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"Insulti politici", di Carlo Galli

L’Iliade, l’archetipo della letteratura occidentale è appena cominciata (con la parola “ira”, per altro), e già due eroi, Achille e Agamennone, litigano. Per una donna (la schiava Briseide), certamente; ma è un litigio politico: i due sono entrambi re, capi di uomini; in quella disputa non è in gioco soltanto l’Ego debordante e fanciullesco di due protagonisti dell’infanzia del mondo; ne va del loro ruolo pubblico, della loro capacità di sopportare la vergogna, il giudizio altrui, e non solo della loro dignità privata. O meglio, le due dimensioni sono inscindibili. E infatti per delegittimarsi politicamente (come capi) i due si insultano personalmente (come uomini): «avvinazzato, tu hai lo sguardo del cane e il cuore di un cervo», dice Achille (il cane è l’emblema dell’impudenza, della mancanza di vergogna; e il cervo della viltà); e l’altro gli ha appena detto «sei odioso, devi imparare che sono molto più forte di te». L’insulto in questa sua forma politica essenziale è un’aggressione – questo è il significato di “insultare”: “saltare addosso” – che consiste nella diminuzione del prestigio, della gloria, dell’avversario; per colpirlo al cuore, nell’immagine di sé, prima che nel corpo; per comunicare disprezzo e quindi incutere timore. È parola violenta che prepara la violenza fisica.
L’insulto tipico è quello che riduce il nemico a meno che uomo, mettendone in dubbio la virilità, o meglio ancora paragonandolo a un animale, possibilmente immondo: “cane”, appunto; ma anche “porco”; oppure, più signorilmente, “pidocchio” – così si espresse Togliatti nel 1951, paragonando i due comunisti reggiani dissidenti, Cucchi e Magnani, ai pidocchi che possono annidarsi «anche nella criniera di un nobile cavallo» (il Pci; il cavallo non si presta all’insulto, sostituito dal più inespressivo, “asino”; mentre è sempre andato forte il “verme”). In ambito teologico – che in realtà è spesso anche politico –, «becchi privi di ragione» definisce Lutero i polemisti cattolici, mentre la corte papale è per lui “Babilonia”, la «grande meretrice» dell’Apocalisse, seduta sulla «bestia dalle sette teste e dalle dieci corna».
Si sarebbe potuto pensare che l’avvento delle moderne geometrie del potere – un processo che è avvenuto sotto il segno di un’altra bestia biblica, il Leviatano (il titolo dell’opera di Hobbes) – avrebbero eliminato la necessità di personalizzare la politica, trasformandola in un campo di impersonali funzioni di potere, dove si affrontano idee o interessi, forze storiche e orizzonti ideologici; in un mondo adulto, in cui c’è posto per il rapporto amico/ nemico – che è una cosa seria, anzi mortale –, ma che in linea di principio non prevede l’odio personale, il disprezzo morale per l’avversario. Nella politica moderna dovrebbe esserci posto per la violenza oggettiva, ma non per gli infantilismi, per le parolacce.
Nulla di meno vero. Quanto più ci si inoltra nella modernità, tanto più la polemica politica si fa accesa, e l’insulto si fa feroce: il mondo moderno è segnato non
solo dal potere statale ma anche dalle ideologie, che sono sì impersonali ma hanno bisogno del nemico: inteso però non tanto come avversario da battere, ma come nemico dell’umanità, da eliminare. E quindi mentre permangono i riferimenti alle bestie (nella Marsigliese «tigri senza pietà» vengono chiamati i «despoti sanguinari» contro i quali i «figli della Patria» debbono marciare), nella modernità – in cui gioca un ruolo rilevantissimo l’opposizione vecchio/nuovo (e tutto il valore sta nel secondo termine) – abbondano le dichiarazioni di morte presunta, a carico dell’avversario: che cosa c’è di più vecchio, superato, sorpassato, di un morto? Che cosa c’è di più giusto che porre fine alla nonvita di un morto vivente? Non a caso già lo stesso Hobbes definiva la Chiesa di Roma (insieme all’Impero) uno “spettro”, che è in questo mondo ma non dovrebbe esserci (“salma”, come oggi dice Grillo); e sulla stessa linea Togliatti, che da comunista credeva nell’inesorabilità del progresso, usava citare, contro gli avversari politici, due versi dell’Orlando innamorato (nella versione di Berni), in cui si parla di un cavaliere colpito da Orlando, che, non accortosi delle ferite, «andava combattendo, ed era morto». Sull’opposto versante, la violenza verbale di D’Annunzio a Fiume – ricca di non pubblicabili riferimenti scatologici rivolti ai politici di Roma, oltre che di tratti razzistici – anticipa quella di Mussolini contro il Partito Socialista Unitario (spregiativamente definito “pus”) e le ributtanti polemiche antisemitiche del regime, rivolte contro chi non poteva difendersi né ricambiare.
L’insulto è, insomma, una forma di violenza politica, che dice poco di chi è insultato, e molto di chi insulta. Si deve quindi distinguere fra l’insulto asimmetrico di un potere ideologico che prepara la persecuzione, lo sterminio, la guerra a morte, e l’insulto fra pari, un elemento antropologico arcaico che esprime la fisicità della politica, un rituale espressivo che precede il combattimento, a cui ogni politico di professione è preparato (come ha detto Obama a proposito degli attacchi di Clint Eastwood). C’è anche, lo vediamo sempre più spesso, l’insulto dal basso, contro il potere, che fa parte della strategia comunicativa degli
outsider, dei populisti che parlano alla pancia del Paese (prima Bossi, ora Grillo); in bocca ai quali l’insulto è ovvio – meraviglierebbero di più le pacate argomentazioni –.
Ma in generale, in una democrazia – che non è uno stato di guerra, di aperto conflitto, di rivoluzione – non deve esserci spazio per l’insulto, per la violenza verbale, come non c’è per la violenza fisica. Il confronto sulle idee e sulle opinioni, per quanto appassionatamente difese, non può essere sostituito dall’assalto alle persone. Se ciò avviene, siamo davanti a una tipologia dell’insulto ancora diversa: all’insulto irresponsabile – che ignora il rischio che la violenza verbale inneschi quella fisica, che l’intolleranza accenda nuovi roghi –, e all’insulto che è una cattiveria vigliacca (magari smentita, fra i sogghigni, il giorno dopo). Astenersene sarebbe un gesto di sobrietà, di tolleranza, di civismo, di buona educazione; anche se la politica non è sempre un pranzo di gala, una “civil conversazione”, non è per nulla detto che la volgarità e la violenza verbale la rendano intensa e drammatica. Negli insulti di oggi non echeggia la grandezza omerica; semmai, si rivela lo squallido degrado della piccola politica, dei piccoli tempi, dei piccoli uomini, della piccola democrazia.

