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"La ricerca dei cervelli in fuga: in 100 potranno insegnare al sud", da Agenzia Dire

L’iniziativa lanciata dai ministri Barca e Profumo: bando a settembre. Saranno i “messaggeri” dell’eccellenza. Un bando per riportare in Italia (seppur per un periodo limitato) 100 cervelli in fuga, cento ricercatori italiani che lavorano oltre confine e che dovranno aiutare il Sud Italia a “mescolare il sangue”, a trovare punti di contatto con importanti centri esteri di ricerca. Lo hanno lanciato questa mattina i ministri Francesco Profumo (Istruzione) e Fabrizio Barca (Coesione Territoriale). “Messaggeri” e’ il titolo del progetto che puo’ contare su 5,3 milioni di euro per questo anno accademico e ha gia’ un hashtag, #messaggeri, per farsi largo su twitter e farsi conoscere fra i ragazzi.
IL PROGETTO – A meta’ settembre sara’ pubblicato un bando che riguardera’ le quattro regioni della convergenza (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia). I fondi a disposizione (europei) serviranno per dare vita a tre step. Innazitutto saranno selezionati 100 ricercatori fra tutti quelli che presenteranno ai dipartimenti universitari le loro proposte didattiche. L’inizitiva e’ aperta anche agli stranieri, ma dovranno insegnare in italiano “per evitare- spiegano i tecnici- che il progetto coinvolga solo i nostri studenti eccellenti che gia’ conoscono bene una lingua estera e tagli fuori gli altri”. Saranno coinvolte tutte le discipline. Purche’ il ricercatore che aderisce provenga da un centro estero di eccellenza. I ricercatori-docenti dovranno indicare le modalita’ per selezionare gruppi ristretti (25-30 ragazzi) di studenti che parteciperanno a lezioni di elevata qualita’. Il taglio dovra’ essere “fresco e divulgativo”. La selezione dei partecipanti sara’ il secondo step. Nel terzo i migliori andranno poi a “mescolare il sangue” all’estero nel centro del loro insegnante dove faranno uno stage. Le spese saranno coperte dal progetto. I ragazzi che hanno avuto queste opportunita’ dovranno tornare poi nelle loro facolta’ e trasmettere cio’ che hanno appreso, raccontare le opportunita’ che ci sono fuori dalla porta. Insomma, si dovranno mettere in circolo le informazioni “per far capire anche a chi non ha i mezzi come puo’ andare a formarsi in un centro di eccellenza”, spiegano i ministri.
UN PROGETTO-MODELLO – Il progetto che parte su piccola scala “dovra’ diventare un modello per il paese e speriamo anche per l’Europa”, ha detto Profumo. Intanto “sara’ una opportunita’ per questi ragazzi per spendersi in un mercato del lavoro che oggi e’ come minimo europeo se non mondiale”. Il bando sara’ replicato anche nei prossimi due anni.
“Stiamo cercando di mettere insieme una domanda e una offerta che di solito non si parlano- afferma Barca- Stiamo invitando i nostri ricercatori che sono all’estero a fare qualcosa per il Sud, a contaminarlo con le loro idee. Il Sud del resto ha molte isole di innovazione che ancora devono esplodere”. L’iniziativa e’ accolta con favore dalla Conferenza dei rettori, Crui: “NOn e’ il solito sostegno alla mobilita’ degli studenti-commenta il presidente Marco Mancini- ma un sostegno ad una mobilita’ molto finalizzata”. Che, secondo Profumo, “dovra’ esere una ulteriore spinta alla crescita del Sud senza la quale non cresce il paese”
AGENZIA DIRE

