Latest Posts

"Perdiamo mille posti di lavoro al giorno", di Massimo Franchi

«Mille posti al giorno». Nella ridda di dati sulla disoccupazione, quello usato da Luigi Angeletti ha il pregio comunicativo di essere conciso e di riassumere efficacemente la drammaticità della situazione: «Ci aspetta un autunno drammatico, la perdita di posti di lavoro non si arresterà, ci aspettano mesi peggiori ha detto di quelli che sono passati». Il segretario generale della Uil ne parla alla vigilia della ripresa autunnale e dell’incontro di palazzo Chigi con Mario Monti e il governo sul tema della produttività. Proprio sul confronto di domani Angeletti si è detto poco ottimista: «Servono risorse economiche e politiche ha detto il leader Uil il governo non ha nessuna delle due. Non ha soldi e non ha, a fine legislatura, la forza politica per cambiare le norme». Il centro del confronto di domani dovrebbe essere comunque su come dare slancio alla produttività del lavoro con l’invito del governo anche ai sindacati (come alle imprese nell’incontro di mercoledì 5) di lavorare a un patto che il governo potrebbe poi sostenere con agevolazioni fiscali. Ma il governo ha già avvertito che le risorse per le agevolazioni saranno molto limitate. Sul tema Angeletti rinnova la richiesta di calo della tassazione del lavoro: «La vera rivolta fiscale la devono fare i lavoratori dipendenti che le tasse le pagano prima di prendere lo stipendio attacca . Tutte le risorse recuperate dall’evasione devono esser utilizzate per ridurre le tasse a chi le paga».
CONFRONTO IN CGIL La settimana sindacale si apre comunque oggi con il Direttivo della Cgil. L’attesa mediatica è tutta per la questione “sciopero generale”, ma nella relazione introduttiva Susanna Camusso affronterà i temi dell’attualità politico-economica, le critiche al governo e alla riforma Fornero e le proposte alternative della Cgil, a partire dal “Piano per il lavoro”. Se la sinistra interna guidata dalla Fiom chiede di fissare la data di «uno sciopero generale che abbia un carattere riunificativo delle iniziative aperte», la segreteria invece punta forte sul valore di «prova generale» dello sciopero dei lavoratori pubblici fissato per venerdì 28 settembre. La macchina organizzativa della Cgil si sta spendendo molto per la riuscita della mobilitazione che riveste un valore ancora più grande in quanto è stato indetto assieme alla Uil e al quale parteciperà anche l’Ugl.
PUBBLICI COME PROVA GENERALE Proclamare uno sciopero generale prima di quella data depotenzierebbe la protesta e le ragioni della mobilitazione dei lavoratori pubblici contro la Spending review e i tagli del 10 per cento alle piante organiche di tutti gli uffici. D’altro canto, fissare una data vicina significherebbe chiedere agli stessi lavoratori di rinunciare a due giornate lavorative nel giro di poche settimane. Nonostante la Cgil non si aspetti molto dall’incontro con il governo, Camusso ribadirà la richiesta di una «svolta» in politica economica e sul tema della produttività rilancerà la richiesta di applicare l’accordo del 28 giugno, rimasto lettera morta e che puntava sulla contrattazione aziendale accanto ad una specifica del ruolo del contratto nazionale e normava rappresentatività e certificazione degli iscritti. La discussione si annuncia profonda e per questo motivo non si esclude di proseguirla anche domani. La minoranza punterà sulla richiesta di mobilitazione sui referendum abrogativi dell’articolo 8 e delle modifiche all’articolo 18 proposti dal Sel e Idv su cui la Fiom ha anticipato che raccoglierà le firme. È il giorno della protesta nella capitale. Tenuta in piedi da un filo di speranza. Il giorno dei cinquecento lavoratori, diretti e indiretti, dello stabilimento Alcoa di Portovesme e dei numerosi amministratori del Sulcis Iglesiente che oggi sbarcheranno a Roma per difendere il lavoro. L’attenzione è tutta per l’incontro che si svolgerà a mezzogiorno al Ministero dello sviluppo economico. Al tavolo del Mise si dovrà discutere, come spiega Salvatore Cherchi, presidente della provincia di Carbonia Iglesias, «dell’accordo siglato il 27 marzo scorso a Roma con Alcoa». Che tradotto significa discussione sul futuro dello stabilimento di Portovesme che l’Alcoa vuole chiudere. «Chiederemo ad Alcoa un atto di responsabilità e di distensione argomenta Cherchi tanto più motivati perché la situazione non è irreversibile e senza prospettive». Il riferimento di Cherchi è alla manifestazione di interesse condizionato ( energia, infrastrutture e numero maestranze) per l’acquisizione dello stabilimento che la Glencore ha presentato al Governo ma non ad Alcoa. La speranza e la richiesta dei sindacati e dei lavoratori è che cessi la fermata degli impianti dello smelter di Portovesme e che il Governo si pronunci sui tre punti. Quanto sia importante il vertice lo sanno bene gli operai che da Portovesme partono per viaggiare tutto il pomeriggio sino a Olbia dove è previsto l’imbarco per Civitavecchia. Il raduno dei lavoratori è alle 16.30 a Portovesme. «C’è una speranza, ma anche tanta preoccupazione dice Renato Tocco, operaio del reparto fonderia da 24 anni se si ferma lo stabilimento noi siamo morti. Per questo motivo chiediamo al Governo di fare la sua parte». Quale sia la parte da svolgere lo spiega senza mezzi termini Franco Bardi, segretario della Fiom Cgil:. «La speranza è l’ultima a morire anche se non sono rassicuranti le dichiarazioni del ministro Passera rilasciate in questi giorni, ci auguriamo che da parte sua ci sia un impegno forte». In che modo? «Deve intervenire ed far si che si blocchi la fermata degli impianti». Il sindacato, per evitare e prevenire eventuali infiltrazioni intanto ha organizzato anche un servizio d’ordine per la manifestazione. Rino Barca, segretario Fim Cisl porta con sé un centinaio di bandiere, serviranno per colorare il corteo. «Siamo preoccupati ma anche determinati dice chiediamo risposte». Il ministro Corrado Passera non ha la formula magica, dice che «ci vorranno mesi per trovare una soluzione»
C’È ANCHE IL SINDACO ZEDDA A Portovesme arriva anche il sindaco di Cagliari Massimo Zedda, porta solidarietà e sostegno. «Ho voluto salutare i lavoratori spiega perché non partiranno da Cagliari e domani ho un altro impegno istituzionale». Il sindaco di Cagliari, che già a febbraio aveva manifestato attenzione per la protesta degli operai del Sulcis e la scorsa settimana aveva portato la sua solidarietà ai minatori in occupazione a Nuraxi Figus spiega i motivi della sua presenza e del suo sostegno. «Non si può parlare di crescita e sviluppo di Cagliari dice se negli altri territori della Sardegna c’è il deserto economico e industriale». I lavoratori salgono sugli autobus. Con loro ci sono anche alcuni dei sindaci della provincia di Carbonia Iglesias, consiglieri comunali. Sfileranno e marceranno a fianco ai lavoratori con la fascia tricolore. «Una parte degli amministratori viaggerà con noi spiega Franco Porcu, sindaco di Villamassargia e portavoce del movimento gli altri arriveranno domani o stanotte in aereo». Il fronte in difesa della fabbrica è compatto. «Non possiamo permettere che la provincia più povera d’Italia possa perdere un solo posto di lavoro prosegue la nostra mobilitazione sarà forte e determinata». Qualcuno nella capitale ci è arrivato da ieri mattina in aereo. «Non c’erano posti spiega al telefono Alberto Cacciarru che è anche un delegato Cgil abbiamo quindi deciso di anticipare la partenza». Questa mattina a Roma arriveranno anche gli altri amministratori locali. In tutto saranno oltre cinquecento, sfileranno in una Roma blindata. In marcia per il lavoro. …
L’Unità 10.09.12

