Continuano a far discutere, e riflettere, gli ultimi dati diffusi dall’Istituto nazionale di statistica in tema di disoccupazione. Cifre molto pesanti nella loro valenza generale, che diventano drammatiche concentrandosi nella fascia giovanile dove si sta concretizzando una situazione insostenibile, come appare ancor più chiaro facendo dei raffronti con un passato per nulla lontano. Infatti, nel secondo trimestre del 2012 i giovani occupati, tra i 15 e i 34 anni, sono addirittura diminuiti di quasi un milione e mezzo di unità (-1.457.000) rispetto allo stesso periodo del 2007, passando da 7 milioni e 333mila a 5 milioni e 876mila, con un crollo del 19,9%. Guardando solo all’ultimo anno, la riduzione è stata di 230 mila unità.
DINAMICA OPPOSTA
Appare insomma evidente come, dall’inizio della crisi, sono stati proprio gli under 35 ad essere colpiti maggiormente, con una contrazione senza precedenti del numero di giovani che possono contare su un posto di lavoro. Quest’anno, poi, si è scesi al di sotto di un livello importante, se è vero che nel 2011, nel periodo tra aprile e giugno, gli occupati fra i 15 ed i 34 anni risultavano superare ancora la soglia dei sei milioni (6.106.000). Allo stesso tempo, invece, sempre dai dati Istat emerge una tendenza opposta per gli occupati nella classe d’età tra i 55 e i 64 anni, che sono aumentati del 26% nell’arco di cinque anni, dal secondo trimestre del 2007 al 2012. Nel dettaglio, gli occupati “più adulti” sono saliti di 626 mila unità, passando dai 2 milioni 403mila del 2007 ai 3 milioni 29mila del 2012. Nel giro di un solo anno, vale a dire dal secondo trimestre del 2011 allo stesso periodo del 2012, il rialzo è stato altrettanto significativo, 226mila unità (+8%). Una tendenza opposta che, però, non è in grado di compensare l’emorragia di posti nella fascia giovanile, senza contare l’autentica emergenza sociale che innesta quest’ultima dinamica.
Di fronte all’emergenza occupazione, l’enfasi si sposta inevitabilmente sul rilancio dell’attività imprenditoriale per riuscire a creare nuovi posti di lavoro. Ieri la Cisl si è schierata con la proposta del ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che vorrebbe garantire un trattamento di favore alle aziende che investono. «Siamo molto favorevoli – ha detto il segretario generale, Raffaele Bonanni – all’idea di introdurre un migliore trattamento fiscale per le aziende che investono». Sulla stessa linea si schierano le associazioni dei consumatori. Ad esempio il Codacons, che partendo proprio dagli ultimi dati dell’Istat sulla disoccupazione giovanile chiede «sgravi fiscali e incentivi per le imprese». In particolare, il presidente dell’associazione, Carlo Rienzi parla di «una vera e propria emergenza sociale. Al forte calo dell’occupazione si associa infatti una pesantissima perdita del potere d’acquisto per gli under 35, che in base alle stime del Codacons si attesta a quota -18% dal 2007 ad oggi. I giovani assieme agli anziani sono coloro che pagano il prezzo maggiore della crisi economica e dei rincari che negli ultimi anni hanno travolto il Paese subendo un progressivo impoverimento aggravato dalle difficoltà nel trovare una occupazione stabile, situazione che ha ridotto drasticamente la loro capacità di acquisto».
Tornando alle parole del ministro Fornero, il deputato democratico Sergio D’Antoni osserva che «il tempo degli annunci è ampiamente scaduto. Abbiamo sul tavolo una legge delega fortemente voluta dal Pd: il governo si impegni ad attuarla, sottoponendo la questione alle parti sociali già dai prossimi incontri del 5 e dell’11 settembre». Una delle vie d’uscite dalla crisi, sottolinea D’Antoni, passa dalla «partecipazione dei lavoratori alle decisioni strategiche delle imprese, che rappresenta la chiave di volta di un nuovo modello di sviluppo solidale e partecipativo, capace di coniugare l’allargamento dei diritti dei lavoratori al necessario aumento di produttività e competitività. A questo punto le dichiarazioni devono lasciare spa- zio alla concretezza».
L’Unità 03.09.12
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"Oltre il passato senza indulgenza", di Ilvo Diamanti
Non è facile orientarsi, in questi tempi strani. In questo Paese strano. Dove nulla comincia e nulla finisce davvero. Non è facile capire di che si discuta. Le questioni, gli eventi, gli attori. Dissociati dal contesto originale. Oppure, ricollocati in un contesto diverso.