"Quella strana sinistra che dice cose di destra", di Luigi Manconi

Dichiaro in primo luogo le mie generalità: sono d’accordo con Pier Luigi Bersani sul fatto che nel discorso pubblico di Beppe Grillo (e non solo suo) si trovino tracce inequivocabili di “linguaggio fascista”. E questo già vuol dire che a utilizzare quel linguaggio fascistico, non è necessariamente “un fascista”: possono farlo individui e gruppi che, senza esserlo per biografia e ideologia, attingono a un vocabolario e a una retorica, a un sottofondo culturale e a una struttura semantica la cui origine, certo lontana ma non esaurita, è quella fascista. Qui vi si trova disprezzo dell’avversario e rancore plebeo, sfregio dell’identità altrui e concezione gerarchico-autoritaria delle relazioni sociali. Insomma si può ricorrere a “linguaggio fascista”, senza essere fascista.
Quand’ero piccino e movimentista e scostumato, fui tra coloro che, in una contrapposizione assai aspra col Pci, ricevettero da quel partito l’onta di quell’epiteto: “fascista”. Fu un’esperienza bruciante all’interno di una polemica politica condotta fino alle estreme conseguenze, da una parte e dall’altra. Chi ne era bersaglio, cresciuto nel mito della Resistenza antifascista, pativa quell’insulto come sommamente ingiusto. E tuttavia la nostra contestazione nei confronti della politica del Pci, e la rappresaglia verbale che produceva, pure durissima, risultava comunque “interna” allo stesso campo.
La sinistra che si voleva rivoluzionaria era, almeno nel nelle sue espressioni più mature, una specie di “Fiom” e la critica al Pci era tutta concentrata su temi come, le diseguaglianze sociali, la condizione operaia, lo stato delle periferie urbane, i diritti di libertà. Un episodio, cioè, del classico scontro tra estremismo e riformismo. Oggi il quadro mi sembra totalmente diverso. Se dunque capisco la ferita politica che quel termine produce, e personalmente fatico a usarlo nei confronti di altri, sono tentato di ricorrervi nell’analisi di quel linguaggio scellerato e dalla mentalità da cui deriva.
Il florilegio di aggettivi e sostantivi e di formule e di frasi che Grillo e Antonio Di Pietro, molti protagonisti e una moltitudine di anonimi del web offrono quotidianamente, ne è testimonianza incontrovertibile. Non tutti, indubbiamente, ricorrono alla medesima prosa, ma il leader dell’Italia dei Valori e quello di 5 Stelle, su un tema cruciale come quello dell’immigrazione – ed è solo un esempio hanno detto cose da fare rizzare i capelli in testa.
Ma la questione è più profonda ancora: di ispirazione fascistica è una certa struttura mentale che quel linguaggio, nelle sue espressioni aggressive e nei suoi accenti di disprezzo e odio, rivela. E tuttavia sarebbe assai ingiusto affastellare la varietà di forme dell’ostilità antipolitica in un’unica categoria e qualificarla a partire dalle pulsioni violente (“fasciste”) che spesso esprime. Depurato di queste ultime, quell’atteggiamento evoca comunque tratti culturali e orientamenti politici che rimandano al campo della destra.
Sotto questa luce, il caso più interessante è rappresentato da Il Fatto Quotidiano. Il suo direttore, Antonio Padellaro, già direttore de l’Unità, è uomo limpidamente di sinistra per storia e cultura. Di sinistra, d’altro canto, sono numerosi redattori e di sinistra è una parte significativa dei lettori. Tuttavia ciò che emerge nitidamente è che l’egemonia culturale che orienta il quotidiano e la sua immagine, i suoi titoli e i suoi messaggi, è di destra. E qui, per evitare equivoci, chiamo destra l’insieme di connotati culturali e politici che definiscono, da due secoli a questa parte, uno dei due campi in cui si divide il sistema politico. Anche a voler essere prudenti, il minimo che si possa dire è che, in ogni caso, l’egemonia culturale che orienta Il Fatto non è di sinistra.
So bene che, a questo punto, sembra impossibile sottrarsi all’eterno quesito su cosa sia destra e cosa sia sinistra, ma – appunto per questo – preferisco esprimermi in negativo, indicando ciò che certamente “non è di sinistra”.
PENSIERI E PAROLE
E prendo, a mo’ di esempio, un titolo a tutta pagina del Il Fatto del 5 aprile scorso: «In un Paese di ladri». Sembra un titolo come tanti, ma è invece straordinariamente significativo del ragionamento che qui intendo fare. Innanzitutto perché la sacrosanta lotta alla corruzione diventa, con quelle cinque parole, non solo il punto di vista del quotidiano, ma anche qualcosa di simile a una “visione del mondo”. Come si fa, infatti, a definire l’Italia, ma anche solo il suo sistema politico e istituzionale come un universo di mascalzoni?
