che economici, gravissimi e di lungo periodo. I tafferugli, le intemperanze avvenute ieri a Roma nel corso della manifestazione degli operai dell’Alcoa sono la spia di una tensione che sta montando e si incattivisce anche perché non trova una sponda credibile, un orizzonte di azione praticabile. È vero che l’Alcoa era una azienda pesantemente sussidiata, che ha tratto il proprio profitto sia dal lavoro dei suoi operai che dal finanziamento pubblico. È stato probabilmente uno sbaglio spendere così risorse che avrebbero potuto essere meglio investite per produrre occasioni di lavoro più sostenibili. Ma oggi non si possono cambiare le regole senza farsi carico del destino di chi alla fine risulta essere più vittima che beneficiario di quelle scelte. Perché ha lavorato, ha fatto il proprio dovere, in cambio di una paga modesta. Non c’è politica di rigore che tenga. Occorre, per questi operai e per le migliaia di altri lavoratori che rischiano di perdere il lavoro nelle prossime settimane e mesi, o di non trovarlo quando lo cercano, preparare occasioni di lavoro sostenibili, in primis nella produzione di quei beni collettivi di cui il nostro paese ha tanto bisogno: cura dell’ambiente, dei beni culturali, delle persone non autosufficienti. La politica del rigore ad ogni costo non sta dando i risultati sperati. La luce in fondo al tunnel sembra più una chimera che una speranza. E comunque gli individui e le famiglie devono poter vivere ogni giorno ed avere un orizzonte temporale minimo per fare progetti e alimentare speranze.
Invece di ripeterci che il lavoro non èun diritto esigibile e che il governo non può garantire il lavoro a tutti, il governo dovrebbe ricordarsi che l’articolo 4 della Costituzione affida allo stato una grande responsabi-lità, quella di promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro. Meglio se contestualmente investe e fa investire nella produzione di beni collettivi. Se non ora, quando?
La Repubblica 11.09.12
******
“Perché da noi il salvataggio è impossibile”, di LUCA RICOLFI
Come si fa a non stare dalla parte dei lavoratori dell’Alcoa? Non è certo colpa dei salari operai se la multinazionale americana sta chiudendo alcuni stabilimenti non solo in Sardegna, ma in Europa (dismissioni sono in corso anche in Spagna).
Ma la vera domanda viene a questo punto: posto che una volta tanto il costo del lavoro, la produttività, l’assenteismo, gli scioperi non c’entrano nulla, che cosa si può fare?
Per rispondere bisogna ricapitolare alcuni dati di fondo della situazione dell’Alcoa. Lo stabilimento sardo di Portovesme finora è rimasto in Sardegna per due ragioni di fondo. Primo, perché la domanda di alluminio non era fiacca come oggi.
Secondo, perché lo Stato italiano, che fa pagare l’energia uno sproposito (+30% rispetto alla già alta media europea) all’Alcoa concedeva tariffe superagevolate, naturalmente facendole pesare sulla bolletta di tutti noi, famiglie e imprese che pagano l’energia elettrica a prezzo pieno. Questo avveniva per ragioni puramente politiche, ossia per salvare voti e posti di lavoro, o meglio per salvare voti pagandoli in posti di lavoro. Ma pagandoli quanto? Un calcolo molto rozzo, basato sulla spesa totale negli ultimi 15 anni e sul numero di posti di lavoro salvati, suggerisce che ogni posto di lavoro sia costato ai contribuenti circa 200 mila euro l’anno. Una follia, vista la leggerezza delle buste paga degli operai.
Ora le autorità europee hanno stabilito che quelli erano aiuti di Stato (si vedeva a occhio nudo, ma abbiamo finto di dover attendere un pronunciamento ufficiale) e la multinazionale americana ha capito che non c’è più trippa per gatti. Smantellerà un po’ di stabilimenti in Europa, e ne costruirà uno megagalattico in Arabia Saudita, ovvero in un posto dove è più conveniente produrre.
Ora torniamo alla nostra domanda di partenza. Che cosa si può fare?
Mi spiace essere crudo, ma la sola risposta che mi sento di dare è: niente. O meglio: molto di assistenziale e nulla di industriale. Siamo in Europa, e gli operai che perdono il lavoro hanno diritto a qualche forma di sostegno del reddito, e a essere aiutati nella ricerca di un posto di lavoro nuovo. Ma non raccontiamoci la fiaba che spingere un’azienda straniera a produrre in perdita sul nostro suolo sia «politica industriale», o sia una scelta razionale. La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente, per l’incredibile matassa di vincoli e regolamenti che ci siamo dati negli anni. E in alcuni paesi europei, fra cui l’Italia, l’energia (in particolare elettrica) costa troppo, come ha giustamente fatto notare il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.
Il guaio, tuttavia, è che quello dell’energia è solo un sovraccosto del produrre in Italia, uno dei tanti. Accanto all’energia ce ne sono innumerevoli altri: tempi della giustizia, tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione, adempimenti burocratici, corruzione, prestiti bancari, tasse sul lavoro, tasse sulle imprese. Per questo, a partire da oggi, «La Stampa» – insieme con la Fondazione «David Hume» – proporrà una serie di dossier sui sovraccosti del produrre in Italia, con l’obiettivo di costruire – alla fine – un super-indice che possa dare un’idea quantitativa di qual è il sovrapprezzo che un’impresa deve pagare per operare in Italia anziché in un altro paese appartenete all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le 34 economie più sviluppate del pianeta.
Io capisco che, non essendoci un solo euro in cassa e non riuscendo a tagliare né i costi della politica né gli sprechi, i nostri governanti siano affezionati all’idea delle riforme a costo zero. Ma mi permetto di metter loro una pulce nell’orecchio: se vogliamo che la gente torni a trovare lavoro non c’è riforma a costo zero capace di raggiungere l’obiettivo in tempi ragionevoli. Le riforme che costano nulla vanno fatte senz’altro e prima possibile, ma è ingenuo illudersi che possano bastare se non si abbassa – e di molto – il costo del produrre in Italia.
La Stampa 11.09.12

