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"Ai docenti universitari servono criteri flessibili", di Eugenio Mazzarella

Dopo il peregrino esito dei test per il Tfa e il flop del concorso a dirigente scolastico, si annuncia un altro probabile fallimento per le abilitazioni a professore universitario. Nel vizio di costituzionalità eccepito dal professor Onida sui criteri per l’accesso all’abilitazione, fondamentalmente l’aver previsto ora per allora criteri privilegiati per l’accesso alla carriera universitaria, ci sono i presupposti dei binari sbagliati su cui verrà posto il futuro della ricerca italiana. I criteri, se recepiti in modo stabile, determineranno un potente effetto di conformismo della ricerca scientifica: ci si costruirà la carriera sui parametri e gli indicatori di presunto merito indicati ex ante: tutti avranno interesse a pubblicare nelle stesse riviste e collane, e ad adeguarsi agli indirizzi culturali e di ricerca che diventeranno dominanti. Più che concentrarsi sull’innovazione della ricerca, ci si concentrerà sul sistema di relazioni che serve a costruire un curriculum tipo Anvur. L’effetto depressivo per il sistema è prevedibile, e ben noto con la retromarcia a livello internazionale che si sta facendo sulla valutazione bibliometrica, o a essa assimilabile, dove è stata applicata. Ma a parte questo rilievo, i criteri Anvur realizzano effetti paradossali. Guardiamo ai settori umanistici. Dovendosi superare una soglia di produttività articolata su tre tipologie di «prodotto» (monografie, articoli e capitoli di libro, articoli su riviste «eccellenti»), ed essendo la mediana per la fascia A bassissima, mediamente 1, spesso 0, in pochi casi 2, si può dare il caso che un ordinario con un solo articolo in una rivista di fascia A possa essere commissario, e non possa esserlo un collega con 4 monografie nel decennio e 20 articoli standard. Idem per i candidati. Se si voleva evitare la presenza fra i commissari o i candidati di studiosi considerati “inattivi”, si legittima precisamente il contrario: se si appartiene a un buon sistema di relazioni accademiche basta pochissimo per essere in commissione o per presentarsi all’abilitazione. Ciò dà un colpo fortissimo alla reputazione dell’università italiana, e genera un paradosso più generale: i candidati all’abilitazione che hanno superato le mediane sono per definizione, dal punto di vista assunto dall’Anvur, già migliori, quanto meno perché più produttivi delle migliaia di ordinari di ruolo che non potranno candidarsi a commissario, non avendo raggiunto le soglie delle mediane. Allora perché dovrebbero anche essere giudicati in un concorso per diventare di fatto semplici abilitati a un ruolo che altri da decenni coprono con titoli inferiori ai loro?
Il Sole 24 Ore 05.09.12