"Dire addio alla carta, la sfida della scuola targata Profumo", di Flavia Amabile

Questa settimana la campanella scolastica suonerà per tutti – o quasi – gli otto milioni di studenti delle scuole italiane. I primi ad andare in classe sono stati i ragazzi altoatesini che hanno iniziato già il 5 settembre. Oggi sarà la volta dei ragazzi della Val d’Aosta, domani a quelli del Molise e mercoledì Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Trentino, Umbria e Veneto. Giovedì toccherà a laziali e campani. Venerdì sarà il primo giorno di scuola in Sicilia, mentre gli ultimi ad entrare in classe saranno i ragazzi fra una settimana esatta gli studenti di Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Calabria, Emilia Romagna, Liguria, Puglia. Sarà il primo anno messo a punto per intero dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, e l’accento sarà tutto sulla rivoluzione digitale che dovrà portare a bandire il più possibile ogni forma di carta dagli istituti scolastici.

LIBRI
Ogni famiglia spenderà 100 euro in più per i testi
Si spenderanno cento euro in più rispetto allo scorso anno. È l’aumento medio previsto per i libri di testo per l’anno scolastico in apertura dal Movimento dei Consumatori. Se nel 2011 le famiglie avevano speso circa 400 euro per l’acquisto dei libri (compreso l’acquisto di dizionari e articoli per la scuola) ora invece spenderanno 500 euro (dato riferito ai licei, negli istituti professionali la spesa è minore). Per risparmiare i libri si possono anche comprare al supermercato. Da Auchan alla Coop ormai anche i le grandi catene vendono libri scolastici e, secondo un’indagine di Altroconsumo, sono in grado di proporre sconti che vanno dal 15% al 20%.
La grande distribuzione non teme confronti anche sull’acquisto del corredo scolastico. Secondo il Movimento Consumatori per un corredo di marca acquistato negli ipermercati si spendono in media 72 euro a Bari, 79 euro a Roma e 82 euro a Milano contro i 107 euro di Bari, i 119 di Roma e i 132 di Milano se si decide per l’acquisto al dettaglio.
Ma le buone notizie riguardano quest’anno anche le cartolibrerie dove sono in calo i prezzi dei diari non di marca in tutte e tre le città campione (-83% addirittura a Milano), ci sono sconti sui quadernoni non di marca e anche su quelli “griffati”, le offerte sugli astucci senza griffe e un calo fino al 7% dei prezzi degli zaini.

DIDATTICA
Entro 12 mesi programmi multiculturali
Ormai per quest’anno è andata com’è andata, ma dal prossimo qualcosa cambierà nello studio alle elementari e alle medie. Dopo una lunga attesa è stata pubblicata la bozza per i nuovi programmi, che è all’esame del Consiglio di Stato per un parere.
La Lega è ormai un ricordo del passato, elementari e medie del futuro saranno sempre più scuole multiculturali e anche i programmi dovranno rispecchiare questa nuova realtà. Dovrà essere garantita la libertà di religione e dovranno essere previsti percorsi didattici specifici per rispondere ai bisogni educativi di tutti gli allievi. In particolare per gli alunni con cittadinanza non italiana tutti i prof, non solo quelli di italiano, dovranno adattare i programmi alle loro esigenze. E soprattutto i programmi di storia dovranno essere aggiornati per diventare multiculturali.
Cadono molti tabù. Imparare l’italiano significa accettare le basi degli studenti, anche i dialetti, e gli idiomi locali. E comunque vanno tenute in considerazione anche le espressioni «locali», di strada e gergali. Calcolatrici e computer sono caldamente consigliati in matematica.

BIBLIOTECHE
Il rebus dei prof “inidonei”
Sotto i vari tagli della spending review sono finiti anche i docenti inidonei, professori che per motivi di salute fisica o psichica hanno chiesto, ed ottenuto, di non essere più utilizzati per l’insegnamento, professione che richiede un impegno che non sempre si riesce a garantire.
Fino ad ora venivano utilizzati all’interno delle segreterie, di biblioteche scolastiche o in altre mansioni.
A loro scelta, dallo scorso anno, potevano essere inseriti a pieno titolo nelle segreterie diventando a tutti gli effetti «assistenti amministrativi». Con il decreto Spending review di luglio la scelta diventava un obbligo, togliendo quindi posti liberi a chi era nelle graduatorie di assistenti amministrativi ormai da anni. Ma anche privando di sostegno le biblioteche scolastiche. Dopo un mese di proteste, scioperi della fame e lettere che raccontano le storie e il lavoro svolto all’interno delle scuole da questi prof che lontani dall’insegnamento in classe riescono a svolgere laboratori di approfondimenti preziosissimi nelle biblioteche scolastiche, il ministro ha promesso di approfondire la questione per arrivare a una soluzione.

SUPPLENTI
In ritardo le nomine di 50 mila sostituti
Anche quest’anno, al 31 agosto, ci sono circa 50mila supplenti in attesa di conoscere il proprio destino. Il ritardo nelle nomine è uno dei problemi cronici della scuola italiana. L’organico di diritto dei docenti per il prossimo anno scolastico, secondo i dati della Flc Cgil, è di 600.839 persone, a cui vanno aggiunti 63.348 insegnanti di sostegno, per un totale di 664.187 docenti. Ma di fatto la scuola ha 625.878 docenti, cui vanno aggiunti 90.469 di sostegno, per un totale di oltre 716mila insegnanti. In pratica, significa che poiché non è stata realizzata la stabilizzazione dell’organico, ogni anno a settembre i dirigenti scolastici devono chiamare 50mila supplenti, tra cui 30mila insegnanti di sostegno, per sopperire ai vuoti nelle classi. Il primo passo è chiamare dalle graduatorie a esaurimento, dopodiché, nel caso di mancate disponibilità sufficienti, si passa al personale precario delle graduatorie d’istituto. Vanno a rilento anche le nomine dei 21mila nuovi docenti immessi in ruolo quest’anno.

