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"Il paternalismo di Stato", di Luigi Manconi

L’ipotesi di una tassa sulle bibite gassate ha suscitato scandalo e ilarità. E, soprattutto, una discussione lievemente demenziale, e talvolta sgangherata, a proposito della «libertà dei moderni» nei confronti di quel Leviatano che è il potere dello Stato. La questione è dannatamente seria e rappresenta addirittura uno dei nodi cruciali per il buono ed equo funzionamento dei sistemi democratici. In altre parole: qual è il limite di intervento dello Stato, delle sue istituzioni, delle sue leggi e dei suoi apparati nella vita privata dei cittadini? Fin dove può giungere quell’intervento? Quanto può condizionare le scelte relative alla sfera più riservata e intima delle nostre esistenze personali? I dilemmi sono questi. E sono dilemmi enormi perché, in un sistema democratico può porsi, per lo Stato, l’esigenza di tutelare due diritti e due interessi, entrambi legittimi e meritevoli di protezione e, tuttavia, suscettibili di entrare in conflitto. Dunque, al di là degli argomenti spesso non così appropriati cui si è fatto ricorso, anche l’appassionante rissa intorno alla «tassa sul rutto» aveva una sua importanza. In gioco c’erano, appunto, il diritto dell’individuo a consumare bevande addizionate di gas, ed eventualmente ad abusarne, e il diritto dello Stato a scoraggiare quel consumo perché destinato a produrre conseguenze negative sulla salute individuale e collettiva: e di conseguenza a determinare costi eccessivi per il sistema sanitario.
Quest’ultima considerazione «economica» è senza dubbio importante: se si accertasse, infatti, che le libere scelte individuali hanno effetti così disastrosi da comportare spese enormi per la collettività è difficile affermare che i consumi che determinano questi effetti non debbano essere tassati in maniera onerosa. È quanto succede, peraltro, già adesso a proposito del tabacco e dei superalcolici: e chi, come me, è favorevole alla legalizzazione delle sostanze stupefacenti ipotizza comunque per esse un regime di tassazione capace di scoraggiarne o perlomeno disincentivarne l’abuso. C’è del «paternalismo di Stato» in questo? Probabilmente sì, ma quel tanto indispensabile a creare un tessuto di coesione e di sicurezza collettiva all’interno delle relazioni sociali. Non a caso, in tutte le società democratiche è prevista l’obbligatorietà – e non solo la possibilità per tutti – dell’istruzione fino a una determinata età. Ma qui preme evidenziare quanto questa materia sia controversa. Noto, intanto, che tra i più accesi nemici della tassa sulle bibite gassate si è distinto Maurizio Gasparri: ovvero colui che, più di altri, si è fatto sostenitore di una normativa di impianto autenticamente totalitario. Mi riferisco alla proposta di legge che prevede la possibilità di imporre il sondino per l’idratazione e la nutrizione artificiali per chi si trovi in stato di coma, anche se in precedenza ha dichiarato esplicitamente, e per iscritto, il rifiuto di quella pratica. Ma c’è un altro esempio assai istruttivo: quello relativo all’obbligo del casco per i motociclisti. Qui non si tratta solo di evitare danni e costi evitabili, ma interviene un’ulteriore considerazione: perché mai io, automobilista, devo essere «costretto» a correre il rischio di venire coinvolto, anche senza alcuna mia personale responsabilità, nella morte di un motociclista che ha scelto «liberamente» di guidare senza casco? Insomma, l’obbligo del casco può ridurre sensibilmente il numero delle circostanze che portano un automobilista a contribuire, anche senza alcuna propria colpa, alla morte di terzi. Con tutto ciò, si vuol dire che il discorso non è affrontabile con l’accetta dei pregiudizi ideologici. Sono fermamente convinto che lo Stato e le sue leggi non debbano impormi gli stili di vita più virtuosi né, tantomeno, decidere – quando non vi sia reato – ciò che è lecito e raccomandabile, e dunque praticabile, e ciò che è illecito e sconsigliabile, e dunque da evitare.
Ma penso che sia estremamente difficile definire anticipatamente e in maniera rigida un prontuario di regole valide una volta per sempre, che fissino i confini e i limiti invalicabili dell’intervento dello Stato nella vita privata dei cittadini. Alcune sentenze hanno mostrato, in maniera davvero inequivocabile, quanto sia scivolosa e di difficile definizione questa materia. Recenti decisioni del tribunale dei minori di Reggio Calabria hanno stabilito la limitazione della potestà genitoriale nei confronti dei figli minori per genitori appartenenti a organizzazioni criminali. Ciò perché si è ritenuto «indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità fuori dalla Calabria»; e perché, in un caso analogo, «pressante è l’esigenza di allontanare i minori dal contesto familiare permeato da dinamiche malavitose». In proposito, non si è sentita alcuna vibrante protesta da parte di Maurizio Gasparri, eppure siamo in presenza della più delicata, delicatissima, forma di «ingerenza» dello Stato nella vita privata dei cittadini. Qui, lo Stato «paternalista» decide di intervenire, attraverso un giudice, nella sfera più profonda delle relazioni interpersonali e del vincolo affettivo primario. Quello genitore-figlio. Cosa ci sarebbe di più «invasivo» e «illiberale» secondo i neofiti lettori di Alexis de Tocqueville e John Stuart Mill? (Non mi riferisco, evidentemente, ai liberali veri, come Piero Ostellino o come i radicali, che su questi temi hanno le carte in regola).
Certo, nel caso delle sentenze del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, la tensione non è più tra un diritto soggettivo e un interesse collettivo, bensì tra due fondamentali diritti soggettivi. Ma proprio questo dice quanto sia arduo un bilanciamento tra quelle due esigenze; e rivela limpidamente il cuore di quel conflitto etico e giuridico che sottende alle cosiddette «scelte tragiche». Una contraddizione per certi versi insolubile tra due diritti ugualmente sacrosanti e ugualmente degni di tutela. Il diritto alla protezione della inviolabilità e intangibilità (ma anche inconoscibilità) del vincolo familiare e, allo stesso tempo, il diritto del minore a uno sviluppo psicologico, culturale e sociale sottratto a un destino che oggi appare come fatalmente criminale.

L’Unità 09.09.12

"Il paternalismo di Stato", di Luigi Manconi

L’ipotesi di una tassa sulle bibite gassate ha suscitato scandalo e ilarità. E, soprattutto, una discussione lievemente demenziale, e talvolta sgangherata, a proposito della «libertà dei moderni» nei confronti di quel Leviatano che è il potere dello Stato. La questione è dannatamente seria e rappresenta addirittura uno dei nodi cruciali per il buono ed equo funzionamento dei sistemi democratici. In altre parole: qual è il limite di intervento dello Stato, delle sue istituzioni, delle sue leggi e dei suoi apparati nella vita privata dei cittadini? Fin dove può giungere quell’intervento? Quanto può condizionare le scelte relative alla sfera più riservata e intima delle nostre esistenze personali? I dilemmi sono questi. E sono dilemmi enormi perché, in un sistema democratico può porsi, per lo Stato, l’esigenza di tutelare due diritti e due interessi, entrambi legittimi e meritevoli di protezione e, tuttavia, suscettibili di entrare in conflitto. Dunque, al di là degli argomenti spesso non così appropriati cui si è fatto ricorso, anche l’appassionante rissa intorno alla «tassa sul rutto» aveva una sua importanza. In gioco c’erano, appunto, il diritto dell’individuo a consumare bevande addizionate di gas, ed eventualmente ad abusarne, e il diritto dello Stato a scoraggiare quel consumo perché destinato a produrre conseguenze negative sulla salute individuale e collettiva: e di conseguenza a determinare costi eccessivi per il sistema sanitario.
Quest’ultima considerazione «economica» è senza dubbio importante: se si accertasse, infatti, che le libere scelte individuali hanno effetti così disastrosi da comportare spese enormi per la collettività è difficile affermare che i consumi che determinano questi effetti non debbano essere tassati in maniera onerosa. È quanto succede, peraltro, già adesso a proposito del tabacco e dei superalcolici: e chi, come me, è favorevole alla legalizzazione delle sostanze stupefacenti ipotizza comunque per esse un regime di tassazione capace di scoraggiarne o perlomeno disincentivarne l’abuso. C’è del «paternalismo di Stato» in questo? Probabilmente sì, ma quel tanto indispensabile a creare un tessuto di coesione e di sicurezza collettiva all’interno delle relazioni sociali. Non a caso, in tutte le società democratiche è prevista l’obbligatorietà – e non solo la possibilità per tutti – dell’istruzione fino a una determinata età. Ma qui preme evidenziare quanto questa materia sia controversa. Noto, intanto, che tra i più accesi nemici della tassa sulle bibite gassate si è distinto Maurizio Gasparri: ovvero colui che, più di altri, si è fatto sostenitore di una normativa di impianto autenticamente totalitario. Mi riferisco alla proposta di legge che prevede la possibilità di imporre il sondino per l’idratazione e la nutrizione artificiali per chi si trovi in stato di coma, anche se in precedenza ha dichiarato esplicitamente, e per iscritto, il rifiuto di quella pratica. Ma c’è un altro esempio assai istruttivo: quello relativo all’obbligo del casco per i motociclisti. Qui non si tratta solo di evitare danni e costi evitabili, ma interviene un’ulteriore considerazione: perché mai io, automobilista, devo essere «costretto» a correre il rischio di venire coinvolto, anche senza alcuna mia personale responsabilità, nella morte di un motociclista che ha scelto «liberamente» di guidare senza casco? Insomma, l’obbligo del casco può ridurre sensibilmente il numero delle circostanze che portano un automobilista a contribuire, anche senza alcuna propria colpa, alla morte di terzi. Con tutto ciò, si vuol dire che il discorso non è affrontabile con l’accetta dei pregiudizi ideologici. Sono fermamente convinto che lo Stato e le sue leggi non debbano impormi gli stili di vita più virtuosi né, tantomeno, decidere – quando non vi sia reato – ciò che è lecito e raccomandabile, e dunque praticabile, e ciò che è illecito e sconsigliabile, e dunque da evitare.
Ma penso che sia estremamente difficile definire anticipatamente e in maniera rigida un prontuario di regole valide una volta per sempre, che fissino i confini e i limiti invalicabili dell’intervento dello Stato nella vita privata dei cittadini. Alcune sentenze hanno mostrato, in maniera davvero inequivocabile, quanto sia scivolosa e di difficile definizione questa materia. Recenti decisioni del tribunale dei minori di Reggio Calabria hanno stabilito la limitazione della potestà genitoriale nei confronti dei figli minori per genitori appartenenti a organizzazioni criminali. Ciò perché si è ritenuto «indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità fuori dalla Calabria»; e perché, in un caso analogo, «pressante è l’esigenza di allontanare i minori dal contesto familiare permeato da dinamiche malavitose». In proposito, non si è sentita alcuna vibrante protesta da parte di Maurizio Gasparri, eppure siamo in presenza della più delicata, delicatissima, forma di «ingerenza» dello Stato nella vita privata dei cittadini. Qui, lo Stato «paternalista» decide di intervenire, attraverso un giudice, nella sfera più profonda delle relazioni interpersonali e del vincolo affettivo primario. Quello genitore-figlio. Cosa ci sarebbe di più «invasivo» e «illiberale» secondo i neofiti lettori di Alexis de Tocqueville e John Stuart Mill? (Non mi riferisco, evidentemente, ai liberali veri, come Piero Ostellino o come i radicali, che su questi temi hanno le carte in regola).
Certo, nel caso delle sentenze del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, la tensione non è più tra un diritto soggettivo e un interesse collettivo, bensì tra due fondamentali diritti soggettivi. Ma proprio questo dice quanto sia arduo un bilanciamento tra quelle due esigenze; e rivela limpidamente il cuore di quel conflitto etico e giuridico che sottende alle cosiddette «scelte tragiche». Una contraddizione per certi versi insolubile tra due diritti ugualmente sacrosanti e ugualmente degni di tutela. Il diritto alla protezione della inviolabilità e intangibilità (ma anche inconoscibilità) del vincolo familiare e, allo stesso tempo, il diritto del minore a uno sviluppo psicologico, culturale e sociale sottratto a un destino che oggi appare come fatalmente criminale.
L’Unità 09.09.12

Bersani: "La sfida per il Paese"

Bersani chiude la Festa Democratica nazionale a Reggio Emilia
Care Democratiche e cari Democratici,
eccoci qui. Siamo tanti qui e siamo stati tanti, tantissimi, nelle oltre duemila feste che abbiamo organizzato ovunque. Siamo un partito capace di rimboccarci le maniche. Siamo un partito popolare. Siamo un partito libero, senza padroni. Abbiamo radici in ogni luogo del paese e vogliamo bene alle nostre comunità, ciascuno di noi alla sua. Ma tutti assieme vogliamo bene all’Italia. Le vogliamo bene e tuttavia non ci piace ancora abbastanza. Ci piacerà davvero solo quando sarà garantito il diritto di ognuno di studiare, di lavorare, di aver soccorso nel bisogno, senza discriminazioni e senza mai dover mendicare un diritto con il cappello in mano. E neppure il mondo così come è, ci piace abbastanza. Per la violenza che lo agita, per le guerre e il sangue sparso fino alle porte di casa nostra. La pace può venire solo dalla libertà. Noi siamo amici di ogni donna e di ogni uomo che nel mondo ha la forza di alzarsi in piedi e battersi per la sua libertà e per la sua dignità. Così siamo noi. E sono questi valori che ci fanno più forti delle nostre debolezze. Questi valori sono le radici, i rami e le foglie della nostra pianta. Sono la strada che abbiamo fatto e quella che abbiamo davanti. Questi valori fanno sentire nostra una storia di emancipazione, di progresso, di democrazia, lunga più di un secolo e ci consegnano il compito di essere il partito riformista del secolo nuovo.

Diciamo questo a Reggio Emilia, città simbolo della nobiltà della politica, nel cuore stesso della tradizione nazionale, democratica, e progressista italiana. Città del tricolore, come tutti sappiamo. Ma, aggiungo, città del Gonfalone e del tricolore, della autonomia e dell’unità della nazione. Città della Resistenza, delle battaglie partigiane, città di costituenti: Nilde Iotti, Giuseppe Dossetti. Città del lavoro, della lotta per l’emancipazione delle terre, per la dignità del mondo operaio, per lo sviluppo armonico di uno straordinario sistema di imprese.

E Reggio Emilia, città di oggi, che ancora ci stupisce per come economia e società riescano a darsi la mano sulle frontiere del futuro: l’educazione dell’infanzia, l’integrazione dei nuovi italiani.

Grazie dunque, Reggio Emilia. Grazie al tuo Sindaco, agli amministratori di tutta la provincia, grazie allo straordinario partito di Reggio Emilia, alla federazione del PD e a tutti i circoli che si sono impegnati in questa festa. E grazie ancora una volta ai volontari che con uno sforzo immenso hanno saputo ripetere il miracolo e ci hanno regalato il più grande appuntamento di popolo che si svolga in Italia. Grazie ai volontari di tutte le nostre feste, piccole e grandi. Un ricordo commosso per Gabrio Maraldi, grande e amatissimo amministratore del Comune di Ravenna, morto sulla festa, alla fine del suo impegno di volontario nelle cucine. E un abbraccio ai suoi amici e compagni di una vita che, asciugate le lacrime, hanno voluto continuare il lavoro.
Molti non lo sanno, ma poco lontano da qui, nei paesi del terremoto, si sono comunque tenute alcune feste del partito democratico. Una cosa incredibile e commovente. Così come incredibile e commovente, dentro l’impegno di tutti e che va riconosciuto a tutti nella tragedia del terremoto, è stato l’impegno, lasciatemelo dire, dei nostri militanti, delle nostre organizzazioni di partito, dei nostri amministratori di comuni, province e regioni. Davanti ad un compito enorme: la drammatica emergenza, il primo riparo, le nuove scosse, la nuova emergenza, e quindi le verifiche di agibilità, gli interventi di messa in sicurezza, i ripristini; e normative nazionali e regionali da allestire, i criteri delle operazioni da avviare, le regole per le gare, per le verifiche, per tener fuori la mafia; reti istituzionali da attrezzare e da ricomporre a cominciare dai comuni. Stiamo parlando di quarantamila case, di tremila aziende per trentasemila lavoratori, di quattrocento scuole danneggiate per diciottomila studenti. Si è fatto un lavoro enorme e c’è ancora un lavoro enorme e molto lungo da fare; ci sono difficoltà, problemi, questioni non risolte. Le popolazioni soffrono ancora e devono sentire tutto il nostro affetto e la nostra solidarietà. Ma da ottobre nei comuni del terremoto si tornerà a scuola, tutti i bambini e le bambine, le ragazze e i ragazzi torneranno a scuola. Si è partiti da lì, dalla scuola. Non è questo il più grande segno di fiducia?

