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"Minimalisti d'Europa", di Barbara Spinelli

Fare i compiti a casa, passare l´esame, prendere la pagella, temere i sorveglianti: le misure disciplinari adottate nei paesi indebitati della zona euro hanno probabilmente una ragion d´essere, ma colpisce il vocabolario usato dai governanti quando spiegano le proprie funzioni. È il vocabolario delle scuole inferiori, più adatto a scolaretti con grembiule che a statisti responsabili, maturi. Il clima punitivo ti toglie la libertà, perché a quest´età e con l´indole che hai non puoi ritenerti libero fino alla maggiore età che chissà quando verrà, se verrà. Viene in mente la fiaba tedesca di Struwwelpeter (Pierino il Porcospino), dove adulti enormi ti tagliano le dita o t´immergono nell´inchiostro, se disobbedisci.
Lo chiamano commissariamento, perché lo Stato non virtuoso somiglia a un´impresa in amministrazione controllata. Ma siccome le democrazie non sono aziende, meglio parlare di infantilizzazione: dei governi e dei popoli. Non manca neppure il voto di condotta. Permanentemente sospettosi, ininterrottamente diffidenti, i guardiani ogni tanto ti tolgono – giusto il tempo di respirare – il guinzaglio. Ma non senza alzare l´indice e recitare minacciosi l´ossessivo mantra: «Azzardo morale! Azzardo morale!» (lo dicono di solito in inglese, come una volta si sbandierava il latino per azzittire gli allievi). Il che in soldoni vuol dire: «Ti dò una mano, ma lo so che peccherai ancor più, sicuro come sarai che comunque l´aiuto verrà».
L´Unione è oggi questo universo puberale, fatto di maestri e alunni in grembiule, di padroni e servi, di pastori e pecore. Non può essere altrimenti, quando manca un governo federale che sorvegli tutti e corregga squilibri e diseguaglianze fra Stati. Non è l´Europa promessa nel dopoguerra, custode della democrazia e della giustizia sociale oltre che dei conti: istituzione esterna e superiore agli Stati, affinché non prevalga la legge del più potente e bellicoso. L´Europa che ci viene presentata assume il volto di una determinata forma di rigore – contrazione dei redditi, dei diritti sociali – sino a far tutt´uno con tale forma. Ben altro era il disegno iniziale: l´Unione non doveva coincidere con una sola linea, una sola dottrina economica. Sarebbe stata il contenitore, controllato da un comune Parlamento, di una pluralità di linee che gareggiano d´ingegno. L´esperienza, i risultati, il voto dei popoli, avrebbero premiato la linea migliore. Come dice l´economista Domenico Moro, nelle Federazioni compiute (Stati Uniti, Germania, Australia) il default dei singoli Stati o Länder può esser affrontato in vari modi, più o meno soccorrevoli, ma mai diventa questione di vita e di morte per la loro moneta e tanto meno per la Federazione.
Forse questo ha spinto il francese Hollande, ieri nell´incontro con Monti, a dire che la fiducia tornerà se cessano i perenni dubbi sull´euro. E ha spinto Monti a ricordare che «fare i compiti a casa è necessario, ma non sufficiente». L´unione bancaria e il contenimento degli spread sono impegni solennemente presi dai capi europei: vanno onorati. E molto ci si aspetta da Draghi, che giovedì si esprimerà sull´acquisto di bond governativi.
L´Europa politica è ancora da costruire, e c´è urgenza di farla subito, in contemporanea con i «compiti a casa», perché proprio il continuo dilemma esistenziale infuria i mercati. I mercati non temono che il dollaro scompaia, nonostante l´economia Usa sia più malata di quella europea. Temono l´indeterminatezza volontaria dell´Unione, non sanno se cadrà, se resisterà, chi deciderà il suo destino: le fanno pagare un fallimento politico, e solo in subordine economico. Una Federazione, scrive ancora Moro, «consente al diritto e alla politica, e non al mercato, di avere l´ultima parola» (Il Federalista,n. 3, 2011). Uno studio Bce del 2008 lo conferma: nelle Federazioni, i differenziali nei tassi d´interesse di titoli emessi dagli Stati (spread) non scompaiono, ma non toccano le vette europee. È il costo della non-Europa, e non solo delle brutte pagelle nazionali, che ogni cittadino sta pagando.
L´Europa incompiuta non è neppure democratica, perché i popoli, che nelle costituzioni hanno il potere sovrano, tendono a perderlo nell´ibrido spazio comunitario, né nazionale né sovranazionale. Impossibilitati a controllare i controllori, a mandarli a casa se sbagliano, non riescono nemmeno a capire i nuovi equilibri internazionali, l´ineluttabile ascesa di continenti che non sopportano più un modello di sviluppo occidentale fondato sul consumo a credito delle risorse mondiali. Né i Parlamenti nazionali né quello europeo hanno voce in capitolo, e quando i cittadini si esprimono sono chiamati antipolitici o arrabbiati (altro epiteto per minorenni). Un capo di governo – il nostro – è giunto a dire che gli esecutivi sono troppo vincolati dai Parlamenti, e che l´Europa progredisce se non se ne tiene troppo conto (Spiegel, 5-8-12).
I cittadini hanno ancora un rapporto con le costituzioni nazionali, se ne sentono tutelati? Se ne può dubitare, e non stupisce che una Corte costituzionale, quella tedesca, ponga proprio tale quesito. Il 12 settembre sarà lei – solo lei: altrove mancano giudici altrettanto intraprendenti – a dire se i patti anti-crisi dell´Unione (Fiscal compact, Fondo salva-Stati) sono compatibili con la sovranità popolare garantita dalla Carta fondamentale tedesca. La corte di Karlsruhe inforca occhiali solo nazionali ma constata una malattia di tutti noi, seria. Le costituzioni nazionali non sono all´altezza di un´Europa cui son delegate sempre più sovranità, ma cui son negati poteri governativi duraturi e inequivocabili.
Quel che la Corte trascura – ma vedremo la sentenza – è che non vanno cambiate solo le costituzioni nazionali. Va cambiato il Trattato di Lisbona, e trasformato in costituzione autentica. Una costituzione che cominci come quella americana (Noi, popolo degli Stati Uniti…), sancendo l´esistenza di un potere sovranazionale e democraticamente legittimo. Una Costituzione che solo il Parlamento europeo può elaborare, come già avvenne una volta nel 1984. Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo-Italia, ammonisce giustamente i capi d´Europa: la decisione presa a giugno dai governanti, secondo cui la “proprietà” dei trattati è nelle uniche mani degli Stati membri, è «arrogante» e va confutata (L´Unità 29-7). Mario Draghi insiste nel dire che l´unione politica verrà in un secondo momento, perché prioritaria è l´unione economica. Per salvare l´Euro contesta spavaldo il nazionalismo tedesco, (ostile all´acquisto di bond) ma in politica, meno spavaldamente, consiglia pragmatismo, gradualismo, e conclude equiparando l´utopia regressiva nazionalista all´utopia della Federazione («significherebbe alzare troppo l´asticella!», Die Zeit 29-7).
Per quasi mezzo secolo, i demiurghi dell´Unione non hanno alzato l´asticella, pur di non sacrificare sovranità nazionali divenute peraltro fasulle. L´Europa doveva «avanzare mascherata», in chiuse trepide cerchie, come teorizzava Descartes per non incorrere in ecclesiastici anatemi. Quell´epoca è finita, essendo naufragata. Con l´eccezione di Kohl, l´euro senza Stato fu negli anni ´90 una scelta deliberata – Draghi stesso lo ricorda – ed è sfociato nell´odierno sconquasso. Sarebbe assurdo ripetere l´identico errore, disgiungendo l´unione economica da quella politica. Governo europeo, democrazia europea, costituzione europea, fisco europeo, investimenti europei per un´altra crescita sostenibile: tutte queste cose vanno oggi insieme. In tutte le Federazioni si fa così.
Altrimenti ha ragione Giulio Einaudi, che nel ´48 scriveva contro i pragmatici minimalisti europei: «Oggi, che tanti uomini volenterosi si adoperano a promuovere la fondazione degli Stati Uniti d´Europa, uopo è ripetere il monito di trent´anni fa. Non facciamo opera vana e dannosa contentandoci di una semplice unione di Stati sovrani! Meglio sarebbe non farne nulla; ché la unione di Stati sovrani cadrebbe presto nell´impotenza e diverrebbe strumento di discordia e di guerra fra i due grandi colossi i quali incombono dall´Oriente e dall´Occidente sull´Europa». I costi della non-Europa sono troppo alti, perché l´asticella resti bassa nel timore che gli scolaretti si azzardino moralmente a non fare i compiti a casa.