SICUREZZA
Troppi gli istituti a rischio sisma
Solo il 45% delle scuole ha un certificato di agibilità statica contro il 97% della Germania, il 94% della Francia, il 92% dell’Inghilterra, l’88% della Spagna, il 77% della Polonia, il 71% del Portogallo, il 62% della Romania, il 58% della Bulgaria e il 52% della Grecia. Sono i dati contenuti in uno studio di KRLS Network of Business Ethics. Quello dell’edilizia scolastica è uno dei problemi principali delle scuole alle prese con una cronica mancanza di fondi. Quest’anno per la prima volta un sindaco ha disposto con un’ordinanza di non aprire le scuole materne, elementari, medie e superiori della città, Campobasso, per la mancanza del certificato di prevenzione degli incendi. Una situazione che – ha spiegato il sindaco – è comune a circa 48 mila scuole in Italia. Il Codacons, infatti, ha chiesto ai sindaci di tutt’Italia di «chiudere gli istituti scolastici non a norma e di rinviarne l’apertura a data da destinarsi». Una richiesta bocciata dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo: «Credo che le scuole debbano essere aperte».

STRANIERI
Il 9% degli alunni è figlio di immigrati
Il record di stranieri in classe resta alla scuola statale «Lombardo Radice» nel quartiere multietnico di San Siro a Milano dove su 19 alunni, 17 sono figli di immigrati e non hanno la cittadinanza italiana. Ma la presenza dei bambini stranieri è in crescita un po’ ovunque anche quest’anno, almeno negli istituti statali. Sono un esercito di 254.644 bambini, pari al 9% del totale della popolazione scolastica, secondo gli ultimi dati Miur relativi allo scorso anno. Al primo posto l’Emilia Romagna dove sono stranieri complessivamente 31.359, di cui 31.011 nelle scuole statali, pari al 16,9% degli iscritti alla scuola pubblica primaria. Nelle paritarie la percentuale scende al 2,9%. In Liguria gli stranieri arrivano quasi al 12%, in Friuli Venezia Giulia sono circa il 10% degli iscritti alla primaria. Nelle scuole valdostane, invece, sono 540 alunni non italiani su un totale di 5.847 iscritti. Nell’ultimo decennio l’aumento più significativo ha riguardato le scuole secondarie di secondo grado passate dal 14% del 2001/2002 al 21,6% del 2010/11.

La Stampa 10.09.12

******

La denuncia di Skuola.net: “Le tecnologie ci sono ma i prof non sanno usarle”
Secondo Skuola.net la metà delle aule informatiche non viene usata

La scuola italiana si prepara ad una grande rivoluzione digitale, verrà annunciata mercoledì prossimo dal ministero, ma intanto da una indagine condotta dal sito Skuola.net la realtà presente per il momento nelle scuole italiane è ancora la stessa di sempre, con uno zoccolo duro di prof decisamente refrattari all’introduzione di ogni tipo di tecnologia e una serie di sprechi particolarmente irritanti in epoca di spending review.

Prendiamo un aspetto semplice come l’aula computer. Dall’indagine risulta che quasi la metà delle scuole medie degli studenti che hanno risposto alle domande ha un’aula computer ma non viene usata. Il 41% dà questa risposta e un altro 8% precisa che non viene usata perché «i prof non sanno usare il computer». Alle superiori la percentuale cala ma non di molto, siamo sul 40% in totale, di cui il 9% è formato da ragazzi che ammettono che i loro prof non sanno usare il pc.

Oppure prendiamo le lavagne multimediali «Lim». Acquistarle costa un bel po’ di soldi e andrebbero usate in tutte le lezioni. Eppure alle medie il 17% ce l’ha nella propria scuola, ma non la usa (il 4% perché i prof non la sanno usare). Alle superiori la percentuale sale al 21%. Ma solo il 6% la usa ogni giorno alle superiori e il 16% alle medie.

Quasi la totalità dei ragazzi di medie e superiori (il 97%) dichiara di non utilizzare alcun pc o Ipad per le lezioni.

Oppure, ancora, quante sono le scuole dotate di wi-fi libero e gratuito per permettere agli studenti di accedere e partecipare alle lezioni con i propri mezzi? Solo una su tre. Quando a capo del ministero dell’Istruzione c’era ancora Mariastella Gelmini, fu inaugurata un’iniziativa che prometteva di portare una prima, piccola rivoluzione nelle scuole e nelle famiglie. Si chiama «Scuola Mia», è un portale attraverso il quale le famiglie possono richiedere e ricevere informazioni sull’andamento scolastico dei propri figli. Il portale infatti mette in comunicazione famiglie e scuole italiane. Il suo motto è: «La scuola è arrivata a casa tua! Con i nuovi servizi online scuola e famiglia sono ancora più vicine».

Dall’indagine risulta che, a due anni dal varo, i due terzi dei ragazzi non sa se la propria scuola sia registrata sul portale, un segno che anche questo strumento non è usato. Circa il 15-16% dichiara che la scuola non è registrata. Insomma, gli istituti presenti sul portale in modo certo, secondo l’indagine, sono circa 1 su 10.

«I nostri studenti sono nativi digitali – spiega Daniele Grassucci, responsabile di Skuola.net – e quindi sentono sempre più impellente la necessità di usare anche a scuola le nuove tecnologie: più della metà degli intervistati pone come priorità il miglioramento della dotazione tecnologica, prima ancora dell’edilizia scolastica e del potenziamento del corpo docenti. I dati parlano chiaro, in quasi metà delle scuole ci sono le aule computer, ma non vengono utilizzate, mentre solo uno studente su dieci dichiara di utilizzare quotidianamente la «Lim». Insomma, non siamo all’età della pietra, ma si può e si deve fare di più. A partire dalla disponibilità della connessione a Internet wi-fi in tutte le scuole: solo uno studente su tre dichiara di averne accesso.

La Stampa 10.09.12

"Dire addio alla carta, la sfida della scuola targata Profumo", di Flavia Amabile