L’Emilia colpita risorgerà, risorgerà come era prima. Qui non ci saranno new town. Torneranno abitabili le case, si ricostruiranno le scuole, le fabbriche e i laboratori torneranno a produrre, i centri storici risorgeranno. E lo faremo con rigore, con serietà. Sarà un lavoro fatto in casa, come usa qui, senza poteri esterni o lontani, ma nella trasparenza, nella partecipazione, con i poteri democratici locali al comando. Faremo vedere ancora una volta che l’efficienza è figlia di una buona democrazia!
Care Democratiche e Democratici, Cari amici e compagni,

tutta la grande area dei democratici e progressisti italiani, fatta di tante teste ma di un solo cuore, è di fronte oggi ad una scelta dirimente, ad una scelta storica. Il passaggio che abbiamo davanti è un passaggio d’epoca per l’Europa e per l’Italia. È tempo di uno sguardo largo e profondo sulle cose. C’è un grande cambiamento in corso e questo cambiamento si accompagna per l’Italia alla fase più difficile della storia repubblicana. Per la prima volta il Paese vive un processo di impoverimento, mentre la democrazia repubblicana soffre di un indebolimento pericoloso. Ecco allora la semplice e drammatica domanda. Siamo pronti noi, Partito Democratico e noi democratici e progressisti italiani, con i nostri valori di uguaglianza, di civismo, di libertà; siamo pronti a prenderci la responsabilità di governare l’Italia nel suo momento più difficile? È questo che vogliamo, con convinzione, proporre agli italiani? O invece vogliamo sottrarci, vogliamo scansare? O invece ci spaventa scalare la montagna? Ve lo dico col cuore: chiariamo bene questo prima di metterci in marcia. È una domanda vera, quella che faccio. Ci sono mille modi, anche dal lato delle culture democratiche, per sfuggire a questa responsabilità. Li conosciamo. Sono i modi dell’ambiguità e degli eterni distinguo, della divagazione, della testimonianza purista che non conosce mediazione, o sono i modi di quel massimalismo che salva la coscienza e allontana il calice amaro delle responsabilità e dei doveri. Io dico che se i riformisti italiani si sottraessero oggi all’appuntamento più difficile non avrebbero diritto ad averne altri.

Dunque, diremo al Paese che vogliamo prenderci le nostre responsabilità. Diremo al Paese che conosciamo il nostro compito: farlo uscire da un destino di arretramento e farlo uscire con meno disuguaglianza, con più lavoro e con una democrazia funzionante e pulita. E diremo al Paese che non sarà il compito di un giorno, che ci vorrà una riscossa collettiva che vada oltre la politica, e che non ci tremerà il polso davanti alle difficoltà e ai problemi. Rimetteremo in cammino la fiducia, rimetteremo in cammino una idea di futuro senza sbandierare favole o miracoli e mettendoci invece a muso duro contro gli imbonitori, i venditori di fumo che porterebbero il Paese alla catastrofe.

Sarà un confronto aspro e incerto, quello dei prossimi mesi. Per tagliare la strada ai riformisti si muoveranno forze antiche e nuove o travestite “di nuovo”, che si stanno già muovendo, in realtà. L’atmosfera potrà farsi pesante, le acque si faranno torbide. Ne abbiamo chiari segni, addirittura attorno al presidio più alto di tenuta delle istituzioni. Attorno al Presidente della Repubblica. Attorno ad una istituzione cruciale per l’equilibrio del sistema ed attorno ad un uomo integro, attorno a Giorgio Napolitano, che saluto da qui con tutta la nostra gratitudine, la nostra stima, il nostro affetto.

Non passeranno. State certi che non passeranno. Ma ci vorranno tenuta, convinzione, grinta. E ci vorrà un’idea forte di cambiamento. Noi ci metteremo dal lato del cambiamento. Dal lato del cambiamento, ma con tutti e due i piedi nei valori della nostra Costituzione, la più bella del mondo. Noi porteremo l’Italia all’incontro con le forze migliori del progressismo europeo e metteremo le nostre idee nella piattaforma comune dei progressisti europei. Non c’è destino fuori dall’Europa ma l’Europa così non va. È dall’Europa che comincia la battaglia di cambiamento. E’ questo che ci ha detto il Presidente Napolitano in un grande discorso due giorni fa.

Care Democratiche e cari Democratici,
io credo che agli storici di domani basteranno poche righe per riassumere il senso delle convulse cronache europee, il senso di quel che è avvenuto in Europa dagli anni 90 in poi. Quelle righe diranno di un modello sociale europeo, scosso violentemente dalla globalizzazione di fine millennio. Diranno del ripiegamento politico e culturale e della reazione di chiusura che da sempre accompagnano i fenomeni di globalizzazione. Diranno di una destra politica e di insorgenze populiste che nel primo decennio del secolo hanno interpretato quel ripiegamento, vincendo ovunque; forze che si sono inchinate, in economia, ai mercati finanziari internazionali ed al tempo stesso hanno accumulato consenso smerciando egoismo, illusorie barriere nazionali, territoriali, corporative e perfino nuovi razzismi. E quelle poche righe di storia diranno purtroppo di forze democratiche e di tradizioni progressiste ferme sulle gambe, scosse, indebolite, prese nel mezzo fra nobile conservazione e subalternità a ricette di altri. Così siamo arrivati all’oggi: è stata quella regressione, che ha preso spinta dall’euro in avanti a partorire “il pasticcio del decennio europeo” come lo ha chiamato Amartya Sen. Il decennio delle destre e dei populismi, un decennio che ancora non è spento, che vive ancora. E’ stata quella regressione che ha reso impotente l’Europa davanti all’esplosione della crisi finanziaria e che ancora oggi la fa balbettare. Un continente che balbetta. Un continente che è ancora la più grande piattaforma economica del mondo. Un continente protagonista della civilizzazione del mondo; un continente che ha mostrato al mondo come si cancellano le guerre dalla storia, e che ha mostrato al mondo come si può trovare un buon equilibrio fra economia e società, quel continente oggi diventa un problema per il mondo. Perché? Perché dopo quegli anni, davanti alla crisi, si è trovato orfano della sua vera anima: la grande idea di un destino comune, la solidarietà, la generosità di un progetto comune, di un orizzonte da guardare assieme con gli occhi dei cittadini europei, delle opinioni pubbliche europee e non solo delle burocrazie europee. I vertici, le riunioni, le dichiarazioni autorevoli e ambigue non sono bastate e non bastano a colmare quel vuoto profondo. E non porta nulla litigare sulle ragioni e sui torti. Non è forse vero che i paesi oggi più in difficoltà hanno perso l’occasione dell’euro per ridurre il peso dei debiti e fare riforme? È vero. E questo da noi ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi e compagnia. E non è forse vero d’altro lato, che la Germania, certo avendo fatto le riforme, ha comunque guadagnato più di ogni altro paese dall’euro? Anche questo è vero. E non è forse vero che alla lunga nessuno si salva da solo, nel mondo grande e nuovo. Nemmeno i paesi più forti? È vero ma non basta più spiegare quel che è vero. Se si spegne la luce del destino comune, si diventa tutti ciechi, si perde la strada e ognuno pensa che al buio quello più debole di lui gli frugherà nelle tasche, gli ruberà qualcosa. Bisogna dunque accendere la luce di una prospettiva nuova, fermare la deriva, invertire la strada. È questo il compito culturale e politico dei progressisti europei. E non è una utopia per il semplice fatto che l’alternativa è il disastro. Per noi il sogno di Spinelli non è morto. Noi lavoriamo per gli Stati Uniti d’Europa.

È questo il messaggio che in queste settimane porteremo all’incontro con i leader progressisti europei continuando il lavoro che abbiamo cominciato assieme. Noi Progressisti Europei dobbiamo dire a piena voce quello che vogliamo, dire quale è il primo passo sulla nuova strada e dire anche dove deve portare la nuova strada. Il primo passo è rompere la spirale fra austerità e recessione. Dentro a quella spirale la crisi economica e finanziaria si aggrava, il distacco cresce, la democrazia si ammala. Il debito non è la causa della crisi ma in buona misura ne è una conseguenza. Nessun paese sottoposto a cure massacranti può davvero migliorare i conti. Il rigore è una condizione assolutamente necessaria, ma non è l’obiettivo. L’obiettivo è un’economia reale che cammini. In altre parole l’obiettivo è il lavoro. Su questo le proposte concrete dei progressisti ci sono, proposte che allentano quella spirale e allo stesso tempo rafforzano il patto comune fino a portarlo ad una vera unione economica e fiscale.

Proposte di corresponsabilità nelle politiche di bilancio e nel governo degli spread, proposte per promuovere investimenti, interventi per la regolazione della finanza, che deve pagare un po’ di quel che ha provocato, non deve più avere licenza di uccidere, deve mettersi a servizio e non a comando delle attività economiche e produttive. Ma allora, lungo la strada del rafforzamento del patto comune c’è un appuntamento che non si può più evitare e che riguarda la democrazia europea. Una ridefinizione della sovranità e della rappresentanza a cominciare dai paesi dell’euro. La questione non è cedere sovranità. Di quale sovranità parliamo? Non ce la stanno forse prendendo i mercati, la sovranità? Altroché “padroni in casa propria” come continua a dire Tremonti. Padroni di che? La questione è come riprenderci effettiva sovranità diventando di più cittadini europei e portando la democrazia ad una dimensione nella quale sia davvero possibile controllare i grandi fenomeni del nostro tempo. E allora noi proporremo che a compimento degli interventi contro la crisi e dell’impostazione del nuovo patto fiscale, all’appuntamento del prossimo Parlamento europeo, si lanci una fase costituente, una Convenzione per un nuovo Trattato che rafforzi il processo unitario europeo e il suo assetto democratico. I progressisti europei e il nuovo governo italiano dovranno farsi protagonisti di questa iniziativa e cioè di un rilancio coraggioso e ineludibile della prospettiva europea e proporre un nuovo patto costituzionale fra le grandi famiglie politiche e i paesi europei; e su questo combattere davvero e non lasciare più, davanti alle opinioni pubbliche l’iniziativa a chi lavora a rovescio verso la disgregazione.

Questa grande prospettiva non ci esime dalle urgenze di oggi. Ci sono appuntamenti dirimenti in questo mese a livello europeo. Dopo l’esito di riunioni e di vertici politici difficili da interpretare, quasi fossero scritti sulle foglie della Sibilla Cumana, in questi giorni finalmente la BCE ha detto parole chiare. Ma altre parole chiare devono venire a cominciare dai Governi europei. Le incertezze ci sono ancora. Siamo di fronte davvero ad una fase di stabilizzazione, di alleggerimento del costo del debito e dei suoi rischi? O invece i mercati vorranno forzarci a chiedere un aiuto di cui non conosciamo le condizioni? E’ forse questo che si vuole? Né Monti né noi abbiamo mai posto la questione in termini di aiuto. L’abbiamo posta nei termini di una coerente difesa comune dell’Euro e senza mai rifiutare la disciplina di politiche rigorose e condivise. Non abbiamo dubbi che davanti a questi interrogativi cruciali il Governo vorrà promuovere e condividere una risposta nazionale, alla quale intendiamo contribuire tanto in Italia quanto nelle sedi politiche ed istituzionali europee.

Care Democratiche, Cari Democratici,
l’Italia di Berlusconi, di Bossi e di Tremonti, l’Italia della destra è stata una vera protagonista della disarticolazione dell’Europa. Una protagonista dell’euroscetticismo, del ripiegamento politico e mentale, della irresponsabile produzione di una cultura tutta domestica, secondo la quale ognuno fa il furbo a casa sua e tutti assieme, a Bruxelles, si sorride in una inutile foto di gruppo. La destra italiana ha picconato la prospettiva europea e ha messo in ginocchio il nostro paese. La destra ha portato l’Italia dove non doveva essere. Nel punto più esposto della crisi, sull’orlo del precipizio. Non dovevamo essere lì, non c’era ragione che fossimo lì. C’è una responsabilità storica del berlusconismo e del leghismo. E lasciatemelo dire: una responsabilità di tutti coloro che per anni si sono voltati dall’altra parte e hanno finto di prendere per buone le castronerie di imbonitori prepotenti e rozzi, e lo hanno fatto per opportunismo o per non pagare dazio, sperando che i buchi nella nave facessero bagnare solo la terza classe. Nei lunghi anni della destra tutto, ma proprio tutto, è peggiorato e si è aggravato. Sfregiato il nostro volto nel mondo, indeboliti l’economia e la società, il lavoro, l’impresa; pregiudicata la stabilità dei conti; corrosi nel profondo lo spirito civico, la credibilità delle istituzioni e della politica, il riconoscimento delle regole, il rispetto per il diverso, la dignità della donna, valori di solidarietà e di uguaglianza. E’ stata messa a rischio l’idea stessa di comunità nazionale e di unità del nostro Paese. La civiltà del confronto è stata deformata, facendo di una persona sola, del suo potere, dei suoi interessi, delle sue abitudini, il centro della discussione pubblica e della vita del Paese. Noi rivendichiamo il merito, che non è solo nostro, ma è in grande parte nostro, di aver fermato quella deriva ad un passo dal precipizio, mandandoli a casa. Abbiamo consentito e sostenuto una transizione verso un’altra prospettiva, e lo abbiamo fatto e lo facciamo caricandoci di una responsabilità non nostra, senza poter fare quello che vorremmo fare ma facendo invece quello che dobbiamo fare, in nome dell’Italia che è davanti ad un vero pericolo.
Il Governo Monti ci ha ridato dignità nel mondo e ci ha tenuti fuori dal baratro. Il Governo Monti lavora in condizioni molto difficili, con un Parlamento in cui il rapporto di forza è lo stesso di prima, e con le mani legate dal patto disperato che Berlusconi e Tremonti hanno dovuto stringere con l’Europa, nell’assenza di ogni credibilità politica e di ogni risultato di riforma.

Voglio dirlo qui, davanti a tutti voi. La nostra parola verso il governo Monti è stata, è e sarà: lealtà. Una parola che dice l’onestà del sostegno e dice anche della franchezza delle nostre idee e delle nostre posizioni, in quel che ci piace e non ci piace, in quel che faremmo o faremo diversamente.