Le polemiche sulla trattativa fra Stato e mafia. Ha coinvolto il presidente Napolitano e i magistrati di Palermo. Anche se i fatti di cui si discute sono avvenuti vent’anni fa. Nel 1992. Il crinale fra la Prima e la Seconda Repubblica. Quando Falcone e Borsellino vennero massacrati, insieme alla scorta, in due diversi attentati. A pochi mesi di distanza. Episodi tragici, parte di una strategia concepita da «menti raffinate» che tendeva a «mantenere l’esistente ed a fermare la spinta al cambiamento », ha osservato Piero Grasso, capo della Direzione nazionale antimafia. Il quale ha aggiunto che, come nel 1992, oggi sarebbe in atto «una ulteriore destabilizzazione (…) contro la magistratura e contro il capo dello Stato». Vent’anni dopo, dunque, la storia si ripete. Stessi attori, stesse questioni, con volti e nomi – talora, ma non sempre – diversi. Gli echi del passato sono tanti, troppi, per non suscitare sospetto.
Vent’anni fa – più uno – si era celebrato il referendum che riduceva a una sola le preferenze. In pratica: ne limitava il “mercato”, che favoriva il controllo delle lobbies, degli uomini e dei gruppi di potere sulla società e sul territorio. Vent’anni fa – meno uno: nel 1993 – altri referendum avviavano il maggioritario al Senato. Mentre la Bicamerale trasformava la legge elettorale della Camera in un sistema misto, in prevalenza maggioritario. Il famoso Mattarellum, tanto criticato prima di essere sostituito per iniziativa del centrodestra, nel 2005, dal famigerato Porcellum. Vent’anni fa – meno uno – veniva approvata la legge che stabiliva l’elezione diretta dei sindaci per rispondere alle domande di autonomia espresse sul territorio, soprattutto – ma non solo – nel Nord. A cui la Lega – ma non solo – aveva dato voce. Vent’anni fa – uno più, uno meno – i partiti tradizionali – di governo e di opposizione – si sfaldavano. Fiaccati dal voto del 1992. E soprattutto da Tangentopoli. Si rifondavano. La Dc e il Pci. Si ri-nominavano. Si dividevano. Fra post e neo. E si redistribuivano fra i due schieramenti. Vent’anni fa – uno più, uno meno – Silvio Berlusconi si preparava a scendere in campo. Vent’anni fa: il Paese si dibatteva in una crisi economica pesante, condizionata da un debito pubblico enorme. I governi dell’epoca, affidati a ministri “tecnici”, come Amato, Dini e Ciampi, vararono manovre finanziarie onerosissime. Vent’anni fa, l’Italia chiudeva un lungo ciclo della propria storia. Condizionata dalla presenza di grandi organizzazioni illegali, radicate sul territorio. Mafia e camorra, in particolare. Sfidate, soprattutto, dalla magistratura e dai magistrati – oltre che da esponenti politici e della società civile. Con grande sacrificio di vite umane. L’Italia: al confine fra l’Occidente democratico (e capitalista) e i sistemi socialisti dell’Est. Percorsa da tensioni, spioni, attentati e complotti. Ispirati dall’esterno oltre che dall’interno.
Vent’anni fa: il cambiamento, a lungo annunciato, infine, irrompeva. Tumultuoso. Ma disordinato, privo di un disegno chiaro. Promosso da diversi attori e diversi soggetti. Con interessi
e progetti diversi. Attraverso referendum, elezioni locali, svolte elettorali, inchieste giudiziarie e spinte territoriali.
