Latest Posts

"11 settembre, un anniversario sottotono all'ombra della crisi economica e della campagna elettorale", di Marco Valsania

Un anniversario all’ombra di un’incerta battaglia elettorale. È quello odierno dell’11 settembre – esattamente undici anni dopo che i terroristi di Al Qaeda si lanciarono con i loro aerei dirottati contro le Torri Gemelle di Manhattan mietendo migliaia di vittime innocenti e inaugurando un’era di nuova paura, di guerre in Medio Oriente e attentati in Occidente. Un anniversario, dopo undici anni e una nuova gravissima crisi, questa volta economica, soprattutto sottotono. Non ci saranno eventi congiunti, tra Barack Obama e il rivale repubblicano Mitt Romney, come accadde invece nel 2008 tra Obama e l’avversario di allora John McCain, che visitarono assieme Ground Zero a Manhattan. (Obama e Romney parteciperanno entrambi a un evento meno politicamente “carico”, la filantropica Clinton Global Initiative dell’ex presidente Bill Clinton il 25 settembre a New York). Unica concessione bipartisan questa volta: entrambe le campagne hanno acconsentito, fin dal mese scorso e per la terza tornata elettorale consecutiva, a sospendere in occasione dell’anniversario ogni pubblicità.

I candidati andranno per la loro strada: Obama ha in programma oggi di osservare un minuto di silenzio alla Casa Bianca in onore delle vittime e di effettuare in seguito una visita al Pentagono, altro obiettivo dei terroristi undici anni or sono. «Spera che tutti riflettano sul significato di quanto accadde e di quanto il Paese abbia attraversato da allora», ha detto il portavoce Jay Carney. Il vicepresidente Joe Biden parteciperà a una commemorazione a Shanksville, in Pennsylvania, dove uno dei quattro aerei dirottati dai terroristi, forse diretto verso il Congresso o la Casa Bianca, si schiantò per la ribellione dei passeggeri a bordo. Romney, da parte sua, parlerà invece davanti al convegno annuale della Guardia Nazionale.

La tregua elettorale non significa però che il tema della sicurezza nazionale – e del terrorismo – sia svanito dalle urne. I sondaggi Cbs-New York Times, mostrano che la tematica ha certamente perso rilievo rispetto ad anni recenti e di fronte all’emergenza economica. Resta però la preoccupazione centrale per il 37% degli elettori, contro il 54% che cita l’occupazione.

E Obama, qui, parte avvantaggiato: per la prima volta da molto tempo i democratici non hanno nulla da temere dagli avversari quando si tratta di national security. Anzi, hanno messo alle corde i repubblicani, il tradizionale partito della Difesa: Obama può rivendicare, e lo ha ripetutamente fatto, l’uccisione del grande mandante di quegli attentati del 2001, Osama bin Laden. Il presidente uscente ha anche sancito la fine della guerra in Iraq e sta concludendo la missione americana in Afghanistan, entrambe drammatico risultato di quegli attentanti.

«In un mondo di nuove minacce e sfide, potete scegliere una leadership che é stata messa alla prova e ha dimostrato di essere all’altezza», ha detto Obama la scorsa settimana chiudendo la Convention democratica e rivolgendosi agli americani. «Avevo promesso di concentrare l’attenzione sui terroristi che ci avevano davvero attaccato e l’abbiamo fatto. Una nuova torre sta oggi sorgendo a New York, Al Qaeda é avviata alla sconfitta e Osama bin Laden é morto». Il vicepresidente Biden ha riassunto il messaggio dell’amministrazione, lotta al terrorismo e alla crisi economica, in uno slogan: «Osama bin Laden é morto e la General Motors é viva». I democratici sono anche passati all’offensiva diretta: hanno rinfacciato a Romney di non aver mai menzionato o rigraziato i militari americani oggi ancora impegnati in Afghanistan durante il suo discorso alla Convention. I repubblicani hanno cercato di incalzare a loro volta Obama, sia durante la Convention che in successive interviste televisive e comizi di Romney: hanno accusato l’amministrazione democratica di debolezza, di non essere abbastanza dura nei confronti dell’Iran e del regime siriano e abbastanza ferma nel sostegno a Israele. Le critiche hanno tuttavia trovato fino a oggi scarsa eco.

Il Sole 24 Ore 11.09.12

******

Un anniversario di polemiche
L’undicesimo anniversario dell’undici settembre sarà segnato per i newyorkesi da nuove preoccupazioni per la salute dei sopravvissuti e da una faida politica che ha bloccato la costruzione del miliardario progetto del museo di Ground zero. I lavori sono stati interrotti per le polemiche tra la Fondazione nazionale per il memoriale dell’undici settembre e l’Autorità portuale di New York e del New Jersey. La Fondazione ha annunciato nei giorni scorsi che, per la prima volta dalla tragedia, nessun politico prenderà la parola nel corso delle commemorazioni. Una scelta che è stata interpretata da molte famiglie delle vittime come il segno evidente dello scontro in corso dietro le quinte. Le stesse famiglie, intanto, continuano a fare i conti con i danni causati dal collasso delle Torri gemelle: la combustione del carburante degli aerei e dei materiali di costruzione dei due grattacieli rilasciò nell’aria una quantità di agenti cancerogeni. La settimana scorsa il dipartimento dei vigili del fuoco di New York City ha aggiunto altri nove nomi ai 55 già incisi su un muro che commemora i pompieri morti per malattie contratte durante le operazioni di soccorso dell’undici settembre. Secondo alcune stime sarebbero più di mille le persone decedute per patologie legate agli attentati alle Twin towers. In tutti gli Stati Uniti almeno ventimila persone che hanno lavorato a Ground zero sono state prese in cura dal World Trade Center health program; altre quarantamila vengono tenute sotto osservazione. «È una vera e propria epidemia», spiega Nancy Carbone, direttore esecutivo dei Friends of firefighters, una ong di Brooklin. Secondo un’altra organizzazione non-profit solo nelle ultime sette settimane sono morti tre poliziotti, due pompieri e un operaio edile che hanno lavorato sui resti delle Torri. La difficoltà di stabilire con precisione quali patologie respiratorie siano state causate dalle polveri del crollo, oltretutto, ha reso difficile la distribuzione dei 2,7 miliardi del fondo federale di compensazione per le vittime.