La Repubblica 05.09.12

"Minimalisti d'Europa", di Barbara Spinelli

Fare i compiti a casa, passare l´esame, prendere la pagella, temere i sorveglianti: le misure disciplinari adottate nei paesi indebitati della zona euro hanno probabilmente una ragion d´essere, ma colpisce il vocabolario usato dai governanti quando spiegano le proprie funzioni. È il vocabolario delle scuole inferiori, più adatto a scolaretti con grembiule che a statisti responsabili, maturi. Il clima punitivo ti toglie la libertà, perché a quest´età e con l´indole che hai non puoi ritenerti libero fino alla maggiore età che chissà quando verrà, se verrà. Viene in mente la fiaba tedesca di Struwwelpeter (Pierino il Porcospino), dove adulti enormi ti tagliano le dita o t´immergono nell´inchiostro, se disobbedisci.
Lo chiamano commissariamento, perché lo Stato non virtuoso somiglia a un´impresa in amministrazione controllata. Ma siccome le democrazie non sono aziende, meglio parlare di infantilizzazione: dei governi e dei popoli. Non manca neppure il voto di condotta. Permanentemente sospettosi, ininterrottamente diffidenti, i guardiani ogni tanto ti tolgono – giusto il tempo di respirare – il guinzaglio. Ma non senza alzare l´indice e recitare minacciosi l´ossessivo mantra: «Azzardo morale! Azzardo morale!» (lo dicono di solito in inglese, come una volta si sbandierava il latino per azzittire gli allievi). Il che in soldoni vuol dire: «Ti dò una mano, ma lo so che peccherai ancor più, sicuro come sarai che comunque l´aiuto verrà».
L´Unione è oggi questo universo puberale, fatto di maestri e alunni in grembiule, di padroni e servi, di pastori e pecore. Non può essere altrimenti, quando manca un governo federale che sorvegli tutti e corregga squilibri e diseguaglianze fra Stati. Non è l´Europa promessa nel dopoguerra, custode della democrazia e della giustizia sociale oltre che dei conti: istituzione esterna e superiore agli Stati, affinché non prevalga la legge del più potente e bellicoso. L´Europa che ci viene presentata assume il volto di una determinata forma di rigore – contrazione dei redditi, dei diritti sociali – sino a far tutt´uno con tale forma. Ben altro era il disegno iniziale: l´Unione non doveva coincidere con una sola linea, una sola dottrina economica. Sarebbe stata il contenitore, controllato da un comune Parlamento, di una pluralità di linee che gareggiano d´ingegno. L´esperienza, i risultati, il voto dei popoli, avrebbero premiato la linea migliore. Come dice l´economista Domenico Moro, nelle Federazioni compiute (Stati Uniti, Germania, Australia) il default dei singoli Stati o Länder può esser affrontato in vari modi, più o meno soccorrevoli, ma mai diventa questione di vita e di morte per la loro moneta e tanto meno per la Federazione.
Forse questo ha spinto il francese Hollande, ieri nell´incontro con Monti, a dire che la fiducia tornerà se cessano i perenni dubbi sull´euro. E ha spinto Monti a ricordare che «fare i compiti a casa è necessario, ma non sufficiente». L´unione bancaria e il contenimento degli spread sono impegni solennemente presi dai capi europei: vanno onorati. E molto ci si aspetta da Draghi, che giovedì si esprimerà sull´acquisto di bond governativi.
L´Europa politica è ancora da costruire, e c´è urgenza di farla subito, in contemporanea con i «compiti a casa», perché proprio il continuo dilemma esistenziale infuria i mercati. I mercati non temono che il dollaro scompaia, nonostante l´economia Usa sia più malata di quella europea. Temono l´indeterminatezza volontaria dell´Unione, non sanno se cadrà, se resisterà, chi deciderà il suo destino: le fanno pagare un fallimento politico, e solo in subordine economico. Una Federazione, scrive ancora Moro, «consente al diritto e alla politica, e non al mercato, di avere l´ultima parola» (Il Federalista,n. 3, 2011). Uno studio Bce del 2008 lo conferma: nelle Federazioni, i differenziali nei tassi d´interesse di titoli emessi dagli Stati (spread) non scompaiono, ma non toccano le vette europee. È il costo della non-Europa, e non solo delle brutte pagelle nazionali, che ogni cittadino sta pagando.