Vent’anni dopo – anno più, anno meno. È lecito dubitare. Che quella svolta, quella frattura, quel cambiamento: abbiano prodotto i risultati annunziati. Sperati. Vent’anni dopo. Si parla ancora e sempre di Tangentopoli. Di referendum elettorali e di nuove leggi – che correggano l’ennesima degenerazione scaturita dalle mediazioni dei partiti. Con un nuovo sistema di voto, che rischia di fare rimpiangere il Porcellum. E verrà, puntualmente, sanzionato da una nuova, ironica definizione di Giovanni Sartori. Vent’anni dopo. Si continua a parlare di federalismo e di autonomie locali. Vent’anni dopo. Si parla ancora di ritorno del Centro, della nuova Dc. E se il comunismo è finito, l’anticomunismo c’è ancora. Agitato come una bandiera. Vent’anni dopo. Governano i tecnici. Berlusconi ha concluso il suo ciclo, ma incombe. Vent’anni dopo. Sempre lì. In attesa di nuove elezioni di svolta. A discutere di vent’anni fa. Vent’anni dopo e vent’anni prima. Le stesse questioni, le stesse polemiche, le stesse vicende, gli stessi attori. Come se, in vent’anni, niente fosse cambiato. O forse perché i cambiamenti sono avvenuti in modo contraddittorio. Eludendo i problemi invece di risolverli. Perché il cambiamento si è realizzato senza aver fatto davvero i conti con il passato. Senza aprire le pagine più scure della nostra biografia. Le leggi elettorali: modificate per via referendaria o compromissoria. Sempre a metà, fra maggioritario e proporzionale. Come la forma dello Stato: un presidenzialismo di
fatto. Affermatosi per l’inerzia e l’impotenza dei partiti principali. Personalizzati e, anzi, “personali”. Mediatizzati. Hanno lasciato i cittadini «orfani, privi di concezioni generali, di una filosofia » (Per citare Berselli). Il federalismo e le autonomie locali. «Parole e nient’altro che parole ». Realizzati senza ridurre il centralismo dello Stato e lo Stato centrale. Il rapporto fra la politica e gli affari. Eluso. Rimosso. Come se Tangentopoli avesse risolto tutto. Come se la Prima Repubblica fosse finita insieme a Craxi e Andreotti. Così le collusioni fra poteri politici, istituzioni settori dello Stato e organizzazioni illegali. Mafiose e non solo. Hanno attraversato la nostra storia, ma non si sono concluse nel 1992. Sono proseguite e proseguono ancora. Come dimostrano le inchieste dei magistrati, che hanno coinvolto importanti protagonisti della politica e della vita pubblica.
Per questo ci scopriamo a discutere dei fatti e dei misfatti di vent’anni fa come fossero avvenuti oggi.
Perché i conti con il passato non li abbiamo mai chiusi davvero. Ma proprio per questo bisogna fare chiarezza. Senza indulgenza e senza reticenza, su quel che è avvenuto allora e poi. Soprattutto e anzitutto per quel che riguarda i rapporti fra istituzioni, politica e organizzazioni illegali. Un vizio inaccettabile per un Paese che voglia davvero voltare pagina. Nessun sospetto, nessuna zona d’ombra, a questo proposito, è tollerabile. Nelle trattative fra Stato e mafia. Oggi come ieri. Per non restare intrappolati nei meandri della nostra cattiva coscienza nazionale. Impegnati a guardare e a correre. Avanti verso il passato.
La Repubblica 03.09.12
"Oltre il passato senza indulgenza", di Ilvo Diamanti
Non è facile orientarsi, in questi tempi strani. In questo Paese strano. Dove nulla comincia e nulla finisce davvero. Non è facile capire di che si discuta. Le questioni, gli eventi, gli attori. Dissociati dal contesto originale. Oppure, ricollocati in un contesto diverso.
Le polemiche sulla trattativa fra Stato e mafia. Ha coinvolto il presidente Napolitano e i magistrati di Palermo. Anche se i fatti di cui si discute sono avvenuti vent’anni fa. Nel 1992. Il crinale fra la Prima e la Seconda Repubblica. Quando Falcone e Borsellino vennero massacrati, insieme alla scorta, in due diversi attentati. A pochi mesi di distanza. Episodi tragici, parte di una strategia concepita da «menti raffinate» che tendeva a «mantenere l’esistente ed a fermare la spinta al cambiamento », ha osservato Piero Grasso, capo della Direzione nazionale antimafia. Il quale ha aggiunto che, come nel 1992, oggi sarebbe in atto «una ulteriore destabilizzazione (…) contro la magistratura e contro il capo dello Stato». Vent’anni dopo, dunque, la storia si ripete. Stessi attori, stesse questioni, con volti e nomi – talora, ma non sempre – diversi. Gli echi del passato sono tanti, troppi, per non suscitare sospetto.