Qui non si esprime solo il qualunquismo che fa di tutta l’erba un fascio, che azzera le differenze, che livella le biografie individuali e le storie collettive; qui si manifesta, piuttosto, un’idea della società come un’unica macchina del malaffare, dove non c’è spazio alcuno, non dico per l’onestà dei singoli, ma nemmeno per la libera esistenza dei singoli stessi, per le loro soggettività e le loro esperienze.
C’è un blocco unico, che annulla le persone e l’autonomia individuale e la capacità di autodeterminazione e i percorsi di emancipazione collettiva. Siamo di fronte o all’idea di un’unica e sola e omogenea struttura dispotica – e va dimostrato che l’Italia attuale sia questo – o alla proiezione paranoide di una concezione autoritaria e disperata della vita sociale. In entrambi i casi, simili letture della società italiana contemporanea nulla hanno a che vedere con un punto di vista e un metodo interpretativo qualificabili come di sinistra: di qualunque sinistra.
La ragione è semplice: in quella rappresentazione, cupa e irredimibile, risulta azzerata – o affievolita fino al punto di non potersi cogliere – qualunque polarità che si richiami al conflitto tra destra e sinistra: uguaglianza/gerarchia; giustizia/ingiustizia; individuo/Stato; libertà/autorità. In luogo di queste coppie di concetti, vengono esaltate altre polarità: giovani/vecchi; legalità/illegalità; popolo/élites; antipolitica/politica. Si tratta di polarità tutte legittime, spesso motivate e comunque assai sentite, ma che rimandano a un campo diverso da quello della sinistra nelle sue molte articolazioni storiche e nelle sue differenti espressioni culturali. E che risalgono, tutte, agli ultimi due decenni, e a quella Seconda Repubblica che, appunto, avrebbe fatto evaporare il discrimine tra destra e sinistra.
Trovo questa lettura fallace, e per più ragioni. In primo luogo perché il tramonto della Seconda Repubblica e la crisi economico-finanziaria ripropongono con forza un conflitto tra due campi e due culture che, comunque rinnovati e persino qualunque nome assumano, rimandano sempre alla Destra e alla Sinistra. Come, per altro, accade in tutti i Paesi europei.
Ma non è solo la necessità di misurarsi su un tema, quello del lavoro, che inevitabilmente richiama le antiche categorie, a motivare la definizione “di destra” per l’agitazione populista e demagogica in corso.
Si pensi alla questione del giustizialismo: quel titolo prima citato («In un Paese di ladri») è il punto di arrivo di un’intera concezione. Se tutta la vita sociale viene vista attraverso l’ottica della fattispecie penale – il furto, la corruzione – è inevitabile che questa si porti appresso
tutte le carabattole di tic e arnesi, di pensieri e di invettive conseguenti.
Se viviamo «in un Paese di ladri», è inevitabile che il primo e principale slogan politico coincida col grido di Giorgio Bracardi: «in galera». Ed è conseguente, ancora, che la preoccupazione di una presunta “difesa sociale” prevalga sempre sulla tutela dei diritti individuali. E che il programma politico della sinistra debba essere quello del “populismo giudiziario”, dove i pubblici ministeri diventano i leader della mobilitazione emotivo-moralistica e i cronisti giudiziari assumono il ruolo di autorevoli opinion leader.
Ma gli effetti possono essere ancora più devastanti: si diffonde una modalità di osservazione della politica, dell’economia, delle istituzioni attraverso il buco della serratura, formando così un’opinione pubblica convinta che la dimensione più sordida e oscura sia quella che domina l’intera collettività e tutte le relazioni interpersonali. Attraverso il buco della serratura si guarda la vita: e, dunque, attraverso lo spioncino della cella si crede di conoscere “la vera natura” della persona – comunque colpevole e reclusa – e non, invece, l’intollerabile sofferenza della perdita di libertà e dignità.
Ne deriva inevitabilmente che la grande questione dei diritti umani e delle garanzie individuali – questa sì propria di una sinistra di alto profilo politico e morale – risulti totalmente ignorata. Così come, a quello sguardo dal buco della serratura e dallo spioncino della cella, sfuggono altre decisive questioni: il problema dell’Ilva sembra essere solo quello delle sanzioni nei confronti dei proprietari e dei dirigenti, e non l’enorme questione dello sviluppo sostenibile.
Vale anche per tutte le altre crisi industriali: è il conflitto d’interesse del ministro Passera e non il destino della classe operaia e degli operai in carne e ossa, ciò che viene posto al centro dell’attenzione. E così via. Il giustizialismo, in questa visione tetra e nevrotica, non è solo una torsione nell’amministrazione della giustizia: è una patologia della politica.