(reuters)

"11 settembre, un anniversario sottotono all'ombra della crisi economica e della campagna elettorale", di Marco Valsania

Un anniversario all’ombra di un’incerta battaglia elettorale. È quello odierno dell’11 settembre – esattamente undici anni dopo che i terroristi di Al Qaeda si lanciarono con i loro aerei dirottati contro le Torri Gemelle di Manhattan mietendo migliaia di vittime innocenti e inaugurando un’era di nuova paura, di guerre in Medio Oriente e attentati in Occidente. Un anniversario, dopo undici anni e una nuova gravissima crisi, questa volta economica, soprattutto sottotono. Non ci saranno eventi congiunti, tra Barack Obama e il rivale repubblicano Mitt Romney, come accadde invece nel 2008 tra Obama e l’avversario di allora John McCain, che visitarono assieme Ground Zero a Manhattan. (Obama e Romney parteciperanno entrambi a un evento meno politicamente “carico”, la filantropica Clinton Global Initiative dell’ex presidente Bill Clinton il 25 settembre a New York). Unica concessione bipartisan questa volta: entrambe le campagne hanno acconsentito, fin dal mese scorso e per la terza tornata elettorale consecutiva, a sospendere in occasione dell’anniversario ogni pubblicità.
I candidati andranno per la loro strada: Obama ha in programma oggi di osservare un minuto di silenzio alla Casa Bianca in onore delle vittime e di effettuare in seguito una visita al Pentagono, altro obiettivo dei terroristi undici anni or sono. «Spera che tutti riflettano sul significato di quanto accadde e di quanto il Paese abbia attraversato da allora», ha detto il portavoce Jay Carney. Il vicepresidente Joe Biden parteciperà a una commemorazione a Shanksville, in Pennsylvania, dove uno dei quattro aerei dirottati dai terroristi, forse diretto verso il Congresso o la Casa Bianca, si schiantò per la ribellione dei passeggeri a bordo. Romney, da parte sua, parlerà invece davanti al convegno annuale della Guardia Nazionale.
La tregua elettorale non significa però che il tema della sicurezza nazionale – e del terrorismo – sia svanito dalle urne. I sondaggi Cbs-New York Times, mostrano che la tematica ha certamente perso rilievo rispetto ad anni recenti e di fronte all’emergenza economica. Resta però la preoccupazione centrale per il 37% degli elettori, contro il 54% che cita l’occupazione.
E Obama, qui, parte avvantaggiato: per la prima volta da molto tempo i democratici non hanno nulla da temere dagli avversari quando si tratta di national security. Anzi, hanno messo alle corde i repubblicani, il tradizionale partito della Difesa: Obama può rivendicare, e lo ha ripetutamente fatto, l’uccisione del grande mandante di quegli attentati del 2001, Osama bin Laden. Il presidente uscente ha anche sancito la fine della guerra in Iraq e sta concludendo la missione americana in Afghanistan, entrambe drammatico risultato di quegli attentanti.
«In un mondo di nuove minacce e sfide, potete scegliere una leadership che é stata messa alla prova e ha dimostrato di essere all’altezza», ha detto Obama la scorsa settimana chiudendo la Convention democratica e rivolgendosi agli americani. «Avevo promesso di concentrare l’attenzione sui terroristi che ci avevano davvero attaccato e l’abbiamo fatto. Una nuova torre sta oggi sorgendo a New York, Al Qaeda é avviata alla sconfitta e Osama bin Laden é morto». Il vicepresidente Biden ha riassunto il messaggio dell’amministrazione, lotta al terrorismo e alla crisi economica, in uno slogan: «Osama bin Laden é morto e la General Motors é viva». I democratici sono anche passati all’offensiva diretta: hanno rinfacciato a Romney di non aver mai menzionato o rigraziato i militari americani oggi ancora impegnati in Afghanistan durante il suo discorso alla Convention. I repubblicani hanno cercato di incalzare a loro volta Obama, sia durante la Convention che in successive interviste televisive e comizi di Romney: hanno accusato l’amministrazione democratica di debolezza, di non essere abbastanza dura nei confronti dell’Iran e del regime siriano e abbastanza ferma nel sostegno a Israele. Le critiche hanno tuttavia trovato fino a oggi scarsa eco.
Il Sole 24 Ore 11.09.12
******
Un anniversario di polemiche
L’undicesimo anniversario dell’undici settembre sarà segnato per i newyorkesi da nuove preoccupazioni per la salute dei sopravvissuti e da una faida politica che ha bloccato la costruzione del miliardario progetto del museo di Ground zero. I lavori sono stati interrotti per le polemiche tra la Fondazione nazionale per il memoriale dell’undici settembre e l’Autorità portuale di New York e del New Jersey. La Fondazione ha annunciato nei giorni scorsi che, per la prima volta dalla tragedia, nessun politico prenderà la parola nel corso delle commemorazioni. Una scelta che è stata interpretata da molte famiglie delle vittime come il segno evidente dello scontro in corso dietro le quinte. Le stesse famiglie, intanto, continuano a fare i conti con i danni causati dal collasso delle Torri gemelle: la combustione del carburante degli aerei e dei materiali di costruzione dei due grattacieli rilasciò nell’aria una quantità di agenti cancerogeni. La settimana scorsa il dipartimento dei vigili del fuoco di New York City ha aggiunto altri nove nomi ai 55 già incisi su un muro che commemora i pompieri morti per malattie contratte durante le operazioni di soccorso dell’undici settembre. Secondo alcune stime sarebbero più di mille le persone decedute per patologie legate agli attentati alle Twin towers. In tutti gli Stati Uniti almeno ventimila persone che hanno lavorato a Ground zero sono state prese in cura dal World Trade Center health program; altre quarantamila vengono tenute sotto osservazione. «È una vera e propria epidemia», spiega Nancy Carbone, direttore esecutivo dei Friends of firefighters, una ong di Brooklin. Secondo un’altra organizzazione non-profit solo nelle ultime sette settimane sono morti tre poliziotti, due pompieri e un operaio edile che hanno lavorato sui resti delle Torri. La difficoltà di stabilire con precisione quali patologie respiratorie siano state causate dalle polveri del crollo, oltretutto, ha reso difficile la distribuzione dei 2,7 miliardi del fondo federale di compensazione per le vittime.
(reuters)