Vent’anni fa – più uno – si era celebrato il referendum che riduceva a una sola le preferenze. In pratica: ne limitava il “mercato”, che favoriva il controllo delle lobbies, degli uomini e dei gruppi di potere sulla società e sul territorio. Vent’anni fa – meno uno: nel 1993 – altri referendum avviavano il maggioritario al Senato. Mentre la Bicamerale trasformava la legge elettorale della Camera in un sistema misto, in prevalenza maggioritario. Il famoso Mattarellum, tanto criticato prima di essere sostituito per iniziativa del centrodestra, nel 2005, dal famigerato Porcellum. Vent’anni fa – meno uno – veniva approvata la legge che stabiliva l’elezione diretta dei sindaci per rispondere alle domande di autonomia espresse sul territorio, soprattutto – ma non solo – nel Nord. A cui la Lega – ma non solo – aveva dato voce. Vent’anni fa – uno più, uno meno – i partiti tradizionali – di governo e di opposizione – si sfaldavano. Fiaccati dal voto del 1992. E soprattutto da Tangentopoli. Si rifondavano. La Dc e il Pci. Si ri-nominavano. Si dividevano. Fra post e neo. E si redistribuivano fra i due schieramenti. Vent’anni fa – uno più, uno meno – Silvio Berlusconi si preparava a scendere in campo. Vent’anni fa: il Paese si dibatteva in una crisi economica pesante, condizionata da un debito pubblico enorme. I governi dell’epoca, affidati a ministri “tecnici”, come Amato, Dini e Ciampi, vararono manovre finanziarie onerosissime. Vent’anni fa, l’Italia chiudeva un lungo ciclo della propria storia. Condizionata dalla presenza di grandi organizzazioni illegali, radicate sul territorio. Mafia e camorra, in particolare. Sfidate, soprattutto, dalla magistratura e dai magistrati – oltre che da esponenti politici e della società civile. Con grande sacrificio di vite umane. L’Italia: al confine fra l’Occidente democratico (e capitalista) e i sistemi socialisti dell’Est. Percorsa da tensioni, spioni, attentati e complotti. Ispirati dall’esterno oltre che dall’interno.
Vent’anni fa: il cambiamento, a lungo annunciato, infine, irrompeva. Tumultuoso. Ma disordinato, privo di un disegno chiaro. Promosso da diversi attori e diversi soggetti. Con interessi
e progetti diversi. Attraverso referendum, elezioni locali, svolte elettorali, inchieste giudiziarie e spinte territoriali.
Vent’anni dopo – anno più, anno meno. È lecito dubitare. Che quella svolta, quella frattura, quel cambiamento: abbiano prodotto i risultati annunziati. Sperati. Vent’anni dopo. Si parla ancora e sempre di Tangentopoli. Di referendum elettorali e di nuove leggi – che correggano l’ennesima degenerazione scaturita dalle mediazioni dei partiti. Con un nuovo sistema di voto, che rischia di fare rimpiangere il Porcellum. E verrà, puntualmente, sanzionato da una nuova, ironica definizione di Giovanni Sartori. Vent’anni dopo. Si continua a parlare di federalismo e di autonomie locali. Vent’anni dopo. Si parla ancora di ritorno del Centro, della nuova Dc. E se il comunismo è finito, l’anticomunismo c’è ancora. Agitato come una bandiera. Vent’anni dopo. Governano i tecnici. Berlusconi ha concluso il suo ciclo, ma incombe. Vent’anni dopo. Sempre lì. In attesa di nuove elezioni di svolta. A discutere di vent’anni fa. Vent’anni dopo e vent’anni prima. Le stesse questioni, le stesse polemiche, le stesse vicende, gli stessi attori. Come se, in vent’anni, niente fosse cambiato. O forse perché i cambiamenti sono avvenuti in modo contraddittorio. Eludendo i problemi invece di risolverli. Perché il cambiamento si è realizzato senza aver fatto davvero i conti con il passato. Senza aprire le pagine più scure della nostra biografia. Le leggi elettorali: modificate per via referendaria o compromissoria. Sempre a metà, fra maggioritario e proporzionale. Come la forma dello Stato: un presidenzialismo di
fatto. Affermatosi per l’inerzia e l’impotenza dei partiti principali. Personalizzati e, anzi, “personali”. Mediatizzati. Hanno lasciato i cittadini «orfani, privi di concezioni generali, di una filosofia » (Per citare Berselli). Il federalismo e le autonomie locali. «Parole e nient’altro che parole ». Realizzati senza ridurre il centralismo dello Stato e lo Stato centrale. Il rapporto fra la politica e gli affari. Eluso. Rimosso. Come se Tangentopoli avesse risolto tutto. Come se la Prima Repubblica fosse finita insieme a Craxi e Andreotti. Così le collusioni fra poteri politici, istituzioni settori dello Stato e organizzazioni illegali. Mafiose e non solo. Hanno attraversato la nostra storia, ma non si sono concluse nel 1992. Sono proseguite e proseguono ancora. Come dimostrano le inchieste dei magistrati, che hanno coinvolto importanti protagonisti della politica e della vita pubblica.