"Sit in e polemiche. Medicina apre la stagione dei test", di Luciana Cimino

Prima giornata di selezione nelle facoltà italiane e prime polemiche. Nei prossimi giorni si terranno le prove per l’accesso ad architettura (domani), a veterinaria (lunedì 10) e ai corsi per le professioni sanitarie (ostetrici, logopedisti, infermieri, l’11 settembre), intanto ieri all’apertura dei test di medicina e odontoiatria in tutta Italia si sono registrati sit – in e proteste. È il numero chiuso a far discutere, come ogni anno, ma anche il fatto che oggi sembra anche uno dei pochi modi che hanno gli atenei per far cassa. Le quote d’iscrizione alle prove variavano infatti dai 27 euro di Padova all’Università del Molise che ne voleva 120, al caso di Napoli, i cui due atenei cittadini chiedevano 50 e 100 euro. Soldi richiesti a una platea vastissima di giovani che si gioca il proprio futuro come una terna al lotto. A medicina, per esempio, per circa 10mila e 73 posti messi a bando si sono iscritte ai test oltre 70mila persone. Riuscirà a studiare da medico una persona su 8, gli altri tenteranno il prossimo anno o si inscriveranno a facoltà alternative. «Spesso ci si dimentica di tutti coloro che non riescono a passare il test e che purtroppo vengono esclusi da ogni processo formativo – dicono i portavoce di Link, coordinamento di studenti che ha organizzato ieri le proteste davanti agli atenei di Roma, Bari, Padova, Milano, Pisa, Siena il superamento dei test dipende spesso solo dalla fortuna. Inoltre oggi di fronte ad una diminuzione delle immatricolazioni dell’8% nell’ultimo anno, una disoccupazione giovanile al 34% e un numero di precari in costante aumento negli ultimi anni dobbiamo riaprire l’università, oramai un corso su due prevede il superamento di test d’ingresso a sbarramento. Ha senso continuare a bloccare l’accesso all’università quando invece gli stessi parametri europei ci impongono di raggiungere il 40% dei laureati entro il 2020?». «Gli studenti – nota Michele Orezzi, coordinatore dell’Udu non solo non saranno liberi di poter scegliere il loro futuro, per giunta dovranno sostenere una prova che da anni si mostra fallace sia nel metodo che nei contenuti. Si tratta di un vero e proprio divieto all’accesso al sapere». Ma stronca il concetto di numero chiuso anche la presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera, Manuela Ghizzoni, del Pd. «I test di ingresso sono il campanello d’allarme della crisi del sistema della conoscenza causato delle inadeguate politiche scolastiche e universitarie degli ultimi anni. Sembrano essere scelte determinate più da problemi organizzativi che da valutazioni sulla capacità del mercato di assorbire nuovi laureati. In un contesto di tagli agli atenei – spiega Ghizzoni – i test sono la copertura per non risolvere alla radice alcuni i problemi dell’università e della scuola». Ed è “no” anche per le associazioni dei consumatori, da Federconsumatori a Adusbef al Codacons che minaccia una class action dei non ammessi, qualora la Corte Costituzionale definisse il numero chiuso incostituzionale e lesivo del diritto allo studio. «Da sempre siamo stati contrari a questo sistema – sottolineano Rosario Trefiletti e Elio Lannutti (rispettivamente Federconsumatori e Adusbef) rappresenta un ostacolo (non sempre giustificato) all`accesso agli studi: una logica che assomiglia molto a quella degli ordini professionali, che si configurano come vere ‘caste’». Studenti.it invece, guida la cordata di chi si sofferma sull’effettiva utilità dei test. «Questo metodo di selezione taglia le gambe a giovani che potrebbero avere le carte in regola per diventare degli ottimi medici spiegano dal noto portale Lo ha dimostrato il primario Giuseppe Remuzzi, nefrologo di fama internazionale che, sottoposto ad una simulazione di test, ha commesso 15 errori e quindi non sarebbe stato ammesso alla facoltà di Medicina. Perché non consentire a tutti di entrare e fare in modo che sia il tempo a selezionare i più capaci?