Questa settimana la campanella scolastica suonerà per tutti – o quasi – gli otto milioni di studenti delle scuole italiane. I primi ad andare in classe sono stati i ragazzi altoatesini che hanno iniziato già il 5 settembre. Oggi sarà la volta dei ragazzi della Val d’Aosta, domani a quelli del Molise e mercoledì Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Trentino, Umbria e Veneto. Giovedì toccherà a laziali e campani. Venerdì sarà il primo giorno di scuola in Sicilia, mentre gli ultimi ad entrare in classe saranno i ragazzi fra una settimana esatta gli studenti di Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Calabria, Emilia Romagna, Liguria, Puglia. Sarà il primo anno messo a punto per intero dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, e l’accento sarà tutto sulla rivoluzione digitale che dovrà portare a bandire il più possibile ogni forma di carta dagli istituti scolastici.
LIBRI
Ogni famiglia spenderà 100 euro in più per i testi
Si spenderanno cento euro in più rispetto allo scorso anno. È l’aumento medio previsto per i libri di testo per l’anno scolastico in apertura dal Movimento dei Consumatori. Se nel 2011 le famiglie avevano speso circa 400 euro per l’acquisto dei libri (compreso l’acquisto di dizionari e articoli per la scuola) ora invece spenderanno 500 euro (dato riferito ai licei, negli istituti professionali la spesa è minore). Per risparmiare i libri si possono anche comprare al supermercato. Da Auchan alla Coop ormai anche i le grandi catene vendono libri scolastici e, secondo un’indagine di Altroconsumo, sono in grado di proporre sconti che vanno dal 15% al 20%.
La grande distribuzione non teme confronti anche sull’acquisto del corredo scolastico. Secondo il Movimento Consumatori per un corredo di marca acquistato negli ipermercati si spendono in media 72 euro a Bari, 79 euro a Roma e 82 euro a Milano contro i 107 euro di Bari, i 119 di Roma e i 132 di Milano se si decide per l’acquisto al dettaglio.
Ma le buone notizie riguardano quest’anno anche le cartolibrerie dove sono in calo i prezzi dei diari non di marca in tutte e tre le città campione (-83% addirittura a Milano), ci sono sconti sui quadernoni non di marca e anche su quelli “griffati”, le offerte sugli astucci senza griffe e un calo fino al 7% dei prezzi degli zaini.
DIDATTICA
Entro 12 mesi programmi multiculturali
Ormai per quest’anno è andata com’è andata, ma dal prossimo qualcosa cambierà nello studio alle elementari e alle medie. Dopo una lunga attesa è stata pubblicata la bozza per i nuovi programmi, che è all’esame del Consiglio di Stato per un parere.
La Lega è ormai un ricordo del passato, elementari e medie del futuro saranno sempre più scuole multiculturali e anche i programmi dovranno rispecchiare questa nuova realtà. Dovrà essere garantita la libertà di religione e dovranno essere previsti percorsi didattici specifici per rispondere ai bisogni educativi di tutti gli allievi. In particolare per gli alunni con cittadinanza non italiana tutti i prof, non solo quelli di italiano, dovranno adattare i programmi alle loro esigenze. E soprattutto i programmi di storia dovranno essere aggiornati per diventare multiculturali.
Cadono molti tabù. Imparare l’italiano significa accettare le basi degli studenti, anche i dialetti, e gli idiomi locali. E comunque vanno tenute in considerazione anche le espressioni «locali», di strada e gergali. Calcolatrici e computer sono caldamente consigliati in matematica.
BIBLIOTECHE
Il rebus dei prof “inidonei”
Sotto i vari tagli della spending review sono finiti anche i docenti inidonei, professori che per motivi di salute fisica o psichica hanno chiesto, ed ottenuto, di non essere più utilizzati per l’insegnamento, professione che richiede un impegno che non sempre si riesce a garantire.
Fino ad ora venivano utilizzati all’interno delle segreterie, di biblioteche scolastiche o in altre mansioni.
A loro scelta, dallo scorso anno, potevano essere inseriti a pieno titolo nelle segreterie diventando a tutti gli effetti «assistenti amministrativi». Con il decreto Spending review di luglio la scelta diventava un obbligo, togliendo quindi posti liberi a chi era nelle graduatorie di assistenti amministrativi ormai da anni. Ma anche privando di sostegno le biblioteche scolastiche. Dopo un mese di proteste, scioperi della fame e lettere che raccontano le storie e il lavoro svolto all’interno delle scuole da questi prof che lontani dall’insegnamento in classe riescono a svolgere laboratori di approfondimenti preziosissimi nelle biblioteche scolastiche, il ministro ha promesso di approfondire la questione per arrivare a una soluzione.
SUPPLENTI
In ritardo le nomine di 50 mila sostituti
Anche quest’anno, al 31 agosto, ci sono circa 50mila supplenti in attesa di conoscere il proprio destino. Il ritardo nelle nomine è uno dei problemi cronici della scuola italiana. L’organico di diritto dei docenti per il prossimo anno scolastico, secondo i dati della Flc Cgil, è di 600.839 persone, a cui vanno aggiunti 63.348 insegnanti di sostegno, per un totale di 664.187 docenti. Ma di fatto la scuola ha 625.878 docenti, cui vanno aggiunti 90.469 di sostegno, per un totale di oltre 716mila insegnanti. In pratica, significa che poiché non è stata realizzata la stabilizzazione dell’organico, ogni anno a settembre i dirigenti scolastici devono chiamare 50mila supplenti, tra cui 30mila insegnanti di sostegno, per sopperire ai vuoti nelle classi. Il primo passo è chiamare dalle graduatorie a esaurimento, dopodiché, nel caso di mancate disponibilità sufficienti, si passa al personale precario delle graduatorie d’istituto. Vanno a rilento anche le nomine dei 21mila nuovi docenti immessi in ruolo quest’anno.
SICUREZZA
Troppi gli istituti a rischio sisma
Solo il 45% delle scuole ha un certificato di agibilità statica contro il 97% della Germania, il 94% della Francia, il 92% dell’Inghilterra, l’88% della Spagna, il 77% della Polonia, il 71% del Portogallo, il 62% della Romania, il 58% della Bulgaria e il 52% della Grecia. Sono i dati contenuti in uno studio di KRLS Network of Business Ethics. Quello dell’edilizia scolastica è uno dei problemi principali delle scuole alle prese con una cronica mancanza di fondi. Quest’anno per la prima volta un sindaco ha disposto con un’ordinanza di non aprire le scuole materne, elementari, medie e superiori della città, Campobasso, per la mancanza del certificato di prevenzione degli incendi. Una situazione che – ha spiegato il sindaco – è comune a circa 48 mila scuole in Italia. Il Codacons, infatti, ha chiesto ai sindaci di tutt’Italia di «chiudere gli istituti scolastici non a norma e di rinviarne l’apertura a data da destinarsi». Una richiesta bocciata dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo: «Credo che le scuole debbano essere aperte».
STRANIERI
Il 9% degli alunni è figlio di immigrati
Il record di stranieri in classe resta alla scuola statale «Lombardo Radice» nel quartiere multietnico di San Siro a Milano dove su 19 alunni, 17 sono figli di immigrati e non hanno la cittadinanza italiana. Ma la presenza dei bambini stranieri è in crescita un po’ ovunque anche quest’anno, almeno negli istituti statali. Sono un esercito di 254.644 bambini, pari al 9% del totale della popolazione scolastica, secondo gli ultimi dati Miur relativi allo scorso anno. Al primo posto l’Emilia Romagna dove sono stranieri complessivamente 31.359, di cui 31.011 nelle scuole statali, pari al 16,9% degli iscritti alla scuola pubblica primaria. Nelle paritarie la percentuale scende al 2,9%. In Liguria gli stranieri arrivano quasi al 12%, in Friuli Venezia Giulia sono circa il 10% degli iscritti alla primaria. Nelle scuole valdostane, invece, sono 540 alunni non italiani su un totale di 5.847 iscritti. Nell’ultimo decennio l’aumento più significativo ha riguardato le scuole secondarie di secondo grado passate dal 14% del 2001/2002 al 21,6% del 2010/11.
La Stampa 10.09.12
******
La denuncia di Skuola.net: “Le tecnologie ci sono ma i prof non sanno usarle”
Secondo Skuola.net la metà delle aule informatiche non viene usata
La scuola italiana si prepara ad una grande rivoluzione digitale, verrà annunciata mercoledì prossimo dal ministero, ma intanto da una indagine condotta dal sito Skuola.net la realtà presente per il momento nelle scuole italiane è ancora la stessa di sempre, con uno zoccolo duro di prof decisamente refrattari all’introduzione di ogni tipo di tecnologia e una serie di sprechi particolarmente irritanti in epoca di spending review.
Prendiamo un aspetto semplice come l’aula computer. Dall’indagine risulta che quasi la metà delle scuole medie degli studenti che hanno risposto alle domande ha un’aula computer ma non viene usata. Il 41% dà questa risposta e un altro 8% precisa che non viene usata perché «i prof non sanno usare il computer». Alle superiori la percentuale cala ma non di molto, siamo sul 40% in totale, di cui il 9% è formato da ragazzi che ammettono che i loro prof non sanno usare il pc.
Oppure prendiamo le lavagne multimediali «Lim». Acquistarle costa un bel po’ di soldi e andrebbero usate in tutte le lezioni. Eppure alle medie il 17% ce l’ha nella propria scuola, ma non la usa (il 4% perché i prof non la sanno usare). Alle superiori la percentuale sale al 21%. Ma solo il 6% la usa ogni giorno alle superiori e il 16% alle medie.
Quasi la totalità dei ragazzi di medie e superiori (il 97%) dichiara di non utilizzare alcun pc o Ipad per le lezioni.
Oppure, ancora, quante sono le scuole dotate di wi-fi libero e gratuito per permettere agli studenti di accedere e partecipare alle lezioni con i propri mezzi? Solo una su tre. Quando a capo del ministero dell’Istruzione c’era ancora Mariastella Gelmini, fu inaugurata un’iniziativa che prometteva di portare una prima, piccola rivoluzione nelle scuole e nelle famiglie. Si chiama «Scuola Mia», è un portale attraverso il quale le famiglie possono richiedere e ricevere informazioni sull’andamento scolastico dei propri figli. Il portale infatti mette in comunicazione famiglie e scuole italiane. Il suo motto è: «La scuola è arrivata a casa tua! Con i nuovi servizi online scuola e famiglia sono ancora più vicine».
Dall’indagine risulta che, a due anni dal varo, i due terzi dei ragazzi non sa se la propria scuola sia registrata sul portale, un segno che anche questo strumento non è usato. Circa il 15-16% dichiara che la scuola non è registrata. Insomma, gli istituti presenti sul portale in modo certo, secondo l’indagine, sono circa 1 su 10.
«I nostri studenti sono nativi digitali – spiega Daniele Grassucci, responsabile di Skuola.net – e quindi sentono sempre più impellente la necessità di usare anche a scuola le nuove tecnologie: più della metà degli intervistati pone come priorità il miglioramento della dotazione tecnologica, prima ancora dell’edilizia scolastica e del potenziamento del corpo docenti. I dati parlano chiaro, in quasi metà delle scuole ci sono le aule computer, ma non vengono utilizzate, mentre solo uno studente su dieci dichiara di utilizzare quotidianamente la «Lim». Insomma, non siamo all’età della pietra, ma si può e si deve fare di più. A partire dalla disponibilità della connessione a Internet wi-fi in tutte le scuole: solo uno studente su tre dichiara di averne accesso.
La Stampa 10.09.12