Per questo ci scopriamo a discutere dei fatti e dei misfatti di vent’anni fa come fossero avvenuti oggi.
Perché i conti con il passato non li abbiamo mai chiusi davvero. Ma proprio per questo bisogna fare chiarezza. Senza indulgenza e senza reticenza, su quel che è avvenuto allora e poi. Soprattutto e anzitutto per quel che riguarda i rapporti fra istituzioni, politica e organizzazioni illegali. Un vizio inaccettabile per un Paese che voglia davvero voltare pagina. Nessun sospetto, nessuna zona d’ombra, a questo proposito, è tollerabile. Nelle trattative fra Stato e mafia. Oggi come ieri. Per non restare intrappolati nei meandri della nostra cattiva coscienza nazionale. Impegnati a guardare e a correre. Avanti verso il passato.
La Repubblica 03.09.12
"Passaggio alla Legge Fornero. Migliaia di precari senza tutele", di Bianca Di Giovanni
Sospendere la riforma del lavoro, elaborare correzioni e poi tornare a votarla. Questa la posizione della Cgil sul testo Fornero, dopo un primo monitoraggio dei «guasti» che la legge sta provocando. «È la prima volta che una legge così importante è stata votata con 4 fiducie – dichiara Serena Sorrentino, segretario confederale a Corso d’Italia – Tutte le forze politiche hanno espresso perplessità, denunciando lo stato di necessità in cui è stata votata. Oggi forse è il caso di riflettere». Elsa Fornero non è dello stesso parere. La ministra propone invece un monitoraggio di un anno e poi in caso le eventuali modifiche. «E nel frattempo cosa diciamo a chi perde lavoro o addirittura l’indennità di disoccupazione?», chiede Sorrentino. In effetti ad essere colpiti già in queste settimane sono proprio quegli atipici e discontinui a cui la ministra intendeva offrire il suo nuovo modello di welfare. È un paradosso, ma è così. In questi giorni di «interregno» tra nuove e vecchie norme si stanno producendo danni al loro reddito, e anche alle loro prospettive di occupazione, visto che anche sulle possibilità di assunzioni di fatto si registra una pericolosa frenata. Tutto questo mentre la contabilità del lavoro rivela il dramma dei più giovani, i più colpiti dalle crisi industriali. senza tutele Un primo «assaggio» della mancata armonizzazione tra vecchio e nuovo sistema (quasi un nuovo caso esodati) lo stanno vivendo gli stagionali e i precari che terminano il loro impiego in questi mesi. Per un gioco di sovrapposizioni per loro è di fatto precluso l’accesso all’indennità di disoccupazione (aspi) che sostituisce l’indennità con requisiti ridotti. Per chi perde lavoro oggi resta in vigore la vecchia regola, che prevede una «finestra» tra il primo gennaio e il 30 marzo per le domande. Ma per l’anno prossimo è già in vigore la nuova norma, con un iter completamente diverso. Dal primo gennaio l’indennità andrà chiesta 60 giorni prima della decadenza del contratto. Chiaro che i due sistemi non si incrociano, e molti lavoratori precari oggi si ritrovano in un «limbo» che di fatto nega loro l’accesso alla cosiddeta «mini Aspi». «Tutti i lavoratori che si dimettono oggi sono scoperti – aggiunge Sorrentino – E non sono certo pochi: si tratta di migliaia di persone. Abbiamo chiesto chiarimenti all’Inps, che non ha fatto altro che confermare lo stato dell’arte: dal primo gennaio entra in vigore la nuova legge. A questo punto, si vuole o non si vuole risolvere da subito questo problema?». La questione sta già preoccupando molti lavoratori, soprattutto quelli impegnati nelle zone turistiche, come la Romagna (al meeting di Rimini alla ministra è stata recapitata una lettera proprio su questo) o le isole. Poter beneficiare dell’indennità significa molte cose, tra le quali anche la possibilità di cercare una occupazione migliore o fare un corso di formazione. Ma non è soltanto la possibilità di ricevere il sussidio ad essere in forse. Nel passaggio tra il vecchio sistema e il nuovo si profila anche un danno economico. Già il trattamento dell’indennità a requisiti ridotti era parecchio «ridotto»: i «paletti» erano aver lavorato almeno per 78 giorni nell’ultimo anno e aver avuto un incarico nei due anni precedenti. Oggi invece il requisito