L’Unità 05.09.12

"Sit in e polemiche. Medicina apre la stagione dei test", di Luciana Cimino

Prima giornata di selezione nelle facoltà italiane e prime polemiche. Nei prossimi giorni si terranno le prove per l’accesso ad architettura (domani), a veterinaria (lunedì 10) e ai corsi per le professioni sanitarie (ostetrici, logopedisti, infermieri, l’11 settembre), intanto ieri all’apertura dei test di medicina e odontoiatria in tutta Italia si sono registrati sit – in e proteste. È il numero chiuso a far discutere, come ogni anno, ma anche il fatto che oggi sembra anche uno dei pochi modi che hanno gli atenei per far cassa. Le quote d’iscrizione alle prove variavano infatti dai 27 euro di Padova all’Università del Molise che ne voleva 120, al caso di Napoli, i cui due atenei cittadini chiedevano 50 e 100 euro. Soldi richiesti a una platea vastissima di giovani che si gioca il proprio futuro come una terna al lotto. A medicina, per esempio, per circa 10mila e 73 posti messi a bando si sono iscritte ai test oltre 70mila persone. Riuscirà a studiare da medico una persona su 8, gli altri tenteranno il prossimo anno o si inscriveranno a facoltà alternative. «Spesso ci si dimentica di tutti coloro che non riescono a passare il test e che purtroppo vengono esclusi da ogni processo formativo – dicono i portavoce di Link, coordinamento di studenti che ha organizzato ieri le proteste davanti agli atenei di Roma, Bari, Padova, Milano, Pisa, Siena il superamento dei test dipende spesso solo dalla fortuna. Inoltre oggi di fronte ad una diminuzione delle immatricolazioni dell’8% nell’ultimo anno, una disoccupazione giovanile al 34% e un numero di precari in costante aumento negli ultimi anni dobbiamo riaprire l’università, oramai un corso su due prevede il superamento di test d’ingresso a sbarramento. Ha senso continuare a bloccare l’accesso all’università quando invece gli stessi parametri europei ci impongono di raggiungere il 40% dei laureati entro il 2020?». «Gli studenti – nota Michele Orezzi, coordinatore dell’Udu non solo non saranno liberi di poter scegliere il loro futuro, per giunta dovranno sostenere una prova che da anni si mostra fallace sia nel metodo che nei contenuti. Si tratta di un vero e proprio divieto all’accesso al sapere». Ma stronca il concetto di numero chiuso anche la presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera, Manuela Ghizzoni, del Pd. «I test di ingresso sono il campanello d’allarme della crisi del sistema della conoscenza causato delle inadeguate politiche scolastiche e universitarie degli ultimi anni. Sembrano essere scelte determinate più da problemi organizzativi che da valutazioni sulla capacità del mercato di assorbire nuovi laureati. In un contesto di tagli agli atenei – spiega Ghizzoni – i test sono la copertura per non risolvere alla radice alcuni i problemi dell’università e della scuola». Ed è “no” anche per le associazioni dei consumatori, da Federconsumatori a Adusbef al Codacons che minaccia una class action dei non ammessi, qualora la Corte Costituzionale definisse il numero chiuso incostituzionale e lesivo del diritto allo studio. «Da sempre siamo stati contrari a questo sistema – sottolineano Rosario Trefiletti e Elio Lannutti (rispettivamente Federconsumatori e Adusbef) rappresenta un ostacolo (non sempre giustificato) all`accesso agli studi: una logica che assomiglia molto a quella degli ordini professionali, che si configurano come vere ‘caste’». Studenti.it invece, guida la cordata di chi si sofferma sull’effettiva utilità dei test. «Questo metodo di selezione taglia le gambe a giovani che potrebbero avere le carte in regola per diventare degli ottimi medici spiegano dal noto portale Lo ha dimostrato il primario Giuseppe Remuzzi, nefrologo di fama internazionale che, sottoposto ad una simulazione di test, ha commesso 15 errori e quindi non sarebbe stato ammesso alla facoltà di Medicina. Perché non consentire a tutti di entrare e fare in modo che sia il tempo a selezionare i più capaci?
L’Unità 05.09.12