L´Europa incompiuta non è neppure democratica, perché i popoli, che nelle costituzioni hanno il potere sovrano, tendono a perderlo nell´ibrido spazio comunitario, né nazionale né sovranazionale. Impossibilitati a controllare i controllori, a mandarli a casa se sbagliano, non riescono nemmeno a capire i nuovi equilibri internazionali, l´ineluttabile ascesa di continenti che non sopportano più un modello di sviluppo occidentale fondato sul consumo a credito delle risorse mondiali. Né i Parlamenti nazionali né quello europeo hanno voce in capitolo, e quando i cittadini si esprimono sono chiamati antipolitici o arrabbiati (altro epiteto per minorenni). Un capo di governo – il nostro – è giunto a dire che gli esecutivi sono troppo vincolati dai Parlamenti, e che l´Europa progredisce se non se ne tiene troppo conto (Spiegel, 5-8-12).
I cittadini hanno ancora un rapporto con le costituzioni nazionali, se ne sentono tutelati? Se ne può dubitare, e non stupisce che una Corte costituzionale, quella tedesca, ponga proprio tale quesito. Il 12 settembre sarà lei – solo lei: altrove mancano giudici altrettanto intraprendenti – a dire se i patti anti-crisi dell´Unione (Fiscal compact, Fondo salva-Stati) sono compatibili con la sovranità popolare garantita dalla Carta fondamentale tedesca. La corte di Karlsruhe inforca occhiali solo nazionali ma constata una malattia di tutti noi, seria. Le costituzioni nazionali non sono all´altezza di un´Europa cui son delegate sempre più sovranità, ma cui son negati poteri governativi duraturi e inequivocabili.
Quel che la Corte trascura – ma vedremo la sentenza – è che non vanno cambiate solo le costituzioni nazionali. Va cambiato il Trattato di Lisbona, e trasformato in costituzione autentica. Una costituzione che cominci come quella americana (Noi, popolo degli Stati Uniti…), sancendo l´esistenza di un potere sovranazionale e democraticamente legittimo. Una Costituzione che solo il Parlamento europeo può elaborare, come già avvenne una volta nel 1984. Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo-Italia, ammonisce giustamente i capi d´Europa: la decisione presa a giugno dai governanti, secondo cui la “proprietà” dei trattati è nelle uniche mani degli Stati membri, è «arrogante» e va confutata (L´Unità 29-7). Mario Draghi insiste nel dire che l´unione politica verrà in un secondo momento, perché prioritaria è l´unione economica. Per salvare l´Euro contesta spavaldo il nazionalismo tedesco, (ostile all´acquisto di bond) ma in politica, meno spavaldamente, consiglia pragmatismo, gradualismo, e conclude equiparando l´utopia regressiva nazionalista all´utopia della Federazione («significherebbe alzare troppo l´asticella!», Die Zeit 29-7).
Per quasi mezzo secolo, i demiurghi dell´Unione non hanno alzato l´asticella, pur di non sacrificare sovranità nazionali divenute peraltro fasulle. L´Europa doveva «avanzare mascherata», in chiuse trepide cerchie, come teorizzava Descartes per non incorrere in ecclesiastici anatemi. Quell´epoca è finita, essendo naufragata. Con l´eccezione di Kohl, l´euro senza Stato fu negli anni ´90 una scelta deliberata – Draghi stesso lo ricorda – ed è sfociato nell´odierno sconquasso. Sarebbe assurdo ripetere l´identico errore, disgiungendo l´unione economica da quella politica. Governo europeo, democrazia europea, costituzione europea, fisco europeo, investimenti europei per un´altra crescita sostenibile: tutte queste cose vanno oggi insieme. In tutte le Federazioni si fa così.
Altrimenti ha ragione Giulio Einaudi, che nel ´48 scriveva contro i pragmatici minimalisti europei: «Oggi, che tanti uomini volenterosi si adoperano a promuovere la fondazione degli Stati Uniti d´Europa, uopo è ripetere il monito di trent´anni fa. Non facciamo opera vana e dannosa contentandoci di una semplice unione di Stati sovrani! Meglio sarebbe non farne nulla; ché la unione di Stati sovrani cadrebbe presto nell´impotenza e diverrebbe strumento di discordia e di guerra fra i due grandi colossi i quali incombono dall´Oriente e dall´Occidente sull´Europa». I costi della non-Europa sono troppo alti, perché l´asticella resti bassa nel timore che gli scolaretti si azzardino moralmente a non fare i compiti a casa.
La Repubblica 05.09.12