"Perché la legge è urgente", di Antonio Ingroia

Sappiamo che nel testo di legge ci sono disposizioni che necessitano di miglioramenti e che residuano importanti perplessità su alcune scelte. È legittimo chiedersi, ad esempio, quale sia l’impatto dell’estensione della punibilità del concusso nel caso della concussione per induzione. Insomma, non tutto è ottimale e tutto è perfettibile. Ma la sensazione è che i lavori parlamentari su questo terreno siano entrati, da mesi ormai, in una fase di stallo, dove prevalgono i veti incrociati che certamente non fanno bene. Non fanno bene alla materia da disciplinare che necessita di una normativa nuova, organica ed efficace. E non fanno bene soprattutto alla politica stessa, la prima a dover essere interessata a una rapida soluzione al problema, anche superando le resistenze al suo interno da parte di chi cerca di mantenere a tutti i costi le più ampie zone di impunità per quella corruzione sistemica che sta strangolando la nostra democrazia.
Il punto è proprio questo. Questa corruzione sta strangolando, innanzitutto, la nostra economia. Non solo per i costi diretti per la comunità che comporta ogni forma di corruzione, ma anche per i suoi costi indiretti. In fondo, è proprio la diffusa corruzione dei pubblici funzionari, percepita come un costo d’impresa supplementare e permanente, al pari del peso delle imposizioni del racket mafioso, che scoraggia gli investitori stranieri, ed impedisce la crescita della nostra economia. Sicché, nel momento in cui strangola la nostra economia e deprime i cittadini, la corruzione finisce per strangolare anche la nostra democrazia. Perché la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche va sempre più deperendo e l’istinto di ribellione cresce.
È questa la prima ragione che dovrebbe far comprendere ai settori più consapevoli del nostro ceto politico l’urgenza e la necessità di un intervento legislativo forte nella lotta alla corruzione. Tutti sanno che la credibilità della classe politica ha raggiunto negli ultimi anni la punta più bassa della storia della nostra Repubblica agli occhi dei propri elettori. E si sa pure che questo effetto dipende certamente dalla crisi finanziaria che ha esasperato la sfiducia del cittadino medio nel proprio futuro. Ma a questa crisi finanziaria non è affatto estraneo l’impatto del fenomeno corruttivo che ormai in Italia ha assunto una dimensione endemica. Il diffondersi della cultura della irresponsabilità, penale, politica ed etico-morale, ha avuto un peso rilevante. L’etica della responsabilità si è definitivamente dissolta.
Se si vuole recuperare un circuito di fiducia democratica, se si vuole salvare l’Italia, occorre allora uno spirito «patriottico». Uno spirito patriottico che tolga di mezzo gli interessi di parte e i tatticismi pre-elettorali. Perché tutti rischiano di perdere. Agli occhi della gente non sono sufficienti dichiarazioni di intenti e affermazioni di principio. I cittadini esigono fatti e provvedimenti concreti. Sotto questo profilo, una legge anticorruzione, purché efficace, può costituire per il Parlamento un’occasione storica e, nel contempo, l’ultima spiaggia. L’occasione di iniziare un percorso inverso rispetto a quello finora tracciato. Un’inversione di senso di marcia verso la cultura della responsabilità. Se si considera che questo Parlamento è lo stesso che, sotto il passato governo, ha approvato tante leggi ad personam e di privilegio, e che ha messo ulteriori tasselli a supporto della cultura dell’impunità, la sfida va raccolta e diventa una priorità assoluta. Importante quanto la riforma elettorale. Come lo è ogni provvedimento che dimostri una nuova eticità della politica. Solo questo può riavvicinare i cittadini alla politica di cui hanno visto troppo a lungo il «lato b», la parte peggiore.
Si tratta dunque di un’occasione storica. Occasione storica perché costituirebbe il primo mattone della costruzione di un nuovo itinerario, per fare crescere la cultura istituzionale della responsabilità e la fiducia dei cittadini. L’ultima spiaggia per riacquistare credibilità agli occhi dei propri elettori che tornerebbero a partecipare con maggiore convinzione alla politica. Ma anche l’ultima spiaggia per conquistare maggiore fiducia dagli investitori e così contribuire alla crescita della nostra economia. Non c’è alternativa e bisogna fare in fretta.

L’Unità 10.09.12

******

Le tangenti e gli investimenti stranieri come una «tassa» del 20 per cento
Gli effetti del processo civile lento: meno credito e aziende in sofferenza
di Dino Martirano

L’Italia non schioda dalla bassa classifica. Secondo il rapporto «Doing Business 2012» siamo ancora al 158° posto, su 183 economie esaminate, per quanto riguarda il tempo necessario alla giustizia civile per risolvere una controversia commerciale tra due imprese: in Italia, per concludere un processo e ottenere una sentenza definitiva, sono necessari 1.210 giorni, a fronte dei 331 impiegati in Francia e i 394 in Germania. In linea generale, «la durata media dei procedimenti in primo e secondo grado supera di due o tre volte quella degli altri Paesi dell’Unione Europea». Grecia compresa.
È questo il quadro di riferimento da cui parte il filo del ragionamento del ministro Paola Severino su «Giustizia e crescita economica». Ma prima di affondare il bisturi nel corpaccione malato del processo civile, l’analisi del Guardasigilli affronta l’emergenza corruzione che tanti investitori stranieri allontana dall’Italia e tante difficoltà provoca alla libera concorrenza tra le imprese. Nella percezione della corruzione (Trasparency international), infatti, siamo ultimi in Europa. Davanti solo alla Grecia.
E tanto per far comprendere le dimensioni del fenomeno, il ministro cita tre dati impressionanti: con una lotta efficace alla corruzione, il reddito potrebbe essere superiore del 2-4% (Banca mondiale); nelle regioni in cui la corruzione è più bassa, il settore delle imprese cresce fino al 3% annuo in più; la corruzione in Italia corrisponde a una «tassa» del 20% sugli investimenti stranieri. Ma c’è anche un «effetto domino» della corruzione che inquina tutti i pozzi dell’economia e del commercio: «La corruzione infatti altera il flusso del denaro in entrata (reato presupposto per creare i fondi) ed in uscita (il “nero” porta a spesa “illecita”) generando una sorta di effetto domino».
Va da sé, insiste il ministro, che la nuova legge anticorruzione non è più rinviabile: per imporre una efficace disciplina di trasparenza nella Pubblica amministrazione e per rendere «effettive e credibili» le sanzioni comprese quelle nuove, previste dalla legge ora all’esame del Senato, contro la corruzione tra privati e contro il traffico di influenze illecite (il lobbismo fuori dalle regole).
Eppure, lo snodo di collegamento tra giustizia ed economia passa sempre e comunque dalla manutenzione ordinaria e straordinaria del processo civile. Perché una «giustizia affidabile promuove la concorrenza, favorisce lo sviluppo dei sistemi finanziari, riduce il costo del recupero dei crediti, fornisce maggiore tutela ai prestatori di fondi». Per comprendere quanto conti un processo civile che funziona, il ministro ricorda che nelle province nelle quali il processo civile è più lento, le banche chiudono con più vigore anche i rubinetti del credito alle imprese: «A parità di altre condizioni, un aumento del carico di 10 casi per 1000 abitanti genera una riduzione del rapporto tra prestiti e Pil del 1,5%».
In altre parole, le statistiche dimostrano che «nei distretti di Corte d’Appello più “inefficienti” le famiglie sono penalizzate sul mercato del credito». Ma una amministrazione pigra e inefficiente del processo civile «influenza anche la quota di ricchezza che le famiglie detengono sotto forma “statica” (contante e depositi) rispetto a quella detenuta in strumenti finanziari “dinamici” (azioni e obbligazioni)». Inoltre, una giustizia civile lenta «incrementa il ricorso delle imprese al debito commerciale (dilazioni di pagamento)» ed è associata anche a una minore natalità delle imprese e soprattutto a una loro minore dimensione media: «Una riduzione della durata delle procedure civili del 50% accrescerebbe del 20% le dimensioni medie delle imprese manifatturiere».
Tirando il filo di questa analisi, il ministro della Giustizia Severino propone la seguente diagnosi: i tribunali civili sono intasati per eccesso di litigiosità (domanda di giustizia) e per un’organizzazione inefficiente degli uffici (offerta di giustizia). Sul primo fronte, quello della eccessiva domanda, le priorità sono la riforma degli ordinamenti professionali (quella dell’avvocatura è in sede legislativa alla Camera) e il filtro per un accesso più regolato alla giustizia (già realizzato per quanto riguarda l’appello nel civile).
Sul secondo fronte, quello dell’offerta, in agenda ci sono la riorganizzazione degli uffici giudiziari (da attuare nei prossimi 12 mesi in base alla delega varata dal governo Berlusconi), l’informatizzazione degli uffici giudiziari (che procede assai a rilento), la specializzazione dei giudici (varati i tribunali delle imprese mentre manca ancora quello della famiglia). Rimane, infine, lo smaltimento dell’arretrato che però, in termini di possibilità di azzeramento, assomiglia tanto al debito pubblico accumulato dallo Stato.