"Quei centomila precari pubblici che ora rischiano il posto", di Lorenzo Salvia

Lo Stato taglia la pianta organica dei ministeri, come previsto dalla legge sulla spending review. E la situazione si fa ancora più difficile per chi, in un ufficio pubblico, ha messo solo un piede ed ha un contratto a termine. La questione è stata sollevata ieri mattina dalla Cgil davanti al ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi. Era il primo incontro con i sindacati dopo la pausa estiva, sul tavolo proprio quei tagli del 10% per i dipendenti e del 20% per i dirigenti prescritti alla macchina dello Stato con la revisione della spesa pubblica. Se si prepensiona o si mette in mobilità chi ha un contratto stabile, cosa succederà ai precari?
«Senza contare la scuola — dice Susanna Dettori, segretario generale della Cgil funzione pubblica — i precari della pubblica amministrazione sono almeno 100 mila. Rischiano di restare a casa, come i 45 mila che sono rimasti senza contratto dal dicembre dell’anno scorso». Un problema vero, ma non facile da risolvere.
A giugno è stato aperto un tavolo tra ministero e sindacati proprio per affrontare la questione. Ma la strada è stretta e, anche se in termini diplomatici, lo lascia capire lo stesso ministro Patroni Griffi: «Credo che occorra sperimentare tutte le soluzioni possibili per avviare a soluzione il problema. Questo, naturalmente, non significa che ci sarà una stabilizzazione di massa». Quello che resta aperto è solo uno spiraglio: «Bisogna individuare un percorso che consenta il loro graduale assorbimento ma che sia rispettoso del principio del concorso e che non blocchi per anni la possibilità di immettere giovani». Insomma, dialogo aperto per evitare lo scontro con i sindacati in un momento delicato come questo.
Ma la sostanza è che per i precari della pubblica amministrazione le speranze sono poche. «Un fatto grave — dice Paolo Pirani, segretario confederale della Uil — anche perché viene ignorato un passaggio dell’accordo che avevamo firmato con il ministro il 3 maggio scorso». Quell’intesa fissava alcuni principi che dovrebbero guidare l’estensione al settore pubblico della riforma del mercato del lavoro. «Uno dei punti condivisi da tutti — dice Pirani — stabiliva che in attesa del passaggio alle nuove regole, i contratti a termine sarebbero stati rinnovati». Una promessa non facile da mantenere. Nel settore privato la riforma è in vigore da poco più di un mese, e tra i primi effetti c’è proprio il mancato rinnovo dei contratti a termine senza che questo porti ad un’assunzione a tempo indeterminato, come nelle intenzioni del governo. Sui precari anche la Cisl è preoccupata: «Bisogna studiare il modo — dice Giovanni Faverin, segretario generale per il comparto Funzione pubblica — di favorire nel lungo termine la stabilizzazione di chi ha un contratto a termine». Ma è davvero l’unico punto sul quale i tre sindacati parlano ad una voce sola.
Sugli esuberi — cioè i tagli del 10% del personale e del 20% dei dirigenti — il ministro Patroni Griffi si dice pronto a cercare un’intesa con i sindacati «senza però accettare veti». Cgil e Uil confermano lo sciopero degli statali programmato per il 28 settembre perché, dicono, il confronto riguarderà non il numero degli esuberi ma solo la gestione delle procedure. Non la sostanza, insomma, ma i dettagli. La Cisl, invece, sceglie una linea diversa: conferma il suo «no» allo sciopero e parla di segnali positivi arrivati dal governo. «In altri Paesi come Spagna e Grecia — dice Faverin — il settore pubblico ha subito tagli agli organici e allo stipendio senza che i sindacati avessero nemmeno la possibilità di parlare. Finché c’è un tavolo al quale discutere non preferiamo restare seduti».