Noi trucchi non ne facciamo, imboscate non ne facciamo, ricatti non ne facciamo. Siamo anzi a chiedere, con ogni forza, che Monti non ceda ai quotidiani ricatti altrui. Noi diciamo la nostra e diamo il nostro contributo fin dove i numeri ci consentono di arrivare. Noi diciamo da qui, all’Europa e al mondo, davanti a mesi cruciali, che garantiremo la stabilità del governo Monti. E tuttavia parliamo senza ambiguità della prospettiva delle elezioni, sempre naturalmente che Moody’s o Standard and Poors non ce le aboliscano sostituendole con una consultazione fra banchieri. E chiediamo: ma qualcuno pensa davvero che noi si possa stare dentro la moneta comune e fuori dalla comune democrazia europea? Pensiamo di essere figli di un Dio minore e di non poter fare ciò che tutti gli altri fanno e cioè di chiedere agli elettori di indicare partiti e maggioranze univoche e coerenti per governare? O pensiamo al contrario di essere figli di un Dio maggiore e di proporre anche agli altri le nostre eterne e fantasiose ricette eccezionali. No. Qui non si tratta di misurare il tasso di presenza tecnica in un governo. Non si tratta di questo. Qui si tratta di riconoscere o no le fondamenta basiche di una democrazia. Le elezioni, dunque. Tocca agli italiani, solo agli italiani e a tutti gli italiani decidere chi governerà. Noi siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità davanti all’Italia e al mondo. Con parole chiare. Noi consideriamo la credibilità e il rigore che Monti ha mostrato davanti al mondo un punto di non ritorno. Ma vogliamo metterci dentro più lavoro, più uguaglianza, più diritti. Questo è quello che vogliamo. E non è per noi in nessun modo in discussione quell’asse europeista e di collocazione internazionale che tutto il mondo ha visto nei governi Prodi, D’Alema, Amato e nell’azione di Ciampi, di Visco, di Padoa Schioppa. Quella è la nostra fondamentale ispirazione, il grande asse di una politica dentro al quale aggiorneremo, nella nuova situazione, le nostre proposte e la nostra iniziativa.

Parole chiare, le nostre, e impegni seri. E idee nuove, nella nuova condizione dell’Europa e del nostro Paese.
Noi vediamo la sofferenza degli italiani. Chi dice che siamo fuori dalla crisi è un irresponsabile, non sa quel che dice. La sofferenza degli italiani è grande. La vediamo. Vediamo come si spenga la speranza di lavoro dei giovani, vediamo la condizione di chi il lavoro lo perde o teme di perderlo. Vediamo l’ansia di artigiani, commercianti, imprenditori che sentono sfumare o sentono a rischio gli sforzi di una vita. Vediamo pensioni e salari di milioni di persone che si assottigliano e non bastano, davanti a prezzi che salgono, a bisogni familiari che crescono mentre la rete sociale perde colpi, i comuni sono indeboliti e le disabilità e le povertà estreme perdono aiuto. Non bastasse, a tutto questo si aggiungono scelte sbagliate che mettono in difficoltà e a volte nel dramma persone e famiglie, come quelle che si vedono oggi catalogate nella nuova categoria degli esodati, una categoria piena di incredibili ingiustizie che vanno assolutamente sanate. Al Sud gli antichi mali si aggravano, al Nord arrivano problemi che non si erano mai visti. E tuttavia restano ovunque privilegi, ci sono ricchezze che ogni giorno fuggono, rifiutando la solidarietà. Ricchezze che fuggono, povertà che restano. La grande criminalità può crescere in silenzio, nuotando come pesce nell’acqua della lunga crisi. C’è troppa solitudine, c’è troppo silenzio attorno ai bisogni. Quelli che pagano di più la crisi non sono protagonisti: diventano una cifra per la ragioneria dello Stato o per l’Istat. E la loro impressione è che tutto il resto non cambi, che chi è al riparo non venga scomodato, non solo nelle sue condizioni ma perfino nelle sue comode abitudini. Come stupirsi allora dell’estendersi del disamore, della sfiducia, della rabbia verso tutto e verso tutti? E come sempre succede, con il disamore di chi ha ragione di protestare si confonde il frastuono di chi grida per difendere il suo privilegio, di chi non vuole dare un capello per alleggerire le condizioni di tutti. E grida, e grida perché la miglior difesa è l’attacco! Tutto questo lo vediamo ma non c’è solo questo. Vediamo anche le enormi vitalità, vediamo le risorse morali ed economiche del paese, vediamo l’onestà e il civismo, vediamo anche nella crisi la forza buona della creatività e del saper fare italiano che difende il suo posto nel mondo. Sono energie che hanno bisogno di uno spiraglio di fiducia, di reazione, di riscossa. È questo il punto di leva per ripartire! L’Italia ce la farà! È questa la nostra convinzione. L’Italia avrà il suo posto nel mondo nuovo e darà un futuro alle nuove generazioni.
Con questa certezza noi, con tutti i progressisti italiani alziamo la bandiera della ricostruzione e del cambiamento, alziamo la bandiera di una riscossa italiana.

A Reggio Emilia prendiamo il nostro impegno, da Reggio Emilia lanciamo la nostra sfida. Fin qui, dentro a questo rapporto di forze, si è vista chiara comunque la nostra responsabilità. Con il nuovo rapporto di forze che chiederemo, con la maggioranza al partito democratico e a un centro sinistra di governo si vedrà il cambiamento. Il cambiamento, a cominciare dalla politica, dalle istituzioni, dai diritti, dalla nostra democrazia. È difficile cambiare finché i numeri ce li hanno quelli che non vogliono cambiare. A cominciare dalla questione cruciale della sobrietà della politica. Si dica finalmente la verità. Quel che si è fatto fin qui, dall’abolizione dei vitalizi al dimezzamento del finanziamento ai partiti, lo si è fatto su proposta e iniziativa nostra. Quel che non si è potuto fare e si dovrà fare, a cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari, non lo si è fatto perché gli altri hanno ribaltato il tavolo. Questa è la verità. E non accettiamo più, ad esempio, che parlando di legge elettorale si dica: la politica non riesce a cambiare. Non esiste “la politica”! Esistono le forze politiche, e ce n’è una, la nostra, che ha consegnato nel tempo la sua proposta e che ha reso trasparenti anche i punti di un possibile compromesso. I paletti che abbiamo messo a quel compromesso non riguardano i nostri interessi. Riguardano l’Italia. Che la sera delle elezioni si sappia chi può governare, interessa o no l’Italia? E che un cittadino possa aver voce nel scegliere il suo parlamentare, riguarda o no l’Italia? E che si affermi la parità di genere, o che non si possano inventare dalla sera alla mattina dei finti gruppi parlamentari, interessa o no l’Italia? Non si dica dunque: la politica! Non si metta tutti nel mucchio. E si riconosca finalmente, anche per il futuro, che la garanzia per le riforme può venire solo dalla presenza di una maggioranza riformatrice, univoca e determinata. E’ questo che ci manca! Noi chiederemo quella maggioranza agli italiani e ci impegneremo al cambiamento. Le cose da fare le sappiamo. Non c’è ragione, ad esempio, che non ci sia una rigorosa legge sui partiti. Non c’è ragione che un parlamentare o un consigliere regionale guadagnino più di un sindaco; e a partire di li non c’è ragione che in tutti i campi non ci sia un limite a retribuzioni o compensi scandalosi; e ancora, non c’è ragione che con un gioco da ragazzi si manovrino prezzi che impoveriscono le tasche di milioni di cittadini; altrettanto non c’è ragione che vengano ancora negati ai cittadini diritti basici, tradendo il terzo articolo della nostra Costituzione; che si neghino diritti a persone con disabilità, che si neghi agli omosessuali italiani il diritto all’unione civile o ad una legge contro l’omofobia, che si neghi alle donne una democrazia paritaria, che si lascino le donne nell’universo di stereotipi antichi, nella prigione di pratiche discriminatorie o perfino in balia della violenza domestica. E non c’è ragione che vengano negati nei luoghi di lavoro diritti di partecipazione e diritti sindacali. Non c’è ragione di tutto questo e di altro ancora. E su tutto questo l’esigenza di rispondere ad un appuntamento di sistema. Da decenni l’Italia è bloccata dall’impossibilità di produrre un ammodernamento della sua democrazia, e cioè una riforma vera e organica della seconda parte della Costituzione. Una riforma sempre promessa e sempre finita in un vicolo cieco. Governo, parlamento, autonomie e federalismo, regole di base nuove per la pubblica amministrazione. Un grande progetto di cambiamento su cui abbiamo le nostre idee per una nuova fase di vita della Repubblica che si tenga saldamente nei valori fondamentali della nostra Costituzione. Dopo tante disillusioni sappiamo bene che non basterà dire: la facciamo, una vera riforma delle istituzioni. Gli italiani di impegni generici ne hanno sentiti già troppi. Dovremo dire come la facciamo! Io dico che in coerenza con la proposta di una fase costituente europea, la nostra prossima Legislatura dovrà essere davvero costituente ed esordire allestendo uno strumento, a base parlamentare, che abbia il compito di redigere una riforma della seconda parte della Costituzione; uno strumento che, questa volta, garantisca per forza di norma la certezza dell’esito. Ecco allora, amici e compagni: noi cominceremo da lì, dalla democrazia e dal civismo, perché senza democrazia e civismo nuovi non potrà esserci risposta economica e sociale. E cominceremo da cose che si capiscano. Se tocca a me si comincia dal primo giorno col chiamare italiani i figli di immigrati che studiano qui e che oggi non sono né immigrati né italiani; si comincia (se non ce lo fanno risolvere adesso come fermamente vogliamo) rendendo ineleggibili corrotti e corruttori e andandogli a prendere il maltolto, come per i mafiosi e introducendo e rafforzando il falso in bilancio; si comincia non accettando più che la Fiat o l’ENI possano prendere miliardi di finanziamenti dalle banche senza andare dal notaio mentre una famiglia che si fa il mutuo per la casa deve lasciare dal notaio qualche migliaio di euro, e si comincia decidendo che ogni euro ricavato dall’evasione fiscale andrà al lavoro, all’impresa che investe, al welfare. E così via, con cose che si capiscano e che parlino finalmente di un’Italia diversa, di un’Italia che cambia. Un cambiamento per la democrazia, dunque, e un cambiamento per l’economia e la società.

Non ci potrà essere riconciliazione fra società e democrazia, se non ci sarà lavoro, lavoro vero e dignitoso, lavoro che non sia devastato dalla precarietà, lavoro che abbia voce, che abbia il diritto di esprimersi e di partecipare. Così ci disse il Cardinal Martini poco prima di andarsene dalla diocesi di Milano. Il lavoro di tutti, in particolare dei giovani e delle donne. Noi oggi, in questa crisi gravissima, difendiamo il lavoro e difendiamo i presidi produttivi minacciati. Da Reggio Emilia la nostra solidarietà e il nostro sostegno a tutti coloro che difendono il loro lavoro e a tutti gli imprenditori che si impegnano a far vivere la loro impresa. Noi saremo con l’impresa che dà lavoro, che investe, che accetta la sfida. Industria, agricoltura, artigianato, servizi, pubblica amministrazione: investire, recuperare innovazione e produttività, creare lavoro: questo è l’impegno. Fermare la recessione, allargare la base produttiva: questa è la sfida. Ogni nostra proposta ha e avrà una logica: l’Italia faccia l’Italia e porti nel mondo nuovo il suo antico saper fare, il suo gusto e la sua inventiva, la sua flessibilità; l’Italia porti tutto questo sulle frontiere di oggi: le tecnologie, l’agenda digitale, la qualità, l’efficienza energetica, l’ambiente, il territorio, la produzione culturale. Useremo in ogni campo le leve delle politiche industriali e della ricerca che sono abbandonate da anni. Proporremo alle forze economiche e sociali patti concreti, esigibili, verificabili, fuori da ogni inutile rito. Cambieremo l’agenda del paese portando l’attenzione sulle condizioni concrete di vita e di lavoro degli italiani. Le risorse ci verranno dal controllo della spesa corrente, sì; dallo smobilizzo di patrimoni pubblici, sì; dai margini che dovranno venire da un diverso costo del debito e dalla sua riduzione, sì; ma in particolare dovranno venire da una chiara e più coraggiosa politica fiscale che sposti il carico sull’evasione, sulle rendite e sulle maggiori ricchezze a favore del lavoro, degli investimenti che generano lavoro, a favore della fondamentale rete sociale e dei consumi della parte più debole della popolazione e di un ceto medio che la destra ha impoverito. Chiederemo aiuto e protagonismo agli enti locali, che per noi, l’ho detto mille volte, non sono la malattia ma parte della possibile medicina e che dovranno essere messi in condizione di produrre gli essenziali presidi sociali e una politica di investimenti diffusa. La nostra idea fondamentale è questa: produrre oggi più uguaglianza significa produrre una ricetta economica. Con le cure della destra, noi stiamo diventando uno dei paesi più diseguali al mondo! Una forbice di redditi e di condizioni troppo ampia soffoca l’economia e distrugge lavoro. Una migliore distribuzione la puoi fare certamente col fisco, ma la fai prima di tutto garantendo una base di servizi universalistici: la scuola, la sanità, le prestazioni sociali di base, la sicurezza, la giustizia. Pensiamo forse di darci un futuro nel mondo nuovo accettando in tante aree del paese una paurosa dispersione scolastica e, ovunque una riduzione e una selezione per censo delle iscrizioni all’università? O pensiamo che sia un risparmio fare a poco a poco una sanità per i ricchi e una per i poveri? O pensiamo che ci possa essere crescita con una giustizia che non è in grado di funzionare per il cittadino comune e per le imprese? Sappiamo bene che dobbiamo garantire la sostenibilità economica di questi grandi servizi. Non lo spieghino a noi, per favore! Ma il nostro modo di fare le riforme non è il loro; in questi lunghi anni si sono chiamate riforme delle vere picconate al welfare. Dunque, nelle disuguaglianze e nei divari inaccettabili del nostro paese c’è anche la traccia per una via d’uscita. Quale vantaggio ha portato al nord in questi anni aver cancellato dal vocabolario e dalle politiche la parola mezzogiorno? Quale vantaggio? L’Italia tutta, a cominciare dal nord, è sempre cresciuta in Europa quando il divario diminuiva. Adesso il divario aumenta e questo in realtà è lo spread reale più preoccupante per il nostro destino europeo. A Lamezia Terme, a fine mese, avanzeremo proposte nuove per il sud e per l’Italia e dimostreremo lì che non è solo questione di soldi (soldi che comunque non sarà più possibile rapinare per pagare le multe degli evasori delle quote latte!). Dimostreremo che le riforme che fanno bene all’Italia fanno bene anche al sud; e che sono i principi di civismo, di cittadinanza, e di legalità le risorse per una riscossa nazionale. Lo diremo due anni dopo l’uccisione di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore, ribadendo la nostra vicinanza con tutti quelli che sono sul fronte più esposto della criminalità e delle mafie: amministratori, magistrati, imprenditori, cittadini comuni. E parleremo da li della sponda mediterranea dell’Europa, che l’Europa dimentica. Di qua noi, di là un mondo che affronta incredibili novità; in mezzo un mare silenzioso che nasconde migliaia di morti: uomini, donne, bambini annegati cercando la vita, anche in questi giorni. Spesso lo abbiamo sentito ma non sempre abbiamo ascoltato davvero quello che ci cantava Lucio Dalla. Ci cantava: “Gli angeli sono gli uomini più poveri e più soli, quelli presi tra le reti”. Quelli presi tra le reti. Cancelliamo dunque questa vergogna, lanciamo un ponte di collaborazione economica, culturale, democratica. Facciamo del sud la cerniera di un’Europa che cerchi anche al sud il suo futuro. E non accettiamo più la strage di chi cerca la libertà e l’abbandono di chi cerca rifugio. Come in Siria. Si imponga una tregua alle armi, si aprano corridoi umanitari, si assistano i rifugiati, se ne vada il dittatore. Milioni e milioni di persone in tutto il mediterraneo del sud, in tutto il Medio Oriente aspettano una voce più forte dell’Europa e dell’Italia perché in quel paese la strage sia fermata. Facciamo anche noi sentire da qui la nostra voce di sdegno e di solidarietà.