Il Paese sempre più indeciso promuove il Professore ma non il governo tecnico", di Ilvo Diamanti

L’estate sta finendo. Ma l’incertezza politica no. Il sondaggio dell’Atlante Politico, condotto da Demos, negli scorsi giorni, per la Repubblica, riproduce questo clima d’opinione uggioso. Da cui emerge un solo solido riferimento. Mario Monti. Il presidente del Consiglio. Oltre metà dei cittadini (il 52%), infatti, valuta positivamente il governo. Una quota ancor più alta di elettori, il 55%, esprime fiducia personale nei suoi riguardi. Si tratta di un orientamento in evidente crescita, dopo un periodo di raffreddamento. Gli altri personaggi politici lo seguono a grande distanza. Soprattutto i leader di partito. Di maggioranza e di opposizione. Superati, non a caso, dai “tecnici” del governo Monti (Passera e Fornero). E da coloro che, come Montezemolo, non sono ancora “scesi in campo”, nonostante lo promettano – oppure lo “minaccino” – da anni. Unica eccezione (insieme alla Bonino): il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di cui parleremo più avanti.
La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione verso le politiche del governo. Al contrario. Gran parte dei cittadini si dicono, infatti, contrari alle principali riforme avviate. Pensioni, IMU e mercato del lavoro, soprattutto. Si tratta, dunque, di un sentimento espresso “nonostante”. Rispecchia, cioè, la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali. Ma anche le preoccupazioni internazionali. Perché è convinzione diffusa che l’Unione Europea e l’Euro abbiano prodotto molti problemi. Ma solo il 23% degli italiani pensa che fuori della UE le cose andrebbero meglio. Mentre una quota più ampia, ma comunque minoritaria, inferiore al 40%, ritiene che l’Euro comporti solo complicazioni. L’Euro e la UE, insomma, sollevano dubbi. Ma è largamente condivisa l’idea che “senza” l’Europa e la moneta europea i rischi per la tenuta del nostro sistema – economico e non solo – crescerebbero ancora. Monti appare il principale garante. Di fronte ai problemi europei. E alla debolezza della politica nazionale. La fiducia verso i partiti, d’altronde, resta al di sotto del 5%. Quella verso il Parlamento intorno al 10%.
Le stime di voto riflettono questo clima di incertezza – e di “dipendenza” da Monti. Così si assiste alla tenuta e perfino a una certa ripresa dei partiti “montiani”: il PdL, il Pd e l’UdC. Il partito più “montiano” di tutti. Mentre il M5S scivola sotto al 15%. Un dato molto elevato. Ma la grande spinta conosciuta dopo le elezioni amministrative di maggio, per ora, sembra esaurita. Non solo per le polemiche di Favia (amplificate da “Piazzapulita”) contro la governance
di Grillo e Casaleggio, che hanno avuto un impatto limitato sul sondaggio. Il fatto è che in questa fase di stagnazione politica l’unico polo condiviso è Monti. Che nega di volersi ricandidare, in futuro. Per cui mancano i bersagli contro cui rivolgere l’insoddisfazione. D’altronde, non frena solo il M5S: anche l’IdV, l’altra opposizione. Solo la Lega risale – di poco – la china, oltre il 5%. Così l’unico vero “orientamento” di voto che cresce veramente è, non a
caso, il “dis-orientamento”. Che allarga i confini dell’area grigia del non-voto e dell’indecisione. Sopra il 45%. Quasi un elettore su due. La misura più ampia da quando viene realizzato l’Atlante Politico. Cioè, da quasi 10 anni.
D’altronde, non è chiaro quando e come si voterà. Con quale legge elettorale, con quali alleanze, con quali candidati. Se si riproponesse lo schema tradizionale, il centrosinistra prevarrebbe largamente. E, come ha sostenuto ieri Bersani a Reggio Emilia, “Deciderà il voto, non i banchieri”. Ma nel PD, come mostra l’Atlante Politico, c’è incertezza sulla coalizione con cui “andare al voto”. La maggioranza dei suoi elettori (51%) preferisce un’alleanza con le altre forze di Sinistra, a costo di sacrificare l’intesa con l’UdC. Al tempo stesso, però, (50%) rifiuta l’accordo con l’IdV. Le polemiche con Di Pietro, dunque, hanno lasciato un segno profondo. L’incertezza, nel PD, si estende alla leadership. Che gran parte degli elettori di centrosinistra – e ancor più del PD – vorrebbe scegliere attraverso le primarie. Il favorito – secondo il sondaggio di Demos – è Pier Luigi Bersani. Lo voterebbe oltre il 43% degli elettori di centrosinistra. Tuttavia, Matteo Renzi dispone di una base ampia. Quasi il 28%. Ma, soprattutto, ha un sostegno trasversale. Non a caso, dopo Monti, è il politico che attrae il maggior grado di simpatie. I suoi consensi, in caso di primarie, potrebbero crescere ulteriormente se la partecipazione andasse oltre i confini tradizionali dell’elettorato più vicino e convinto. Renzi, infatti, è particolarmente apprezzato dagli elettori “critici” e delusi del centrosinistra, oggi vicini al M5S, all’IdV oppure confluiti nell’area grigia dell’incertezza. A centrodestra c’è il problema opposto. Nel PdL, inventato da Berlusconi, non possono fare a meno di lui. Ma, al tempo stesso, non gli credono più come prima. Berlusconi. Oggi, fra gli italiani, ha toccato l’indice di fiducia più basso degli ultimi anni (meno del 20%). E solo 40 elettori del PdL su 100 (che scendono a 20 fra quelli di centrodestra) pensano che dovrebbe essere Lui il candidato premier alle prossime elezioni. Con lui o senza di lui, insomma: il centrodestra appare sperduto. Così gli italiani sembrano aver smarrito la fiducia nella politica. Ma anche nell’antipolitica. Tuttavia, non sono divenuti impolitici e indifferenti. Vorrebbero, anzi, che la politica riprendesse il ruolo che le spetta. Cioè: dare loro rappresentanza e governo. Esprimere una classe dirigente capace di guidarli – dentro e fuori il Paese. Non a caso la maggioranza degli italiani (52%) pensa che il prossimo governo dovrebbe essere espresso dalla “coalizione che ha vinto le elezioni” piuttosto che da “un nuovo governo tecnico” (39%) sostenuto dai principali partiti, come avviene ora.
Tuttavia, l’unico leader di cui gli italiani si fidino, oggi, è Monti. Comunque, diffidano molto più di Bersani e Berlusconi. Ma anche di Grillo e Di Pietro.
Così gli italiani – la maggioranza di essi, almeno – vuole un governo “politico”. A condizione che a guidarlo sia Monti. È come se la fiducia nella democrazia rappresentativa si scontrasse con la sfiducia nei confronti dei rappresentanti. Un corto circuito da cui sembra difficile uscire. A meno che Monti – contrariamente alle sue ripetute affermazioni – non decida, alla fine, di scendere in campo.