Il Corriere della Sera 05.09.12

"Quei centomila precari pubblici che ora rischiano il posto", di Lorenzo Salvia

Lo Stato taglia la pianta organica dei ministeri, come previsto dalla legge sulla spending review. E la situazione si fa ancora più difficile per chi, in un ufficio pubblico, ha messo solo un piede ed ha un contratto a termine. La questione è stata sollevata ieri mattina dalla Cgil davanti al ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi. Era il primo incontro con i sindacati dopo la pausa estiva, sul tavolo proprio quei tagli del 10% per i dipendenti e del 20% per i dirigenti prescritti alla macchina dello Stato con la revisione della spesa pubblica. Se si prepensiona o si mette in mobilità chi ha un contratto stabile, cosa succederà ai precari?
«Senza contare la scuola — dice Susanna Dettori, segretario generale della Cgil funzione pubblica — i precari della pubblica amministrazione sono almeno 100 mila. Rischiano di restare a casa, come i 45 mila che sono rimasti senza contratto dal dicembre dell’anno scorso». Un problema vero, ma non facile da risolvere.
A giugno è stato aperto un tavolo tra ministero e sindacati proprio per affrontare la questione. Ma la strada è stretta e, anche se in termini diplomatici, lo lascia capire lo stesso ministro Patroni Griffi: «Credo che occorra sperimentare tutte le soluzioni possibili per avviare a soluzione il problema. Questo, naturalmente, non significa che ci sarà una stabilizzazione di massa». Quello che resta aperto è solo uno spiraglio: «Bisogna individuare un percorso che consenta il loro graduale assorbimento ma che sia rispettoso del principio del concorso e che non blocchi per anni la possibilità di immettere giovani». Insomma, dialogo aperto per evitare lo scontro con i sindacati in un momento delicato come questo.
Ma la sostanza è che per i precari della pubblica amministrazione le speranze sono poche. «Un fatto grave — dice Paolo Pirani, segretario confederale della Uil — anche perché viene ignorato un passaggio dell’accordo che avevamo firmato con il ministro il 3 maggio scorso». Quell’intesa fissava alcuni principi che dovrebbero guidare l’estensione al settore pubblico della riforma del mercato del lavoro. «Uno dei punti condivisi da tutti — dice Pirani — stabiliva che in attesa del passaggio alle nuove regole, i contratti a termine sarebbero stati rinnovati». Una promessa non facile da mantenere. Nel settore privato la riforma è in vigore da poco più di un mese, e tra i primi effetti c’è proprio il mancato rinnovo dei contratti a termine senza che questo porti ad un’assunzione a tempo indeterminato, come nelle intenzioni del governo. Sui precari anche la Cisl è preoccupata: «Bisogna studiare il modo — dice Giovanni Faverin, segretario generale per il comparto Funzione pubblica — di favorire nel lungo termine la stabilizzazione di chi ha un contratto a termine». Ma è davvero l’unico punto sul quale i tre sindacati parlano ad una voce sola.
Sugli esuberi — cioè i tagli del 10% del personale e del 20% dei dirigenti — il ministro Patroni Griffi si dice pronto a cercare un’intesa con i sindacati «senza però accettare veti». Cgil e Uil confermano lo sciopero degli statali programmato per il 28 settembre perché, dicono, il confronto riguarderà non il numero degli esuberi ma solo la gestione delle procedure. Non la sostanza, insomma, ma i dettagli. La Cisl, invece, sceglie una linea diversa: conferma il suo «no» allo sciopero e parla di segnali positivi arrivati dal governo. «In altri Paesi come Spagna e Grecia — dice Faverin — il settore pubblico ha subito tagli agli organici e allo stipendio senza che i sindacati avessero nemmeno la possibilità di parlare. Finché c’è un tavolo al quale discutere non preferiamo restare seduti».
Il Corriere della Sera 05.09.12