sposta a 13 settimane l’esperienza di lavoro necessaria (cioè 91 giorni) e in più si stabilisce un’erogazione in percentuale ai giorni lavorati. Una stima del sindacato di Corso Italia parla di un taglio di circa il 25% sulle erogazioni. Altro tema «scottante» è la risoluzione del rapporto di lavoro. Dopo Maurizio sacconi, che è intervenuto per eliminare qualsiasi controllo sulle dimissioni in bianco, Fornero aveva l’intenzione di combattere il fenomeno. Ma anche stavolta restano dei «buchi neri» nel lasso di tempo tra la comunicazione alla direzione provinciale del lavoro e i 7 giorni a disposizione del lavoratore per decidere cosa fare. Da prime segnalazioni, pare che il fenomeno delle dimissioni in bianco stia insorgendo di nuovo. Senza contare le pressioni che consulenti del lavoro fanno sulle aziende, preoccupate delle nuove norme sulla flessibilità in entrata. «Non avendo ridotto le tipologie di lavoro – osserva Sorrentino – le misure pur giuste sulle collaborazioni (che si trasformano in lavoro a tempo indeterminato se hanno le stesse caratteristiche) spingono verso altre forme di lavoro precario. Su altre gli abusi continuano non avendovi posto rimedio. Alcune vistose speculazioni sono state segnalate già prima dell’entrata in vigore della legge come nel caso degli associati in partecipazione
L’Unità 03.09.12
"Passaggio alla Legge Fornero. Migliaia di precari senza tutele", di Bianca Di Giovanni
Sospendere la riforma del lavoro, elaborare correzioni e poi tornare a votarla. Questa la posizione della Cgil sul testo Fornero, dopo un primo monitoraggio dei «guasti» che la legge sta provocando. «È la prima volta che una legge così importante è stata votata con 4 fiducie – dichiara Serena Sorrentino, segretario confederale a Corso d’Italia – Tutte le forze politiche hanno espresso perplessità, denunciando lo stato di necessità in cui è stata votata. Oggi forse è il caso di riflettere». Elsa Fornero non è dello stesso parere. La ministra propone invece un monitoraggio di un anno e poi in caso le eventuali modifiche. «E nel frattempo cosa diciamo a chi perde lavoro o addirittura l’indennità di disoccupazione?», chiede Sorrentino. In effetti ad essere colpiti già in queste settimane sono proprio quegli atipici e discontinui a cui la ministra intendeva offrire il suo nuovo modello di welfare. È un paradosso, ma è così. In questi giorni di «interregno» tra nuove e vecchie norme si stanno producendo danni al loro reddito, e anche alle loro prospettive di occupazione, visto che anche sulle possibilità di assunzioni di fatto si registra una pericolosa frenata. Tutto questo mentre la contabilità del lavoro rivela il dramma dei più giovani, i più colpiti dalle crisi industriali. senza tutele Un primo «assaggio» della mancata armonizzazione tra vecchio e nuovo sistema (quasi un nuovo caso esodati) lo stanno vivendo gli stagionali e i precari che terminano il loro impiego in questi mesi. Per un gioco di sovrapposizioni per loro è di fatto precluso l’accesso all’indennità di disoccupazione (aspi) che sostituisce l’indennità con requisiti ridotti. Per chi perde lavoro oggi resta in vigore la vecchia regola, che prevede una «finestra» tra il primo gennaio e il 30 marzo per le domande. Ma per l’anno prossimo è già in vigore la nuova norma, con un iter completamente diverso. Dal primo gennaio l’indennità andrà chiesta 60 giorni prima della decadenza del contratto. Chiaro che i due sistemi non si incrociano, e molti lavoratori precari oggi si ritrovano in un «limbo» che di fatto nega loro l’accesso alla cosiddeta «mini Aspi». «Tutti i lavoratori che si dimettono oggi sono scoperti – aggiunge Sorrentino – E non sono certo pochi: si tratta di migliaia di persone. Abbiamo chiesto chiarimenti all’Inps, che non ha fatto altro che confermare lo stato dell’arte: dal primo gennaio entra in vigore la nuova legge. A questo punto, si vuole o non si vuole risolvere da subito questo problema?». La questione sta già preoccupando molti lavoratori, soprattutto quelli impegnati nelle zone turistiche, come la Romagna (al meeting di Rimini alla ministra è stata recapitata una lettera