L’Unità 07.09.12

"Quella strana sinistra che dice cose di destra", di Luigi Manconi

Dichiaro in primo luogo le mie generalità: sono d’accordo con Pier Luigi Bersani sul fatto che nel discorso pubblico di Beppe Grillo (e non solo suo) si trovino tracce inequivocabili di “linguaggio fascista”. E questo già vuol dire che a utilizzare quel linguaggio fascistico, non è necessariamente “un fascista”: possono farlo individui e gruppi che, senza esserlo per biografia e ideologia, attingono a un vocabolario e a una retorica, a un sottofondo culturale e a una struttura semantica la cui origine, certo lontana ma non esaurita, è quella fascista. Qui vi si trova disprezzo dell’avversario e rancore plebeo, sfregio dell’identità altrui e concezione gerarchico-autoritaria delle relazioni sociali. Insomma si può ricorrere a “linguaggio fascista”, senza essere fascista.
Quand’ero piccino e movimentista e scostumato, fui tra coloro che, in una contrapposizione assai aspra col Pci, ricevettero da quel partito l’onta di quell’epiteto: “fascista”. Fu un’esperienza bruciante all’interno di una polemica politica condotta fino alle estreme conseguenze, da una parte e dall’altra. Chi ne era bersaglio, cresciuto nel mito della Resistenza antifascista, pativa quell’insulto come sommamente ingiusto. E tuttavia la nostra contestazione nei confronti della politica del Pci, e la rappresaglia verbale che produceva, pure durissima, risultava comunque “interna” allo stesso campo.
La sinistra che si voleva rivoluzionaria era, almeno nel nelle sue espressioni più mature, una specie di “Fiom” e la critica al Pci era tutta concentrata su temi come, le diseguaglianze sociali, la condizione operaia, lo stato delle periferie urbane, i diritti di libertà. Un episodio, cioè, del classico scontro tra estremismo e riformismo. Oggi il quadro mi sembra totalmente diverso. Se dunque capisco la ferita politica che quel termine produce, e personalmente fatico a usarlo nei confronti di altri, sono tentato di ricorrervi nell’analisi di quel linguaggio scellerato e dalla mentalità da cui deriva.
Il florilegio di aggettivi e sostantivi e di formule e di frasi che Grillo e Antonio Di Pietro, molti protagonisti e una moltitudine di anonimi del web offrono quotidianamente, ne è testimonianza incontrovertibile. Non tutti, indubbiamente, ricorrono alla medesima prosa, ma il leader dell’Italia dei Valori e quello di 5 Stelle, su un tema cruciale come quello dell’immigrazione – ed è solo un esempio hanno detto cose da fare rizzare i capelli in testa.
Ma la questione è più profonda ancora: di ispirazione fascistica è una certa struttura mentale che quel linguaggio, nelle sue espressioni aggressive e nei suoi accenti di disprezzo e odio, rivela. E tuttavia sarebbe assai ingiusto affastellare la varietà di forme dell’ostilità antipolitica in un’unica categoria e qualificarla a partire dalle pulsioni violente (“fasciste”) che spesso esprime. Depurato di queste ultime, quell’atteggiamento evoca comunque tratti culturali e orientamenti politici che rimandano al campo della destra.
Sotto questa luce, il caso più interessante è rappresentato da Il Fatto Quotidiano. Il suo direttore, Antonio Padellaro, già direttore de l’Unità, è uomo limpidamente di sinistra per storia e cultura. Di sinistra, d’altro canto, sono numerosi redattori e di sinistra è una parte significativa dei lettori. Tuttavia ciò che emerge nitidamente è che l’egemonia culturale che orienta il quotidiano e la sua immagine, i suoi titoli e i suoi messaggi, è di destra. E qui, per evitare equivoci, chiamo destra l’insieme di connotati culturali e politici che definiscono, da due secoli a questa parte, uno dei due campi in cui si divide il sistema politico. Anche a voler essere prudenti, il minimo che si possa dire è che, in ogni caso, l’egemonia culturale che orienta Il Fatto non è di sinistra.
So bene che, a questo punto, sembra impossibile sottrarsi all’eterno quesito su cosa sia destra e cosa sia sinistra, ma – appunto per questo – preferisco esprimermi in negativo, indicando ciò che certamente “non è di sinistra”.
PENSIERI E PAROLE
E prendo, a mo’ di esempio, un titolo a tutta pagina del Il Fatto del 5 aprile scorso: «In un Paese di ladri». Sembra un titolo come tanti, ma è invece straordinariamente significativo del ragionamento che qui intendo fare. Innanzitutto perché la sacrosanta lotta alla corruzione diventa, con quelle cinque parole, non solo il punto di vista del quotidiano, ma anche qualcosa di simile a una “visione del mondo”. Come si fa, infatti, a definire l’Italia, ma anche solo il suo sistema politico e istituzionale come un universo di mascalzoni?