La Repubblica 10.09.12

Il Paese sempre più indeciso promuove il Professore ma non il governo tecnico", di Ilvo Diamanti

L’estate sta finendo. Ma l’incertezza politica no. Il sondaggio dell’Atlante Politico, condotto da Demos, negli scorsi giorni, per la Repubblica, riproduce questo clima d’opinione uggioso. Da cui emerge un solo solido riferimento. Mario Monti. Il presidente del Consiglio. Oltre metà dei cittadini (il 52%), infatti, valuta positivamente il governo. Una quota ancor più alta di elettori, il 55%, esprime fiducia personale nei suoi riguardi. Si tratta di un orientamento in evidente crescita, dopo un periodo di raffreddamento. Gli altri personaggi politici lo seguono a grande distanza. Soprattutto i leader di partito. Di maggioranza e di opposizione. Superati, non a caso, dai “tecnici” del governo Monti (Passera e Fornero). E da coloro che, come Montezemolo, non sono ancora “scesi in campo”, nonostante lo promettano – oppure lo “minaccino” – da anni. Unica eccezione (insieme alla Bonino): il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di cui parleremo più avanti.
La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione verso le politiche del governo. Al contrario. Gran parte dei cittadini si dicono, infatti, contrari alle principali riforme avviate. Pensioni, IMU e mercato del lavoro, soprattutto. Si tratta, dunque, di un sentimento espresso “nonostante”. Rispecchia, cioè, la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali. Ma anche le preoccupazioni internazionali. Perché è convinzione diffusa che l’Unione Europea e l’Euro abbiano prodotto molti problemi. Ma solo il 23% degli italiani pensa che fuori della UE le cose andrebbero meglio. Mentre una quota più ampia, ma comunque minoritaria, inferiore al 40%, ritiene che l’Euro comporti solo complicazioni. L’Euro e la UE, insomma, sollevano dubbi. Ma è largamente condivisa l’idea che “senza” l’Europa e la moneta europea i rischi per la tenuta del nostro sistema – economico e non solo – crescerebbero ancora. Monti appare il principale garante. Di fronte ai problemi europei. E alla debolezza della politica nazionale. La fiducia verso i partiti, d’altronde, resta al di sotto del 5%. Quella verso il Parlamento intorno al 10%.
Le stime di voto riflettono questo clima di incertezza – e di “dipendenza” da Monti. Così si assiste alla tenuta e perfino a una certa ripresa dei partiti “montiani”: il PdL, il Pd e l’UdC. Il partito più “montiano” di tutti. Mentre il M5S scivola sotto al 15%. Un dato molto elevato. Ma la grande spinta conosciuta dopo le elezioni amministrative di maggio, per ora, sembra esaurita. Non solo per le polemiche di Favia (amplificate da “Piazzapulita”) contro la governance
di Grillo e Casaleggio, che hanno avuto un impatto limitato sul sondaggio. Il fatto è che in questa fase di stagnazione politica l’unico polo condiviso è Monti. Che nega di volersi ricandidare, in futuro. Per cui mancano i bersagli contro cui rivolgere l’insoddisfazione. D’altronde, non frena solo il M5S: anche l’IdV, l’altra opposizione. Solo la Lega risale – di poco – la china, oltre il 5%. Così l’unico vero “orientamento” di voto che cresce veramente è, non a
caso, il “dis-orientamento”. Che allarga i confini dell’area grigia del non-voto e dell’indecisione. Sopra il 45%. Quasi un elettore su due. La misura più ampia da quando viene realizzato l’Atlante Politico. Cioè, da quasi 10 anni.
D’altronde, non è chiaro quando e come si voterà. Con quale legge elettorale, con quali alleanze, con quali candidati. Se si riproponesse lo schema tradizionale, il centrosinistra prevarrebbe largamente. E, come ha sostenuto ieri Bersani a Reggio Emilia, “Deciderà il voto, non i banchieri”. Ma nel PD, come mostra l’Atlante Politico, c’è incertezza sulla coalizione con cui “andare al voto”. La maggioranza dei suoi elettori (51%) preferisce un’alleanza con le altre forze di Sinistra, a costo di sacrificare l’intesa con l’UdC. Al tempo stesso, però, (50%) rifiuta l’accordo con l’IdV. Le polemiche con Di Pietro, dunque, hanno lasciato un segno profondo. L’incertezza, nel PD, si estende alla leadership. Che gran parte degli elettori di centrosinistra – e ancor più del PD – vorrebbe scegliere attraverso le primarie. Il favorito – secondo il sondaggio di Demos – è Pier Luigi Bersani. Lo voterebbe oltre il 43% degli elettori di centrosinistra. Tuttavia, Matteo Renzi dispone di una base ampia. Quasi il 28%. Ma, soprattutto, ha un sostegno trasversale. Non a caso, dopo Monti, è il politico che attrae il maggior grado di simpatie. I suoi consensi, in caso di primarie, potrebbero crescere ulteriormente se la partecipazione andasse oltre i confini tradizionali dell’elettorato più vicino e convinto. Renzi, infatti, è particolarmente apprezzato dagli elettori “critici” e delusi del centrosinistra, oggi vicini al M5S, all’IdV oppure confluiti nell’area grigia dell’incertezza. A centrodestra c’è il problema opposto. Nel PdL, inventato da Berlusconi, non possono fare a meno di lui. Ma, al tempo stesso, non gli credono più come prima. Berlusconi. Oggi, fra gli italiani, ha toccato l’indice di fiducia più basso degli ultimi anni (meno del 20%). E solo 40 elettori del PdL su 100 (che scendono a 20 fra quelli di centrodestra) pensano che dovrebbe essere Lui il candidato premier alle prossime elezioni. Con lui o senza di lui, insomma: il centrodestra appare sperduto. Così gli italiani sembrano aver smarrito la fiducia nella politica. Ma anche nell’antipolitica. Tuttavia, non sono divenuti impolitici e indifferenti. Vorrebbero, anzi, che la politica riprendesse il ruolo che le spetta. Cioè: dare loro rappresentanza e governo. Esprimere una classe dirigente capace di guidarli – dentro e fuori il Paese. Non a caso la maggioranza degli italiani (52%) pensa che il prossimo governo dovrebbe essere espresso dalla “coalizione che ha vinto le elezioni” piuttosto che da “un nuovo governo tecnico” (39%) sostenuto dai principali partiti, come avviene ora.
Tuttavia, l’unico leader di cui gli italiani si fidino, oggi, è Monti. Comunque, diffidano molto più di Bersani e Berlusconi. Ma anche di Grillo e Di Pietro.
Così gli italiani – la maggioranza di essi, almeno – vuole un governo “politico”. A condizione che a guidarlo sia Monti. È come se la fiducia nella democrazia rappresentativa si scontrasse con la sfiducia nei confronti dei rappresentanti. Un corto circuito da cui sembra difficile uscire. A meno che Monti – contrariamente alle sue ripetute affermazioni – non decida, alla fine, di scendere in campo.
La Repubblica 10.09.12