proprio su questo) o le isole. Poter beneficiare dell’indennità significa molte cose, tra le quali anche la possibilità di cercare una occupazione migliore o fare un corso di formazione. Ma non è soltanto la possibilità di ricevere il sussidio ad essere in forse. Nel passaggio tra il vecchio sistema e il nuovo si profila anche un danno economico. Già il trattamento dell’indennità a requisiti ridotti era parecchio «ridotto»: i «paletti» erano aver lavorato almeno per 78 giorni nell’ultimo anno e aver avuto un incarico nei due anni precedenti. Oggi invece il requisito sposta a 13 settimane l’esperienza di lavoro necessaria (cioè 91 giorni) e in più si stabilisce un’erogazione in percentuale ai giorni lavorati. Una stima del sindacato di Corso Italia parla di un taglio di circa il 25% sulle erogazioni. Altro tema «scottante» è la risoluzione del rapporto di lavoro. Dopo Maurizio sacconi, che è intervenuto per eliminare qualsiasi controllo sulle dimissioni in bianco, Fornero aveva l’intenzione di combattere il fenomeno. Ma anche stavolta restano dei «buchi neri» nel lasso di tempo tra la comunicazione alla direzione provinciale del lavoro e i 7 giorni a disposizione del lavoratore per decidere cosa fare. Da prime segnalazioni, pare che il fenomeno delle dimissioni in bianco stia insorgendo di nuovo. Senza contare le pressioni che consulenti del lavoro fanno sulle aziende, preoccupate delle nuove norme sulla flessibilità in entrata. «Non avendo ridotto le tipologie di lavoro – osserva Sorrentino – le misure pur giuste sulle collaborazioni (che si trasformano in lavoro a tempo indeterminato se hanno le stesse caratteristiche) spingono verso altre forme di lavoro precario. Su altre gli abusi continuano non avendovi posto rimedio. Alcune vistose speculazioni sono state segnalate già prima dell’entrata in vigore della legge come nel caso degli associati in partecipazione
L’Unità 03.09.12
"Gli errori del Ministro", di Raffaele Simone
Dopo il marasma dei quesiti mal formulati nelle prove del cosiddetto Tfa (indispensabili per accedere al “concorsone” per insegnanti), il ministro Profumo risponde alle generali proteste pubblicando in rete i nomi degli estensori. Si tratta di un centinaio di persone, che, essendo sconosciute ai più, corrono al massimo il rischio di suscitare qualche risatina nel proprio condominio. Basta pubblicare quei nomi per ricomporre la gigantesca figuraccia? Direi di no, anche perché quella del Tfa non è che l’ultima di una serie di infortuni, non tutti conosciuti, in cui è incappata la gestione attuale del ministero.
Il primo fu, alla fine del 2011, la pubblicazione del bando per il finanziamento della ricerca universitaria di interesse nazionale (i cosiddetti fondi Prin), presentato dopo anni di plumbea indifferenza gelminiana. Il bando conteneva però tali restrizioni per i richiedenti che il ministero fu costretto a fare un goffo passo indietro allargando in extremis i criteri per l’accesso. Comunque, il meccanismo di selezione dei progetti risultò talmente macchinoso che ancora si attendono i risultati. Non basta. Qualche mese dopo fu presentato con grande enfasi il Pacchetto Merito, insieme di proposte per premiare il supposto “merito” nella scuola e nell’università. L’idea di merito che il progetto incorporava però era di tipo statico (identifichiamo i bravi e premiamoli), piuttosto che dinamico (creiamo ragazzi bravi), sicché il progetto non riscosse neanche una simpatia e, salvo errore, si è poi arenato. Alla lista vanno aggiunti poi gli imperdonabili svarioni contenuti nelle tracce dei compiti della maturità, che continuavano una poco lodevole tradizione dello stesso segno. Anche i test per le ammissioni alle facoltà universitarie hanno fatto scalpore: è di pochi giorni fa il caso (riportato dal
Corriere della sera) di un primario di rango che, facendo per prova il test per medicina, ha trovato almeno quindici domande a cui non sapeva rispondere. Certo, i test di ammissione non ricadono nella gestione diretta del ministero, ma sono un tema talmente delicato che un coordinamento qualitativo dal centro sembrerebbe indispensabile.