Cari amici e compagni,
sulla base di tutto quello che ho detto fin qui, il nostro appello largo e generoso si rivolge a tutte le forze politiche e civiche del grande campo progressista che siano disposte a prendersi le loro responsabilità davanti alla sfida più difficile. Ancora mesi duri davanti a noi; grandi difficoltà sociali, rischi ulteriori di distacco e di spaesamento; e mesi tuttavia che preparano un appuntamento elettorale decisivo; mesi nei quali coloro che non ci vogliono non si risparmieranno nulla, non lasceranno nulla di intentato. Questo dobbiamo saperlo. Ci prenderemo un impegno per il governo del Paese, un impegno che questa volta non potrà tollerare nè incertezze nè ambiguità nè divisioni. La nostra Carta di Intenti, che vi invito a leggere e a far leggere, propone patti chiari ed esigibili davanti ai cittadini e solleva con forza una parola: responsabilità. Il nostro percorso sarà un percorso aperto e democratico. Noi costruiremo la governabilità a partire dalla partecipazione attiva e vera dei cittadini. È questo il senso della nostra proposta di riforma della politica. E’ questo anche il senso delle primarie dei progressisti. Dal primo giorno ho detto: se toccherà a me non metterò mai il mio nome sul simbolo. Dal primo giorno abbiamo detto: la trasparenza e le regole democratiche di ogni singola forza politica sono un patrimonio di tutti, che deve essere esigibile da tutti. Adesso già in due o tre, lo vedete, si tolgono dal simbolo. Adesso qualcuno si accorge che la sacrosanta libertà della rete può ospitare meccanismi di condizionamento e di controllo e che la democrazia è indivisibile e non consente distinzioni fra l’universo materiale e quello immateriale. No, basta! I modelli personalistici, plebiscitari e populisti l’Italia li ha già pagati abbastanza e non deve pagarli di più! Sono modelli per cui qualcuno suona il piffero (mediamente un miliardario) e il popolo è a seguire. O modelli nuovi in cui qualcuno comanda stando in un tabernacolo e non rispondendo a nessuno. Modelli in cui non c’è più nè destra nè sinistra, in cui non c’è più la critica ma c’è lo sputo, c’è la pretesa di aver il monopolio della morale, c’è la domanda aggressiva ma non c’è mai la risposta seria, vera e concreta. A proposito di chi è nuovo e di chi non lo è, provino a fare come noi: si mettano in gioco con una partecipazione vera, a viso aperto e a faccia a faccia con cittadini veri. E discutano finalmente di Italia con gli italiani in carne ed ossa. Questo saranno le nostre primarie per la scelta del candidato dei progressisti alla guida del governo. Si discuterà di Italia non di noi. Per discutere di noi ci sarà l’anno prossimo un libero congresso. Per discutere dei parlamentari del PD ci saranno forme vere di partecipazione. Non ci sono qui, adesso, bilance, bilancini o tribunali da allestire. Qui si parla di Italia e di come portarla fuori dalle più gravi difficoltà da sessant’anni a questa parte. Di questo si discuterà stringendo un patto non ambiguo con le forze politiche progressiste disposte a costruire un centrosinistra di governo. Le stiamo incontrando in questi giorni. E si discuterà come abbiamo già largamente cominciato a fare con tutte quelle formazioni sociali, civiche, culturali che vorranno darci in piena autonomia il loro contributo davanti ad una politica, la nostra, che rivendica il suo ruolo, assume le sue responsabilità ma riconosce il suo limite. E vogliamo che il grande campo progressista si rivolga in modo aperto a tutte le forze moderate, costituzionali ed europeiste disposte a mettere un argine alle destre e alle tendenze regressive e populiste che minacciano l’Europa e l’Italia, disposte ad impegnarsi per la ricostruzione del Paese e per il rilancio del progetto europeo.
Ecco allora, Democratiche e Democratici, l’orgoglio e la forza del nostro Partito. La grande stagione dell’Ulivo di Romano Prodi sollevò con le primarie la canzone popolare e annunciò il Partito Democratico. Dal Lingotto ad oggi, in quattro anni la scommessa del Partito Democratico è stata vinta. Tanto, tanto ancora dobbiamo migliorare, tanto ancora dobbiamo crescere. Ma siamo il primo partito del paese, un partito di governo in moltissimi luoghi d’Italia dopo le vittorie amministrative. Il Pd è la speranza di questo paese. Non la tradiremo a cominciare dal rispetto che noi stessi dobbiamo portare verso quello che siamo. Il nostro dibattito deve rafforzare questo rispetto, non indebolirlo. Riconoscendo tutto quello che dovrà migliorare, sta a noi tuttavia trasmettere l’orgoglio e la dignità di quello che siamo. A tentare di demolirci ci pensano gli altri! È il loro mestiere, non è il nostro. Il rinnovamento del nostro partito è una necessità e una straordinaria opportunità. Non è questo in discussione. In discussione sono i criteri, le logiche e i modi di questo rinnovamento. Nelle organizzazioni territoriali del Partito e nelle esperienze di governo locale si è largamente messa in campo e si è sperimentata una generazione nuova. Non abbiamo certo fatto peggio di altre forze politiche né delle imprese, delle banche, delle università o dei giornali di un’Italia che fatica a rinnovarsi. Sarebbe apprezzabile che chi ci fa la morale sul bisogno del nuovo non emettesse sentenze dall’alto della sua inamovibilità! Detto questo, noi siamo adesso in condizione di spingere avanti questo rinnovamento e di portarlo a nuove responsabilità nella politica, nelle istituzioni, e, come tutti vogliamo, nel governo del paese. Chiederò l’impegno e la generosità di tutti perché il processo cammini e io stesso mi faccio garante che dal prossimo anno le responsabilità verranno messe via via e ampiamente sulle spalle della nuova generazione. Siatene certi, questo avverrà. Rinnovare è un fatto generazionale e un fatto di genere, ovviamente, che va tuttavia collegato, altrettanto ovviamente, a criteri di qualità e di merito. Qualità e merito non li stabilisce il Segretario; nemmeno tuttavia li certifica il primo che passa per strada. Qualità e merito li misuri in esperienze vere, là dove sei, esperienze nelle quali si siano potute riconoscere capacità, competenza e generosità verso l’interesse collettivo. Questa è la politica, questa è la politica che propone il Pd a chi vuole impegnarsi; questo è quello che stiamo proponendo a duemila giovani del sud in formazione da mesi. Questo è quello che stiamo proponendo all’organizzazione dei Giovani Democratici che sono qui con noi e che saluto. Generosità vuol dire una cosa semplice. Prima c’è l’Italia, poi c’è il Pd e il suo progetto per l’Italia poi ci sono le ambizioni personali. Questo vale per tutti, a cominciare dal Segretario, che anche per questo non ha voluto mettere se stesso al riparo di una regola. E con la stessa determinazione ripeto quel che ho già detto: la ruota girerà ma nel rispetto di tutti, di tutti quelli che ci hanno portati fin qui, di quelli che hanno avuto la forza di portarci in Europa e di immaginare e costruire quel nuovo partito dei riformisti che noi siamo oggi. I principi che ho richiamato e che riguardano il senso stesso della politica devono accomunarci tutti; tutti, comunque la pensiamo, se vogliamo che chi è lontano dalla politica o addirittura la disprezza abbia almeno il sospetto, il dubbio che una politica seria ed onesta possa esserci e che il Pd possa essere il barlume di speranza di quella politica.

Dunque, da Reggio Emilia un messaggio di forza, di responsabilità, di unità del Partito Democratico; un messaggio di coraggio di un partito che si mette in gioco perché si riduca l’inimicizia fra politica e società; una richiesta di fiducia verso un partito che ha in testa una cosa sola: dare una mano all’Italia. Ma da Reggio Emilia anche un richiamo fermo e forte alla responsabilità e all’unità del Partito Democratico; un richiamo che sono certo voi condividete; perché tutti, ma proprio tutti dobbiamo avere cura del bene comune che è il PD, della speranza per l’Italia che è il PD.

Care Democratiche, cari Democratici,
Cari amici e compagni,
via dunque le incertezze, via le titubanze, via i timori su questo o quel passaggio che ci sta davanti. Da domani si parte. Noi non abbiamo paura. Di che cosa mai dovremmo avere paura? Siamo molto più forti di quello che pensiamo noi stessi! Sappiamo quello che vogliamo. E per quello che è ancora incerto, per quello che non vediamo ancora chiaro del futuro, noi la bussola l’abbiamo! Quegli stessi valori a cui, prima di noi, in tanti hanno dato forza, quegli stessi valori ci aiuteranno, ci guideranno. Perché c’è chi ha saputo trovare e dare fiducia, speranze, certezze in tempi ben più drammatici di quelli che viviamo noi.
Dopo tanti decenni in noi suonano ancora le parole semplici e contadine di un grandissimo reggiano, Alcide Cervi che ebbe la forza di dire davanti ai figli morti “dopo un raccolto ne viene un altro, andiamo avanti, andiamo avanti”.

Andiamo avanti, per la ricostruzione, per il cambiamento, per la riscossa dell’Italia.

Viva il Partito Democratico. Viva l’Italia.

Bersani: "La sfida per il Paese"