"Draghi sfida la Bundesbank", di Raffaella Cascioli

«L’acquisto di bond a 3 anni non è aiuto di stato». Oggi Hollande da Monti. Nelle stesse ore in cui il debito federale americano si avvicina a grandi passi a quota record di 16mila miliardi di dollari, il presidente della Bce Mario Draghi sgombra il campo dalle speculazioni dell’ultimo mese. L’acquisto di bond fino a tre anni da parte dell’Eurotower non costituisce finanziamento monetario agli stati dell’eurozona, non ci sarà violazione dei trattati da parte della Bce e, soprattutto, Draghi & Co. restano più che mai contrari alla concessione di una licenza bancaria al fondo permanente salva-stati Esm. In avvio di una settimana decisiva per Eurolandia e impegnativa per la Bce, chiamata giovedì nel direttivo a svelare l’armageddon contro il rischio di contagio della crisi, Mario Draghi anticipa la propria strategia a Bruxelles in un’audizione a porte chiuse all’europarlamento. Forte di una larga maggioranza nel board della Bce e dell’assenso del governo tedesco, il banchiere centrale tira dritto sull’acquisto dei titoli di stato a breve. In attesa di contare i voti nel direttivo di giovedì, quando si esprimeranno i 17 governatori delle banche centrali e i 6 banchieri del board, Draghi spiega che l’intervento della Bce a sostegno dei paesi sotto attacco speculativo volto a ridurre lo spread sarà in ogni caso condizionato. Condizioni che giustificherebbero acquisti sul mercato secondario di bond a breve scadenza che per la Bce non si configurano come creazione di moneta e non possono essere condiserate come aiuto agli stati. Nessuna violazione dei trattati, spiega Draghi ai deputati tedeschi della Cdu, anche se sulle condizioni la partita è ancora aperta. Per Italia e Spagna le condizioni dovrebbero essere quelle a cui questi paesi sono già sottoposti. Diviso invece il fronte dei rigoristi: per la Finlandia dovrebbero essere chieste garanzie reali, per altri i vincoli dovrebbero essere simili a quelli imposti ai greci. «Quanto più forte sarà il fronte del no tedesco – spiega Natale D’Amico, magistrato della Corte dei conti – tanto più stringenti saranno le condizioni di accesso al programma di acquisto titoli della Bce da parte degli stati che ne farebbero richiesta».
A questo punto, dunque, la partita si sposta a Francoforte dove la potente Bundesbank resta un osso duro per il presidente della Bce, ma non un ostacolo insormontabile. È possibile che Draghi possa ancora contare su un voto disgiunto dei due rappresentanti tedeschi nel direttivo, ma a sostegno del presidente della Bundesbank Weidmann potrebbero accorrere altri banchieri. Tuttavia il no della Bundesbank potrebbe non essere un niet così come le ventilate dimissioni di Weidmann, da cui la Merkel non uscirebbe indenne, potrebbero rientrare in una trattativa più ampia. A cominciare da quell’unione bancaria, voluta fortemente da Draghi, che comporterebbe una revisione della sorveglianza bancaria in Eurolandia. Una sorveglianza che incontra più di una resistenza nella Germania dove le Casse di risparmio, fortemente politicizzate, rappresentano una spina nel fianco, anche se si starebbe profilando una possibile mediazione con l’analisi e le proposte ancora facoltà delle vigilanze nazionali e il board chiamato a prendere le decisioni.
Sul fronte politico la settimana sarà fitta di bilaterali: oggi il presidente francese Hollande, che domani incontrerà van Rompuy e giovedì il premier inglese Cameron, sarà ricevuto dal premier Monti, che in settimana incontrerà il presidente Barroso e lo stesso van Rompuy. Si è alla stretta finale e il ministro tedesco Schaeuble lascia ben sperare dicendosi sicuro che la corte costituzionale tedesca non bloccherà il fiscal compact e l’Esm.