La Repubblica 06.09.12

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“PERCHÉ IL CORPO VIENE PRESO DI MIRA”, di FILIPPO CECCARELLI
Nel raro ed aureoDizionario della maldicenza( Ceschina, 1958 e 1965) di Dino Provenzal, preside di liceo, letterato, medaglia d’oro dei Benemeriti della Cultura, non stupisce solo quanti pochi politici viventi fossero elencati tra gli offesi, ma soprattutto si segnala il garbo, l’eleganza, la spiritosa grazia dei loro maligni denigratori. Per cui ad esempio il presunto assassino del Duce, Walter Audisio, è fatto bersaglio di un crudele epigramma di Malaparte; il sindacalista Di Vittorio diventa con fantastico nomignolo “il Favoliere delle Puglie”, e Montanelli scolpisce lapidi tipo: «Qui giace/ Guglielmo Giannini/ ucciso/ dal dolore/ di essere/ un uomo qualunque».
Ora, dall’aulico distacco all’odierno e svaccatissimo trash corrono 50 anni di slittamenti e di passioni ridotte in miseria. Ma quando dinanzi all’ennesimo sbocco di diarrea e di necrofilia, come di fronte all’inedito rutto (nell’aula consiliare di Vigevano), al solito gestaccio della consueta tripartizione (corna, dito medio, ombrello) o allo stanco riecheggiare di “fascisti”, “comunisti”, ecco, quando si sente dire che la vita pubblica si è imbarbarita, la tentazione sarebbe di assentire. E di chiuderla lì.
E invece no, perché in questo tempo cui può adattarsi la qualifica manzoniana di “sudicio e sfarzoso”, a loro modo gli insulti rispecchiano al meglio la più vertiginosa trasformazione di una politica che punta ormai al minimo comune denominatore, il corpo, per cui è sostanzialmente attorno ad esso che ruota il vituperio; e così per fare male a qualcuno l’attuale polemologia di Palazzo, incerta tra Bagaglino e cinepanettone, vuole gli si dica che puzza, che è brutto, grasso, basso, pelato, vecchio, malato, rifatto, che ha gli occhi storti o la dentiera, o è impotente, bavoso, culattone, bongo-bongo o pedofilo.
Molto di più non si raccomanda. La linguaccia di Bossi, che tanto ha dato in quest’ambito (si pensi a Casini “carugnit de l’uratori” o al professor Miglio designato “una scoreggia nello spazio”) è sfiorita e il Senatùr suona ormai patetico nella sua muta volgarità gesticolante: e i cronisti scrivono che ha mostrato “il classico dito”.
Segno dei tempi non è tanto che il ministro La Russa abbia mandato in quel posto il presidente della Camera Fini, ma che il Collegio dei Questori ne abbia trovato tecnologica conferma osservando il labiale alla moviola. Così come fa riflettere che il presidente del Consiglio abbia fatto raccogliere le varie in-
giurie in un volume a cura del capo ufficio stampa di Forza Italia Luca D’Alessandro, pubblicato da Mondadori nel 2005 con il titolo: Berlusconi, ti odio.
Semmai, è fuori dal recinto dei partiti che le ingiurie riscattano la banale e volgare anatomia mostrando la loro patologica vitalità con la potenza del fuori- programma. Come in fondo accadde a “Porta a porta” allorché con un guizzo il molesto Paolini riuscì a togliere di mano il microfono alla giornalista Rondinelli e a soffiarci dentro: «Berlusconi ce l’ha piccolo piccolo!».
Altrimenti sono lanci di fetidi residui organici, ma veri: è accaduto al ristorante di lusso torinese “Il Cambio”, davanti a Palazzo Grazioli, sotto casa del ministro Gelmini. Oppure sono autentiche docce di quell’altra sostanza prima versata e poi rivendicata (“la mia balsamica ampolla”) da Marina Ripa di Meana addosso a Sgarbi, per ragioni misteriose, ma con annesso video. Ed è come se la pratica o se si vuole l’arte di offendere prendesse corpo – lei sì! – vivendo ormai di vita propria a colpi di invenzioni, vibrazioni, ri-creazioni, video- installazioni, fantasmatici remix e cori spaventosi, anche di bambini, in visione su YouTube; e performance a base di mutande, sagome, sedie vuote, ostensioni di cartelli creativi (“Trombolo l’ottavo nano”); e fantocci bruciati, maschere e magliette indossate a tradimento (“Fornero al cimitero”), bellicose consegne di ortaggi, scarpe, stampelle, gabinetti.
Per essere barbarici, sembrano moduli convenientemente arcaici, ma anche piuttosto evoluti. Vedi il ripristino della maledizione attraverso un camion- vela dedicato a Brunetta, sogghignante in effigie, e la grande scritta: “Te potesse pijà un colpo”. Vedi la protesta contro la riforma della scuola effettuata trascinando un asino a viale Trastevere. In questo contesto, segnato da richiami spettacolari, personalizzazione, cultura del talk-show e relative trappole dell’intimità, si è inserito Beppe Grillo. E più del “Vaffa day” o degli altri suoi mortiferi improperi pare significativa l’accaldata processione che fece l’estate scorsa con il deposito finale di un cesto di cozze marce davanti a Montecitorio: «La crisi sono loro – gridava indicando la Camera – ritardati morali con gravi psicopatologie, hanno la prostata gonfia, per due tette e un culo sfasciano la famiglia, sono pieni di viagra, questo è un paese che non esiste più». Dentro, in aula, gli onorevoli si limitano a scandire malinconicamente “Tro-ta Tro-ta” contro la Lega, o “Crozza Crozza” per scimmiottare Bersani, o “Munni- zza Mu-nni-zza” ai danni di Scilipoti.
E verrebbe da stringersi al cuore il vecchio La Malfa che inveiva contro un monarchico: «Ella è un miserabbile». Piccola politica, oggi, piccoli insulti. L’unica consolazione, in fondo, è che si dimenticano subito.