Fassina: “Mi contestano, ma tornerò in piazza con loro”, di Goffredo De Marchis

«Il Pd è il partito del lavoro. Quelle sono le sue radici. Quindi in piazza ci siamo stati, ci siamo e ci saremo ancora». Il responsabile economico dei democratici Stefano Fassina va sempre alle manifestazioni dei lavoratori, anche quando i suoi colleghi del Pd lo contestano. Voleva andare persino al corteo della Fiom dichiaratamente contrario al governo che il suo stesso partito sostiene. Fassina viene descritto come un amico degli operai e di tutti coloro che lottano per il lavoro. Amico anche dei tassisti ed “eletto” da Loreno Bittarelli, grande capo delle vetture pubbliche punto di riferimento della loro battaglia. Stavolta è stato contestato come se fosse un ultrà liberista. A
Repubblica.it,
a caldo, dice che non è successo niente di che. «C’è stato un momento di tensione. Però sono l’unico,
o uno dei pochi, che segue questa vicenda e viene in mezzo ai lavoratori. Tra l’altro mi dicono che chi ha provocato non era un dipendente dell’Alcoa, loro stessi lo hanno allontanato. Questa è una vertenza che va risolta». Più tardi, a testa fredda, avverte tutti di smetterla con gli slogan contro la demagogia. È un messaggio che manda anche al Pd. «Possiamo fare molti seminari sul populismo. Ma poi i problemi reali sono più forti delle parole».
La contestazione l’ha sorpresa?
«Mah… Non voglio generalizzare. Mi ha contestato un gruppetto circoscritto, altri lavoratori apprezzano il nostro impegno a difesa del lavoro e della loro azienda. Giovedì scorso ero ai cancelli dell’Alcoa a Portovesme. Siamo vicini anche ai lavoratori della Carbonsulcis. E non ci sono solo io».
Il centrosinistra può risolvere
da solo una crisi tanto profonda?
«La tensione e la disperazione sociale si allargano. È un problema per il Pd, è un problema per il governo che va affrontato. Noi mettiamo al centro il lavoro e non abbiamo cominciato ieri».
Può servire il referendum contro la riforma Fornero promosso da Idv e Sel? Lei lo firmerà?
«No, non lo firmo. Non mi piace lo strumento. Sono d’accordo sulla modifica dell’articolo 18 ma con un disegno di legge perché le leggi sul lavoro vanno scritte con le parti sociali, non combattute a colpi di referendum».
Passera prima ha detto che era impossibile salvare Alcoa, adesso sostiene che bisogna fare di tutto. Vede un governo confuso o peggio distratto?
«Diciamo così: dopo le riforme e l’attenzione allo spread, il governo ora deve dare priorità al tema del lavoro».