da Europa Quotidiano 04.09.12

"Draghi sfida la Bundesbank", di Raffaella Cascioli

«L’acquisto di bond a 3 anni non è aiuto di stato». Oggi Hollande da Monti. Nelle stesse ore in cui il debito federale americano si avvicina a grandi passi a quota record di 16mila miliardi di dollari, il presidente della Bce Mario Draghi sgombra il campo dalle speculazioni dell’ultimo mese. L’acquisto di bond fino a tre anni da parte dell’Eurotower non costituisce finanziamento monetario agli stati dell’eurozona, non ci sarà violazione dei trattati da parte della Bce e, soprattutto, Draghi & Co. restano più che mai contrari alla concessione di una licenza bancaria al fondo permanente salva-stati Esm. In avvio di una settimana decisiva per Eurolandia e impegnativa per la Bce, chiamata giovedì nel direttivo a svelare l’armageddon contro il rischio di contagio della crisi, Mario Draghi anticipa la propria strategia a Bruxelles in un’audizione a porte chiuse all’europarlamento. Forte di una larga maggioranza nel board della Bce e dell’assenso del governo tedesco, il banchiere centrale tira dritto sull’acquisto dei titoli di stato a breve. In attesa di contare i voti nel direttivo di giovedì, quando si esprimeranno i 17 governatori delle banche centrali e i 6 banchieri del board, Draghi spiega che l’intervento della Bce a sostegno dei paesi sotto attacco speculativo volto a ridurre lo spread sarà in ogni caso condizionato. Condizioni che giustificherebbero acquisti sul mercato secondario di bond a breve scadenza che per la Bce non si configurano come creazione di moneta e non possono essere condiserate come aiuto agli stati. Nessuna violazione dei trattati, spiega Draghi ai deputati tedeschi della Cdu, anche se sulle condizioni la partita è ancora aperta. Per Italia e Spagna le condizioni dovrebbero essere quelle a cui questi paesi sono già sottoposti. Diviso invece il fronte dei rigoristi: per la Finlandia dovrebbero essere chieste garanzie reali, per altri i vincoli dovrebbero essere simili a quelli imposti ai greci. «Quanto più forte sarà il fronte del no tedesco – spiega Natale D’Amico, magistrato della Corte dei conti – tanto più stringenti saranno le condizioni di accesso al programma di acquisto titoli della Bce da parte degli stati che ne farebbero richiesta».
A questo punto, dunque, la partita si sposta a Francoforte dove la potente Bundesbank resta un osso duro per il presidente della Bce, ma non un ostacolo insormontabile. È possibile che Draghi possa ancora contare su un voto disgiunto dei due rappresentanti tedeschi nel direttivo, ma a sostegno del presidente della Bundesbank Weidmann potrebbero accorrere altri banchieri. Tuttavia il no della Bundesbank potrebbe non essere un niet così come le ventilate dimissioni di Weidmann, da cui la Merkel non uscirebbe indenne, potrebbero rientrare in una trattativa più ampia. A cominciare da quell’unione bancaria, voluta fortemente da Draghi, che comporterebbe una revisione della sorveglianza bancaria in Eurolandia. Una sorveglianza che incontra più di una resistenza nella Germania dove le Casse di risparmio, fortemente politicizzate, rappresentano una spina nel fianco, anche se si starebbe profilando una possibile mediazione con l’analisi e le proposte ancora facoltà delle vigilanze nazionali e il board chiamato a prendere le decisioni.
Sul fronte politico la settimana sarà fitta di bilaterali: oggi il presidente francese Hollande, che domani incontrerà van Rompuy e giovedì il premier inglese Cameron, sarà ricevuto dal premier Monti, che in settimana incontrerà il presidente Barroso e lo stesso van Rompuy. Si è alla stretta finale e il ministro tedesco Schaeuble lascia ben sperare dicendosi sicuro che la corte costituzionale tedesca non bloccherà il fiscal compact e l’Esm.
da Europa Quotidiano 04.09.12

"Chi ingrassa paga", di Gilberto Muraro

È abortita la proposta del ministro Balduzzi di tassare le bevande zuccherate. È un peccato. Sollevava problemi tecnici non banali e richiedeva molto equilibrio. Appariva tuttavia giustificata sul piano dei principi dall’obbligo di solidarietà in campo sanitario. Perché limita la libertà individuale per impedire quelle dipendenze e quelle cattive abitudini che in futuro limiterebbero gravemente la libertà dell’individuo. Ed è una politica che vede numerose applicazioni all’estero.

L’imposta sulle bevande zuccherate proposta dal ministro della Salute Balduzzi è stata affossata sul nascere dalla forte reazione delle imprese interessate che hanno fatto balenare drammatici contraccolpi sull’economia e sulle famiglie. Giusto o sbagliato che fosse sul piano della politica economica nell’attuale congiuntura, il progetto aveva sollevato anche una questione di principio che è bene affrontare comunque, a futura memoria.