Il Corriere della Sera 10.09.12

"Perché la legge è urgente", di Antonio Ingroia

Sappiamo che nel testo di legge ci sono disposizioni che necessitano di miglioramenti e che residuano importanti perplessità su alcune scelte. È legittimo chiedersi, ad esempio, quale sia l’impatto dell’estensione della punibilità del concusso nel caso della concussione per induzione. Insomma, non tutto è ottimale e tutto è perfettibile. Ma la sensazione è che i lavori parlamentari su questo terreno siano entrati, da mesi ormai, in una fase di stallo, dove prevalgono i veti incrociati che certamente non fanno bene. Non fanno bene alla materia da disciplinare che necessita di una normativa nuova, organica ed efficace. E non fanno bene soprattutto alla politica stessa, la prima a dover essere interessata a una rapida soluzione al problema, anche superando le resistenze al suo interno da parte di chi cerca di mantenere a tutti i costi le più ampie zone di impunità per quella corruzione sistemica che sta strangolando la nostra democrazia.
Il punto è proprio questo. Questa corruzione sta strangolando, innanzitutto, la nostra economia. Non solo per i costi diretti per la comunità che comporta ogni forma di corruzione, ma anche per i suoi costi indiretti. In fondo, è proprio la diffusa corruzione dei pubblici funzionari, percepita come un costo d’impresa supplementare e permanente, al pari del peso delle imposizioni del racket mafioso, che scoraggia gli investitori stranieri, ed impedisce la crescita della nostra economia. Sicché, nel momento in cui strangola la nostra economia e deprime i cittadini, la corruzione finisce per strangolare anche la nostra democrazia. Perché la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche va sempre più deperendo e l’istinto di ribellione cresce.
È questa la prima ragione che dovrebbe far comprendere ai settori più consapevoli del nostro ceto politico l’urgenza e la necessità di un intervento legislativo forte nella lotta alla corruzione. Tutti sanno che la credibilità della classe politica ha raggiunto negli ultimi anni la punta più bassa della storia della nostra Repubblica agli occhi dei propri elettori. E si sa pure che questo effetto dipende certamente dalla crisi finanziaria che ha esasperato la sfiducia del cittadino medio nel proprio futuro. Ma a questa crisi finanziaria non è affatto estraneo l’impatto del fenomeno corruttivo che ormai in Italia ha assunto una dimensione endemica. Il diffondersi della cultura della irresponsabilità, penale, politica ed etico-morale, ha avuto un peso rilevante. L’etica della responsabilità si è definitivamente dissolta.
Se si vuole recuperare un circuito di fiducia democratica, se si vuole salvare l’Italia, occorre allora uno spirito «patriottico». Uno spirito patriottico che tolga di mezzo gli interessi di parte e i tatticismi pre-elettorali. Perché tutti rischiano di perdere. Agli occhi della gente non sono sufficienti dichiarazioni di intenti e affermazioni di principio. I cittadini esigono fatti e provvedimenti concreti. Sotto questo profilo, una legge anticorruzione, purché efficace, può costituire per il Parlamento un’occasione storica e, nel contempo, l’ultima spiaggia. L’occasione di iniziare un percorso inverso rispetto a quello finora tracciato. Un’inversione di senso di marcia verso la cultura della responsabilità. Se si considera che questo Parlamento è lo stesso che, sotto il passato governo, ha approvato tante leggi ad personam e di privilegio, e che ha messo ulteriori tasselli a supporto della cultura dell’impunità, la sfida va raccolta e diventa una priorità assoluta. Importante quanto la riforma elettorale. Come lo è ogni provvedimento che dimostri una nuova eticità della politica. Solo questo può riavvicinare i cittadini alla politica di cui hanno visto troppo a lungo il «lato b», la parte peggiore.
Si tratta dunque di un’occasione storica. Occasione storica perché costituirebbe il primo mattone della costruzione di un nuovo itinerario, per fare crescere la cultura istituzionale della responsabilità e la fiducia dei cittadini. L’ultima spiaggia per riacquistare credibilità agli occhi dei propri elettori che tornerebbero a partecipare con maggiore convinzione alla politica. Ma anche l’ultima spiaggia per conquistare maggiore fiducia dagli investitori e così contribuire alla crescita della nostra economia. Non c’è alternativa e bisogna fare in fretta.
L’Unità 10.09.12
******
Le tangenti e gli investimenti stranieri come una «tassa» del 20 per cento
Gli effetti del processo civile lento: meno credito e aziende in sofferenza
di Dino Martirano