La Repubblica 06.09.12

"Insulti politici", di Carlo Galli

L’Iliade, l’archetipo della letteratura occidentale è appena cominciata (con la parola “ira”, per altro), e già due eroi, Achille e Agamennone, litigano. Per una donna (la schiava Briseide), certamente; ma è un litigio politico: i due sono entrambi re, capi di uomini; in quella disputa non è in gioco soltanto l’Ego debordante e fanciullesco di due protagonisti dell’infanzia del mondo; ne va del loro ruolo pubblico, della loro capacità di sopportare la vergogna, il giudizio altrui, e non solo della loro dignità privata. O meglio, le due dimensioni sono inscindibili. E infatti per delegittimarsi politicamente (come capi) i due si insultano personalmente (come uomini): «avvinazzato, tu hai lo sguardo del cane e il cuore di un cervo», dice Achille (il cane è l’emblema dell’impudenza, della mancanza di vergogna; e il cervo della viltà); e l’altro gli ha appena detto «sei odioso, devi imparare che sono molto più forte di te». L’insulto in questa sua forma politica essenziale è un’aggressione – questo è il significato di “insultare”: “saltare addosso” – che consiste nella diminuzione del prestigio, della gloria, dell’avversario; per colpirlo al cuore, nell’immagine di sé, prima che nel corpo; per comunicare disprezzo e quindi incutere timore. È parola violenta che prepara la violenza fisica.
L’insulto tipico è quello che riduce il nemico a meno che uomo, mettendone in dubbio la virilità, o meglio ancora paragonandolo a un animale, possibilmente immondo: “cane”, appunto; ma anche “porco”; oppure, più signorilmente, “pidocchio” – così si espresse Togliatti nel 1951, paragonando i due comunisti reggiani dissidenti, Cucchi e Magnani, ai pidocchi che possono annidarsi «anche nella criniera di un nobile cavallo» (il Pci; il cavallo non si presta all’insulto, sostituito dal più inespressivo, “asino”; mentre è sempre andato forte il “verme”). In ambito teologico – che in realtà è spesso anche politico –, «becchi privi di ragione» definisce Lutero i polemisti cattolici, mentre la corte papale è per lui “Babilonia”, la «grande meretrice» dell’Apocalisse, seduta sulla «bestia dalle sette teste e dalle dieci corna».
Si sarebbe potuto pensare che l’avvento delle moderne geometrie del potere – un processo che è avvenuto sotto il segno di un’altra bestia biblica, il Leviatano (il titolo dell’opera di Hobbes) – avrebbero eliminato la necessità di personalizzare la politica, trasformandola in un campo di impersonali funzioni di potere, dove si affrontano idee o interessi, forze storiche e orizzonti ideologici; in un mondo adulto, in cui c’è posto per il rapporto amico/ nemico – che è una cosa seria, anzi mortale –, ma che in linea di principio non prevede l’odio personale, il disprezzo morale per l’avversario. Nella politica moderna dovrebbe esserci posto per la violenza oggettiva, ma non per gli infantilismi, per le parolacce.
Nulla di meno vero. Quanto più ci si inoltra nella modernità, tanto più la polemica politica si fa accesa, e l’insulto si fa feroce: il mondo moderno è segnato non
solo dal potere statale ma anche dalle ideologie, che sono sì impersonali ma hanno bisogno del nemico: inteso però non tanto come avversario da battere, ma come nemico dell’umanità, da eliminare. E quindi mentre permangono i riferimenti alle bestie (nella Marsigliese «tigri senza pietà» vengono chiamati i «despoti sanguinari» contro i quali i «figli della Patria» debbono marciare), nella modernità – in cui gioca un ruolo rilevantissimo l’opposizione vecchio/nuovo (e tutto il valore sta nel secondo termine) – abbondano le dichiarazioni di morte presunta, a carico dell’avversario: che cosa c’è di più vecchio, superato, sorpassato, di un morto? Che cosa c’è di più giusto che porre fine alla nonvita di un morto vivente? Non a caso già lo stesso Hobbes definiva la Chiesa di Roma (insieme all’Impero) uno “spettro”, che è in questo mondo ma non dovrebbe esserci (“salma”, come oggi dice Grillo); e sulla stessa linea Togliatti, che da comunista credeva nell’inesorabilità del progresso, usava citare, contro gli avversari politici, due versi dell’Orlando innamorato (nella versione di Berni), in cui si parla di un cavaliere colpito da Orlando, che, non accortosi delle ferite, «andava combattendo, ed era morto». Sull’opposto versante, la violenza verbale di D’Annunzio a Fiume – ricca di non pubblicabili riferimenti scatologici rivolti ai politici di Roma, oltre che di tratti razzistici – anticipa quella di Mussolini contro il Partito Socialista Unitario (spregiativamente definito “pus”) e le ributtanti polemiche antisemitiche del regime, rivolte contro chi non poteva difendersi né ricambiare.
L’insulto è, insomma, una forma di violenza politica, che dice poco di chi è insultato, e molto di chi insulta. Si deve quindi distinguere fra l’insulto asimmetrico di un potere ideologico che prepara la persecuzione, lo sterminio, la guerra a morte, e l’insulto fra pari, un elemento antropologico arcaico che esprime la fisicità della politica, un rituale espressivo che precede il combattimento, a cui ogni politico di professione è preparato (come ha detto Obama a proposito degli attacchi di Clint Eastwood). C’è anche, lo vediamo sempre più spesso, l’insulto dal basso, contro il potere, che fa parte della strategia comunicativa degli
outsider, dei populisti che parlano alla pancia del Paese (prima Bossi, ora Grillo); in bocca ai quali l’insulto è ovvio – meraviglierebbero di più le pacate argomentazioni –.