Qui non si esprime solo il qualunquismo che fa di tutta l’erba un fascio, che azzera le differenze, che livella le biografie individuali e le storie collettive; qui si manifesta, piuttosto, un’idea della società come un’unica macchina del malaffare, dove non c’è spazio alcuno, non dico per l’onestà dei singoli, ma nemmeno per la libera esistenza dei singoli stessi, per le loro soggettività e le loro esperienze.
C’è un blocco unico, che annulla le persone e l’autonomia individuale e la capacità di autodeterminazione e i percorsi di emancipazione collettiva. Siamo di fronte o all’idea di un’unica e sola e omogenea struttura dispotica – e va dimostrato che l’Italia attuale sia questo – o alla proiezione paranoide di una concezione autoritaria e disperata della vita sociale. In entrambi i casi, simili letture della società italiana contemporanea nulla hanno a che vedere con un punto di vista e un metodo interpretativo qualificabili come di sinistra: di qualunque sinistra.
La ragione è semplice: in quella rappresentazione, cupa e irredimibile, risulta azzerata – o affievolita fino al punto di non potersi cogliere – qualunque polarità che si richiami al conflitto tra destra e sinistra: uguaglianza/gerarchia; giustizia/ingiustizia; individuo/Stato; libertà/autorità. In luogo di queste coppie di concetti, vengono esaltate altre polarità: giovani/vecchi; legalità/illegalità; popolo/élites; antipolitica/politica. Si tratta di polarità tutte legittime, spesso motivate e comunque assai sentite, ma che rimandano a un campo diverso da quello della sinistra nelle sue molte articolazioni storiche e nelle sue differenti espressioni culturali. E che risalgono, tutte, agli ultimi due decenni, e a quella Seconda Repubblica che, appunto, avrebbe fatto evaporare il discrimine tra destra e sinistra.
Trovo questa lettura fallace, e per più ragioni. In primo luogo perché il tramonto della Seconda Repubblica e la crisi economico-finanziaria ripropongono con forza un conflitto tra due campi e due culture che, comunque rinnovati e persino qualunque nome assumano, rimandano sempre alla Destra e alla Sinistra. Come, per altro, accade in tutti i Paesi europei.
Ma non è solo la necessità di misurarsi su un tema, quello del lavoro, che inevitabilmente richiama le antiche categorie, a motivare la definizione “di destra” per l’agitazione populista e demagogica in corso.
Si pensi alla questione del giustizialismo: quel titolo prima citato («In un Paese di ladri») è il punto di arrivo di un’intera concezione. Se tutta la vita sociale viene vista attraverso l’ottica della fattispecie penale – il furto, la corruzione – è inevitabile che questa si porti appresso
tutte le carabattole di tic e arnesi, di pensieri e di invettive conseguenti.
Se viviamo «in un Paese di ladri», è inevitabile che il primo e principale slogan politico coincida col grido di Giorgio Bracardi: «in galera». Ed è conseguente, ancora, che la preoccupazione di una presunta “difesa sociale” prevalga sempre sulla tutela dei diritti individuali. E che il programma politico della sinistra debba essere quello del “populismo giudiziario”, dove i pubblici ministeri diventano i leader della mobilitazione emotivo-moralistica e i cronisti giudiziari assumono il ruolo di autorevoli opinion leader.
Ma gli effetti possono essere ancora più devastanti: si diffonde una modalità di osservazione della politica, dell’economia, delle istituzioni attraverso il buco della serratura, formando così un’opinione pubblica convinta che la dimensione più sordida e oscura sia quella che domina l’intera collettività e tutte le relazioni interpersonali. Attraverso il buco della serratura si guarda la vita: e, dunque, attraverso lo spioncino della cella si crede di conoscere “la vera natura” della persona – comunque colpevole e reclusa – e non, invece, l’intollerabile sofferenza della perdita di libertà e dignità.
Ne deriva inevitabilmente che la grande questione dei diritti umani e delle garanzie individuali – questa sì propria di una sinistra di alto profilo politico e morale – risulti totalmente ignorata. Così come, a quello sguardo dal buco della serratura e dallo spioncino della cella, sfuggono altre decisive questioni: il problema dell’Ilva sembra essere solo quello delle sanzioni nei confronti dei proprietari e dei dirigenti, e non l’enorme questione dello sviluppo sostenibile.
Vale anche per tutte le altre crisi industriali: è il conflitto d’interesse del ministro Passera e non il destino della classe operaia e degli operai in carne e ossa, ciò che viene posto al centro dell’attenzione. E così via. Il giustizialismo, in questa visione tetra e nevrotica, non è solo una torsione nell’amministrazione della giustizia: è una patologia della politica.
L’Unità 07.09.12