SOLIDARIETÀ SOCIALE E RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE

Vari osservatori avevano infatti sollevato un problema etico-politico : è bene che lo Stato imponga stili di vita con la fiscalità ? Se si pensa alla benzina e alle sigarette, si è portati a rispondere che il problema non esiste perché lo Stato da sempre fa uso della imposte correttive. E fa bene a usarle, in ossequio alla teoria degli effetti esterni già pienamente elaborata dall’economista Pigou circa un secolo fa. In quest’ottica gli ambientalisti, all’insegna del principio “chi inquina paga”, predicano il “ doppio dividendo sociale” delle imposte ecologiche capaci di dare gettito allo Stato e al contempo combattere comportamenti nocivi all’ambiente.
Ma simile risposta è fuorviante. Per il traffico e per il fumo ci sono oggettivi danni agli altri, legati all’inquinamento atmosferico e al fumo passivo. Nel caso dell’obesità e del diabete, non trattandosi di malattie contagiose, uno fa male solo a se stesso. E ha diritto di farlo quale scelta consapevole, sostengono i liberisti duri e puri, per i quali la sovranità del consumatore è sacra quanto la sovranità dell’elettore: due conseguenze parallele del postulato del diritto prioritario dell’individuo di essere libero e cercare la felicità, secondo il paradigma dello stato liberale dettato nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776. Quindi, informare sì, imporre no.
In realtà, gli effetti esterni, di tipo economico se non fisico, ci sono pure nel caso della salute individuale, una volta accettato il vincolo costituzionale della solidarietà sociale che impone di curare gli ammalati anche se privi di mezzi. Da qui nasce, nell’esperienza storica degli Stati europei, l’obbligo generalizzato della tutela sanitaria , o come sistema di mutue o come servizio sanitario nazionale; con quel che segue sul diritto della comunità di influire sui comportamenti che generano costi di cura a carico di tutti.
La soluzione alternativa sarebbe quella di accentuare la responsabilità individuale e di escludere la solidarietà sociale in presenza di malattie e incidenti legati ai comportamenti volontari .
È impressionante la vastità del dibattito in corso su questo tema nell’ambito degli studi di economia sanitaria nei paesi anglosassoni, con risvolti di assoluto rilievo anche nel dibattito politico. David Cameron, da leader del partito conservatore, era l’esponente più noto di questo movimento che, di fronte ai costi crescenti della sanità e alla ormai verificata preponderanza delle patologie legate ai comportamenti – si pensi ai danni alla salute provocati dal consumo di droghe, tabacco, alcol, cibi troppo grassi o troppo salati e bevande troppo zuccherine nonché da rapporti sessuali non protetti, da alimentazione eccessiva, da insufficiente attività fisica – predica un restringimento dell’area di tutela sociale in campo sanitario. Da primo ministro inglese, tuttavia, Cameron non ha introdotto restrizioni significative. In generale, non risulta che gli ordinamenti statali abbiano recepito istanze di questo tipo. (1)

IL PATERNALISMO LIBERTARIO

È evidente che un conto è ragionare a livello di statistiche aggregate e altro conto è catalogare il caso singolo; senza contare che nessuno sa quanto il comportamento volontario sia davvero tale o non invece conseguenza di ignoti legami genetici o condizionamenti ambientali. Si aggiunga la consapevolezza che togliere la gratuità potrebbe implicare un aggravamento delle patologie, il che, oltre una certa soglia, imporrebbe un successivo e più costoso intervento pubblico.
Però, questo movimento di opinione non risulta del tutto sterile. In vari paesi ha prodotto, appunto, una maggiore interferenza pubblica nei comportamenti, attraverso spese in educazione sanitaria e in incentivi alla dieta corretta nonché attraverso imposte su cibi e bevande ad alto contenuto di grassi e zuccheri all’insegna del principio “chi s’ingrassa paga”. (2) Per tale politica, che ha ricevuto la benedizione anche di Amartya Sen, è stato coniato il termine “paternalismo libertario”. Suona come un ossimoro, ma è espressivo del desiderio della società di incidere entro certi limiti sulla libertà individuale a fin di bene, ossia per impedire quelle dipendenze e quelle cattive abitudini che in futuro limiterebbero gravemente la libertà dell’individuo. Come si è detto, è una politica che solleva problemi tecnici non banali e richiede molto equilibrio nell’applicazione (se non altro per la regressività che potrebbe palesare in vari casi e per il fatto di dover in pratica colpire anche l’uso moderato privo di conseguenze dannose). Ma è importante concludere che non trova ostacoli sul piano dei principi. Si ha l’impressione che la questione tornerà a proporsi anche in Italia.

(1) Vedasi G.Muraro e V. Rebba, “Individual Rights and Duties in Health Policy”, in Rivista Internazionale di Scienze Sociali, 2010,n. 3, pp. 379-396.
(2) L’apparato di strumenti è molto ampio: allargamento dei divieti, diffusione dell’informazione e dell’ educazione sanitaria; incentivi e disincentivi monetari – tasse su tabacco, prodotti alcolici e cibi grassi – e invece esenzioni fiscali o addirittura sussidi a frutta e verdura nonché aiuti a chi si disintossica o partecipa a programmi di prevenzione. Non mancano esempi di accordi con grandi imprese e catene distributive per promuovere corretti stili di vita: pause lavoro con programmi ginnici, accesso ostacolato e avvertenze all’acquisto di prodotti dannosi, produzione di cibi poco salati, eccetera.