Ma in generale, in una democrazia – che non è uno stato di guerra, di aperto conflitto, di rivoluzione – non deve esserci spazio per l’insulto, per la violenza verbale, come non c’è per la violenza fisica. Il confronto sulle idee e sulle opinioni, per quanto appassionatamente difese, non può essere sostituito dall’assalto alle persone. Se ciò avviene, siamo davanti a una tipologia dell’insulto ancora diversa: all’insulto irresponsabile – che ignora il rischio che la violenza verbale inneschi quella fisica, che l’intolleranza accenda nuovi roghi –, e all’insulto che è una cattiveria vigliacca (magari smentita, fra i sogghigni, il giorno dopo). Astenersene sarebbe un gesto di sobrietà, di tolleranza, di civismo, di buona educazione; anche se la politica non è sempre un pranzo di gala, una “civil conversazione”, non è per nulla detto che la volgarità e la violenza verbale la rendano intensa e drammatica. Negli insulti di oggi non echeggia la grandezza omerica; semmai, si rivela lo squallido degrado della piccola politica, dei piccoli tempi, dei piccoli uomini, della piccola democrazia.
La Repubblica 06.09.12
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“PERCHÉ IL CORPO VIENE PRESO DI MIRA”, di FILIPPO CECCARELLI
Nel raro ed aureoDizionario della maldicenza( Ceschina, 1958 e 1965) di Dino Provenzal, preside di liceo, letterato, medaglia d’oro dei Benemeriti della Cultura, non stupisce solo quanti pochi politici viventi fossero elencati tra gli offesi, ma soprattutto si segnala il garbo, l’eleganza, la spiritosa grazia dei loro maligni denigratori. Per cui ad esempio il presunto assassino del Duce, Walter Audisio, è fatto bersaglio di un crudele epigramma di Malaparte; il sindacalista Di Vittorio diventa con fantastico nomignolo “il Favoliere delle Puglie”, e Montanelli scolpisce lapidi tipo: «Qui giace/ Guglielmo Giannini/ ucciso/ dal dolore/ di essere/ un uomo qualunque».
Ora, dall’aulico distacco all’odierno e svaccatissimo trash corrono 50 anni di slittamenti e di passioni ridotte in miseria. Ma quando dinanzi all’ennesimo sbocco di diarrea e di necrofilia, come di fronte all’inedito rutto (nell’aula consiliare di Vigevano), al solito gestaccio della consueta tripartizione (corna, dito medio, ombrello) o allo stanco riecheggiare di “fascisti”, “comunisti”, ecco, quando si sente dire che la vita pubblica si è imbarbarita, la tentazione sarebbe di assentire. E di chiuderla lì.
E invece no, perché in questo tempo cui può adattarsi la qualifica manzoniana di “sudicio e sfarzoso”, a loro modo gli insulti rispecchiano al meglio la più vertiginosa trasformazione di una politica che punta ormai al minimo comune denominatore, il corpo, per cui è sostanzialmente attorno ad esso che ruota il vituperio; e così per fare male a qualcuno l’attuale polemologia di Palazzo, incerta tra Bagaglino e cinepanettone, vuole gli si dica che puzza, che è brutto, grasso, basso, pelato, vecchio, malato, rifatto, che ha gli occhi storti o la dentiera, o è impotente, bavoso, culattone, bongo-bongo o pedofilo.
Molto di più non si raccomanda. La linguaccia di Bossi, che tanto ha dato in quest’ambito (si pensi a Casini “carugnit de l’uratori” o al professor Miglio designato “una scoreggia nello spazio”) è sfiorita e il Senatùr suona ormai patetico nella sua muta volgarità gesticolante: e i cronisti scrivono che ha mostrato “il classico dito”.
Segno dei tempi non è tanto che il ministro La Russa abbia mandato in quel posto il presidente della Camera Fini, ma che il Collegio dei Questori ne abbia trovato tecnologica conferma osservando il labiale alla moviola. Così come fa riflettere che il presidente del Consiglio abbia fatto raccogliere le varie in-
giurie in un volume a cura del capo ufficio stampa di Forza Italia Luca D’Alessandro, pubblicato da Mondadori nel 2005 con il titolo: Berlusconi, ti odio.
Semmai, è fuori dal recinto dei partiti che le ingiurie riscattano la banale e volgare anatomia mostrando la loro patologica vitalità con la potenza del fuori- programma. Come in fondo accadde a “Porta a porta” allorché con un guizzo il molesto Paolini riuscì a togliere di mano il microfono alla giornalista Rondinelli e a soffiarci dentro: «Berlusconi ce l’ha piccolo piccolo!».
Altrimenti sono lanci di fetidi residui organici, ma veri: è accaduto al ristorante di lusso torinese “Il Cambio”, davanti a Palazzo Grazioli, sotto casa del ministro Gelmini. Oppure sono autentiche docce di quell’altra sostanza prima versata e poi rivendicata (“la mia balsamica ampolla”) da Marina Ripa di Meana addosso a Sgarbi, per ragioni misteriose, ma con annesso video. Ed è come se la pratica o se si vuole l’arte di offendere prendesse corpo – lei sì! – vivendo ormai di vita propria a colpi di invenzioni, vibrazioni, ri-creazioni, video- installazioni, fantasmatici remix e cori spaventosi, anche di bambini, in visione su YouTube; e performance a base di mutande, sagome, sedie vuote, ostensioni di cartelli creativi (“Trombolo l’ottavo nano”); e fantocci bruciati, maschere e magliette indossate a tradimento (“Fornero al cimitero”), bellicose consegne di ortaggi, scarpe, stampelle, gabinetti.
Per essere barbarici, sembrano moduli convenientemente arcaici, ma anche piuttosto evoluti. Vedi il ripristino della maledizione attraverso un camion- vela dedicato a Brunetta, sogghignante in effigie, e la grande scritta: “Te potesse pijà un colpo”. Vedi la protesta contro la riforma della scuola effettuata trascinando un asino a viale Trastevere. In questo contesto, segnato da richiami spettacolari, personalizzazione, cultura del talk-show e relative trappole dell’intimità, si è inserito Beppe Grillo. E più del “Vaffa day” o degli altri suoi mortiferi improperi pare significativa l’accaldata processione che fece l’estate scorsa con il deposito finale di un cesto di cozze marce davanti a Montecitorio: «La crisi sono loro – gridava indicando la Camera – ritardati morali con gravi psicopatologie, hanno la prostata gonfia, per due tette e un culo sfasciano la famiglia, sono pieni di viagra, questo è un paese che non esiste più». Dentro, in aula, gli onorevoli si limitano a scandire malinconicamente “Tro-ta Tro-ta” contro la Lega, o “Crozza Crozza” per scimmiottare Bersani, o “Munni- zza Mu-nni-zza” ai danni di Scilipoti.
E verrebbe da stringersi al cuore il vecchio La Malfa che inveiva contro un monarchico: «Ella è un miserabbile». Piccola politica, oggi, piccoli insulti. L’unica consolazione, in fondo, è che si dimenticano subito.
La Repubblica 06.09.12