La Repubblica 11.09.12

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“CAMUSSO: RISPOSTE CONCRETE O SARÀ SCIOPERO GENERALE”, di Laura Matteucci

Detassare le tredicesime e incentivare i premi di produttività: saranno le due principali proposte che Cgil, Cisl e Uil avanzeranno al governo, oggi nel corso dell’incontro convocato da Mario Monti. Proposte che partiranno dalla necessità di abbassare l’imposizione fiscale sul lavoro, come ripetuto più volte dai segretari confederali, cui è legata la possibilità dello sciopero generale della Cgil. «Stiamo perdendo mille posti di lavoro al giorno», lancia l’allarme il segretario Uil Luigi Angeletti, parlando di «autunno drammatico». Il leader Cisl Raffaele Bonanni da giorni insiste su un Patto che aumenti la produttività, chiedendo al governo di riportare all’insù i tetti per la detassazione del premio di produttività (al 10% per un massimo di 6mila euro l’anno per redditi sotto i 40mila euro). E la segretaria Cgil, Susanna Camusso, spinge per un abbassamento delle tasse per le tredicesime. «Prima di parlare di riduzione del cuneo fiscale – dice – credo che si debbano ridurre le tasse sui lavoratori e pensionati. Serve un segnale di discontinuità, per dare un po’ di soldi ai lavoratori e rilanciare i consumi. E questo si può realizzare detassando le tredicesime fino a 150mila euro di reddito». Dall’incontro di oggi con il governo, Camusso conta possano arrivare delle prime risposte nella direzione di equità e crescita, «visto che finora ci sono state solo scelte di rigore, pagate prevalentemente dai dipendenti e dai pensionati». ruolo propositivo Camusso ne parla al Direttivo della Cgil, ieri, elencando una piattaforma di obiettivi raggiungibili su redditi e lavoro. Per sostenerli, prospetta una «mobilitazione di lunga durata» fino allo sciopero generale. Nella relazione che ha aperto i lavori in Corso d’Italia, Camusso mette in cantiere lo sciopero dei lavoratori pubblici, già proclamato dalle categorie di Cgil e Uil per il 28 settembre; una grande iniziativa di mobilitazione per il lavoro, che riunifichi le tante vertenze aperte, da tenersi in ottobre; infine lo sciopero generale se nella Legge di stabilità non ci saranno risposte positive su redditi e lavoro. Reddito e lavoro sono i temi al centro della piattaforma. Innanzitutto con la richiesta di una «riforma fiscale, che parta dalla patrimoniale – dice Camusso – ma è difficile immaginare che possa essere realizzata. Per questo è necessario utilizzare subito le risorse recuperate con la lotta all’evasione fiscale per detassare le tredicesime dei dipendenti e dei pensionati e ridare così un po’ di ossigeno a coloro che in questi ultimi mesi hanno visto aggravare pesantemente le loro condizioni materiali, pagando più di altri il rigore imposto dal governo e salvando il Paese dal baratro». Il lavoro, ribadisce Camusso, necessita di «un intervento pubblico immediato da parte del governo per riunificare le tante vertenze aperte, a cominciare da Alcoa, e trovare soluzioni di tutela delle attività produttive accompagnandole fuori dalla crisi». Tra l’altro, proprio ieri è stato diffuso uno studio dell’Ires Cgil, secondo il quale sono quasi 4 milioni e mezzo le persone nell’area della «sofferenza occupazionale». L’inattività – si legge nella ricerca – è un fenomeno molto più diffuso in Italia che nel resto d’Europa, dentro al quale si trova una parte rilevante di esclusi dal lavoro (scoraggiati e i cassaintegrati) non formalmente riconosciuti come disoccupati. Inspiegabile, altrimenti, un tasso di disoccupazione nella media e un tasso di occupazione molto più basso di quello europeo. Si arriva alla enorme cifra di 4 milioni e 392mila persone (nel secondo trimestre del 2007, prima della crisi, erano 2 milioni e 475mila, con un aumento del 77%). «Sono necessarie – prosegue Camusso nella sua relazione al Direttivo – politiche industriali e per il lavoro da parte del governo, considerando chiusa la stagione del mercato regolatore». Fondamentale definire le direttrici del Paese, stabilendo «in quale direzione dobbiamo andare». La segretaria rileva il ruolo propositivo della confederazione, che sta realizzando un «Piano per il lavoro» che contiene un’idea per il Paese e il suo assetto strategico, aperto anche al contributo di esterni e che il sindacato conta di varare in occasione della prossima Conferenza di programma. Nella relazione Camusso ha parlato anche delle riforme avviate, delle pensioni e del lavoro: «Nella prossima legislatura – dice – andranno cambiate».

L’Unità 11.09.12