"I limiti della scienza intrappolata tra ragione e umanità", di Michela Marzano

Primum non nocere, “innanzitutto non nuocere”. È uno dei più importanti principi etici della medicina. Uno dei cardini del famoso giuramento di Ippocrate, oggi ripreso da tutti i codici di deontologia medica. Ogni medico, prima di cominciare la professione, giura di tutelare la saluta dei propri pazienti, di far di tutto per alleviarne le sofferenze, e di evitare che corrano rischi eccessivi legati ai trattamenti prescritti. Che fare allora di fronte ad una malattia incurabile, quando la sola speranza sembra essere quella di utilizzare delle terapie ancora sperimentali e incerte? Che dire a dei genitori che, di fronte alla malattia dei propri bambini e ai limiti della medicina, implorano perché si utilizzino le staminali, anche in assenza di una prova certa dei loro benefici, come nel caso di Smeralda, Celeste e Daniele?
La possibilità di accedere o meno alla terapia della Stamina Foundation rappresenta un vero e proprio dilemma etico. Perché nessuna soluzione sembra del tutto soddisfacente se si invocano valori e principi morali universali. Anzi, in questa storia, tutti sembrano aver ragione. Hanno ragione i genitori, che vogliono solo cercare di far qualcosa per i propri figli, che non riescono ad accettare l’ineluttabile, che si attaccano ad ogni speranza. Anche se non può essere dimostrato che queste cure non provocheranno danni ulteriori. Chi potrebbe d’altronde biasimarli? Chi non sarebbe disposto a tutto, trascurando l’analisi del rapporto tra rischi e benefici delle cure, per cercare di salvare il proprio bambino? Non è il principio della sacralità della vita che giustifica la loro scelta. È solo l’amore incondizionato per i propri figli. Che non ha bisogno di nessuna giustificazione etica, come sa bene chi è padre o madre.
Quando si cambia di punto di vista, però, anche chi critica le staminali sembra aver ragione. Perché le evoluzioni della scienza e della medicina
sono possibili solo a condizione di rispettare alla lettera i protocolli di ricerca. Perché un medico non dovrebbe mai far prendere ad un paziente rischi eccessivi. Perché non è giusto alimentare false speranze e illudere la gente.
Chi potrebbe biasimare una postura di questo tipo? Non c’è un’etica della ricerca che si deve rispettare anche quando, a livello individuale, ci si confronta con un dramma? La scelta, in questo caso, si giustifica in nome della deontologia scientifica e medica. Anche se la vulnerabilità della condizione umana dovrebbe spingerci a concettualizzare un’etica che talvolta contraddice la semplice deontologia.
Staminali si. Staminali no. Se si resta su questa alternativa secca, non c’è soluzione al dilemma. Perché è ovvio che ci vuole tanto tempo, tanta pazienza e tante risorse perché la ricerca medica avanzi. E cercare delle scorciatoie, o giocare agli apprendisti stregoni sulla pelle delle persone, non sembra una soluzione eticamente accettabile.
Primum non nocere,
appunto. Eppure, proprio perché la medicina è un’attività umana, si dovrebbe fare attenzione a non assolutizzarne i principi. Albert Camus aveva un giorno confessato che se gli avessero chiesto di scegliere tra la “Giustizia” e sua “madre”, non avrebbe avuto dubbi e avrebbe scelto sua madre. Il che non vuol dire che la giustizia non fosse per lui importante. Al contrario. Ma sacrificare una persona ad un principio è un modo per rendere vano ogni sforzo etico. Ecco perché di fronte a genitori disperati, ci si può chiedere se non valga la pena di dar loro una speranza.
Non in nome di un principio, ma in nome della compassione. Che forse non giustifica in modo rigoroso una scelta, ma serve sempre a capire la situazione drammatica in cui si trovano talvolta le persone, e a cercare una soluzione che ne rispetti l’umanità.

La Repubblica 07.09.12

"I limiti della scienza intrappolata tra ragione e umanità", di Michela Marzano

Primum non nocere, “innanzitutto non nuocere”. È uno dei più importanti principi etici della medicina. Uno dei cardini del famoso giuramento di Ippocrate, oggi ripreso da tutti i codici di deontologia medica. Ogni medico, prima di cominciare la professione, giura di tutelare la saluta dei propri pazienti, di far di tutto per alleviarne le sofferenze, e di evitare che corrano rischi eccessivi legati ai trattamenti prescritti. Che fare allora di fronte ad una malattia incurabile, quando la sola speranza sembra essere quella di utilizzare delle terapie ancora sperimentali e incerte? Che dire a dei genitori che, di fronte alla malattia dei propri bambini e ai limiti della medicina, implorano perché si utilizzino le staminali, anche in assenza di una prova certa dei loro benefici, come nel caso di Smeralda, Celeste e Daniele?
La possibilità di accedere o meno alla terapia della Stamina Foundation rappresenta un vero e proprio dilemma etico. Perché nessuna soluzione sembra del tutto soddisfacente se si invocano valori e principi morali universali. Anzi, in questa storia, tutti sembrano aver ragione. Hanno ragione i genitori, che vogliono solo cercare di far qualcosa per i propri figli, che non riescono ad accettare l’ineluttabile, che si attaccano ad ogni speranza. Anche se non può essere dimostrato che queste cure non provocheranno danni ulteriori. Chi potrebbe d’altronde biasimarli? Chi non sarebbe disposto a tutto, trascurando l’analisi del rapporto tra rischi e benefici delle cure, per cercare di salvare il proprio bambino? Non è il principio della sacralità della vita che giustifica la loro scelta. È solo l’amore incondizionato per i propri figli. Che non ha bisogno di nessuna giustificazione etica, come sa bene chi è padre o madre.
Quando si cambia di punto di vista, però, anche chi critica le staminali sembra aver ragione. Perché le evoluzioni della scienza e della medicina
sono possibili solo a condizione di rispettare alla lettera i protocolli di ricerca. Perché un medico non dovrebbe mai far prendere ad un paziente rischi eccessivi. Perché non è giusto alimentare false speranze e illudere la gente.
Chi potrebbe biasimare una postura di questo tipo? Non c’è un’etica della ricerca che si deve rispettare anche quando, a livello individuale, ci si confronta con un dramma? La scelta, in questo caso, si giustifica in nome della deontologia scientifica e medica. Anche se la vulnerabilità della condizione umana dovrebbe spingerci a concettualizzare un’etica che talvolta contraddice la semplice deontologia.
Staminali si. Staminali no. Se si resta su questa alternativa secca, non c’è soluzione al dilemma. Perché è ovvio che ci vuole tanto tempo, tanta pazienza e tante risorse perché la ricerca medica avanzi. E cercare delle scorciatoie, o giocare agli apprendisti stregoni sulla pelle delle persone, non sembra una soluzione eticamente accettabile.
Primum non nocere,
appunto. Eppure, proprio perché la medicina è un’attività umana, si dovrebbe fare attenzione a non assolutizzarne i principi. Albert Camus aveva un giorno confessato che se gli avessero chiesto di scegliere tra la “Giustizia” e sua “madre”, non avrebbe avuto dubbi e avrebbe scelto sua madre. Il che non vuol dire che la giustizia non fosse per lui importante. Al contrario. Ma sacrificare una persona ad un principio è un modo per rendere vano ogni sforzo etico. Ecco perché di fronte a genitori disperati, ci si può chiedere se non valga la pena di dar loro una speranza.
Non in nome di un principio, ma in nome della compassione. Che forse non giustifica in modo rigoroso una scelta, ma serve sempre a capire la situazione drammatica in cui si trovano talvolta le persone, e a cercare una soluzione che ne rispetti l’umanità.
La Repubblica 07.09.12