Bersani chiude la Festa Democratica nazionale a Reggio Emilia
Care Democratiche e cari Democratici,
eccoci qui. Siamo tanti qui e siamo stati tanti, tantissimi, nelle oltre duemila feste che abbiamo organizzato ovunque. Siamo un partito capace di rimboccarci le maniche. Siamo un partito popolare. Siamo un partito libero, senza padroni. Abbiamo radici in ogni luogo del paese e vogliamo bene alle nostre comunità, ciascuno di noi alla sua. Ma tutti assieme vogliamo bene all’Italia. Le vogliamo bene e tuttavia non ci piace ancora abbastanza. Ci piacerà davvero solo quando sarà garantito il diritto di ognuno di studiare, di lavorare, di aver soccorso nel bisogno, senza discriminazioni e senza mai dover mendicare un diritto con il cappello in mano. E neppure il mondo così come è, ci piace abbastanza. Per la violenza che lo agita, per le guerre e il sangue sparso fino alle porte di casa nostra. La pace può venire solo dalla libertà. Noi siamo amici di ogni donna e di ogni uomo che nel mondo ha la forza di alzarsi in piedi e battersi per la sua libertà e per la sua dignità. Così siamo noi. E sono questi valori che ci fanno più forti delle nostre debolezze. Questi valori sono le radici, i rami e le foglie della nostra pianta. Sono la strada che abbiamo fatto e quella che abbiamo davanti. Questi valori fanno sentire nostra una storia di emancipazione, di progresso, di democrazia, lunga più di un secolo e ci consegnano il compito di essere il partito riformista del secolo nuovo.
Diciamo questo a Reggio Emilia, città simbolo della nobiltà della politica, nel cuore stesso della tradizione nazionale, democratica, e progressista italiana. Città del tricolore, come tutti sappiamo. Ma, aggiungo, città del Gonfalone e del tricolore, della autonomia e dell’unità della nazione. Città della Resistenza, delle battaglie partigiane, città di costituenti: Nilde Iotti, Giuseppe Dossetti. Città del lavoro, della lotta per l’emancipazione delle terre, per la dignità del mondo operaio, per lo sviluppo armonico di uno straordinario sistema di imprese.
E Reggio Emilia, città di oggi, che ancora ci stupisce per come economia e società riescano a darsi la mano sulle frontiere del futuro: l’educazione dell’infanzia, l’integrazione dei nuovi italiani.
Grazie dunque, Reggio Emilia. Grazie al tuo Sindaco, agli amministratori di tutta la provincia, grazie allo straordinario partito di Reggio Emilia, alla federazione del PD e a tutti i circoli che si sono impegnati in questa festa. E grazie ancora una volta ai volontari che con uno sforzo immenso hanno saputo ripetere il miracolo e ci hanno regalato il più grande appuntamento di popolo che si svolga in Italia. Grazie ai volontari di tutte le nostre feste, piccole e grandi. Un ricordo commosso per Gabrio Maraldi, grande e amatissimo amministratore del Comune di Ravenna, morto sulla festa, alla fine del suo impegno di volontario nelle cucine. E un abbraccio ai suoi amici e compagni di una vita che, asciugate le lacrime, hanno voluto continuare il lavoro.
Molti non lo sanno, ma poco lontano da qui, nei paesi del terremoto, si sono comunque tenute alcune feste del partito democratico. Una cosa incredibile e commovente. Così come incredibile e commovente, dentro l’impegno di tutti e che va riconosciuto a tutti nella tragedia del terremoto, è stato l’impegno, lasciatemelo dire, dei nostri militanti, delle nostre organizzazioni di partito, dei nostri amministratori di comuni, province e regioni. Davanti ad un compito enorme: la drammatica emergenza, il primo riparo, le nuove scosse, la nuova emergenza, e quindi le verifiche di agibilità, gli interventi di messa in sicurezza, i ripristini; e normative nazionali e regionali da allestire, i criteri delle operazioni da avviare, le regole per le gare, per le verifiche, per tener fuori la mafia; reti istituzionali da attrezzare e da ricomporre a cominciare dai comuni. Stiamo parlando di quarantamila case, di tremila aziende per trentasemila lavoratori, di quattrocento scuole danneggiate per diciottomila studenti. Si è fatto un lavoro enorme e c’è ancora un lavoro enorme e molto lungo da fare; ci sono difficoltà, problemi, questioni non risolte. Le popolazioni soffrono ancora e devono sentire tutto il nostro affetto e la nostra solidarietà. Ma da ottobre nei comuni del terremoto si tornerà a scuola, tutti i bambini e le bambine, le ragazze e i ragazzi torneranno a scuola. Si è partiti da lì, dalla scuola. Non è questo il più grande segno di fiducia?
L’Emilia colpita risorgerà, risorgerà come era prima. Qui non ci saranno new town. Torneranno abitabili le case, si ricostruiranno le scuole, le fabbriche e i laboratori torneranno a produrre, i centri storici risorgeranno. E lo faremo con rigore, con serietà. Sarà un lavoro fatto in casa, come usa qui, senza poteri esterni o lontani, ma nella trasparenza, nella partecipazione, con i poteri democratici locali al comando. Faremo vedere ancora una volta che l’efficienza è figlia di una buona democrazia!
Care Democratiche e Democratici, Cari amici e compagni,
tutta la grande area dei democratici e progressisti italiani, fatta di tante teste ma di un solo cuore, è di fronte oggi ad una scelta dirimente, ad una scelta storica. Il passaggio che abbiamo davanti è un passaggio d’epoca per l’Europa e per l’Italia. È tempo di uno sguardo largo e profondo sulle cose. C’è un grande cambiamento in corso e questo cambiamento si accompagna per l’Italia alla fase più difficile della storia repubblicana. Per la prima volta il Paese vive un processo di impoverimento, mentre la democrazia repubblicana soffre di un indebolimento pericoloso. Ecco allora la semplice e drammatica domanda. Siamo pronti noi, Partito Democratico e noi democratici e progressisti italiani, con i nostri valori di uguaglianza, di civismo, di libertà; siamo pronti a prenderci la responsabilità di governare l’Italia nel suo momento più difficile? È questo che vogliamo, con convinzione, proporre agli italiani? O invece vogliamo sottrarci, vogliamo scansare? O invece ci spaventa scalare la montagna? Ve lo dico col cuore: chiariamo bene questo prima di metterci in marcia. È una domanda vera, quella che faccio. Ci sono mille modi, anche dal lato delle culture democratiche, per sfuggire a questa responsabilità. Li conosciamo. Sono i modi dell’ambiguità e degli eterni distinguo, della divagazione, della testimonianza purista che non conosce mediazione, o sono i modi di quel massimalismo che salva la coscienza e allontana il calice amaro delle responsabilità e dei doveri. Io dico che se i riformisti italiani si sottraessero oggi all’appuntamento più difficile non avrebbero diritto ad averne altri.
Dunque, diremo al Paese che vogliamo prenderci le nostre responsabilità. Diremo al Paese che conosciamo il nostro compito: farlo uscire da un destino di arretramento e farlo uscire con meno disuguaglianza, con più lavoro e con una democrazia funzionante e pulita. E diremo al Paese che non sarà il compito di un giorno, che ci vorrà una riscossa collettiva che vada oltre la politica, e che non ci tremerà il polso davanti alle difficoltà e ai problemi. Rimetteremo in cammino la fiducia, rimetteremo in cammino una idea di futuro senza sbandierare favole o miracoli e mettendoci invece a muso duro contro gli imbonitori, i venditori di fumo che porterebbero il Paese alla catastrofe.
Sarà un confronto aspro e incerto, quello dei prossimi mesi. Per tagliare la strada ai riformisti si muoveranno forze antiche e nuove o travestite “di nuovo”, che si stanno già muovendo, in realtà. L’atmosfera potrà farsi pesante, le acque si faranno torbide. Ne abbiamo chiari segni, addirittura attorno al presidio più alto di tenuta delle istituzioni. Attorno al Presidente della Repubblica. Attorno ad una istituzione cruciale per l’equilibrio del sistema ed attorno ad un uomo integro, attorno a Giorgio Napolitano, che saluto da qui con tutta la nostra gratitudine, la nostra stima, il nostro affetto.
Non passeranno. State certi che non passeranno. Ma ci vorranno tenuta, convinzione, grinta. E ci vorrà un’idea forte di cambiamento. Noi ci metteremo dal lato del cambiamento. Dal lato del cambiamento, ma con tutti e due i piedi nei valori della nostra Costituzione, la più bella del mondo. Noi porteremo l’Italia all’incontro con le forze migliori del progressismo europeo e metteremo le nostre idee nella piattaforma comune dei progressisti europei. Non c’è destino fuori dall’Europa ma l’Europa così non va. È dall’Europa che comincia la battaglia di cambiamento. E’ questo che ci ha detto il Presidente Napolitano in un grande discorso due giorni fa.
Care Democratiche e cari Democratici,
io credo che agli storici di domani basteranno poche righe per riassumere il senso delle convulse cronache europee, il senso di quel che è avvenuto in Europa dagli anni 90 in poi. Quelle righe diranno di un modello sociale europeo, scosso violentemente dalla globalizzazione di fine millennio. Diranno del ripiegamento politico e culturale e della reazione di chiusura che da sempre accompagnano i fenomeni di globalizzazione. Diranno di una destra politica e di insorgenze populiste che nel primo decennio del secolo hanno interpretato quel ripiegamento, vincendo ovunque; forze che si sono inchinate, in economia, ai mercati finanziari internazionali ed al tempo stesso hanno accumulato consenso smerciando egoismo, illusorie barriere nazionali, territoriali, corporative e perfino nuovi razzismi. E quelle poche righe di storia diranno purtroppo di forze democratiche e di tradizioni progressiste ferme sulle gambe, scosse, indebolite, prese nel mezzo fra nobile conservazione e subalternità a ricette di altri. Così siamo arrivati all’oggi: è stata quella regressione, che ha preso spinta dall’euro in avanti a partorire “il pasticcio del decennio europeo” come lo ha chiamato Amartya Sen. Il decennio delle destre e dei populismi, un decennio che ancora non è spento, che vive ancora. E’ stata quella regressione che ha reso impotente l’Europa davanti all’esplosione della crisi finanziaria e che ancora oggi la fa balbettare. Un continente che balbetta. Un continente che è ancora la più grande piattaforma economica del mondo. Un continente protagonista della civilizzazione del mondo; un continente che ha mostrato al mondo come si cancellano le guerre dalla storia, e che ha mostrato al mondo come si può trovare un buon equilibrio fra economia e società, quel continente oggi diventa un problema per il mondo. Perché? Perché dopo quegli anni, davanti alla crisi, si è trovato orfano della sua vera anima: la grande idea di un destino comune, la solidarietà, la generosità di un progetto comune, di un orizzonte da guardare assieme con gli occhi dei cittadini europei, delle opinioni pubbliche europee e non solo delle burocrazie europee. I vertici, le riunioni, le dichiarazioni autorevoli e ambigue non sono bastate e non bastano a colmare quel vuoto profondo. E non porta nulla litigare sulle ragioni e sui torti. Non è forse vero che i paesi oggi più in difficoltà hanno perso l’occasione dell’euro per ridurre il peso dei debiti e fare riforme? È vero. E questo da noi ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi e compagnia. E non è forse vero d’altro lato, che la Germania, certo avendo fatto le riforme, ha comunque guadagnato più di ogni altro paese dall’euro? Anche questo è vero. E non è forse vero che alla lunga nessuno si salva da solo, nel mondo grande e nuovo. Nemmeno i paesi più forti? È vero ma non basta più spiegare quel che è vero. Se si spegne la luce del destino comune, si diventa tutti ciechi, si perde la strada e ognuno pensa che al buio quello più debole di lui gli frugherà nelle tasche, gli ruberà qualcosa. Bisogna dunque accendere la luce di una prospettiva nuova, fermare la deriva, invertire la strada. È questo il compito culturale e politico dei progressisti europei. E non è una utopia per il semplice fatto che l’alternativa è il disastro. Per noi il sogno di Spinelli non è morto. Noi lavoriamo per gli Stati Uniti d’Europa.
È questo il messaggio che in queste settimane porteremo all’incontro con i leader progressisti europei continuando il lavoro che abbiamo cominciato assieme. Noi Progressisti Europei dobbiamo dire a piena voce quello che vogliamo, dire quale è il primo passo sulla nuova strada e dire anche dove deve portare la nuova strada. Il primo passo è rompere la spirale fra austerità e recessione. Dentro a quella spirale la crisi economica e finanziaria si aggrava, il distacco cresce, la democrazia si ammala. Il debito non è la causa della crisi ma in buona misura ne è una conseguenza. Nessun paese sottoposto a cure massacranti può davvero migliorare i conti. Il rigore è una condizione assolutamente necessaria, ma non è l’obiettivo. L’obiettivo è un’economia reale che cammini. In altre parole l’obiettivo è il lavoro. Su questo le proposte concrete dei progressisti ci sono, proposte che allentano quella spirale e allo stesso tempo rafforzano il patto comune fino a portarlo ad una vera unione economica e fiscale.
Proposte di corresponsabilità nelle politiche di bilancio e nel governo degli spread, proposte per promuovere investimenti, interventi per la regolazione della finanza, che deve pagare un po’ di quel che ha provocato, non deve più avere licenza di uccidere, deve mettersi a servizio e non a comando delle attività economiche e produttive. Ma allora, lungo la strada del rafforzamento del patto comune c’è un appuntamento che non si può più evitare e che riguarda la democrazia europea. Una ridefinizione della sovranità e della rappresentanza a cominciare dai paesi dell’euro. La questione non è cedere sovranità. Di quale sovranità parliamo? Non ce la stanno forse prendendo i mercati, la sovranità? Altroché “padroni in casa propria” come continua a dire Tremonti. Padroni di che? La questione è come riprenderci effettiva sovranità diventando di più cittadini europei e portando la democrazia ad una dimensione nella quale sia davvero possibile controllare i grandi fenomeni del nostro tempo. E allora noi proporremo che a compimento degli interventi contro la crisi e dell’impostazione del nuovo patto fiscale, all’appuntamento del prossimo Parlamento europeo, si lanci una fase costituente, una Convenzione per un nuovo Trattato che rafforzi il processo unitario europeo e il suo assetto democratico. I progressisti europei e il nuovo governo italiano dovranno farsi protagonisti di questa iniziativa e cioè di un rilancio coraggioso e ineludibile della prospettiva europea e proporre un nuovo patto costituzionale fra le grandi famiglie politiche e i paesi europei; e su questo combattere davvero e non lasciare più, davanti alle opinioni pubbliche l’iniziativa a chi lavora a rovescio verso la disgregazione.
Questa grande prospettiva non ci esime dalle urgenze di oggi. Ci sono appuntamenti dirimenti in questo mese a livello europeo. Dopo l’esito di riunioni e di vertici politici difficili da interpretare, quasi fossero scritti sulle foglie della Sibilla Cumana, in questi giorni finalmente la BCE ha detto parole chiare. Ma altre parole chiare devono venire a cominciare dai Governi europei. Le incertezze ci sono ancora. Siamo di fronte davvero ad una fase di stabilizzazione, di alleggerimento del costo del debito e dei suoi rischi? O invece i mercati vorranno forzarci a chiedere un aiuto di cui non conosciamo le condizioni? E’ forse questo che si vuole? Né Monti né noi abbiamo mai posto la questione in termini di aiuto. L’abbiamo posta nei termini di una coerente difesa comune dell’Euro e senza mai rifiutare la disciplina di politiche rigorose e condivise. Non abbiamo dubbi che davanti a questi interrogativi cruciali il Governo vorrà promuovere e condividere una risposta nazionale, alla quale intendiamo contribuire tanto in Italia quanto nelle sedi politiche ed istituzionali europee.
Care Democratiche, Cari Democratici,
l’Italia di Berlusconi, di Bossi e di Tremonti, l’Italia della destra è stata una vera protagonista della disarticolazione dell’Europa. Una protagonista dell’euroscetticismo, del ripiegamento politico e mentale, della irresponsabile produzione di una cultura tutta domestica, secondo la quale ognuno fa il furbo a casa sua e tutti assieme, a Bruxelles, si sorride in una inutile foto di gruppo. La destra italiana ha picconato la prospettiva europea e ha messo in ginocchio il nostro paese. La destra ha portato l’Italia dove non doveva essere. Nel punto più esposto della crisi, sull’orlo del precipizio. Non dovevamo essere lì, non c’era ragione che fossimo lì. C’è una responsabilità storica del berlusconismo e del leghismo. E lasciatemelo dire: una responsabilità di tutti coloro che per anni si sono voltati dall’altra parte e hanno finto di prendere per buone le castronerie di imbonitori prepotenti e rozzi, e lo hanno fatto per opportunismo o per non pagare dazio, sperando che i buchi nella nave facessero bagnare solo la terza classe. Nei lunghi anni della destra tutto, ma proprio tutto, è peggiorato e si è aggravato. Sfregiato il nostro volto nel mondo, indeboliti l’economia e la società, il lavoro, l’impresa; pregiudicata la stabilità dei conti; corrosi nel profondo lo spirito civico, la credibilità delle istituzioni e della politica, il riconoscimento delle regole, il rispetto per il diverso, la dignità della donna, valori di solidarietà e di uguaglianza. E’ stata messa a rischio l’idea stessa di comunità nazionale e di unità del nostro Paese. La civiltà del confronto è stata deformata, facendo di una persona sola, del suo potere, dei suoi interessi, delle sue abitudini, il centro della discussione pubblica e della vita del Paese. Noi rivendichiamo il merito, che non è solo nostro, ma è in grande parte nostro, di aver fermato quella deriva ad un passo dal precipizio, mandandoli a casa. Abbiamo consentito e sostenuto una transizione verso un’altra prospettiva, e lo abbiamo fatto e lo facciamo caricandoci di una responsabilità non nostra, senza poter fare quello che vorremmo fare ma facendo invece quello che dobbiamo fare, in nome dell’Italia che è davanti ad un vero pericolo.
Il Governo Monti ci ha ridato dignità nel mondo e ci ha tenuti fuori dal baratro. Il Governo Monti lavora in condizioni molto difficili, con un Parlamento in cui il rapporto di forza è lo stesso di prima, e con le mani legate dal patto disperato che Berlusconi e Tremonti hanno dovuto stringere con l’Europa, nell’assenza di ogni credibilità politica e di ogni risultato di riforma.
Voglio dirlo qui, davanti a tutti voi. La nostra parola verso il governo Monti è stata, è e sarà: lealtà. Una parola che dice l’onestà del sostegno e dice anche della franchezza delle nostre idee e delle nostre posizioni, in quel che ci piace e non ci piace, in quel che faremmo o faremo diversamente.
Noi trucchi non ne facciamo, imboscate non ne facciamo, ricatti non ne facciamo. Siamo anzi a chiedere, con ogni forza, che Monti non ceda ai quotidiani ricatti altrui. Noi diciamo la nostra e diamo il nostro contributo fin dove i numeri ci consentono di arrivare. Noi diciamo da qui, all’Europa e al mondo, davanti a mesi cruciali, che garantiremo la stabilità del governo Monti. E tuttavia parliamo senza ambiguità della prospettiva delle elezioni, sempre naturalmente che Moody’s o Standard and Poors non ce le aboliscano sostituendole con una consultazione fra banchieri. E chiediamo: ma qualcuno pensa davvero che noi si possa stare dentro la moneta comune e fuori dalla comune democrazia europea? Pensiamo di essere figli di un Dio minore e di non poter fare ciò che tutti gli altri fanno e cioè di chiedere agli elettori di indicare partiti e maggioranze univoche e coerenti per governare? O pensiamo al contrario di essere figli di un Dio maggiore e di proporre anche agli altri le nostre eterne e fantasiose ricette eccezionali. No. Qui non si tratta di misurare il tasso di presenza tecnica in un governo. Non si tratta di questo. Qui si tratta di riconoscere o no le fondamenta basiche di una democrazia. Le elezioni, dunque. Tocca agli italiani, solo agli italiani e a tutti gli italiani decidere chi governerà. Noi siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità davanti all’Italia e al mondo. Con parole chiare. Noi consideriamo la credibilità e il rigore che Monti ha mostrato davanti al mondo un punto di non ritorno. Ma vogliamo metterci dentro più lavoro, più uguaglianza, più diritti. Questo è quello che vogliamo. E non è per noi in nessun modo in discussione quell’asse europeista e di collocazione internazionale che tutto il mondo ha visto nei governi Prodi, D’Alema, Amato e nell’azione di Ciampi, di Visco, di Padoa Schioppa. Quella è la nostra fondamentale ispirazione, il grande asse di una politica dentro al quale aggiorneremo, nella nuova situazione, le nostre proposte e la nostra iniziativa.
Parole chiare, le nostre, e impegni seri. E idee nuove, nella nuova condizione dell’Europa e del nostro Paese.