"Francia, paura alla centrale nucleare", di Anais Ginori

Una violenta fumata di vapore sopra ai reattori di Fessenheim, la più vecchia centrale nucleare francese, a poche centinaia di chilometri dall’Italia. L’allarme è durato solo qualche minuto, per poi rientrare. Ma l’incidente, provocato da una reazione chimica, ha rilanciato le polemiche sulla sicurezza di questo impianto dell’Alsazia entrato in funzione nel lontano 1977, con due reattori di 890 megawatt. Durante la campagna elettorale, François Hollande ha promesso di chiudere Fessenheim entro il 2017. Una scadenza troppo lontana secondo gli ambientalisti che considerano impossibile mantenere ancora in funzione la centrale costruita sulle rive del Reno, nel cuore dell’Europa, vicino al confine con la Germania e la Svizzera.
Nell’incidente di ieri sono rimasti feriti due operai che stavano effettuando una procedura di manutenzione. Iniettato del perossido di idrogeno (acqua ossigenata), in un serbatoio, i due si sono bruciati le mani con il getto di vapore, nonostante indossassero i guanti. I vigili del fuoco di Haut-Rhin sono intervenuti sul posto con cinquanta uomini anche se Edf, il gigante dell’energia che gestisce le 19 centrali con i loro 58 reattori, sostiene che non c’è stato alcun incendio. «Un episodio irrilevante dal punto di vista della sicurezza» ha commentato il ministero dell’Ecologia, Delphine Batho. La reazione chimica è avvenuta, secondo le autorità, in un edificio dell’impianto diverso da quello che ospita il reattore.
Subito dopo l’incidente, l’Unione europea ha chiesto chiarimenti all’Authority francese per la sicurezza nucleare. Tra qualche mese dovrebbero essere resi noti i risultati degli stress test condotti su Fessenheim come su tutti gli altri reattori in funzione nei paesi dell’Unione. Entro l’autunno la Bruxelles dovrebbe infatti rendere pubblico il rapporto finale sulle prove di tenuta condotte sulle centrali nucleari europee, così come deciso dopo il disastro di Fukushima. Concepita ai tempi della presidenza De Gaulle con il sistema a turbina idraulica, Fessenheim
aveva una durata prevista di 40 anni, esattamente il 2017, anno dell’ipotetico smantellamento. Fra le polemiche, l’Authority per la sicurezza nucleare ha dichiarato l’anno scorso che uno dei due reattori è in grado di reggere per ulteriori 10 anni con opportuni lavori di consolidamento.
Edf ha confermato l’investimento di 20 milioni entro un anno a Fessenheim nonostante i propositi di Hollande di chiudere l’impianto.
Il presidente ha annunciato di voler cancellare soltanto Fessenheim avviando però una «transizione energetica», passando dal 75% al 50% la quota di nucleare nella produzione elettrica francese.
Ma Hollande potrebbe essere costretto a modificare la sua posizione sul tema. «L’incidente ricorda a tutti quelli che pensavano che non ci fossero problemi di sicurezza con il nucleare, che il pericolo è sempre in agguato» ha detto ieri Francois de Rugy, presidente del gruppo ecologista all’Assemblea nazionale. L’alleanza del partito socialista con i Verdi, che hanno avuto alcuni ministeri, rischia di entrare in crisi. Gli ecologisti chiedono da tempo un graduale abbandono di questo tipo di energia, così come ha scelto di fare la vicina Germania, mentre qualche giorno fa il ministro socialista per il Rilancio produttivo, Arnaud Montebourg, ha sostenuto che il nucleare è il «futuro della Francia».