Fuorionda inguaia Grillo «Da noi la democrazia non esiste», di Claudia Fusani

Il consigliere regionale dell’Emilia Romagna Giovanni Favia, del Movimento 5 Stelle, in un fuori onda trasmesso da “Piazza pulita” di La7, attacca il leader: «Da noi la democrazia non esiste, c’è il rischio che il movimento esploda». E sul guru del movimento Casaleggio: «Decide da solo, in rete non si può più parlare».
“E adesso vi dico la verità, altro che libertà e partito non leader. In M5S non c’è più libertà, Casaleggio prende per il culo tutti, da noi non c’è più libertà”. Stavolta la carriera politica di Giovanni Favia, 30 anni, grillino della prima ora, il primo eletto (2010) nel consiglio regionale dell’Emilia Romagna, sembra finita per sempre. Oppure no, oppure forse è la svolta che cerca.

Il giovane brillante grillino, già entrato più volte in rotta di collisione con Grillo per via della sua esuberanza che mal si concilia con il leaderismo del comico e l’organizzazione rigida del guru Casaleggio, ha fatto queste dichiarazioni ai microfoni di Piazza Pulita. E nel giro di pochi minuti la rete è impazzita. Non è azzardato dire che si tratta del fatto politico della giornata. Favia è stato in agosto al centro dello scandalo perchè ha pagato con i soldi della regione alcune interviste nei talk show sulle tv locali. La troupe di Piazza Pulita è andata ad intervistarlo di nuovo. Nella prima parte del servizio mandato in onda Favia racconta cose note e scontate, del tipo che “M5S è un movimento libero, che non ci sono interferenze”, insomma una vera associazione democratica. L’intervista finisce. I microfoni si spengono. Favia se ne accerta. Ma i microfoni restano aperti. E il consigliere regionale grillino aggiunge: “E adesso vi racconto la verità, altro che libertà, Casaleggio prende per il culo tutti, controlla tutto con i suoi infiltrati, nel Movimento vige il terrore…”.

Twitter è impazzito. Sull’hastag #Piazzapulita stanno cirolando i commenti più severi. Sarà difficile questa volta, anche per Grillo e Casaleggio, mettere a tacere la rete.