Noi vediamo la sofferenza degli italiani. Chi dice che siamo fuori dalla crisi è un irresponsabile, non sa quel che dice. La sofferenza degli italiani è grande. La vediamo. Vediamo come si spenga la speranza di lavoro dei giovani, vediamo la condizione di chi il lavoro lo perde o teme di perderlo. Vediamo l’ansia di artigiani, commercianti, imprenditori che sentono sfumare o sentono a rischio gli sforzi di una vita. Vediamo pensioni e salari di milioni di persone che si assottigliano e non bastano, davanti a prezzi che salgono, a bisogni familiari che crescono mentre la rete sociale perde colpi, i comuni sono indeboliti e le disabilità e le povertà estreme perdono aiuto. Non bastasse, a tutto questo si aggiungono scelte sbagliate che mettono in difficoltà e a volte nel dramma persone e famiglie, come quelle che si vedono oggi catalogate nella nuova categoria degli esodati, una categoria piena di incredibili ingiustizie che vanno assolutamente sanate. Al Sud gli antichi mali si aggravano, al Nord arrivano problemi che non si erano mai visti. E tuttavia restano ovunque privilegi, ci sono ricchezze che ogni giorno fuggono, rifiutando la solidarietà. Ricchezze che fuggono, povertà che restano. La grande criminalità può crescere in silenzio, nuotando come pesce nell’acqua della lunga crisi. C’è troppa solitudine, c’è troppo silenzio attorno ai bisogni. Quelli che pagano di più la crisi non sono protagonisti: diventano una cifra per la ragioneria dello Stato o per l’Istat. E la loro impressione è che tutto il resto non cambi, che chi è al riparo non venga scomodato, non solo nelle sue condizioni ma perfino nelle sue comode abitudini. Come stupirsi allora dell’estendersi del disamore, della sfiducia, della rabbia verso tutto e verso tutti? E come sempre succede, con il disamore di chi ha ragione di protestare si confonde il frastuono di chi grida per difendere il suo privilegio, di chi non vuole dare un capello per alleggerire le condizioni di tutti. E grida, e grida perché la miglior difesa è l’attacco! Tutto questo lo vediamo ma non c’è solo questo. Vediamo anche le enormi vitalità, vediamo le risorse morali ed economiche del paese, vediamo l’onestà e il civismo, vediamo anche nella crisi la forza buona della creatività e del saper fare italiano che difende il suo posto nel mondo. Sono energie che hanno bisogno di uno spiraglio di fiducia, di reazione, di riscossa. È questo il punto di leva per ripartire! L’Italia ce la farà! È questa la nostra convinzione. L’Italia avrà il suo posto nel mondo nuovo e darà un futuro alle nuove generazioni.
Con questa certezza noi, con tutti i progressisti italiani alziamo la bandiera della ricostruzione e del cambiamento, alziamo la bandiera di una riscossa italiana.
A Reggio Emilia prendiamo il nostro impegno, da Reggio Emilia lanciamo la nostra sfida. Fin qui, dentro a questo rapporto di forze, si è vista chiara comunque la nostra responsabilità. Con il nuovo rapporto di forze che chiederemo, con la maggioranza al partito democratico e a un centro sinistra di governo si vedrà il cambiamento. Il cambiamento, a cominciare dalla politica, dalle istituzioni, dai diritti, dalla nostra democrazia. È difficile cambiare finché i numeri ce li hanno quelli che non vogliono cambiare. A cominciare dalla questione cruciale della sobrietà della politica. Si dica finalmente la verità. Quel che si è fatto fin qui, dall’abolizione dei vitalizi al dimezzamento del finanziamento ai partiti, lo si è fatto su proposta e iniziativa nostra. Quel che non si è potuto fare e si dovrà fare, a cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari, non lo si è fatto perché gli altri hanno ribaltato il tavolo. Questa è la verità. E non accettiamo più, ad esempio, che parlando di legge elettorale si dica: la politica non riesce a cambiare. Non esiste “la politica”! Esistono le forze politiche, e ce n’è una, la nostra, che ha consegnato nel tempo la sua proposta e che ha reso trasparenti anche i punti di un possibile compromesso. I paletti che abbiamo messo a quel compromesso non riguardano i nostri interessi. Riguardano l’Italia. Che la sera delle elezioni si sappia chi può governare, interessa o no l’Italia? E che un cittadino possa aver voce nel scegliere il suo parlamentare, riguarda o no l’Italia? E che si affermi la parità di genere, o che non si possano inventare dalla sera alla mattina dei finti gruppi parlamentari, interessa o no l’Italia? Non si dica dunque: la politica! Non si metta tutti nel mucchio. E si riconosca finalmente, anche per il futuro, che la garanzia per le riforme può venire solo dalla presenza di una maggioranza riformatrice, univoca e determinata. E’ questo che ci manca! Noi chiederemo quella maggioranza agli italiani e ci impegneremo al cambiamento. Le cose da fare le sappiamo. Non c’è ragione, ad esempio, che non ci sia una rigorosa legge sui partiti. Non c’è ragione che un parlamentare o un consigliere regionale guadagnino più di un sindaco; e a partire di li non c’è ragione che in tutti i campi non ci sia un limite a retribuzioni o compensi scandalosi; e ancora, non c’è ragione che con un gioco da ragazzi si manovrino prezzi che impoveriscono le tasche di milioni di cittadini; altrettanto non c’è ragione che vengano ancora negati ai cittadini diritti basici, tradendo il terzo articolo della nostra Costituzione; che si neghino diritti a persone con disabilità, che si neghi agli omosessuali italiani il diritto all’unione civile o ad una legge contro l’omofobia, che si neghi alle donne una democrazia paritaria, che si lascino le donne nell’universo di stereotipi antichi, nella prigione di pratiche discriminatorie o perfino in balia della violenza domestica. E non c’è ragione che vengano negati nei luoghi di lavoro diritti di partecipazione e diritti sindacali. Non c’è ragione di tutto questo e di altro ancora. E su tutto questo l’esigenza di rispondere ad un appuntamento di sistema. Da decenni l’Italia è bloccata dall’impossibilità di produrre un ammodernamento della sua democrazia, e cioè una riforma vera e organica della seconda parte della Costituzione. Una riforma sempre promessa e sempre finita in un vicolo cieco. Governo, parlamento, autonomie e federalismo, regole di base nuove per la pubblica amministrazione. Un grande progetto di cambiamento su cui abbiamo le nostre idee per una nuova fase di vita della Repubblica che si tenga saldamente nei valori fondamentali della nostra Costituzione. Dopo tante disillusioni sappiamo bene che non basterà dire: la facciamo, una vera riforma delle istituzioni. Gli italiani di impegni generici ne hanno sentiti già troppi. Dovremo dire come la facciamo! Io dico che in coerenza con la proposta di una fase costituente europea, la nostra prossima Legislatura dovrà essere davvero costituente ed esordire allestendo uno strumento, a base parlamentare, che abbia il compito di redigere una riforma della seconda parte della Costituzione; uno strumento che, questa volta, garantisca per forza di norma la certezza dell’esito. Ecco allora, amici e compagni: noi cominceremo da lì, dalla democrazia e dal civismo, perché senza democrazia e civismo nuovi non potrà esserci risposta economica e sociale. E cominceremo da cose che si capiscano. Se tocca a me si comincia dal primo giorno col chiamare italiani i figli di immigrati che studiano qui e che oggi non sono né immigrati né italiani; si comincia (se non ce lo fanno risolvere adesso come fermamente vogliamo) rendendo ineleggibili corrotti e corruttori e andandogli a prendere il maltolto, come per i mafiosi e introducendo e rafforzando il falso in bilancio; si comincia non accettando più che la Fiat o l’ENI possano prendere miliardi di finanziamenti dalle banche senza andare dal notaio mentre una famiglia che si fa il mutuo per la casa deve lasciare dal notaio qualche migliaio di euro, e si comincia decidendo che ogni euro ricavato dall’evasione fiscale andrà al lavoro, all’impresa che investe, al welfare. E così via, con cose che si capiscano e che parlino finalmente di un’Italia diversa, di un’Italia che cambia. Un cambiamento per la democrazia, dunque, e un cambiamento per l’economia e la società.
Non ci potrà essere riconciliazione fra società e democrazia, se non ci sarà lavoro, lavoro vero e dignitoso, lavoro che non sia devastato dalla precarietà, lavoro che abbia voce, che abbia il diritto di esprimersi e di partecipare. Così ci disse il Cardinal Martini poco prima di andarsene dalla diocesi di Milano. Il lavoro di tutti, in particolare dei giovani e delle donne. Noi oggi, in questa crisi gravissima, difendiamo il lavoro e difendiamo i presidi produttivi minacciati. Da Reggio Emilia la nostra solidarietà e il nostro sostegno a tutti coloro che difendono il loro lavoro e a tutti gli imprenditori che si impegnano a far vivere la loro impresa. Noi saremo con l’impresa che dà lavoro, che investe, che accetta la sfida. Industria, agricoltura, artigianato, servizi, pubblica amministrazione: investire, recuperare innovazione e produttività, creare lavoro: questo è l’impegno. Fermare la recessione, allargare la base produttiva: questa è la sfida. Ogni nostra proposta ha e avrà una logica: l’Italia faccia l’Italia e porti nel mondo nuovo il suo antico saper fare, il suo gusto e la sua inventiva, la sua flessibilità; l’Italia porti tutto questo sulle frontiere di oggi: le tecnologie, l’agenda digitale, la qualità, l’efficienza energetica, l’ambiente, il territorio, la produzione culturale. Useremo in ogni campo le leve delle politiche industriali e della ricerca che sono abbandonate da anni. Proporremo alle forze economiche e sociali patti concreti, esigibili, verificabili, fuori da ogni inutile rito. Cambieremo l’agenda del paese portando l’attenzione sulle condizioni concrete di vita e di lavoro degli italiani. Le risorse ci verranno dal controllo della spesa corrente, sì; dallo smobilizzo di patrimoni pubblici, sì; dai margini che dovranno venire da un diverso costo del debito e dalla sua riduzione, sì; ma in particolare dovranno venire da una chiara e più coraggiosa politica fiscale che sposti il carico sull’evasione, sulle rendite e sulle maggiori ricchezze a favore del lavoro, degli investimenti che generano lavoro, a favore della fondamentale rete sociale e dei consumi della parte più debole della popolazione e di un ceto medio che la destra ha impoverito. Chiederemo aiuto e protagonismo agli enti locali, che per noi, l’ho detto mille volte, non sono la malattia ma parte della possibile medicina e che dovranno essere messi in condizione di produrre gli essenziali presidi sociali e una politica di investimenti diffusa. La nostra idea fondamentale è questa: produrre oggi più uguaglianza significa produrre una ricetta economica. Con le cure della destra, noi stiamo diventando uno dei paesi più diseguali al mondo! Una forbice di redditi e di condizioni troppo ampia soffoca l’economia e distrugge lavoro. Una migliore distribuzione la puoi fare certamente col fisco, ma la fai prima di tutto garantendo una base di servizi universalistici: la scuola, la sanità, le prestazioni sociali di base, la sicurezza, la giustizia. Pensiamo forse di darci un futuro nel mondo nuovo accettando in tante aree del paese una paurosa dispersione scolastica e, ovunque una riduzione e una selezione per censo delle iscrizioni all’università? O pensiamo che sia un risparmio fare a poco a poco una sanità per i ricchi e una per i poveri? O pensiamo che ci possa essere crescita con una giustizia che non è in grado di funzionare per il cittadino comune e per le imprese? Sappiamo bene che dobbiamo garantire la sostenibilità economica di questi grandi servizi. Non lo spieghino a noi, per favore! Ma il nostro modo di fare le riforme non è il loro; in questi lunghi anni si sono chiamate riforme delle vere picconate al welfare. Dunque, nelle disuguaglianze e nei divari inaccettabili del nostro paese c’è anche la traccia per una via d’uscita. Quale vantaggio ha portato al nord in questi anni aver cancellato dal vocabolario e dalle politiche la parola mezzogiorno? Quale vantaggio? L’Italia tutta, a cominciare dal nord, è sempre cresciuta in Europa quando il divario diminuiva. Adesso il divario aumenta e questo in realtà è lo spread reale più preoccupante per il nostro destino europeo. A Lamezia Terme, a fine mese, avanzeremo proposte nuove per il sud e per l’Italia e dimostreremo lì che non è solo questione di soldi (soldi che comunque non sarà più possibile rapinare per pagare le multe degli evasori delle quote latte!). Dimostreremo che le riforme che fanno bene all’Italia fanno bene anche al sud; e che sono i principi di civismo, di cittadinanza, e di legalità le risorse per una riscossa nazionale. Lo diremo due anni dopo l’uccisione di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore, ribadendo la nostra vicinanza con tutti quelli che sono sul fronte più esposto della criminalità e delle mafie: amministratori, magistrati, imprenditori, cittadini comuni. E parleremo da li della sponda mediterranea dell’Europa, che l’Europa dimentica. Di qua noi, di là un mondo che affronta incredibili novità; in mezzo un mare silenzioso che nasconde migliaia di morti: uomini, donne, bambini annegati cercando la vita, anche in questi giorni. Spesso lo abbiamo sentito ma non sempre abbiamo ascoltato davvero quello che ci cantava Lucio Dalla. Ci cantava: “Gli angeli sono gli uomini più poveri e più soli, quelli presi tra le reti”. Quelli presi tra le reti. Cancelliamo dunque questa vergogna, lanciamo un ponte di collaborazione economica, culturale, democratica. Facciamo del sud la cerniera di un’Europa che cerchi anche al sud il suo futuro. E non accettiamo più la strage di chi cerca la libertà e l’abbandono di chi cerca rifugio. Come in Siria. Si imponga una tregua alle armi, si aprano corridoi umanitari, si assistano i rifugiati, se ne vada il dittatore. Milioni e milioni di persone in tutto il mediterraneo del sud, in tutto il Medio Oriente aspettano una voce più forte dell’Europa e dell’Italia perché in quel paese la strage sia fermata. Facciamo anche noi sentire da qui la nostra voce di sdegno e di solidarietà.
Cari amici e compagni,
sulla base di tutto quello che ho detto fin qui, il nostro appello largo e generoso si rivolge a tutte le forze politiche e civiche del grande campo progressista che siano disposte a prendersi le loro responsabilità davanti alla sfida più difficile. Ancora mesi duri davanti a noi; grandi difficoltà sociali, rischi ulteriori di distacco e di spaesamento; e mesi tuttavia che preparano un appuntamento elettorale decisivo; mesi nei quali coloro che non ci vogliono non si risparmieranno nulla, non lasceranno nulla di intentato. Questo dobbiamo saperlo. Ci prenderemo un impegno per il governo del Paese, un impegno che questa volta non potrà tollerare nè incertezze nè ambiguità nè divisioni. La nostra Carta di Intenti, che vi invito a leggere e a far leggere, propone patti chiari ed esigibili davanti ai cittadini e solleva con forza una parola: responsabilità. Il nostro percorso sarà un percorso aperto e democratico. Noi costruiremo la governabilità a partire dalla partecipazione attiva e vera dei cittadini. È questo il senso della nostra proposta di riforma della politica. E’ questo anche il senso delle primarie dei progressisti. Dal primo giorno ho detto: se toccherà a me non metterò mai il mio nome sul simbolo. Dal primo giorno abbiamo detto: la trasparenza e le regole democratiche di ogni singola forza politica sono un patrimonio di tutti, che deve essere esigibile da tutti. Adesso già in due o tre, lo vedete, si tolgono dal simbolo. Adesso qualcuno si accorge che la sacrosanta libertà della rete può ospitare meccanismi di condizionamento e di controllo e che la democrazia è indivisibile e non consente distinzioni fra l’universo materiale e quello immateriale. No, basta! I modelli personalistici, plebiscitari e populisti l’Italia li ha già pagati abbastanza e non deve pagarli di più! Sono modelli per cui qualcuno suona il piffero (mediamente un miliardario) e il popolo è a seguire. O modelli nuovi in cui qualcuno comanda stando in un tabernacolo e non rispondendo a nessuno. Modelli in cui non c’è più nè destra nè sinistra, in cui non c’è più la critica ma c’è lo sputo, c’è la pretesa di aver il monopolio della morale, c’è la domanda aggressiva ma non c’è mai la risposta seria, vera e concreta. A proposito di chi è nuovo e di chi non lo è, provino a fare come noi: si mettano in gioco con una partecipazione vera, a viso aperto e a faccia a faccia con cittadini veri. E discutano finalmente di Italia con gli italiani in carne ed ossa. Questo saranno le nostre primarie per la scelta del candidato dei progressisti alla guida del governo. Si discuterà di Italia non di noi. Per discutere di noi ci sarà l’anno prossimo un libero congresso. Per discutere dei parlamentari del PD ci saranno forme vere di partecipazione. Non ci sono qui, adesso, bilance, bilancini o tribunali da allestire. Qui si parla di Italia e di come portarla fuori dalle più gravi difficoltà da sessant’anni a questa parte. Di questo si discuterà stringendo un patto non ambiguo con le forze politiche progressiste disposte a costruire un centrosinistra di governo. Le stiamo incontrando in questi giorni. E si discuterà come abbiamo già largamente cominciato a fare con tutte quelle formazioni sociali, civiche, culturali che vorranno darci in piena autonomia il loro contributo davanti ad una politica, la nostra, che rivendica il suo ruolo, assume le sue responsabilità ma riconosce il suo limite. E vogliamo che il grande campo progressista si rivolga in modo aperto a tutte le forze moderate, costituzionali ed europeiste disposte a mettere un argine alle destre e alle tendenze regressive e populiste che minacciano l’Europa e l’Italia, disposte ad impegnarsi per la ricostruzione del Paese e per il rilancio del progetto europeo.
Ecco allora, Democratiche e Democratici, l’orgoglio e la forza del nostro Partito. La grande stagione dell’Ulivo di Romano Prodi sollevò con le primarie la canzone popolare e annunciò il Partito Democratico. Dal Lingotto ad oggi, in quattro anni la scommessa del Partito Democratico è stata vinta. Tanto, tanto ancora dobbiamo migliorare, tanto ancora dobbiamo crescere. Ma siamo il primo partito del paese, un partito di governo in moltissimi luoghi d’Italia dopo le vittorie amministrative. Il Pd è la speranza di questo paese. Non la tradiremo a cominciare dal rispetto che noi stessi dobbiamo portare verso quello che siamo. Il nostro dibattito deve rafforzare questo rispetto, non indebolirlo. Riconoscendo tutto quello che dovrà migliorare, sta a noi tuttavia trasmettere l’orgoglio e la dignità di quello che siamo. A tentare di demolirci ci pensano gli altri! È il loro mestiere, non è il nostro. Il rinnovamento del nostro partito è una necessità e una straordinaria opportunità. Non è questo in discussione. In discussione sono i criteri, le logiche e i modi di questo rinnovamento. Nelle organizzazioni territoriali del Partito e nelle esperienze di governo locale si è largamente messa in campo e si è sperimentata una generazione nuova. Non abbiamo certo fatto peggio di altre forze politiche né delle imprese, delle banche, delle università o dei giornali di un’Italia che fatica a rinnovarsi. Sarebbe apprezzabile che chi ci fa la morale sul bisogno del nuovo non emettesse sentenze dall’alto della sua inamovibilità! Detto questo, noi siamo adesso in condizione di spingere avanti questo rinnovamento e di portarlo a nuove responsabilità nella politica, nelle istituzioni, e, come tutti vogliamo, nel governo del paese. Chiederò l’impegno e la generosità di tutti perché il processo cammini e io stesso mi faccio garante che dal prossimo anno le responsabilità verranno messe via via e ampiamente sulle spalle della nuova generazione. Siatene certi, questo avverrà. Rinnovare è un fatto generazionale e un fatto di genere, ovviamente, che va tuttavia collegato, altrettanto ovviamente, a criteri di qualità e di merito. Qualità e merito non li stabilisce il Segretario; nemmeno tuttavia li certifica il primo che passa per strada. Qualità e merito li misuri in esperienze vere, là dove sei, esperienze nelle quali si siano potute riconoscere capacità, competenza e generosità verso l’interesse collettivo. Questa è la politica, questa è la politica che propone il Pd a chi vuole impegnarsi; questo è quello che stiamo proponendo a duemila giovani del sud in formazione da mesi. Questo è quello che stiamo proponendo all’organizzazione dei Giovani Democratici che sono qui con noi e che saluto. Generosità vuol dire una cosa semplice. Prima c’è l’Italia, poi c’è il Pd e il suo progetto per l’Italia poi ci sono le ambizioni personali. Questo vale per tutti, a cominciare dal Segretario, che anche per questo non ha voluto mettere se stesso al riparo di una regola. E con la stessa determinazione ripeto quel che ho già detto: la ruota girerà ma nel rispetto di tutti, di tutti quelli che ci hanno portati fin qui, di quelli che hanno avuto la forza di portarci in Europa e di immaginare e costruire quel nuovo partito dei riformisti che noi siamo oggi. I principi che ho richiamato e che riguardano il senso stesso della politica devono accomunarci tutti; tutti, comunque la pensiamo, se vogliamo che chi è lontano dalla politica o addirittura la disprezza abbia almeno il sospetto, il dubbio che una politica seria ed onesta possa esserci e che il Pd possa essere il barlume di speranza di quella politica.
Dunque, da Reggio Emilia un messaggio di forza, di responsabilità, di unità del Partito Democratico; un messaggio di coraggio di un partito che si mette in gioco perché si riduca l’inimicizia fra politica e società; una richiesta di fiducia verso un partito che ha in testa una cosa sola: dare una mano all’Italia. Ma da Reggio Emilia anche un richiamo fermo e forte alla responsabilità e all’unità del Partito Democratico; un richiamo che sono certo voi condividete; perché tutti, ma proprio tutti dobbiamo avere cura del bene comune che è il PD, della speranza per l’Italia che è il PD.
Care Democratiche, cari Democratici,
Cari amici e compagni,
via dunque le incertezze, via le titubanze, via i timori su questo o quel passaggio che ci sta davanti. Da domani si parte. Noi non abbiamo paura. Di che cosa mai dovremmo avere paura? Siamo molto più forti di quello che pensiamo noi stessi! Sappiamo quello che vogliamo. E per quello che è ancora incerto, per quello che non vediamo ancora chiaro del futuro, noi la bussola l’abbiamo! Quegli stessi valori a cui, prima di noi, in tanti hanno dato forza, quegli stessi valori ci aiuteranno, ci guideranno. Perché c’è chi ha saputo trovare e dare fiducia, speranze, certezze in tempi ben più drammatici di quelli che viviamo noi.
Dopo tanti decenni in noi suonano ancora le parole semplici e contadine di un grandissimo reggiano, Alcide Cervi che ebbe la forza di dire davanti ai figli morti “dopo un raccolto ne viene un altro, andiamo avanti, andiamo avanti”.
Andiamo avanti, per la ricostruzione, per il cambiamento, per la riscossa dell’Italia.
Viva il Partito Democratico. Viva l’Italia.