"La buona politica contro i populismi", di Carlo Galli

Uno spettro si aggira per l’Europa: i populismi. Che sembrano tanto più motivati quanto più l’euro, grazie soprattutto a Draghi, supera faticosamente le sue debolezze, con strumenti non automatici, ma certi e illimitati. E tuttavia non gratuiti, ma anzi condizionati. Quelle condizioni, poste dalla Bce, non saranno più solo dolorosi tagli ai bilanci degli Stati, ma — lo ha spiegato ieri Scalfari — ci saranno, e saranno cogenti, in tutti i casi in cui si ricorra allo scudo anti-spread. Quindi o per auto-disciplina o per obbedienza alla troika, la linea per la ripresa, per lo sviluppo, dovrà passare attraverso politiche di riforma economica e sociale, e anche di mentalità. Politiche che hanno costi sociali oggi mal distribuiti, poiché gravano in gran parte sul lavoro dipendente.
Tutto ciò ha in sé una necessità non metafisica ma contingente, storica. Nel senso che non ci sono forze, interessi, energie, orizzonti, in grado di opporsi credibilmente al disegno dell’euro, e anche nel senso che l’euro, politicamente rafforzato e divenuto moneta politica di un’entità politica (l’Europa federale), è la migliore risposta, presente oggi sul campo, all’instabilità intrinseca dell’economia globalizzata. Insomma, l’euro non è una prospettiva solo tecnica, come è stata presentata finora da una politica che ha paura delle proprie responsabilità, al punto che ha affidato il lavoro duro a un tecnico come Monti, ma anzi è una risorsa politica, o politicizzabile. L’euro può permettere all’Europa — se la Germania cesserà di essere l’Amleto del continente, come è stata, a volte, anche in passato — di costituirsi come “differenza” sulla scena del mondo; di gestire l’economia con attenzione politica allo sviluppo sociale — di realizzare il “modello europeo”, appunto. L’errore che si fa spesso al riguardo è duplice: non solo di fare dell’euro un espediente tecnico-finanziario, ma anche di non valutare appieno le conseguenze dei suoi costi sociali attuali. Un costo che in Italia (per colpa di molti anni perduti nella fase berlusconiana della nostra politica) nessuno, per non dispiacere al proprio elettorato, si era mai premurato di spalmare nel tempo, e che è stato fatto pagare al sistema economico e ai cittadini quasi tutto a partire dal 2011 (negli ultimi mesi del governo Berlusconi e nel governo Monti). Quei due errori uniti hanno fatto sì che il disagio sociale reso acuto dalle inadempienze della politica, abbia preso, in parecchi Stati europei, la forma di una protesta politica del popolo contro i politici asserviti ai tecnici: una protesta, cioè, che ha le forme del populismo e dell’antipolitica, ma che è a tutti gli effetti politica. Cattiva politica, pessima politica. E non solo perché è estremistica, antisistema, e tendenzialmente violenta, almeno nelle sue espressioni verbali; ma perché è del tutto ineffettuale, perché non ha alcuna chance di essere “azione”, ma è solo protesta ipersemplificata — com’è tipico dei populismi — , e rivolta contro un nemico di volta in volta inventato ad hoc.
Monti ha visto bene il problema, invocando un vertice europeo contro le forze anti Ue.
Se alla politica europea manca la grande decisione democratica — il che la fa essere timida, incerta, e la porta a nascondersi dietro la tecnica, e a non vedere che il disagio sociale è anch’esso una questione politica —, al populismo manca necessariamente la percezione della complessità del momento storico; anzi, contro la complessità si scaglia, e la semplifica mettendoci sopra un nome, una faccia del Nemico: prima l’immigrato (preferibilmente islamico), poi la Casta, poi il finanziere, poi il tecnocrate. Il populismo è spettrale, benché sia una forza politica reale, perché, violento e superficiale a un tempo, trasforma i problemi reali in immagini e in risentimento (prima di Grillo, lo facevano Bossi e Berlusconi), e così elude o cancella la comprensione del tempo storico. È una scelta facile, quella populista; ed è ancora più facile se si lascia che il conflitto fra posizioni pro-euro e posizioni anti-euro diventi il conflitto fra la tecnica (che asservisce a sé la politica) e la buona politica del popolo (nella forma del populismo presunto anti-politico). Se non si riesce a far diventare quel conflitto, nel discorso pubblico, ciò che è nella sostanza: il conflitto fra la buona politica e la cattiva politica.
C’è dunque l’esigenza urgente di una politica che non ha paura di sé, delle proprie responsabilità, delle proprie decisioni. Di una politica che riconosca e incorpori le necessità del momento — con il realismo che alla politica deve appartenere, perché la politica è il potere che vuole agire — , che non si conceda illusioni, ma che rivendichi il proprio primato nelle cose umane; ovvero rivendichi di potere orientare e governare, senza eluderla, la necessità, l’emergenza; di saperle dare un indirizzo, un ordine specifico. E che quindi non abdica ai propri compiti — che, nel nostro caso, sono di proseguire l’opera di bonifica, ancora lontanissima dalla fine, dell’organizzazione dello Stato e della vita sociale ed economica del Paese — , prospettando che l’esercizio dei diritti politici (le elezioni) sia ininfluente, dato che, comunque i cittadini votino, avranno sempre davanti a sé le stesse politiche e forse le stesse persone. E lasciando così praterie sterminate al populismo, che oltre alla bandiera della protesta potrebbe anche agitare quella della politica. Davanti a questo grave rischio, c’è davvero da augurarsi che la politica italiana sappia individuare nella democrazia — nella potenza delle sue passioni e dei suoi progetti — l’antidoto sia alla propria incertezza sia alle demagogiche certezze del populismo.