L’Italia non schioda dalla bassa classifica. Secondo il rapporto «Doing Business 2012» siamo ancora al 158° posto, su 183 economie esaminate, per quanto riguarda il tempo necessario alla giustizia civile per risolvere una controversia commerciale tra due imprese: in Italia, per concludere un processo e ottenere una sentenza definitiva, sono necessari 1.210 giorni, a fronte dei 331 impiegati in Francia e i 394 in Germania. In linea generale, «la durata media dei procedimenti in primo e secondo grado supera di due o tre volte quella degli altri Paesi dell’Unione Europea». Grecia compresa.
È questo il quadro di riferimento da cui parte il filo del ragionamento del ministro Paola Severino su «Giustizia e crescita economica». Ma prima di affondare il bisturi nel corpaccione malato del processo civile, l’analisi del Guardasigilli affronta l’emergenza corruzione che tanti investitori stranieri allontana dall’Italia e tante difficoltà provoca alla libera concorrenza tra le imprese. Nella percezione della corruzione (Trasparency international), infatti, siamo ultimi in Europa. Davanti solo alla Grecia.
E tanto per far comprendere le dimensioni del fenomeno, il ministro cita tre dati impressionanti: con una lotta efficace alla corruzione, il reddito potrebbe essere superiore del 2-4% (Banca mondiale); nelle regioni in cui la corruzione è più bassa, il settore delle imprese cresce fino al 3% annuo in più; la corruzione in Italia corrisponde a una «tassa» del 20% sugli investimenti stranieri. Ma c’è anche un «effetto domino» della corruzione che inquina tutti i pozzi dell’economia e del commercio: «La corruzione infatti altera il flusso del denaro in entrata (reato presupposto per creare i fondi) ed in uscita (il “nero” porta a spesa “illecita”) generando una sorta di effetto domino».
Va da sé, insiste il ministro, che la nuova legge anticorruzione non è più rinviabile: per imporre una efficace disciplina di trasparenza nella Pubblica amministrazione e per rendere «effettive e credibili» le sanzioni comprese quelle nuove, previste dalla legge ora all’esame del Senato, contro la corruzione tra privati e contro il traffico di influenze illecite (il lobbismo fuori dalle regole).
Eppure, lo snodo di collegamento tra giustizia ed economia passa sempre e comunque dalla manutenzione ordinaria e straordinaria del processo civile. Perché una «giustizia affidabile promuove la concorrenza, favorisce lo sviluppo dei sistemi finanziari, riduce il costo del recupero dei crediti, fornisce maggiore tutela ai prestatori di fondi». Per comprendere quanto conti un processo civile che funziona, il ministro ricorda che nelle province nelle quali il processo civile è più lento, le banche chiudono con più vigore anche i rubinetti del credito alle imprese: «A parità di altre condizioni, un aumento del carico di 10 casi per 1000 abitanti genera una riduzione del rapporto tra prestiti e Pil del 1,5%».
In altre parole, le statistiche dimostrano che «nei distretti di Corte d’Appello più “inefficienti” le famiglie sono penalizzate sul mercato del credito». Ma una amministrazione pigra e inefficiente del processo civile «influenza anche la quota di ricchezza che le famiglie detengono sotto forma “statica” (contante e depositi) rispetto a quella detenuta in strumenti finanziari “dinamici” (azioni e obbligazioni)». Inoltre, una giustizia civile lenta «incrementa il ricorso delle imprese al debito commerciale (dilazioni di pagamento)» ed è associata anche a una minore natalità delle imprese e soprattutto a una loro minore dimensione media: «Una riduzione della durata delle procedure civili del 50% accrescerebbe del 20% le dimensioni medie delle imprese manifatturiere».
Tirando il filo di questa analisi, il ministro della Giustizia Severino propone la seguente diagnosi: i tribunali civili sono intasati per eccesso di litigiosità (domanda di giustizia) e per un’organizzazione inefficiente degli uffici (offerta di giustizia). Sul primo fronte, quello della eccessiva domanda, le priorità sono la riforma degli ordinamenti professionali (quella dell’avvocatura è in sede legislativa alla Camera) e il filtro per un accesso più regolato alla giustizia (già realizzato per quanto riguarda l’appello nel civile).
Sul secondo fronte, quello dell’offerta, in agenda ci sono la riorganizzazione degli uffici giudiziari (da attuare nei prossimi 12 mesi in base alla delega varata dal governo Berlusconi), l’informatizzazione degli uffici giudiziari (che procede assai a rilento), la specializzazione dei giudici (varati i tribunali delle imprese mentre manca ancora quello della famiglia). Rimane, infine, lo smaltimento dell’arretrato che però, in termini di possibilità di azzeramento, assomiglia tanto al debito pubblico accumulato dallo Stato.
Il Corriere della Sera 10.09.12