"Scuola, il rituale stanco della valutazione", di Benedetto Vertecchi

I troppi infortuni che accompagnano in Italia le operazioni di carattere valutativo ai diversi livelli del sistema di istruzione dovrebbero indurre a riflettere meglio sulla chiarezza degli intenti che si vogliono perseguire e sull’adeguatezza delle soluzioni adottate dal punto di vista tecnico. Non passa giorno, in- fatti, che non si abbia notizia di pro- ve di ammissione alle università costellate di errori o dense di richieste che dovrebbero essere rivelatrici di non si capisce bene quali competenze. Il quadro non è diverso, anche se gli effetti sociali sono, se possibile, ancora più gravi, quando prove di qualità non migliore sono utilizzate per effettuare selezioni che hanno conseguenze sul destino professionale, e non di rado sulle condizioni di vita, di chi si sottopone ad esse. Basti menzionare quanto è accaduto con le selezioni dei candidati al concorso direttivo o all’ammissione ai corsi di tirocinio tramite i quali dovrebbe procedersi al reclutamento di nuovi insegnanti. È scontato che da tali infortuni non possa che derivare sfiducia nei confronti della possibilità di introdurre nell’attività educativa procedure dalle quali derivino elementi a sostegno di decisioni che perseguano l’intento di migliorarla. Del resto, su questo obiettivo di principio, sembra esserci un generale consenso. Ma è un consenso che si dissolve rapidamente quando si tratta di precisare in che modo l’obiettivo possa essere conseguito. Riaffiorano, da un lato, resistenze radicate nei confronti dell’uso di un’organizzazione delle prove volta a contenere le differenze fra i valutatori, e si manifestano, dall’altro lato, atteggiamenti di accettazione acritica di procedure che ricalcano (più o meno bene, ma più spesso male) modelli diffusi a livello internazionale. Il fatto è che, in forma esplicita o implicita, le pratiche valutative non si limitano a rilevare quale sia stato l’effetto dell’attività educativa, ma investono il piano delle interpretazioni cui i diversi modi di praticare l’educazione fanno riferimento. Non solo: la valutazione funge da elemento di congiunzione tra i valori sociali che si collegano all’acquisizione di valori e conoscenze e gli intenti perseguiti dalle scuole. Basterebbe questa considerazione per concludere che la valutazione richiede un adeguamento continuo dei criteri di riferimento e delle pratiche di attuazione, e che tale adeguamento può essere solo il risultato di una costante attività di ricerca. Occorre indagare i cambiamenti che intervengono nella cultura sociale, nei modi di vita, nelle esperienze di educazione informale. C’è bisogno di studiare l’evoluzione del linguaggio di bambini e ragazzi, la composizione del loro repertorio di simboli, la capacità che dimostrano di collegare pensiero e azione, le relazioni che stabiliscono con i coetanei e con gli adulti, il loro rapporto con la natura. In un sistema educativo, la prima, e fondamentale, attività di valutazione non è quella che si riferisce agli apprendimenti che si conseguono in un contesto organizzato, ma quella che consente di conoscere il profilo di bambini e ragazzi e di coglierne l’evoluzione attraverso gli anni. Ed è proprio la consapevolezza di tale evoluzione che può spingere ad assumere nell’educazione formale (ovvero, nella scuola) decisioni che assecondino o contrastino tendenze in atto. Le pratiche valutative sulle quali si sta soffermando l’attenzione del pubblico sono solo l’espressione di un rituale di accertamento delle competenze acquisite povero d’interpretazioni propriamente educative. Basterebbe confrontare l’inconsistenza dell’organizzazione della ricerca educativa in Italia, e in particolare di quella sulla valutazione, con quella esistente in altri Paesi per rendersi conto che gli infortuni che si vanno lamentando sono eventi annunciati da decenni, da quando allo sviluppo quantitativo del sistema scolastico non è stato fatto corrispondere uno sviluppo corrispondente delle strutture volte ad assicurare al sistema stesso la conoscenza necessaria a sostenerne il funzionamento. La valutazione procede sulla base di tecniche assunte senza una riflessione specifica e, soprattutto, senza che gli elementi assunti siano seguiti da una revisione critica dei comportamenti. Il regolamento recentemente adottato per il sistema nazionale di valutazione è un esempio che mostra come si assumano decisioni prescindendo dalla ricerca. Eppure, pratiche sensate di valutazione possono venire solo dallo sviluppo e dalla diffusione della conoscenza.