"Un nuovo umanesimo ci salverà", di Mauro Ceruti e Edgar Morin

Per i dotti dell’Umanesimo e del Rinascimento la civiltà europea poggiava su quattro colonne. Alle tre colonne delle tre grandi tradizioni monoteistiche (cristiana, ebraica, islamica) si aggiungeva la quarta colonna della sapienza degli antichi, della civiltà latina e greca riscoperta dagli umanisti nel Quattordicesimo e nel Quindicesimo secolo, attraverso le mediazioni più diverse, quali il monachesimo celtico e la cultura araba.
Era un’immagine di unità nella diversità e di diversità nell’unità. Attraverso la loro integrazione e interazione, le quattro tradizioni producevano l’equilibrio e la solidità dell’intera costruzione. Lo specifico del l’identità europea, e dell’identità italiana all’interno dell’identità europea, è proprio questa diversità, che è ancora e molto di più della diversità delle quattro colonne: è diversità di culture materiali, di lingue, di paesaggi naturali e umani, di climi, di tradizioni, di Nazioni, di Regioni e di città…
Il vero nucleo dell’Umanesimo sta dunque non in una replica formale dei modelli classici, ma in un nuovo modello di umanità, pervaso dallo spirito dell’accettazione reciproca e della convivenza delle diversità. La relazione fra passato e presente, fra culture diverse è sentita come feconda.
L’immagine dei «nani sulle spalle dei giganti» delineava per la prima volta un’idea di progresso, cioè la possibilità che nel futuro potesse darsi qualcosa di inedito, e di migliore, rispetto al passato, e la possibilità di vedere più lontano rispetto ai giganti del passato: ma questa possibilità era indissolubile dallo studio del passato e dalla riflessione sulle memorie.
Fra l’Umanesimo e gli orizzonti planetari dei nostri giorni c’è la complessa esperienza dei cinquecento anni dell’età moderna, che sono anche i cinquecento anni del l’età planetaria (o della prima globalizzazione).
Fra il Quattrocento e il Cinquecento ha avuto inizio l’età planetaria del popolamento umano della Terra, la storia attraverso la quale tutti i frammenti del pianeta si sono trovati a legarsi gli uni agli altri. I primi secoli dell’era planetaria hanno prodotto il crollo delle barriere agricole e culturali del mondo, la nascita di un sistema economico mondiale, la scoperta della diversità antropologica, biologica ed ecologica su tutta la Terra, l’interconnessione di tutti i continenti, il dominio delle culture forti su quelle deboli e, alla fine, l’occidentalizzazione del mondo, attraverso la conquista. Si è generata una rete di comunicazioni mondiali, il cui sviluppo si è poi straordinariamente intensificato dopo la soglia del 1989, dando inizio a quella fase dell’era planetaria che chiamiamo globalizzazione. Gli sviluppi scientifici, tecnici, economici hanno prodotto nel Novecento un divenire planetario comune per tutti gli esseri umani. E si è insediato un unico mercato mondiale all’insegna del liberismo economico.
Il travalicare europeo nel mondo, allora e per tutta l’età moderna, sono stati segnati da un’ambivalenza essenziale, da un intreccio conflittuale fra creazione e distruzione che continua fino ai nostri giorni. Dopo il prodromo delle stragi di massa delle due Guerre mondiali, l’esplosione atomica di Hiroshima del 1945 è stata la campana d’allarme di un inedito pericolo estremo: la distruzione locale può precipitare nell’annientamento globale; l’umanità può sfociare nell’abisso ultimo del nulla. Questo rischio è oggi presente anche nel sempre più difficile rapporto dell’uomo con l’ambiente: è il rischio insito nel riscaldamento globale, nell’inquinamento dei suoli e delle acque, nel depauperamento delle risorse…
Nella nostra epoca si affollano grandi promesse, ma anche grandi minacce. Da una parte, il progresso scientifico-tecnico sembra aprire inedite possibilità di emancipazione rispetto agli obblighi materiali, alle fatiche quotidiane, alle malattie e alla morte stessa. Da un’altra parte, l’incubo della morte collettiva continua a incombere sull’umanità con le armi nucleari, chimiche, biologiche, e con il degrado ecologico.
Da una parte, c’è un mondo che vuole nascere, ma che non riesce a nascere; e, nello stesso tempo, questa possibile e improbabile nascita è accompagnata da un caos scatenato da forze di distruzione. Ed è essenziale illuminare il caos degli eventi, le loro interazioni e le loro retroazioni – in cui si mescolano e interferiscono processi economici, politici, sociali, culturali, nazionali, mitologici, religiosi – che tessono il nostro presente e il nostro destino.
Ma l’ostacolo a questa comprensione sta non solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza. La specializzazione disciplinare ha apportato molte conoscenze, ma incapaci di cogliere i problemi multidimensionali, fondamentali e globali. I sistemi di insegnamento continuano a separare, a disgiungere le conoscenze che dovrebbero invece essere interconnesse, continuano a formare esperti che privilegiano una sola dimensione di problemi irriducibilmente complessi. Tutta la storia europea ci ha mostrato che la diversità senza un principio di coesione e di governo comune può divenire autodistruttiva. Per questo, dopo la tragedia immane delle due Guerre mondiali, i nostri padri hanno posto le basi dell’odierna Unione europea.
Hanno voluto dare forma politica e istituzionale al principio di complessità dell’unità nella diversità e della diversità nell’unità, come unica via di uscita a una prospettiva di autoannientamento.
L’Europa ha creato a suo tempo l’Università proprio nello spirito umanistico del l’equilibrio tra unità e diversità, tra memoria e progetto: come terreno di interfecondazione fra i saperi molteplici e plurali. A sua volta l’Università ha creato l’Europa: le sue classi dirigenti, la sua faticosa ma irreversibile presa di coscienza dei diritti umani, le sue realizzazioni economiche, sociali, scientifiche, tecnologiche. E in questo stesso spirito di unità e di diversità l’Europa ha creato i sistemi scolastici, quali condizioni essenziali dei diritti della persona e del cittadino. Nel presente momento storico, tuttavia, l’Europa rischia nuovamente l’autodistruzione per il prevalere degli egoismi nazionali, dei localismi unilaterali, della chiusura culturale, della prevalenza degli interessi di gruppo tendenti a cancellare il senso del bene comune. E in questo stesso momento storico l’Università e i sistemi scolastici rischiano l’autovanificazione sotto il peso della frammentazione, degli specialismi chiusi e incapaci di dialogare. Oggi la riscoperta e il radicamento nel senso più profondo della tradizione umanistica europea – il principio complesso della diversità dell’unità, dell’unità nella diversità – è la grande opportunità per avere un futuro, per costruire un futuro a misura di uno sviluppo umano integrale, dei singoli come delle collettività. La salvezza dell’Italia passa attraverso la salvezza dell’Europa, la salvezza dell’Europa passa attraverso la salvezza dell’Italia. Oggi i destini di tutti sono indissociabili. Ma per dare concretezza a queste parole dobbiamo riscoprire e valorizzare quello che ha sempre fatto dell’Italia, e soprattutto dell’Italia dell’Umanesimo e del Rinascimento, un microcosmo esemplare dell’Europa: la sua diversità interna e la sua apertura alle culture altre; la capacità di operare insieme come centro di innovazione e come luogo di confine e di integrazione fra le culture d’Europa e fra l’Europa e il mondo; la sua ricchezza di saperi che sono stati e sono a un tempo teorici e pratici, concreti e visionari, artistici e artigianali.
Per essere all’altezza delle presenti sfide, il compito è di coniugare ciò che la crisi attuale ci ha fatto credere separati: il rigore dei bilanci e gli investimenti nelle conoscenze, nella cultura, nella formazione, nella rigenerazione dei legami sociali; la direzione e la partecipazione; le culture umanistiche e le culture scientifiche; lo sviluppo economico e lo sviluppo umano integrale. Questa trasformazione nella condizione umana chiede di cambiare il nostro sguardo sul mondo, e innanzitutto di essere capaci di guardare il mondo: poiché il nostro sguardo intellettuale, formato dalla nostra formazione disciplinare, non può guardare il mondo che spezzettandolo in frammenti sparsi. Più ancora questa trasformazione ci impegna verso un cammino politico che è totalmente ignorato dalla politica tradizionale. È il cammino antropologico che ci dice che non ci potranno essere progressi unicamente e neppure principalmente garantiti dalle leggi del l’economia, né da strutture sociali o politiche. Ci dice che ormai la riforma politica è indissociabile da una riforma di civiltà, da una riforma di vita, da una riforma del pensiero, da una riforma spirituale, nella prospettiva di un nuovo umanesimo planetario.
Per la prima volta nella storia umana la Terra, in quanto Patria, è divenuta realtà concreta.
L’antico Umanesimo aveva prodotto un universalismo astratto, ideale e culturale. Il nuovo Umanesimo planetario non può che nascere da un universalismo concreto, reso tale dalla comunità di destino irreversibile che lega ormai tutti gli individui e tutti i popoli dell’umanità, e l’umanità intera all’ecosistema globale, alla Terra. Questo universalismo concreto non oppone la diversità all’unità, il singolare al generale. Si fonda sul riconoscimento del l’unità delle diversità umane e delle diversità nel l’unità umana, reso necessario dal fatto che qualunque sfida oggi ha una portata planetaria e ha bisogno dell’impegno di tutti, ognuno nella singolarità delle propria rispettive visione e nella relazione e nell’apertura agli “altri”.