"Sondaggi. Il Pd stacca il Pdl ma l’Italia è più frammentata", di Carlo Buttaroni

Bersani sembra riuscire a trattenere i possibili astensionisti, mentre Berlusconi va a caccia dei «disillusi». Il Partito democratico consolida la sua posizione nei confronti del Pdl. Lo fa in termini politici prima ancora che elettorali, giocando il ruolo di playmaker rispetto alla configurazione delle prossime alleanze politiche. Che sia con il baricentro spostato a sinistra (con Sel e Idv) oppure orientato verso l’Udc e Casini, poco importa. Il Pd sta dimostrando di esserci. E di avere in questa fase molte carte da giocare. Le critiche, le divisioni, le polemiche interne, anche quando sono aspre, danno comunque l’idea di essere iscritte nello stesso perimetro, dove riescono a convivere posizioni anche molto distanti tra loro, qualche volta persino opposte. Il Partito democratico rappresenta, in questo momento, la principale polarità sulla scena politica. E, dopo molto tempo, nel centrosinistra si respira l’odore di avvicinamenti e confluenze anziché di scissioni o allontanamenti.
IL SOGGETTO RIFORMISTA
Più che come un partito tradizionale, in questo momento, il Pd è vissuto come una “scelta di campo”, rispetto alla quale le sole alternative sono rappresentate dalla galassia in dissolvenza del centrodestra, dall’astensionismo e dalla “grillo-ribellione”. L’immagine che Bersani ha dato al partito è quella di un’organizzazione distante da quella dei soci fondatori (ex Pci ed ex Dc) e assai vicina, nelle forme e nei modi, ai democratici americani. Il partito di Bersani non è un monolite da cui discendono le scelte, ma un luogo di confluenze, con una cifra politica di stampo riformista. L’incompiutezza di alcune scelte di fondo, che darebbero ai democratici italiani un’identità più definita e nitida, come quelle su temi etici, del lavoro e dello sviluppo, per adesso non costituiscono un limite. Sembrano soltanto rimandare a un’altra fase politica. Nel frattempo, il Pd ha comunque una sua atmosfera da offrire mentre, dall’altra parte, prevale la rarefazione.
Il prezzo che Bersani paga alla coabitazione forzata con il Pdl è ricompensato dal ruolo di crocevia di ciò che accadrà nei prossimi mesi. E l’appoggio a Monti non è visto come un allontanamento dalle aspirazioni fondanti, nonostante gli orientamenti, le scelte e le azioni del governo si collochino, spesso, assai lontano dai codici iscritti nel dna del Pd. Il sostegno al governo è visto, semmai, come una necessità contingente alla situazione specifica e Bersani è stato bravo nel contenere le inevitabili spinte cetrifughe rispetto alle scelte che ha dovuto compiere. Nell’opera di costruzione del nuovo Pd, Bersani è stato facilitato dal dissolvimento del centrodestra e dallo spegnimento della stella polare rappresentata da Silvio Berlusconi.
Per quasi vent’anni Berlusconi ha rappresentato l’unità di misura della politica italiana. Nel bene e nel male. Nel bene perché ha indubbiamente avviato una fase di trasformazione del sistema politico italiano dopo il terremoto tangentopoli. Nel male, perché la tessitura del nuovo è stata caratterizzata da una degenerazione che si è riflessa nelle forme espressive di un potere che ha trasferito la democrazia nel perimetro tecnologico dei media. Un regime spettacolare che ha cambiato il modo stesso di governare, mettendo, al posto della dialettica politica, nuovi apparati e procedure ispirate alle tecniche del marketing: alimentare i sogni trasformandoli in necessità e verità assolute, sostituire il ragionamento con le emozioni, sedurre anziché convincere. Un contagio che, in forme e modi diversi, ha infettato tutto e tutti, dando corpo a una rappresentazione pornografica della politica che si è via via popolata di personaggi improbabili, testimoni di un nuovo miracolo annunciato in maniera ipnotica dagli schermi televisivi. Oggi quel sogno si è rivelato un incubo: per i lavoratori dipendenti, compresi quelli pubblici, che non hanno più la sicurezza del posto fisso; per gli studenti, che vivono l’ansia di un futuro incerto; per i disoccupati, la cui prospettiva di riscatto si è trasformata in rassegnazione. La delusione del sogno tradito non ha fatto, però, migrare masse di elettori da uno schieramento all’altro. Tant’è che la quota di quanti si collocano nel centrosinistra è di poco superiore a quella di coloro che si collocano nel campo opposto. Il dissolvimento del Pdl e l’eclissi della leadership di Berlusconi non hanno cambiato la collocazione politica degli italiani, ma soltanto modificato il rispecchiamento in termini elettorali.
L’AGO DELLA BILANCIA
Se si potesse tracciare una linea immaginaria che divida il Paese in due campi politici, la popolazione di una parte equivarrebbe all’incirca all’altra. È così, da moltissimi anni: tratto distintivo del nostro Paese. Ogni volta che ha vinto una coalizione sull’altra, le ragioni sono da rintracciare nella scelta delle alleanze e nella quota di astensione, elementi che hanno fatto spostare l’ago della bilancia quel tanto da cambiare il punto di ricaduta in termini istituzionali. Anche il vantaggio attuale del Pd sul Pdl, nelle intenzioni di voto, non nasce da un’espansione dei consensi vera e propria, quanto dalla capacità del partito di Bersani di offrire ragioni sufficienti ai sostenitori di centrosinistra per restare nel loro campo, e a non alimentare l’invaso degli incerti e dei potenziali astensionisti.
Intanto, proprio la riconquista degli elettori disillusi pare alla base della nuova strategia di Berlusconi. Lo si intuisce nella scelta di ricandidarsi come leader, rifondando il partito – e forse addirittura “liquidandolo” per dare corpo a un movimento leggero, senza una dirigenza politica vera e propria, ma con una leadership forte. Impossibile dire se questa possa essere la soluzione alla crisi del centrodestra. Non lo è sicuramente per il Paese, rinnovando soltanto l’incompiutezza di quelle riforme del sistema politico di cui si sente la necessità, e oltremodo necessarie per recuperare una good reputation da poter spendere in campo europeo.
L’anomalia di un sistema che, oggi, soffre l’assenza di alternative e di una reale dialettica politica, rappresenta, purtroppo, solo l’ennesima tappa della lunga transizione italiana verso una nuova normalità. E il rischio è che nemmeno le prossime elezioni rappresenteranno quel ritorno al futuro più volte annunciato.
Un pericolo, questo, che richiama i partiti all’urgenza di un rovesciamento di missione: far tornare la politica a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune. Perché anche quando parole come crisi e degenerazione, riferite al sistema politico, s’ispirano a un sentire collettivo, esse non segnano lo spartiacque di un abbandono, semmai il contrario, ossia la consapevolezza della necessità di un ritorno ai valori condivisi di un ethos civile.
Il tracciato di riforma del sistema politico non può che essere quello di dialogare con i mille rivoli in cui sono confluiti i grandi invasi politici del Novecento e che hanno dato corpo a nuove forme di partecipazione diffusa, dove il confronto delle idee e i processi di apprendimento collettivo ricoprono ancora un ruolo fondamentale nella costruzione della rappresentanza sociale e una costante tessitura del loro significato politico.
Ciò che serve al Paese per uscire dall’infinita transizione politica non è un atto isolato, che conferisca un mandato al quale rispondere solo a tempo debito, ma l’attivazione di un processo in grado di attingere dalla ricchezza delle esperienze che vivono nei territori, capace di fecondare a sua volta, e immettere, in un circuito più ampio, saperi e pensieri condivisi.
La democrazia, oggi, ha ancora più bisogno dei partiti perché lacrisi impone di dare risposte forti alle domande che nascono dalle spinte inevitabilmente divergenti. E una democrazia che sceglie e decide può farlo solo se i partiti sono in grado di articolare, convogliare e orientare le istanze della società intorno a un progetto. Ma per farlo i partiti devono recuperare autorevolezza e credibilità, avere il coraggio di rompere i cerchi magici e rinnovarsi al loro interno, aprendosi a processi democratici reali. Il tempo sta per scadere e occorre che s’imponga la volontà e la determinazione di fare quelle scelte che il Paese non può più attendere.