da lavoce.info

"Chi ingrassa paga", di Gilberto Muraro

È abortita la proposta del ministro Balduzzi di tassare le bevande zuccherate. È un peccato. Sollevava problemi tecnici non banali e richiedeva molto equilibrio. Appariva tuttavia giustificata sul piano dei principi dall’obbligo di solidarietà in campo sanitario. Perché limita la libertà individuale per impedire quelle dipendenze e quelle cattive abitudini che in futuro limiterebbero gravemente la libertà dell’individuo. Ed è una politica che vede numerose applicazioni all’estero.
L’imposta sulle bevande zuccherate proposta dal ministro della Salute Balduzzi è stata affossata sul nascere dalla forte reazione delle imprese interessate che hanno fatto balenare drammatici contraccolpi sull’economia e sulle famiglie. Giusto o sbagliato che fosse sul piano della politica economica nell’attuale congiuntura, il progetto aveva sollevato anche una questione di principio che è bene affrontare comunque, a futura memoria.
SOLIDARIETÀ SOCIALE E RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE
Vari osservatori avevano infatti sollevato un problema etico-politico : è bene che lo Stato imponga stili di vita con la fiscalità ? Se si pensa alla benzina e alle sigarette, si è portati a rispondere che il problema non esiste perché lo Stato da sempre fa uso della imposte correttive. E fa bene a usarle, in ossequio alla teoria degli effetti esterni già pienamente elaborata dall’economista Pigou circa un secolo fa. In quest’ottica gli ambientalisti, all’insegna del principio “chi inquina paga”, predicano il “ doppio dividendo sociale” delle imposte ecologiche capaci di dare gettito allo Stato e al contempo combattere comportamenti nocivi all’ambiente.
Ma simile risposta è fuorviante. Per il traffico e per il fumo ci sono oggettivi danni agli altri, legati all’inquinamento atmosferico e al fumo passivo. Nel caso dell’obesità e del diabete, non trattandosi di malattie contagiose, uno fa male solo a se stesso. E ha diritto di farlo quale scelta consapevole, sostengono i liberisti duri e puri, per i quali la sovranità del consumatore è sacra quanto la sovranità dell’elettore: due conseguenze parallele del postulato del diritto prioritario dell’individuo di essere libero e cercare la felicità, secondo il paradigma dello stato liberale dettato nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776. Quindi, informare sì, imporre no.
In realtà, gli effetti esterni, di tipo economico se non fisico, ci sono pure nel caso della salute individuale, una volta accettato il vincolo costituzionale della solidarietà sociale che impone di curare gli ammalati anche se privi di mezzi. Da qui nasce, nell’esperienza storica degli Stati europei, l’obbligo generalizzato della tutela sanitaria , o come sistema di mutue o come servizio sanitario nazionale; con quel che segue sul diritto della comunità di influire sui comportamenti che generano costi di cura a carico di tutti.
La soluzione alternativa sarebbe quella di accentuare la responsabilità individuale e di escludere la solidarietà sociale in presenza di malattie e incidenti legati ai comportamenti volontari .
È impressionante la vastità del dibattito in corso su questo tema nell’ambito degli studi di economia sanitaria nei paesi anglosassoni, con risvolti di assoluto rilievo anche nel dibattito politico. David Cameron, da leader del partito conservatore, era l’esponente più noto di questo movimento che, di fronte ai costi crescenti della sanità e alla ormai verificata preponderanza delle patologie legate ai comportamenti – si pensi ai danni alla salute provocati dal consumo di droghe, tabacco, alcol, cibi troppo grassi o troppo salati e bevande troppo zuccherine nonché da rapporti sessuali non protetti, da alimentazione eccessiva, da insufficiente attività fisica – predica un restringimento dell’area di tutela sociale in campo sanitario. Da primo ministro inglese, tuttavia, Cameron non ha introdotto restrizioni significative. In generale, non risulta che gli ordinamenti statali abbiano recepito istanze di questo tipo. (1)
IL PATERNALISMO LIBERTARIO
È evidente che un conto è ragionare a livello di statistiche aggregate e altro conto è catalogare il caso singolo; senza contare che nessuno sa quanto il comportamento volontario sia davvero tale o non invece conseguenza di ignoti legami genetici o condizionamenti ambientali. Si aggiunga la consapevolezza che togliere la gratuità potrebbe implicare un aggravamento delle patologie, il che, oltre una certa soglia, imporrebbe un successivo e più costoso intervento pubblico.
Però, questo movimento di opinione non risulta del tutto sterile. In vari paesi ha prodotto, appunto, una maggiore interferenza pubblica nei comportamenti, attraverso spese in educazione sanitaria e in incentivi alla dieta corretta nonché attraverso imposte su cibi e bevande ad alto contenuto di grassi e zuccheri all’insegna del principio “chi s’ingrassa paga”. (2) Per tale politica, che ha ricevuto la benedizione anche di Amartya Sen, è stato coniato il termine “paternalismo libertario”. Suona come un ossimoro, ma è espressivo del desiderio della società di incidere entro certi limiti sulla libertà individuale a fin di bene, ossia per impedire quelle dipendenze e quelle cattive abitudini che in futuro limiterebbero gravemente la libertà dell’individuo. Come si è detto, è una politica che solleva problemi tecnici non banali e richiede molto equilibrio nell’applicazione (se non altro per la regressività che potrebbe palesare in vari casi e per il fatto di dover in pratica colpire anche l’uso moderato privo di conseguenze dannose). Ma è importante concludere che non trova ostacoli sul piano dei principi. Si ha l’impressione che la questione tornerà a proporsi anche in Italia.
(1) Vedasi G.Muraro e V. Rebba, “Individual Rights and Duties in Health Policy”, in Rivista Internazionale di Scienze Sociali, 2010,n. 3, pp. 379-396.
(2) L’apparato di strumenti è molto ampio: allargamento dei divieti, diffusione dell’informazione e dell’ educazione sanitaria; incentivi e disincentivi monetari – tasse su tabacco, prodotti alcolici e cibi grassi – e invece esenzioni fiscali o addirittura sussidi a frutta e verdura nonché aiuti a chi si disintossica o partecipa a programmi di prevenzione. Non mancano esempi di accordi con grandi imprese e catene distributive per promuovere corretti stili di vita: pause lavoro con programmi ginnici, accesso ostacolato e avvertenze all’acquisto di prodotti dannosi, produzione di cibi poco salati, eccetera.
da lavoce.info