La Repubblica 06.09.12

"Francia, paura alla centrale nucleare", di Anais Ginori

Una violenta fumata di vapore sopra ai reattori di Fessenheim, la più vecchia centrale nucleare francese, a poche centinaia di chilometri dall’Italia. L’allarme è durato solo qualche minuto, per poi rientrare. Ma l’incidente, provocato da una reazione chimica, ha rilanciato le polemiche sulla sicurezza di questo impianto dell’Alsazia entrato in funzione nel lontano 1977, con due reattori di 890 megawatt. Durante la campagna elettorale, François Hollande ha promesso di chiudere Fessenheim entro il 2017. Una scadenza troppo lontana secondo gli ambientalisti che considerano impossibile mantenere ancora in funzione la centrale costruita sulle rive del Reno, nel cuore dell’Europa, vicino al confine con la Germania e la Svizzera.
Nell’incidente di ieri sono rimasti feriti due operai che stavano effettuando una procedura di manutenzione. Iniettato del perossido di idrogeno (acqua ossigenata), in un serbatoio, i due si sono bruciati le mani con il getto di vapore, nonostante indossassero i guanti. I vigili del fuoco di Haut-Rhin sono intervenuti sul posto con cinquanta uomini anche se Edf, il gigante dell’energia che gestisce le 19 centrali con i loro 58 reattori, sostiene che non c’è stato alcun incendio. «Un episodio irrilevante dal punto di vista della sicurezza» ha commentato il ministero dell’Ecologia, Delphine Batho. La reazione chimica è avvenuta, secondo le autorità, in un edificio dell’impianto diverso da quello che ospita il reattore.
Subito dopo l’incidente, l’Unione europea ha chiesto chiarimenti all’Authority francese per la sicurezza nucleare. Tra qualche mese dovrebbero essere resi noti i risultati degli stress test condotti su Fessenheim come su tutti gli altri reattori in funzione nei paesi dell’Unione. Entro l’autunno la Bruxelles dovrebbe infatti rendere pubblico il rapporto finale sulle prove di tenuta condotte sulle centrali nucleari europee, così come deciso dopo il disastro di Fukushima. Concepita ai tempi della presidenza De Gaulle con il sistema a turbina idraulica, Fessenheim
aveva una durata prevista di 40 anni, esattamente il 2017, anno dell’ipotetico smantellamento. Fra le polemiche, l’Authority per la sicurezza nucleare ha dichiarato l’anno scorso che uno dei due reattori è in grado di reggere per ulteriori 10 anni con opportuni lavori di consolidamento.
Edf ha confermato l’investimento di 20 milioni entro un anno a Fessenheim nonostante i propositi di Hollande di chiudere l’impianto.
Il presidente ha annunciato di voler cancellare soltanto Fessenheim avviando però una «transizione energetica», passando dal 75% al 50% la quota di nucleare nella produzione elettrica francese.
Ma Hollande potrebbe essere costretto a modificare la sua posizione sul tema. «L’incidente ricorda a tutti quelli che pensavano che non ci fossero problemi di sicurezza con il nucleare, che il pericolo è sempre in agguato» ha detto ieri Francois de Rugy, presidente del gruppo ecologista all’Assemblea nazionale. L’alleanza del partito socialista con i Verdi, che hanno avuto alcuni ministeri, rischia di entrare in crisi. Gli ecologisti chiedono da tempo un graduale abbandono di questo tipo di energia, così come ha scelto di fare la vicina Germania, mentre qualche giorno fa il ministro socialista per il Rilancio produttivo, Arnaud Montebourg, ha sostenuto che il nucleare è il «futuro della Francia».
La Repubblica 06.09.12

"Monti in cerca di un percorso condiviso", di Paolo Baroni

Alle imprese che battono cassa annunciando un «autunno bollente» e ai sindacati che parlano già di sciopero generale il governo risponde rigettando la palla nel loro campo. Prima di parlare di soldi, incentivi e sgravi – chi li chiede sulle tredicesime, chi sui contratti aziendali e chi sull’innovazione e la ricerca – Monti si aspetta che siano le parti sociali a mettersi d’accordo, a trovare il modo di superare quel gap di produttività che rappresenta una delle palle al piededelPaese.Poi,masolopoi, il governo deciderà come muoversi. E soprattutto quanto stanziare. Della serie «non chiedere quello che il tuo Paese può fare per te, chiediti cosa tu puoi fare per il tuo Paese», come recitava la frase di Jfk.

Nel giorno in cui l’Inps certifica un altro aumento della cassa integrazione (+18,7% ad agosto), un gigante dei microchip come la Stm di Catania mette in cig 2200 addetti per tre mesi e vicende come quelle dell’Alcoa restano nel limbo, imprese e sindacati hanno gioco facile ad alzare i toni. Ma è un gioco che in questa fase rischia di aver il fiato corto, tant’è che a metà giornata, dopo l’incontro col governo, il presidente di Confindustria dopo la boutade della mattina è costretto ad ammettere che, forse, l’autunno non sarà così bollente.