www.unita.it

"La supplenza tecnocratica", di Massimo Giannini

Draghi ha vinto la battaglia di Francoforte. Il via libera della Bce allo scudo anti-spread è un passo avanti verso il salvataggio della moneta unica. Non era affatto scontato che il banchiere italiano riuscisse a convincere 16 governatori su 17, più i 5 membri del board, a votare sì al nuovo piano di acquisto di bond degli Stati più esposti sul differenziale tra i tassi d’interesse. La vittoria ha un alto costo economico: per i Paesi che busseranno all’Eurotower, il pasto non sarà gratis. Ma fa emergere soprattutto un altissimo deficit politico: per quanto importante, nessuna supplenza dei tecnocrati potrà colmare la «vacanza» dei
governanti di Eurolandia. Il compito del presidente era arduo. Uscire dal Consiglio direttivo con una decisione formale, e non con un impegno generico, era ai limiti del temerario. Le pressioni di chi chiedeva tempo erano fortissime: perché non aspettare la pronuncia della Corte di Karlsruhe sulla legittimità costituzionale dei fondi salva-Stati, prevista per il 12 settembre? Le tensioni tedesche dell’establishment e dell’opinione pubblica erano insostenibili: perché cedere ancora all’azzardo morale preteso dai Piigs, i “maiali” dell’eurozona? La contesa intorno al nuovo firewall della Banca centrale stava, e purtroppo sta tuttora, assumendo i contorni di uno “scontro di civiltà”.
La vulgata più retriva, disgraziatamente dominante in queste settimane di campagne elettorali incrociate, era la seguente. I tedeschi hanno accettato la moneta unica puntando alla germanizzazione del Club Med. Se ora passa lo scudo anti-spread, si ritroveranno a fare i conti con l’italianizzazione dell’Europa. “Lira-zation”, è il termine che non a caso orbita da giorni nel circuito politico-mediatico europeo. Come se le decisioni di Draghi prefigurassero un clamoroso sovvertimento degli equilibri dell’Unione. Portando la Bce a rinnegare la luterana “cultura della stabilità”, e ad introiettare la cattolica “cultura della liretta”. Sancendo una sorta di egemonia culturale dei “latinos” sui “teutoni”. Se si guarda alla storia del Novecento, dalla crisi di Weimar in poi, i tedeschi hanno qualche ragione di temere per se stessi. Se si guarda al passato più recente, hanno anche qualche ragione di diffidare degli altri.
Ma la deriva anti-europea di queste ultime settimane stava diventando francamente inquietante. Draghi è riuscito a spezzare questa cappa di conformismo populista, che con motivazioni uguali e contrarie si insinua nelle capitali del Continente. È riuscito a reggere alle pesanti interferenze tedesche, creando consenso intorno al suo Monetary Outright Transactions. È riuscito a conquistare il sostegno discreto della cancelliera Merkel, che in pubblico bastona per tranquillizzare i suoi elettori, ma in privato ragiona perché riconosce i vantaggi dell’euro. È riuscito a isolare, mettendolo in minoranza assoluta nel board, il falco della Bundesbank Weidmann, costretto ad un irrituale comunicato in cui conferma i suoi giudizi negativi sullo scudo e rinfocola i suoi pregiudizi corrivi nei confronti dei “mediterranei”.
La cura predisposta dalla Bce può fermare l’emorragia degli spread. Insieme alle risorse già assegnate al fondo salva-Stati Efsf, la “massa critica” degli interventi possibili, tra mercato primario e secondario, supera di gran lunga i 1.600 miliardi di euro. Gli acquisti “senza limiti fissati ex ante” di titoli di Stato sono una difesa potente, anche sul piano psicologico, che può disarmare la grande speculazione internazionale. La rinuncia alla “seniority” della Banca centrale, che cessa di considerarsi “creditore privilegiato”, può aiutare a rassicurare gli operatori. Ma quello che conta, e che Draghi sembra sperare, è soprattutto l’effetto deterrenza di questo ennesimo “muro di fuoco” che la Bce alza a difesa dell’euro. L’auspicio è che basti l’annuncio a piegare gli spread e a scongiurare la necessità che gli Stati più esposti siano costretti a chiedere l’aiuto dell’Eurotower e dell’Efsf. La reazione entusiasta dei mercati sembra alimentare la speranza. Ma la paura rimane. Per due ragioni essenziali.
La prima ragione è che Draghi, pur vincendo la battaglia, ha dovuto comunque concedere qualcosa alla Bundesbank. E quel “qualcosa” costa caro ai Paesi che avranno bisogno dell’intervento della Bce: le nuove «condizionalità» alle quali saranno sottoposti sono più «severe e stringenti» di quelle immaginate dai governi al Consiglio europeo del 28-29 giugno scorso. Agli Stati sussidiati saranno richieste «misure correttive» ulteriori e da concordare con la Troika. Questo vale per la Spagna di Rajoy, che potrebbe essere il primo ad andare a Francoforte con il cappello in mano. Ma può valere anche per l’Italia di Monti, che farà di tutto per evitarlo, ma che se lo facesse ipotecherebbe l’azione di qualunque governo successivo al suo dopo il voto della primavera del 2013. Un maleficio per chi vincerà le elezioni, che tuttavia potrebbe rivelarsi un beneficio per il Paese.
La seconda ragione è che Draghi, pur mettendo un’altra piccola ma solida pietra nel muro della costruzione europea, non può fare a lungo un mestiere che non gli compete. Era già accaduto con i primi Smp (gli acquisti di bond dell’estate scorsa), e poi con gli Ltro (le maxi-iniezioni di liquidità per le banche). Utili a tamponare, a “comprare tempo”, ma non certo risolutivi. Per quanti “attrezzi” la Bce possa mettere in campo, il cantiere di Eurolandia va avanti e si completa solo se la politica riempie come deve i vuoti che la tecnica non può colmare. L’agenda europea delle prossime settimane è densa di appuntamenti. I governi hanno il dovere di onorarli. Le tecnocrazie, per quanto esecrate, restano finora il solo driver funzionante dell’Unione. Non possono continuare a sostituire le democrazie.

La Repubblica 07.09.12