L’Unità 10.09.12

"Sondaggi. Il Pd stacca il Pdl ma l’Italia è più frammentata", di Carlo Buttaroni

Bersani sembra riuscire a trattenere i possibili astensionisti, mentre Berlusconi va a caccia dei «disillusi». Il Partito democratico consolida la sua posizione nei confronti del Pdl. Lo fa in termini politici prima ancora che elettorali, giocando il ruolo di playmaker rispetto alla configurazione delle prossime alleanze politiche. Che sia con il baricentro spostato a sinistra (con Sel e Idv) oppure orientato verso l’Udc e Casini, poco importa. Il Pd sta dimostrando di esserci. E di avere in questa fase molte carte da giocare. Le critiche, le divisioni, le polemiche interne, anche quando sono aspre, danno comunque l’idea di essere iscritte nello stesso perimetro, dove riescono a convivere posizioni anche molto distanti tra loro, qualche volta persino opposte. Il Partito democratico rappresenta, in questo momento, la principale polarità sulla scena politica. E, dopo molto tempo, nel centrosinistra si respira l’odore di avvicinamenti e confluenze anziché di scissioni o allontanamenti.
IL SOGGETTO RIFORMISTA
Più che come un partito tradizionale, in questo momento, il Pd è vissuto come una “scelta di campo”, rispetto alla quale le sole alternative sono rappresentate dalla galassia in dissolvenza del centrodestra, dall’astensionismo e dalla “grillo-ribellione”. L’immagine che Bersani ha dato al partito è quella di un’organizzazione distante da quella dei soci fondatori (ex Pci ed ex Dc) e assai vicina, nelle forme e nei modi, ai democratici americani. Il partito di Bersani non è un monolite da cui discendono le scelte, ma un luogo di confluenze, con una cifra politica di stampo riformista. L’incompiutezza di alcune scelte di fondo, che darebbero ai democratici italiani un’identità più definita e nitida, come quelle su temi etici, del lavoro e dello sviluppo, per adesso non costituiscono un limite. Sembrano soltanto rimandare a un’altra fase politica. Nel frattempo, il Pd ha comunque una sua atmosfera da offrire mentre, dall’altra parte, prevale la rarefazione.
Il prezzo che Bersani paga alla coabitazione forzata con il Pdl è ricompensato dal ruolo di crocevia di ciò che accadrà nei prossimi mesi. E l’appoggio a Monti non è visto come un allontanamento dalle aspirazioni fondanti, nonostante gli orientamenti, le scelte e le azioni del governo si collochino, spesso, assai lontano dai codici iscritti nel dna del Pd. Il sostegno al governo è visto, semmai, come una necessità contingente alla situazione specifica e Bersani è stato bravo nel contenere le inevitabili spinte cetrifughe rispetto alle scelte che ha dovuto compiere. Nell’opera di costruzione del nuovo Pd, Bersani è stato facilitato dal dissolvimento del centrodestra e dallo spegnimento della stella polare rappresentata da Silvio Berlusconi.
Per quasi vent’anni Berlusconi ha rappresentato l’unità di misura della politica italiana. Nel bene e nel male. Nel bene perché ha indubbiamente avviato una fase di trasformazione del sistema politico italiano dopo il terremoto tangentopoli. Nel male, perché la tessitura del nuovo è stata caratterizzata da una degenerazione che si è riflessa nelle forme espressive di un potere che ha trasferito la democrazia nel perimetro tecnologico dei media. Un regime spettacolare che ha cambiato il modo stesso di governare, mettendo, al posto della dialettica politica, nuovi apparati e procedure ispirate alle tecniche del marketing: alimentare i sogni trasformandoli in necessità e verità assolute, sostituire il ragionamento con le emozioni, sedurre anziché convincere. Un contagio che, in forme e modi diversi, ha infettato tutto e tutti, dando corpo a una rappresentazione pornografica della politica che si è via via popolata di personaggi improbabili, testimoni di un nuovo miracolo annunciato in maniera ipnotica dagli schermi televisivi. Oggi quel sogno si è rivelato un incubo: per i lavoratori dipendenti, compresi quelli pubblici, che non hanno più la sicurezza del posto fisso; per gli studenti, che vivono l’ansia di un futuro incerto; per i disoccupati, la cui prospettiva di riscatto si è trasformata in rassegnazione. La delusione del sogno tradito non ha fatto, però, migrare masse di elettori da uno schieramento all’altro. Tant’è che la quota di quanti si collocano nel centrosinistra è di poco superiore a quella di coloro che si collocano nel campo opposto. Il dissolvimento del Pdl e l’eclissi della leadership di Berlusconi non hanno cambiato la collocazione politica degli italiani, ma soltanto modificato il rispecchiamento in termini elettorali.
L’AGO DELLA BILANCIA
Se si potesse tracciare una linea immaginaria che divida il Paese in due campi politici, la popolazione di una parte equivarrebbe all’incirca all’altra. È così, da moltissimi anni: tratto distintivo del nostro Paese. Ogni volta che ha vinto una coalizione sull’altra, le ragioni sono da rintracciare nella scelta delle alleanze e nella quota di astensione, elementi che hanno fatto spostare l’ago della bilancia quel tanto da cambiare il punto di ricaduta in termini istituzionali. Anche il vantaggio attuale del Pd sul Pdl, nelle intenzioni di voto, non nasce da un’espansione dei consensi vera e propria, quanto dalla capacità del partito di Bersani di offrire ragioni sufficienti ai sostenitori di centrosinistra per restare nel loro campo, e a non alimentare l’invaso degli incerti e dei potenziali astensionisti.
Intanto, proprio la riconquista degli elettori disillusi pare alla base della nuova strategia di Berlusconi. Lo si intuisce nella scelta di ricandidarsi come leader, rifondando il partito – e forse addirittura “liquidandolo” per dare corpo a un movimento leggero, senza una dirigenza politica vera e propria, ma con una leadership forte. Impossibile dire se questa possa essere la soluzione alla crisi del centrodestra. Non lo è sicuramente per il Paese, rinnovando soltanto l’incompiutezza di quelle riforme del sistema politico di cui si sente la necessità, e oltremodo necessarie per recuperare una good reputation da poter spendere in campo europeo.
L’anomalia di un sistema che, oggi, soffre l’assenza di alternative e di una reale dialettica politica, rappresenta, purtroppo, solo l’ennesima tappa della lunga transizione italiana verso una nuova normalità. E il rischio è che nemmeno le prossime elezioni rappresenteranno quel ritorno al futuro più volte annunciato.
Un pericolo, questo, che richiama i partiti all’urgenza di un rovesciamento di missione: far tornare la politica a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune. Perché anche quando parole come crisi e degenerazione, riferite al sistema politico, s’ispirano a un sentire collettivo, esse non segnano lo spartiacque di un abbandono, semmai il contrario, ossia la consapevolezza della necessità di un ritorno ai valori condivisi di un ethos civile.
Il tracciato di riforma del sistema politico non può che essere quello di dialogare con i mille rivoli in cui sono confluiti i grandi invasi politici del Novecento e che hanno dato corpo a nuove forme di partecipazione diffusa, dove il confronto delle idee e i processi di apprendimento collettivo ricoprono ancora un ruolo fondamentale nella costruzione della rappresentanza sociale e una costante tessitura del loro significato politico.
Ciò che serve al Paese per uscire dall’infinita transizione politica non è un atto isolato, che conferisca un mandato al quale rispondere solo a tempo debito, ma l’attivazione di un processo in grado di attingere dalla ricchezza delle esperienze che vivono nei territori, capace di fecondare a sua volta, e immettere, in un circuito più ampio, saperi e pensieri condivisi.
La democrazia, oggi, ha ancora più bisogno dei partiti perché lacrisi impone di dare risposte forti alle domande che nascono dalle spinte inevitabilmente divergenti. E una democrazia che sceglie e decide può farlo solo se i partiti sono in grado di articolare, convogliare e orientare le istanze della società intorno a un progetto. Ma per farlo i partiti devono recuperare autorevolezza e credibilità, avere il coraggio di rompere i cerchi magici e rinnovarsi al loro interno, aprendosi a processi democratici reali. Il tempo sta per scadere e occorre che s’imponga la volontà e la determinazione di fare quelle scelte che il Paese non può più attendere.
L’Unità 10.09.12

«Ma se non si rilancia l'occupazione i populismi avranno gioco facile», di Giuseppe Sarcina