Chi è responsabile di questi pasticci? È chiaro che la “colpa” di questi inconvenienti, uno più imperdonabile e incredibile dell’altro, non è del ministro, che sembra animato da intenzioni sane e crede nel merito, anche se ne ha una concezione davvero troppo “amerikana” e tecnologica (non tutta la vita intellettuale può essere regolata sul modello dell’ingegneria!). È della struttura e del modo di funzionare del suo ministero, abbandonato da troppo tempo all’incuria, all’improvvisazione, alla mancanza di controlli, al clientelismo, all’indifferenza verso i competenti, allo strapotere del pedagogismo americaneggiante. Ma, per rimediare, non basta davvero pubblicare il nome dei responsabili dell’ultimo incidente.
Dopo esser stato nominato ministro, Francesco Profumo esitò prima di lasciare la presidenza del Cnr perché — spiegava — doveva completare il lavoro di riordinamento di quell’ente. Data la sua sensibilità verso questi temi, nei mesi che ha davanti come membro del governo farebbe bene a rivedere metodi, organizzazione e persone del suo ministero, approfittandone magari anche per ripensare la propria idea di merito e di modernità.
La Repubblica 03.09.12
"Gli errori del Ministro", di Raffaele Simone
Dopo il marasma dei quesiti mal formulati nelle prove del cosiddetto Tfa (indispensabili per accedere al “concorsone” per insegnanti), il ministro Profumo risponde alle generali proteste pubblicando in rete i nomi degli estensori. Si tratta di un centinaio di persone, che, essendo sconosciute ai più, corrono al massimo il rischio di suscitare qualche risatina nel proprio condominio. Basta pubblicare quei nomi per ricomporre la gigantesca figuraccia? Direi di no, anche perché quella del Tfa non è che l’ultima di una serie di infortuni, non tutti conosciuti, in cui è incappata la gestione attuale del ministero.
Il primo fu, alla fine del 2011, la pubblicazione del bando per il finanziamento della ricerca universitaria di interesse nazionale (i cosiddetti fondi Prin), presentato dopo anni di plumbea indifferenza gelminiana. Il bando conteneva però tali restrizioni per i richiedenti che il ministero fu costretto a fare un goffo passo indietro allargando in extremis i criteri per l’accesso. Comunque, il meccanismo di selezione dei progetti risultò talmente macchinoso che ancora si attendono i risultati. Non basta. Qualche mese dopo fu presentato con grande enfasi il Pacchetto Merito, insieme di proposte per premiare il supposto “merito” nella scuola e nell’università. L’idea di merito che il progetto incorporava però era di tipo statico (identifichiamo i bravi e premiamoli), piuttosto che dinamico (creiamo ragazzi bravi), sicché il progetto non riscosse neanche una simpatia e, salvo errore, si è poi arenato. Alla lista vanno aggiunti poi gli imperdonabili svarioni contenuti nelle tracce dei compiti della maturità, che continuavano una poco lodevole tradizione dello stesso segno. Anche i test per le ammissioni alle facoltà universitarie hanno fatto scalpore: è di pochi giorni fa il caso (riportato dal
Corriere della sera) di un primario di rango che, facendo per prova il test per medicina, ha trovato almeno quindici domande a cui non sapeva rispondere. Certo, i test di ammissione non ricadono nella gestione diretta del ministero, ma sono un tema talmente delicato che un coordinamento qualitativo dal centro sembrerebbe indispensabile.
Chi è responsabile di questi pasticci? È chiaro che la “colpa” di questi inconvenienti, uno più imperdonabile e incredibile dell’altro, non è del ministro, che sembra animato da intenzioni sane e crede nel merito, anche se ne ha una concezione davvero troppo “amerikana” e tecnologica (non tutta la vita intellettuale può essere regolata sul modello dell’ingegneria!). È della struttura e del modo di funzionare del suo ministero, abbandonato da troppo tempo all’incuria, all’improvvisazione, alla mancanza di controlli, al clientelismo, all’indifferenza verso i competenti, allo strapotere del pedagogismo americaneggiante. Ma, per rimediare, non basta davvero pubblicare il nome dei responsabili dell’ultimo incidente.
Dopo esser stato nominato ministro, Francesco Profumo esitò prima di lasciare la presidenza del Cnr perché — spiegava — doveva completare il lavoro di riordinamento di quell’ente. Data la sua sensibilità verso questi temi, nei mesi che ha davanti come membro del governo farebbe bene a rivedere metodi, organizzazione e persone del suo ministero, approfittandone magari anche per ripensare la propria idea di merito e di modernità.
La Repubblica 03.09.12