Scuola, 30 studenti per aula «Una su tre è fuori norma», di Valentina Santarpia

Ammassati, con pochi centimetri a dividerli dai compagni, e spazi compressi rispetto ai limiti di sicurezza: sono gli studenti delle «classi pollaio», secondo il Codacons il 30% delle classi italiane, 110 mila su 367 mila. E questa sarebbe una stima per difetto, perché contempla solo le classi con più di 25 studenti: prendendo in considerazione anche quelle che non rispettano gli spazi fissati dalle norme comunitarie (1,8o metri quadrati a disposizione ad alunno fino alle scuole medie, 1,96 mq per gli studenti delle superiori), «si arriva al 70%», dice il Codacons, con una stima quindi di oltre 257 mila classi non a norma. Di fatto, sia che si guardi il fenomeno da un punto di vista amministrativo (con le nuove norme che regolano il numero massimo e minimo di studenti per aula), sia che lo si consideri dal punto di vista strettamente logistico di spazi, «l’inizio del prossimo anno scolastico sarà una bagarre», secondo il presidente del Codacons Carlo Rienzi. Per decreto ministeriale, nelle scuole dell’infanzia possono esserci non più di 26 bambini per classe e non meno di 18, con la possibilità di ripartire eventuali eccedenze fino a 29 alunni per classe. Nella scuola primaria (ex elementare) devono esserci non meno di 15 e non più di 26 bambini, che possono diventare 27 in caso di resti. Nella scuola secondaria di primo grado (ex media) le classi devono essere costituite da non più di 27 alunni e da non meno di 18. Anche le prime classi delle scuole secondarie di secondo grado (le superiori) non possono contenere più di 27 alunni, ma anche qui, in caso di eccedenze, si può arrivare fino a 3o alunni. Sono proprio i limiti «al ribasso», voluti dall’ex ministro Maria Stella Gelmini, a creare problemi: perché un dirigente scolastico, non potendo dividere una classe di 34 studenti, mettendo 17 studenti in ogni classe, è costretto a comprimere tutti gli alunni nella stessa porzione di istituto. Per i presidi di licei e istituti tecnico-professionali, in particolare, c’è l’incubo delle classi sovraffollate tra le prime, soprattutto se ci sono indirizzi specialistici. Le segnalazioni si sprecano. Anche quest’anno in più sezioni dei principali licei romani le presenze sforeranno quota 3o. I genitori dei ragazzi delle scuole medie del comprensivo di San Giorgio (Mantova), la don Milani e la Mameli di Castelbelforte, hanno scritto al provveditorato perché i propri figli non trascorrano un anno intero rinchiusi in aula con altri 27-28 bambini. Alcune scuole superiori di Vicenza sono state costrette a introdurre una sorta di tetto massimo di iscrizioni di studenti certificati, in modo da limitare le difficoltà e i disagi legati al sovraffollamento. L’associazione genitori Arcipelago toscano ha paventato il rischio che le classi sovraffollate non possano cominciare l’anno scolastico nell’isola di Elba. A Ravenna, da una ricerca Flc Cgil, servirebbero almeno altre 4o classi in più per non rischiare «gravissimi problemi connessi alla sicurezza e alla qualità della didattica». A Termoli è scoppiata una battaglia tra i genitori dei ragazzi della scuola media Schweitzer e l’ufficio scolastico provinciale, che ha autorizzato classi con più di 3o alunni, «quindi fuorilegge». A dar ragione alle proteste c’è una sentenza: il Consiglio di Stato, a giugno dell’anno scorso, ha confermato una decisione del Tar del Lazio e ha accolto la dass action promossa dal Codacons contro le «classi pollaio». «La sicurezza e la vivibilità dei luoghi frequentati dagli studenti italiani sono inderogabili», secondo i giudici che hanno dato ragione all’associazione di consumatori e intimato al ministero della Pubblica istruzione di redigere un piano che metta in sicurezza le aule scolastiche. Dopo l’azione del Codacons, il governo ha messo a punto un piano di riqualificazione dell’edilizia scolastica, e individuato 20 mila scuole che presentano una situazione «significativa», e dove quindi le condizioni logistiche non consentono di aumentare il numero di alunni per classe. Questo piano è stato poi dal ministro Francesco Profumo annesso in un piano generale per l’edilizia scolastica nazionale, che contempla anche i requisiti per i nuovi edifici scolastici. Il Cipe ha finanziato la risistemazione delle scuole con 556 milioni, fondi a cui va aggiunta la quota (1,25 milioni) per le scuole terremotate. «Si arriva al limite massimo di alunni solo se l’edificio lo consente», assicura il ministero. Ma le testimonianze a volte raccontano un’altra storia.

Il Corriere della Sera 04.09.12