La Repubblica 10.09.12

"La buona politica contro i populismi", di Carlo Galli

Uno spettro si aggira per l’Europa: i populismi. Che sembrano tanto più motivati quanto più l’euro, grazie soprattutto a Draghi, supera faticosamente le sue debolezze, con strumenti non automatici, ma certi e illimitati. E tuttavia non gratuiti, ma anzi condizionati. Quelle condizioni, poste dalla Bce, non saranno più solo dolorosi tagli ai bilanci degli Stati, ma — lo ha spiegato ieri Scalfari — ci saranno, e saranno cogenti, in tutti i casi in cui si ricorra allo scudo anti-spread. Quindi o per auto-disciplina o per obbedienza alla troika, la linea per la ripresa, per lo sviluppo, dovrà passare attraverso politiche di riforma economica e sociale, e anche di mentalità. Politiche che hanno costi sociali oggi mal distribuiti, poiché gravano in gran parte sul lavoro dipendente.
Tutto ciò ha in sé una necessità non metafisica ma contingente, storica. Nel senso che non ci sono forze, interessi, energie, orizzonti, in grado di opporsi credibilmente al disegno dell’euro, e anche nel senso che l’euro, politicamente rafforzato e divenuto moneta politica di un’entità politica (l’Europa federale), è la migliore risposta, presente oggi sul campo, all’instabilità intrinseca dell’economia globalizzata. Insomma, l’euro non è una prospettiva solo tecnica, come è stata presentata finora da una politica che ha paura delle proprie responsabilità, al punto che ha affidato il lavoro duro a un tecnico come Monti, ma anzi è una risorsa politica, o politicizzabile. L’euro può permettere all’Europa — se la Germania cesserà di essere l’Amleto del continente, come è stata, a volte, anche in passato — di costituirsi come “differenza” sulla scena del mondo; di gestire l’economia con attenzione politica allo sviluppo sociale — di realizzare il “modello europeo”, appunto. L’errore che si fa spesso al riguardo è duplice: non solo di fare dell’euro un espediente tecnico-finanziario, ma anche di non valutare appieno le conseguenze dei suoi costi sociali attuali. Un costo che in Italia (per colpa di molti anni perduti nella fase berlusconiana della nostra politica) nessuno, per non dispiacere al proprio elettorato, si era mai premurato di spalmare nel tempo, e che è stato fatto pagare al sistema economico e ai cittadini quasi tutto a partire dal 2011 (negli ultimi mesi del governo Berlusconi e nel governo Monti). Quei due errori uniti hanno fatto sì che il disagio sociale reso acuto dalle inadempienze della politica, abbia preso, in parecchi Stati europei, la forma di una protesta politica del popolo contro i politici asserviti ai tecnici: una protesta, cioè, che ha le forme del populismo e dell’antipolitica, ma che è a tutti gli effetti politica. Cattiva politica, pessima politica. E non solo perché è estremistica, antisistema, e tendenzialmente violenta, almeno nelle sue espressioni verbali; ma perché è del tutto ineffettuale, perché non ha alcuna chance di essere “azione”, ma è solo protesta ipersemplificata — com’è tipico dei populismi — , e rivolta contro un nemico di volta in volta inventato ad hoc.
Monti ha visto bene il problema, invocando un vertice europeo contro le forze anti Ue.
Se alla politica europea manca la grande decisione democratica — il che la fa essere timida, incerta, e la porta a nascondersi dietro la tecnica, e a non vedere che il disagio sociale è anch’esso una questione politica —, al populismo manca necessariamente la percezione della complessità del momento storico; anzi, contro la complessità si scaglia, e la semplifica mettendoci sopra un nome, una faccia del Nemico: prima l’immigrato (preferibilmente islamico), poi la Casta, poi il finanziere, poi il tecnocrate. Il populismo è spettrale, benché sia una forza politica reale, perché, violento e superficiale a un tempo, trasforma i problemi reali in immagini e in risentimento (prima di Grillo, lo facevano Bossi e Berlusconi), e così elude o cancella la comprensione del tempo storico. È una scelta facile, quella populista; ed è ancora più facile se si lascia che il conflitto fra posizioni pro-euro e posizioni anti-euro diventi il conflitto fra la tecnica (che asservisce a sé la politica) e la buona politica del popolo (nella forma del populismo presunto anti-politico). Se non si riesce a far diventare quel conflitto, nel discorso pubblico, ciò che è nella sostanza: il conflitto fra la buona politica e la cattiva politica.
C’è dunque l’esigenza urgente di una politica che non ha paura di sé, delle proprie responsabilità, delle proprie decisioni. Di una politica che riconosca e incorpori le necessità del momento — con il realismo che alla politica deve appartenere, perché la politica è il potere che vuole agire — , che non si conceda illusioni, ma che rivendichi il proprio primato nelle cose umane; ovvero rivendichi di potere orientare e governare, senza eluderla, la necessità, l’emergenza; di saperle dare un indirizzo, un ordine specifico. E che quindi non abdica ai propri compiti — che, nel nostro caso, sono di proseguire l’opera di bonifica, ancora lontanissima dalla fine, dell’organizzazione dello Stato e della vita sociale ed economica del Paese — , prospettando che l’esercizio dei diritti politici (le elezioni) sia ininfluente, dato che, comunque i cittadini votino, avranno sempre davanti a sé le stesse politiche e forse le stesse persone. E lasciando così praterie sterminate al populismo, che oltre alla bandiera della protesta potrebbe anche agitare quella della politica. Davanti a questo grave rischio, c’è davvero da augurarsi che la politica italiana sappia individuare nella democrazia — nella potenza delle sue passioni e dei suoi progetti — l’antidoto sia alla propria incertezza sia alle demagogiche certezze del populismo.
La Repubblica 10.09.12