da Il Sole 24 Ore 09.09.12

"Un nuovo umanesimo ci salverà", di Mauro Ceruti e Edgar Morin

Per i dotti dell’Umanesimo e del Rinascimento la civiltà europea poggiava su quattro colonne. Alle tre colonne delle tre grandi tradizioni monoteistiche (cristiana, ebraica, islamica) si aggiungeva la quarta colonna della sapienza degli antichi, della civiltà latina e greca riscoperta dagli umanisti nel Quattordicesimo e nel Quindicesimo secolo, attraverso le mediazioni più diverse, quali il monachesimo celtico e la cultura araba.
Era un’immagine di unità nella diversità e di diversità nell’unità. Attraverso la loro integrazione e interazione, le quattro tradizioni producevano l’equilibrio e la solidità dell’intera costruzione. Lo specifico del l’identità europea, e dell’identità italiana all’interno dell’identità europea, è proprio questa diversità, che è ancora e molto di più della diversità delle quattro colonne: è diversità di culture materiali, di lingue, di paesaggi naturali e umani, di climi, di tradizioni, di Nazioni, di Regioni e di città…
Il vero nucleo dell’Umanesimo sta dunque non in una replica formale dei modelli classici, ma in un nuovo modello di umanità, pervaso dallo spirito dell’accettazione reciproca e della convivenza delle diversità. La relazione fra passato e presente, fra culture diverse è sentita come feconda.
L’immagine dei «nani sulle spalle dei giganti» delineava per la prima volta un’idea di progresso, cioè la possibilità che nel futuro potesse darsi qualcosa di inedito, e di migliore, rispetto al passato, e la possibilità di vedere più lontano rispetto ai giganti del passato: ma questa possibilità era indissolubile dallo studio del passato e dalla riflessione sulle memorie.
Fra l’Umanesimo e gli orizzonti planetari dei nostri giorni c’è la complessa esperienza dei cinquecento anni dell’età moderna, che sono anche i cinquecento anni del l’età planetaria (o della prima globalizzazione).
Fra il Quattrocento e il Cinquecento ha avuto inizio l’età planetaria del popolamento umano della Terra, la storia attraverso la quale tutti i frammenti del pianeta si sono trovati a legarsi gli uni agli altri. I primi secoli dell’era planetaria hanno prodotto il crollo delle barriere agricole e culturali del mondo, la nascita di un sistema economico mondiale, la scoperta della diversità antropologica, biologica ed ecologica su tutta la Terra, l’interconnessione di tutti i continenti, il dominio delle culture forti su quelle deboli e, alla fine, l’occidentalizzazione del mondo, attraverso la conquista. Si è generata una rete di comunicazioni mondiali, il cui sviluppo si è poi straordinariamente intensificato dopo la soglia del 1989, dando inizio a quella fase dell’era planetaria che chiamiamo globalizzazione. Gli sviluppi scientifici, tecnici, economici hanno prodotto nel Novecento un divenire planetario comune per tutti gli esseri umani. E si è insediato un unico mercato mondiale all’insegna del liberismo economico.
Il travalicare europeo nel mondo, allora e per tutta l’età moderna, sono stati segnati da un’ambivalenza essenziale, da un intreccio conflittuale fra creazione e distruzione che continua fino ai nostri giorni. Dopo il prodromo delle stragi di massa delle due Guerre mondiali, l’esplosione atomica di Hiroshima del 1945 è stata la campana d’allarme di un inedito pericolo estremo: la distruzione locale può precipitare nell’annientamento globale; l’umanità può sfociare nell’abisso ultimo del nulla. Questo rischio è oggi presente anche nel sempre più difficile rapporto dell’uomo con l’ambiente: è il rischio insito nel riscaldamento globale, nell’inquinamento dei suoli e delle acque, nel depauperamento delle risorse…
Nella nostra epoca si affollano grandi promesse, ma anche grandi minacce. Da una parte, il progresso scientifico-tecnico sembra aprire inedite possibilità di emancipazione rispetto agli obblighi materiali, alle fatiche quotidiane, alle malattie e alla morte stessa. Da un’altra parte, l’incubo della morte collettiva continua a incombere sull’umanità con le armi nucleari, chimiche, biologiche, e con il degrado ecologico.
Da una parte, c’è un mondo che vuole nascere, ma che non riesce a nascere; e, nello stesso tempo, questa possibile e improbabile nascita è accompagnata da un caos scatenato da forze di distruzione. Ed è essenziale illuminare il caos degli eventi, le loro interazioni e le loro retroazioni – in cui si mescolano e interferiscono processi economici, politici, sociali, culturali, nazionali, mitologici, religiosi – che tessono il nostro presente e il nostro destino.
Ma l’ostacolo a questa comprensione sta non solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza. La specializzazione disciplinare ha apportato molte conoscenze, ma incapaci di cogliere i problemi multidimensionali, fondamentali e globali. I sistemi di insegnamento continuano a separare, a disgiungere le conoscenze che dovrebbero invece essere interconnesse, continuano a formare esperti che privilegiano una sola dimensione di problemi irriducibilmente complessi. Tutta la storia europea ci ha mostrato che la diversità senza un principio di coesione e di governo comune può divenire autodistruttiva. Per questo, dopo la tragedia immane delle due Guerre mondiali, i nostri padri hanno posto le basi dell’odierna Unione europea.
Hanno voluto dare forma politica e istituzionale al principio di complessità dell’unità nella diversità e della diversità nell’unità, come unica via di uscita a una prospettiva di autoannientamento.
L’Europa ha creato a suo tempo l’Università proprio nello spirito umanistico del l’equilibrio tra unità e diversità, tra memoria e progetto: come terreno di interfecondazione fra i saperi molteplici e plurali. A sua volta l’Università ha creato l’Europa: le sue classi dirigenti, la sua faticosa ma irreversibile presa di coscienza dei diritti umani, le sue realizzazioni economiche, sociali, scientifiche, tecnologiche. E in questo stesso spirito di unità e di diversità l’Europa ha creato i sistemi scolastici, quali condizioni essenziali dei diritti della persona e del cittadino. Nel presente momento storico, tuttavia, l’Europa rischia nuovamente l’autodistruzione per il prevalere degli egoismi nazionali, dei localismi unilaterali, della chiusura culturale, della prevalenza degli interessi di gruppo tendenti a cancellare il senso del bene comune. E in questo stesso momento storico l’Università e i sistemi scolastici rischiano l’autovanificazione sotto il peso della frammentazione, degli specialismi chiusi e incapaci di dialogare. Oggi la riscoperta e il radicamento nel senso più profondo della tradizione umanistica europea – il principio complesso della diversità dell’unità, dell’unità nella diversità – è la grande opportunità per avere un futuro, per costruire un futuro a misura di uno sviluppo umano integrale, dei singoli come delle collettività. La salvezza dell’Italia passa attraverso la salvezza dell’Europa, la salvezza dell’Europa passa attraverso la salvezza dell’Italia. Oggi i destini di tutti sono indissociabili. Ma per dare concretezza a queste parole dobbiamo riscoprire e valorizzare quello che ha sempre fatto dell’Italia, e soprattutto dell’Italia dell’Umanesimo e del Rinascimento, un microcosmo esemplare dell’Europa: la sua diversità interna e la sua apertura alle culture altre; la capacità di operare insieme come centro di innovazione e come luogo di confine e di integrazione fra le culture d’Europa e fra l’Europa e il mondo; la sua ricchezza di saperi che sono stati e sono a un tempo teorici e pratici, concreti e visionari, artistici e artigianali.
Per essere all’altezza delle presenti sfide, il compito è di coniugare ciò che la crisi attuale ci ha fatto credere separati: il rigore dei bilanci e gli investimenti nelle conoscenze, nella cultura, nella formazione, nella rigenerazione dei legami sociali; la direzione e la partecipazione; le culture umanistiche e le culture scientifiche; lo sviluppo economico e lo sviluppo umano integrale. Questa trasformazione nella condizione umana chiede di cambiare il nostro sguardo sul mondo, e innanzitutto di essere capaci di guardare il mondo: poiché il nostro sguardo intellettuale, formato dalla nostra formazione disciplinare, non può guardare il mondo che spezzettandolo in frammenti sparsi. Più ancora questa trasformazione ci impegna verso un cammino politico che è totalmente ignorato dalla politica tradizionale. È il cammino antropologico che ci dice che non ci potranno essere progressi unicamente e neppure principalmente garantiti dalle leggi del l’economia, né da strutture sociali o politiche. Ci dice che ormai la riforma politica è indissociabile da una riforma di civiltà, da una riforma di vita, da una riforma del pensiero, da una riforma spirituale, nella prospettiva di un nuovo umanesimo planetario.
Per la prima volta nella storia umana la Terra, in quanto Patria, è divenuta realtà concreta.
L’antico Umanesimo aveva prodotto un universalismo astratto, ideale e culturale. Il nuovo Umanesimo planetario non può che nascere da un universalismo concreto, reso tale dalla comunità di destino irreversibile che lega ormai tutti gli individui e tutti i popoli dell’umanità, e l’umanità intera all’ecosistema globale, alla Terra. Questo universalismo concreto non oppone la diversità all’unità, il singolare al generale. Si fonda sul riconoscimento del l’unità delle diversità umane e delle diversità nel l’unità umana, reso necessario dal fatto che qualunque sfida oggi ha una portata planetaria e ha bisogno dell’impegno di tutti, ognuno nella singolarità delle propria rispettive visione e nella relazione e nell’apertura agli “altri”.
da Il Sole 24 Ore 09.09.12

"Gerico, la prima smart city", di Alberto Melloni

Una teleferica che sale rovente al dirupo del Monastero delle Tentazioni permette di vedere dall’alto gli scavi archeologici sul bordo dell’oasi di Gerico, considerata la più antica città del mondo. È iniziata proprio qui 9500 anni fa una forma di vita — la città — che continua ad essere leva della condizione umana. Il portale Treccani (accessibile gratis come Wikipedia, ma immune dall’ideologismo dei wikiwriters) ricorda le «città» di Ur, Ugarit, Mersinia, Menfi, Harappa, Mohenjo-Daro che dalla fine del calcolitico entrano nella narrazione storica. Più su stanno le città-icona: Atene, che dà linguaggio alla politica come sacralità intrinseca alla vita comune; Sodoma, che, profanata la legge dell’ospitalità, sprofonda nel fuoco di giustizia dell’Altro per antonomasia.
Icone fragili, le città erano il tema dell’Expo di Shanghai del 2010, che in un padiglione rappresentava la vita urbana come un tetto che non rovinava sui visitatori perché sorretto da due colonne di volumi: i libri sull’utopia. Da Campanella a Platone, da Confucio alla Bibbia ciò che impedisce ad Atene di diventare Sodoma, insegnava la Cina, è qualcosa di impalpabile e solidissimo. Lo si chiami utopia, pensiero, silenzio — è questo cibo che nutre l’anima (un tema che l’Expo di Milano potrà davvero eludere?), che rende la città il moltiplicatore di sviluppo, di conoscenza, di interessi, di conflitti. Non a caso la «modernità» della guerra colpisce le città: per distruggere questo tessuto più e come le infrastrutture. E non per niente la modernità ha bisogno di spazi urbani per moltiplicare bisogni e opportunità, nel mondo così come in Europa.

Unico continente del pianeta privo di megalopoli, l’Europa nasce dalla confessionalizzazione e dalle guerre di religione, trasforma le città di mercanti e frati in città degli affari, e celebra con disinvoltura il grande crimine del furore colonialista costruendo capitali dorate ai propri imperi globali. Inventa la città industriale, fa del binomio sfruttamento-fumo una poetica. E adesso, nel pieno di un default politico che sembra più la causa che l’effetto della recessione, si interroga su cosa nutra la città pluralista.
La Pira avrebbe parlato d’anima. Dal 2008 questa riflessione usa un aggettivo ormai entrato nel gergo di Bruxelles: «Smart». «Smart cities» — nel senso di facili, gradevoli, simpaticamente utili. Il concetto non è di conio europeo: l’amministratore delegato dell’Ibm Sam Palmisano, il 6 novembre 2008, davanti al Council on Foreign Relations a New York, spiegava che nell’inizio del secolo XXI il pianeta non era più solo interconnesso, ma anche «smarter», sempre più capace, cioè, di «infondere intelligenza nel modo in cui il mondo funziona: i sistemi e i processi che attivano beni fisici da sviluppare, fabbricare, comprare e vendere, servizi da proporre». L’Unione Europea — Chiara Del Bo, Andrea Caragliu e Massimo Florio, in Statale e al Politecnico di Milano, ne sono i migliori analisti — adottava nello stesso torno di mesi i termini «smart» e «smart cities» su larga scala, per indicare non una tendenza (come implicava il comparativo «smarter» usato da Palmisano davanti al think tank della 68ma strada), ma una qualifica in cerca del suo spessore politico.
Nei suoi primi esperimenti la «smart city» europea era dunque quella città che — a disuguaglianze invariate — erogava prestazioni a più alto contenuto tecnologico al cittadino. Avevano iniziato le regioni europee affacciate sul Mare del Nord. Poi Belgrado con i suoi 20 mila sensori o Santander che con 12 mila apparecchi regola il traffico, i parcheggi, gli accessi ai servizi. Oggi si cercano nuovi orizzonti semantici, come quelli che a fine settembre saranno discussi al «MonAmi» di Amburgo (è la sigla del «Mobile Networks and Management» di cui fa parte il centro trentino del Create-Net). Perché perfino gli opliti della tecnocrazia bruxellese hanno ormai capito che la correlazione fra una città piena di tecnologia e prosperità non è così univoca.
Da Gerico in qua la città non è solo ottimizzazione di prestazioni all’individuo, siano esse il riparo dalle tempeste del deserto o la riduzione delle emissioni di CO2. Non è solo la fornitura di un supporto alla perpetuazione dello status sociale della famiglia, espresso nel medioevo dai Palazzi dei notai ed oggi dalle infrastrutture necessarie a celebrare il culto svuotatore del weekend. La città è spazio di solidarietà potenzialmente eversive (quando nell’Emilia terremotata tutti hanno tolto le password e aperto liberamente i loro wifi sembrava d’essere in California). È sperimentare diversità riconciliate dalla (appunto) «cittadinanza»: è l’ambito dove le opportunità non sono meramente eguali, ma sono quella cosa che rende eguali o meno diseguali. La città è il luogo dove si consuma una cultura che è fatta anche di prodotti, ma dove si produce cultura fatta di contenuti intellettuali, spirituali, artistici, tecnici.
Anche questo obiettivo fa parte delle sfide che l’Europa vede profilarsi e su cui il programma di ricerca «Horizon 2020» investirà nei prossimi anni 85 miliardi di euro, dedicati in parte alla ricerca sulle «smart cities». Molti Paesi europei si sono attrezzati a questa competizione da un lato con grandi aggregati di ricerca e sviluppo detti clusters e dall’altro «clusterizzando» gli specialismi (la Germania ha un cluster su religione e politica, ad esempio). In Italia il ministro Profumo ha messo a bando i primi clusters di trasferimento tecnologico, di cui ad ottobre sapremo la fisionomia: essa ci dirà moltissimo sulla lealtà e sulla capacità di servire l’interesse generale del nostro sistema industriale, accademico, politico. Per costruire città migliori e prospere non bastano infatti le tecnologie.
La tecnologia può sensorizzare le città per favorire la transumanza dei turisti cinesi, per pascolare gli indigeni in auto, per dare ai bambini l’equivalente touch del calamaio, per colmare la solitudine adolescenziale con la sociabilità virtuale, che distilla cose buffe o velenose con la stessa facilità. Ma se dietro e dentro la tecnologia non ci sono contenuti le città rimangono muti aggregati dell’umano sfinimento. Provare a renderle «smart» per tutti è la sola cosa che le rende smart davvero, anche per il business. E per questo servono culture di giustizia, conoscenza, politica. Che non devono essere pure loro smart: basta che siano semplicemente giustizia, conoscenza, politica. Senza di esse le rovine arroventate di Gerico ci ricordano che di fare una città che fosse smart per pochi sono stati capaci tutti. Da quasi diecimila anni.

La Lettura/Corriere della Sera 09.09.12