Alzare i toni, creare attriti, del resto non conveniente a nessuno. Né alle imprese, né ai sindacati (in parte divisi sulle ricette da adottare), né al governo. Che infatti, mentre assicura che manderà avanti in maniera spedita tutti gli interventi «di sistema» ovvero le misure sulle infrastrutture, la semplificazione fiscale e quella burocratica, la velocizzazione dei tempi della giustizia e la digitalizzazione del Paese, chiede alle parti sociali di riannodare i fili del dialogo ed attuare, in concreto, gli impegni indicati da loro stessi nell’accordo dell’anno passato sui contratti aziendali. Monti batte molto su due tasti: «dialogo comune» e «proposte condivise». E’ questa per il presidente del Consiglio la via da imboccare per abbattere il nostro gap di produttività. Si tratta infatti di intervenire su quella miriade di fattori che imbrigliano le nostre imprese e impediscono loro di correre alla velocità dei mercati di oggi, non ultima la possibilità di derogare ai contratti nazionali per aumentare la flessibilità legando anche i salari alla produttività.

Quanta strada ci sia ancora da fare lo testimonia il nuovo rapporto del World Economic Forum sulla competitività pubblicato giusto ieri. Nonostante le tante riforme avviate (ma a dire il vero non completamente tutte attuate) l’Italia, rispetto all’anno passato, ha recuperato appena una posizione nella graduatoria mondiale e si attesta su un davvero modesto 42° posto. A pesare sono sempre le debolezze strutturali dell’economia, a cominciare dal mercato del lavoro, uno dei più inefficienti in assoluto secondo il Wef. Siamo infatti addirittura al 127° posto, roba da Terzo mondo insomma. Dato che spiega più di altri perché da noi è tanto difficile fare impresa e creare nuovi posti di lavoro. E poi, ancora una volta, scontiamo altre debolezze «istituzionali» come gli alti livelli di corruzione e crimine organizzato e la percepita mancanza di indipendenza del sistema giudiziario.

Messi tutti assieme questi sono esattamente i temi che il governo ha inserito nel cronoprogramma messo a punto al termine dell’ennesima maratona del Consiglio dei ministri. Perché questo grande piano si realizzi occorrono però altre condizioni: occorre che la macchina pubblica marci spedita, senza cedere alle pressioni di lobby e interessi particolari, e che le forze di maggioranza non ostacolino il lavoro del governo. Perché il tempo è poco, i soldi sappiamo che scarseggiano e non vanno sprecati, la strada è in salita, e sarebbe bene evitare altri intralci o ritardi nel cammino che ci porterà fuori dal tunnel.

La Stampa 06.09.12

"Monti in cerca di un percorso condiviso", di Paolo Baroni

Alle imprese che battono cassa annunciando un «autunno bollente» e ai sindacati che parlano già di sciopero generale il governo risponde rigettando la palla nel loro campo. Prima di parlare di soldi, incentivi e sgravi – chi li chiede sulle tredicesime, chi sui contratti aziendali e chi sull’innovazione e la ricerca – Monti si aspetta che siano le parti sociali a mettersi d’accordo, a trovare il modo di superare quel gap di produttività che rappresenta una delle palle al piededelPaese.Poi,masolopoi, il governo deciderà come muoversi. E soprattutto quanto stanziare. Della serie «non chiedere quello che il tuo Paese può fare per te, chiediti cosa tu puoi fare per il tuo Paese», come recitava la frase di Jfk.
Nel giorno in cui l’Inps certifica un altro aumento della cassa integrazione (+18,7% ad agosto), un gigante dei microchip come la Stm di Catania mette in cig 2200 addetti per tre mesi e vicende come quelle dell’Alcoa restano nel limbo, imprese e sindacati hanno gioco facile ad alzare i toni. Ma è un gioco che in questa fase rischia di aver il fiato corto, tant’è che a metà giornata, dopo l’incontro col governo, il presidente di Confindustria dopo la boutade della mattina è costretto ad ammettere che, forse, l’autunno non sarà così bollente.
Alzare i toni, creare attriti, del resto non conveniente a nessuno. Né alle imprese, né ai sindacati (in parte divisi sulle ricette da adottare), né al governo. Che infatti, mentre assicura che manderà avanti in maniera spedita tutti gli interventi «di sistema» ovvero le misure sulle infrastrutture, la semplificazione fiscale e quella burocratica, la velocizzazione dei tempi della giustizia e la digitalizzazione del Paese, chiede alle parti sociali di riannodare i fili del dialogo ed attuare, in concreto, gli impegni indicati da loro stessi nell’accordo dell’anno passato sui contratti aziendali. Monti batte molto su due tasti: «dialogo comune» e «proposte condivise». E’ questa per il presidente del Consiglio la via da imboccare per abbattere il nostro gap di produttività. Si tratta infatti di intervenire su quella miriade di fattori che imbrigliano le nostre imprese e impediscono loro di correre alla velocità dei mercati di oggi, non ultima la possibilità di derogare ai contratti nazionali per aumentare la flessibilità legando anche i salari alla produttività.
Quanta strada ci sia ancora da fare lo testimonia il nuovo rapporto del World Economic Forum sulla competitività pubblicato giusto ieri. Nonostante le tante riforme avviate (ma a dire il vero non completamente tutte attuate) l’Italia, rispetto all’anno passato, ha recuperato appena una posizione nella graduatoria mondiale e si attesta su un davvero modesto 42° posto. A pesare sono sempre le debolezze strutturali dell’economia, a cominciare dal mercato del lavoro, uno dei più inefficienti in assoluto secondo il Wef. Siamo infatti addirittura al 127° posto, roba da Terzo mondo insomma. Dato che spiega più di altri perché da noi è tanto difficile fare impresa e creare nuovi posti di lavoro. E poi, ancora una volta, scontiamo altre debolezze «istituzionali» come gli alti livelli di corruzione e crimine organizzato e la percepita mancanza di indipendenza del sistema giudiziario.
Messi tutti assieme questi sono esattamente i temi che il governo ha inserito nel cronoprogramma messo a punto al termine dell’ennesima maratona del Consiglio dei ministri. Perché questo grande piano si realizzi occorrono però altre condizioni: occorre che la macchina pubblica marci spedita, senza cedere alle pressioni di lobby e interessi particolari, e che le forze di maggioranza non ostacolino il lavoro del governo. Perché il tempo è poco, i soldi sappiamo che scarseggiano e non vanno sprecati, la strada è in salita, e sarebbe bene evitare altri intralci o ritardi nel cammino che ci porterà fuori dal tunnel.
La Stampa 06.09.12