L’Unità 05.09.12

"Scuola, il rituale stanco della valutazione", di Benedetto Vertecchi

I troppi infortuni che accompagnano in Italia le operazioni di carattere valutativo ai diversi livelli del sistema di istruzione dovrebbero indurre a riflettere meglio sulla chiarezza degli intenti che si vogliono perseguire e sull’adeguatezza delle soluzioni adottate dal punto di vista tecnico. Non passa giorno, in- fatti, che non si abbia notizia di pro- ve di ammissione alle università costellate di errori o dense di richieste che dovrebbero essere rivelatrici di non si capisce bene quali competenze. Il quadro non è diverso, anche se gli effetti sociali sono, se possibile, ancora più gravi, quando prove di qualità non migliore sono utilizzate per effettuare selezioni che hanno conseguenze sul destino professionale, e non di rado sulle condizioni di vita, di chi si sottopone ad esse. Basti menzionare quanto è accaduto con le selezioni dei candidati al concorso direttivo o all’ammissione ai corsi di tirocinio tramite i quali dovrebbe procedersi al reclutamento di nuovi insegnanti. È scontato che da tali infortuni non possa che derivare sfiducia nei confronti della possibilità di introdurre nell’attività educativa procedure dalle quali derivino elementi a sostegno di decisioni che perseguano l’intento di migliorarla. Del resto, su questo obiettivo di principio, sembra esserci un generale consenso. Ma è un consenso che si dissolve rapidamente quando si tratta di precisare in che modo l’obiettivo possa essere conseguito. Riaffiorano, da un lato, resistenze radicate nei confronti dell’uso di un’organizzazione delle prove volta a contenere le differenze fra i valutatori, e si manifestano, dall’altro lato, atteggiamenti di accettazione acritica di procedure che ricalcano (più o meno bene, ma più spesso male) modelli diffusi a livello internazionale. Il fatto è che, in forma esplicita o implicita, le pratiche valutative non si limitano a rilevare quale sia stato l’effetto dell’attività educativa, ma investono il piano delle interpretazioni cui i diversi modi di praticare l’educazione fanno riferimento. Non solo: la valutazione funge da elemento di congiunzione tra i valori sociali che si collegano all’acquisizione di valori e conoscenze e gli intenti perseguiti dalle scuole. Basterebbe questa considerazione per concludere che la valutazione richiede un adeguamento continuo dei criteri di riferimento e delle pratiche di attuazione, e che tale adeguamento può essere solo il risultato di una costante attività di ricerca. Occorre indagare i cambiamenti che intervengono nella cultura sociale, nei modi di vita, nelle esperienze di educazione informale. C’è bisogno di studiare l’evoluzione del linguaggio di bambini e ragazzi, la composizione del loro repertorio di simboli, la capacità che dimostrano di collegare pensiero e azione, le relazioni che stabiliscono con i coetanei e con gli adulti, il loro rapporto con la natura. In un sistema educativo, la prima, e fondamentale, attività di valutazione non è quella che si riferisce agli apprendimenti che si conseguono in un contesto organizzato, ma quella che consente di conoscere il profilo di bambini e ragazzi e di coglierne l’evoluzione attraverso gli anni. Ed è proprio la consapevolezza di tale evoluzione che può spingere ad assumere nell’educazione formale (ovvero, nella scuola) decisioni che assecondino o contrastino tendenze in atto. Le pratiche valutative sulle quali si sta soffermando l’attenzione del pubblico sono solo l’espressione di un rituale di accertamento delle competenze acquisite povero d’interpretazioni propriamente educative. Basterebbe confrontare l’inconsistenza dell’organizzazione della ricerca educativa in Italia, e in particolare di quella sulla valutazione, con quella esistente in altri Paesi per rendersi conto che gli infortuni che si vanno lamentando sono eventi annunciati da decenni, da quando allo sviluppo quantitativo del sistema scolastico non è stato fatto corrispondere uno sviluppo corrispondente delle strutture volte ad assicurare al sistema stesso la conoscenza necessaria a sostenerne il funzionamento. La valutazione procede sulla base di tecniche assunte senza una riflessione specifica e, soprattutto, senza che gli elementi assunti siano seguiti da una revisione critica dei comportamenti. Il regolamento recentemente adottato per il sistema nazionale di valutazione è un esempio che mostra come si assumano decisioni prescindendo dalla ricerca. Eppure, pratiche sensate di valutazione possono venire solo dallo sviluppo e dalla diffusione della conoscenza.
L’Unità 05.09.12