I pregiudizi, i luoghi comuni che riaffiorano in Europa (Paesi del Nord contro quelli del Sud, i nuovi arrivati dell’Est contro i fondatori e così via) «possono essere riassorbiti dai governi». Ma «se non si mette la disoccupazione al primo posto, il populismo guadagnerà sempre più spazio». Peter Diamond, 72 anni, nato a New York, ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2010 per i suoi studi sul mercato del lavoro. È professore al Mit di Boston. Invitato al seminario Ambrosetti di Cernobbio per parlare di pensioni e flessibilità, Diamond accetta di commentare il tema sollevato da Mario Monti: attenzione l’Europa è pericolosamente solcata da «fenomeni di rigetto».
Qual è la radice della nuova ondata di euroscetticismo? Gli effetti della crisi economica? L’incomunicabilità della politica?
«Non ho dubbi che il problema numero uno si chiami disoccupazione. Lo sappiamo tutti: le percentuali di senza lavoro sono spaventose, specie tra i giovani, perché in alcuni casi arrivano fino a un incredibile 50% e specie in Spagna, Grecia, Portogallo e Italia. Le cifre, però, non dicono tutto. In Europa si sta vivendo in un clima di scoraggiamento, di depressione psicologica prima ancora che economica».
Depressione con manifestazioni piuttosto aggressive, visto che in Paesi come Olanda, Finlandia e Germania sono spuntati partiti politici che chiedono il voto riesumando luoghi comuni di quarta categoria: «i greci sono pigri», «gli spagnoli spendaccioni», «gli italiani inaffidabili» e così via.
«Sì ma i partiti di governo e le istituzioni comunitarie sarebbero nelle condizioni di riassorbire queste spinte. Ora il problema centrale è che l’Unione Europea deve essere in grado di preservare e, se è il caso, incentivare la mobilità dei lavoratori da un Paese all’altro. Negli Stati Uniti i cittadini si spostano senza ostacoli in cerca di un impiego. Nello stesso tempo voi europei dovreste abbandonare la strategia adottata quando è scoppiata la crisi del debito. Il caso della Grecia è esemplare. Non si aiuta un Paese gettandolo sul lastrico e nella disperazione. Che aiuto è?».
Conosce la risposta: gli investitori internazionali, e non solo la Germania, non sono più disposti a finanziare un debito abnorme e non rimborsabile.
«D’accordo, ma dobbiamo distinguere. Non è tutta l’Europa che sta danzando sulla crisi del debito pubblico, ma solo alcuni Paesi, tra i quali l’Italia. Penso che se vogliamo uscire da questa situazione non ci sia che l’arma fiscale, il fiscal gun. Voglio dire occorrono investimenti pubblici di tipo classico, cioè le infrastrutture, o più inediti, come l’innovazione. È chiaro che Grecia, Italia, Spagna e Portogallo devono seguire una politica di rigore. Ma non può essere solo di tagli, altrimenti il peso del debito continuerà a salire a fronte di una ricchezza in diminuzione. Bisogna trovare un punto di equilibrio diverso da quello attuale. Non contesto il rigore finanziario. Il problema è quanto deve essere ampio. Mi pare che il piano anti-spread di Mario Draghi (acquisto dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, ndr) possa essere visto come un’inversione di tendenza. È quella la direzione giusta».
Servirebbero anche le riforme, no?
«Certo. Due su tutte: mercato del lavoro e pensioni. Sul piano europeo è necessario un coordinamento tra i diversi sistemi, che non devono essere per forza uguali. Poi, certo, alcuni Paesi avrebbero bisogno di correzioni incisive. Se facciamo l’esempio dell’Italia osservo che ci sono ancora spazi di miglioramento sulla previdenza. Mentre sul mercato del lavoro il governo Monti si è mosso nella giusta direzione e non lo dico perché sono un buon amico di Elsa Fornero».

Corriere della Sera 10.9.12

******
Europa solidale con giovani e poveri per evitare il pericolo populista
di Maurizio Ferrera

Qualche anno fa, agli albori della grande crisi, la Commissione europea organizzò un seminario a porte chiuse sulla dimensione sociale e la legittimità democratica dell’Ue. Vennero illustrati alcuni sondaggi che mostravano un’allarmante crescita dell’insicurezza economica e del disagio sociale dei cittadini e, quel che è peggio, una perdita generalizzata di fiducia sulla capacità dell’Ue di fornire soluzioni concrete. Segmenti importanti delle opinioni pubbliche nazionali anzi attribuivano a Bruxelles la responsabilità della crisi già iniziata. Nel mezzo della discussione, un esponente di primo piano della Commissione prese la parola e disse: conosciamo bene questi dati, siamo noi che finanziamo i sondaggi. Ma l’Ue sta facendo le cose giuste, «sono i cittadini che hanno torto».
Questo episodio la dice lunga sulla scarsa sensibilità (ma forse si tratta di una impreparazione culturale) delle tecnocrazie europee a misurarsi con il tema del consenso. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la crisi dell’euro si è ormai trasformata in una crisi di legittimità dell’Unione Europea. Populismi di destra, massimalismi di sinistra, difficoltà crescenti dei partiti di governo a mantenere la rotta europea, sostegno popolare nei confronti della Ue ai minimi storici: l’ondata non ha investito solo la «viziosa» Grecia, ma anche la «virtuosa» Olanda ed è pronta a colpire nelle prime elezioni utili molti altri Paesi, compreso il nostro.
I politici nazionali hanno anch’essi giocato un ruolo di primo piano nell’attizzare il fuoco populista. Per anni hanno scaricato il biasimo per le riforme impopolari (pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni) su Bruxelles e Francoforte. Quante volte abbiamo sentito dire: dobbiamo farlo, ce lo chiede l’Europa? Per un po’ il gioco è riuscito, ha effettivamente attutito l’opposizione di elettorati recalcitranti al cambiamento. Ma al prezzo di erodere, riforma dopo riforma, il sostegno verso un’Unione presentata sempre più come un «cane da guardia», quasi una maniaca del rigore per il rigore. Sfortunatamente, a causa di un complesso di ragioni non tutte europee, i vantaggi delle riforme già fatte tardano ad arrivare, ma il «cane da guardia» Ue continua a chiedere sacrifici ai «viziosi» e ora vorrebbe anche costringere i «virtuosi» a pagare di più. Come stupirci se in queste condizioni il mercato politico ha aperto nuovi spazi alla propaganda antieuropea, a Sud come a Nord? Se la tendenza continua, rischiano di venir meno le stesse condizioni di possibilità politico-sociale del progetto di integrazione.
Che a Cernobbio Monti e Van Rompuy abbiamo riconosciuto il problema e la necessità di reagire è, finalmente, un segnale positivo, un primo atto di etica della responsabilità (politica) esercitato a favore dell’Ue in quanto tale. L’importante è che il sassolino lanciato produca una svolta non solo sincera e condivisa da tutti i leader, ma anche concreta nelle sue proposte d’azione. Il messaggio da elaborare e comunicare non è quello «contro» i populismi, ma «per» una Ue più amica e sensibile ai bisogni dei cittadini.
Opportunità per i giovani, lotta alla povertà, nuovi investimenti in un «sociale» che porti insieme più inclusione e più crescita (istruzione, ricerca, servizi): queste le tematiche su cui insistere e formulare proposte puntuali. Moltissimi spunti sono già sui tavoli di Commissione, Parlamento e persino Bce. Pensiamo alla Youth Guarantee, ossia l’obbligo da parte di ogni governo di offrire formazione, lavoro o tirocini a tutti i giovani che finiscono la scuola. Oppure all’idea di vincolare i Paesi a dotarsi di uno schema di reddito minimo di inserimento, entro un quadro di regole definite a Bruxelles. Si potrebbe anche considerare la proposta di un vero e proprio Social Investment Pact: incentivi e penalità per Paesi che non rispettino obiettivi comuni in termini di povertà relativa, rendimento scolastico, politiche di conciliazione e di parità e così via. Difendere l’euro e far ripartire la crescita restano, beninteso, obiettivi imprescindibili. Ma il loro perseguimento non preclude certo l’impegno su fronti che hanno una visibilità e un impatto più diretto sulla vita quotidiana degli europei. L’iniziativa di Monti avrà successo nella misura in cui riuscirà a far emergere una Ue più impegnata a proteggere i più deboli, tramite un programma accattivante sul piano simbolico e davvero convincente sul piano pratico.
PS. Anche su questo terreno, per essere credibili bisogna fare i compiti a casa. L’Italia ha un tasso di povertà (soprattutto fra i minori) molto elevato e il Programma nazionale di riforma 2012 non contiene nessuna misura seria per rispettare i target Ue. Sarebbe un vero peccato se il governo Monti non lasciasse in eredità un Piano per l’inclusione sociale degno del nome e articolato in base alle indicazioni europee, come hanno già fatto ventuno Paesi membri su ventisette.

Il Corriere della Sera 10.09.12