"L'abbraccio velenoso", di Gianluigi Pellegrino

La solidarietà che Berlusconi manifesta al Capo dello Stato, nel conflitto innanzi alla Consulta, ha in realtà molto veleno nella coda. E anche nel corpo. Proclama il cavaliere: sto con Napolitano perché adesso lui sperimenta quello che ho subito io per intercettazioni penalmente irrilevanti. È la sinistra – fa eco ubbidiente Alfano – ad usare due pesi e due misure: oggi è con il Presidente ma allora non era con il premier.
In realtà l’equazione tra le intercettazioni di Berlusconi e quelle di Napolitano non regge a un elementare esame dell’ordinamento e dei fatti. Ed evocarla vuol dire sgambettare nel modo più subdolo il Capo dello Stato. Un bacio velenoso, un abbraccio che nasconde un attacco alle spalle.
È, infatti, la magistratura ordinaria che ai sensi dell’articolo 15 della Costituzione può disporre le intercettazioni.
Ma, mentre il premier politicamente e penalmente responsabile, è integralmente soggetto al controllo della giurisdizione ordinaria (cui appartiene anche il tribunale dei ministri) e quindi alle relative intercettazioni e alle connesse valutazioni di rilevanza, così invece assolutamente non è per il Capo dello Stato che, in ragione della sua irresponsabilità politica e per il magistero di garanzia e di unità nazionale che la Costituzione gli assegna, nell’esercizio delle sue funzioni non è mai sottoposto al giudice ordinario, ma solo alla Corte costituzionale, e al Parlamento quale organo di accusa. Coerentemente la legge dispone un divieto assoluto di intercettazione da parte del magistrato ordinario fino a quando il Presidente è in carica, persino per i due gravi reati funzionali per cui è imputabile. Ed anche per i reati comuni l’ipotesi di intercettazione è esclusa pure da coloro che li ritengono perseguibili durante il settennato. Peraltro la stessa magistratura inquirente nell’unico precedente (Scalfaro) ha ritenuto inibita qualsiasi valutazione e atto del giudice con riguardo al Presidente sino alla fine del mandato.
In ogni caso tale inibizione vale con riguardo alle comunicazioni del Capo dello Stato, atteso che in presenza di una norma che espressamente ne sancisce l’inviolabilità persino in ipotesi di attentato alla Costituzione o alto tradimento (sino alla sospensione dalla carica), uguale divieto è senz’altro operante per ipotesi minori. E a maggior ragione in assenza assoluta di sospetti sul Presidente quando le indagini nemmeno lo riguardano. È una scelta ordinamentale che ben si comprende, atteso che la pacifica inconoscibilità delle funzioni presidenziali da parte della magistratura ordinaria, non può che presupporre la radicale impossibilità per la stessa di violarne la corrispondenza o intercettarne le telefonate, dove certo non è distinguibile, tanto meno a priori, l’attività non funzionale. È qui il cuore del conflitto, avendo la magistratura ritenuto invece di poter sindacare in punto di rilevanza anche le comunicazioni del Capo dello Stato. Ed è proprio contro quest’architrave di principio del ricorso di Napolitano, che in realtà muove Berlusconi quando, per dare corpo ad un appiccicoso parallelismo con le sue vicende, motiva l’apparente solidarietà insistendo sui contenuti delle telefonate e sulla loro (peraltro pacifica) «irrilevanza penale», dimentico tra l’altro, il cavaliere, che invece le sue telefonate nelle inchieste che lo riguardano, sono assai rilevanti anche sul versante penale. In realtà se il punto fosse quello dei contenuti delle comunicazioni Napolitano-Mancino allora l’udienza che avevano ipotizzato i procuratori di Palermo, il riascolto delle telefonate e la loro valutazione sarebbero atti dovuti e Napolitano avrebbe torto.
Ma le ragioni del Presidente sono nelle radicali guarentigie che a tutela dei cittadini (come ha evidenziato Ezio Mauro) e dell’equilibrio costituzionale, differenziano l’unicità del Capo dello Stato nel suo ruolo di garanzia e privo di responsabilità politica, con conseguente esclusione in radice di ingerenze di altri poteri, compresa la magistratura ordinaria, sulle funzioni e quindi sulle sue comunicazioni e corrispondenza. Al che consegue la necessità di distruzione di ufficio di eventuali fortuite registrazioni, a prescindere in radice dai loro contenuti.
Opposte invece sono le norme applicabili alle inchieste che riguardano il cavaliere, atteso che il controllo di legalità della magistratura ordinaria (titolare del potere di intercettazione) sugli organi politici, amministrativi e di governo, a cominciare dal premier, è assoluto e completo.
Si compone così il mosaico costituzionale. Ogni tessera al suo posto, diversa da tutte le altre e in diversa relazione con le altre. Solo derive demagogiche o biechi interessi di bottega impediscono di vederlo. Conducendo ad equazioni appiccicose che mascherano goffe pulsioni eversive con stucchevoli effusioni.

La Repubblica 06.09.12