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"Fuga dalla scuola. Un ragazzo su cinque senza diploma", di Valentina Santarpia

Due ragazzi su dieci in Italia non riescono a ottenere un diploma. Per combattere la dispersione scolastica, che resta un problema serissimo del nostro Paese, il ministero dell’Istruzione ha pubblicato un bando che punta ad abbattere l’abbandono degli studi nelle regioni più a rischio: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, dove saranno distribuiti fondi europei per 25 milioni di euro entro il 2014 e investiti altri 75 milioni messi a disposizione dal ministero dell’Interno per risistemare strutture sportive, teatrali, ricreative. I dirigenti scolastici, i sindaci, gli assessori possono chiedere di partecipare fino al 15 settembre (info: www.istruzione.it), elaborando progetti in collaborazione con associazioni culturali: l’obiettivo è quello di seguire e stimolare bambini e ragazzi dai 3 ai 15 anni, fino alla fine dell’obbligo scolastico.
I dati ci dicono che 52 mila ragazzi nel 2011/2012 si sono iscritti a una scuola secondaria (liceo o istituto tecnico) ma poi non hanno portato a termine l’anno scolastico: perché si sono trasferiti e poi non hanno più frequentato (28.800), perché si sono ritirati (2.200), perché hanno abbandonato senza formalizzare la loro scelta (3.600), o perché hanno semplicemente interrotto la frequenza senza una specifica motivazione (1.500). I picchi nelle regioni del Sud: solo in Sicilia oltre 16.600 studenti su 256 mila frequentanti non hanno proseguito gli studi, in Campania sono stati 8.790 su 327 mila studenti, in Puglia 4.127 su 214 mila, in Calabria 2.187 su 102 mila.
In realtà a guardare le percentuali (il 2% la media totale sui 2 milioni e mezzo di studenti) il fenomeno non sembra così preoccupante: ma il dato secco dell’anno scolastico fotografa solo l’entrata di uno studente di un istituto e la sua decisione di lasciarlo di punto in bianco, senza dirci nulla su cosa farà l’anno successivo. Per avere un quadro completo bisogna considerare la percentuale di early school leavers, ovvero i ragazzi che tra i 18 e i 24 anni che, dopo aver conseguito la licenza media, non hanno né un diploma né una qualifica professionale e non frequentano corsi scolastici o altre attività formative. Per l’ultimo rapporto Istat, erano il 18,8% tra il 2004 e il 2010 (più uomini, 22% che donne, 15,4%), molto sopra la media europea del 14,1%, con un Sud indietro (22,3%) rispetto al Centro-nord (16,2%): le regioni più virtuose Umbria (13,4%), Emilia Romagna (14,9%), Veneto (16%), le maglie nere in Sardegna (23,9%), Campania (23%)e Sicilia (26%), dove almeno un giovane su quattro non porta a termine un percorso di formazione dopo la scuola media. Con picchi incredibili non solo nelle aree degradate del Sud (a Scampia 41 ragazzi su 100 non proseguono gli studi), ma anche nelle periferie di Milano, Verona, Torino, Bolzano. Perché c’è un altro fenomeno trasversale alla geografia del Paese, testimoniato dal rapporto della commissione povertà 2008: sono il degrado sociale, l’indigenza, ad allontanare i ragazzi dalla scuola, e quindi sono gli studenti dei quartieri più difficili quelli che avrebbero bisogno di aiuto, allo Zen di Palermo come a Porta Palazzo a Torino, per capirci.
In otto anni la media nazionale di early school leavers è scesa solo di due punti, troppo poco per parlare di inversione di tendenza: il traguardo del contenimento degli abbandoni al di sotto del 10%, fissato dalle linee europee entro il 2010, appare lontano. Non è solo un problema di fondi: «Dove la formazione professionale funziona davvero, come in Veneto, la dispersione è quasi inesistente — dice Maria Grazia Nardiello, capo dipartimento del ministero dell’Istruzione —. I ragazzi hanno bisogno di avere a che fare con l’esperienza diretta del mondo, con la pratica: mentre in Italia c’è una cultura troppo classica, tutti scelgono il liceo senza considerare seriamente le alternative. E le alternative, cioè gli istituti tecnici, quelli professionali, l’apprendistato, la formazione professionale, spesso neanche sono presenti sul territorio. Se seguissimo l’esempio della Germania, dove la formazione diversa da quella umanistica viene valorizzata, potremmo migliorare decisamente il livello generale di crescita del Paese».

Il Corriere della Sera 03.09.12

"Fuga dalla scuola. Un ragazzo su cinque senza diploma", di Valentina Santarpia

Due ragazzi su dieci in Italia non riescono a ottenere un diploma. Per combattere la dispersione scolastica, che resta un problema serissimo del nostro Paese, il ministero dell’Istruzione ha pubblicato un bando che punta ad abbattere l’abbandono degli studi nelle regioni più a rischio: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, dove saranno distribuiti fondi europei per 25 milioni di euro entro il 2014 e investiti altri 75 milioni messi a disposizione dal ministero dell’Interno per risistemare strutture sportive, teatrali, ricreative. I dirigenti scolastici, i sindaci, gli assessori possono chiedere di partecipare fino al 15 settembre (info: www.istruzione.it), elaborando progetti in collaborazione con associazioni culturali: l’obiettivo è quello di seguire e stimolare bambini e ragazzi dai 3 ai 15 anni, fino alla fine dell’obbligo scolastico.
I dati ci dicono che 52 mila ragazzi nel 2011/2012 si sono iscritti a una scuola secondaria (liceo o istituto tecnico) ma poi non hanno portato a termine l’anno scolastico: perché si sono trasferiti e poi non hanno più frequentato (28.800), perché si sono ritirati (2.200), perché hanno abbandonato senza formalizzare la loro scelta (3.600), o perché hanno semplicemente interrotto la frequenza senza una specifica motivazione (1.500). I picchi nelle regioni del Sud: solo in Sicilia oltre 16.600 studenti su 256 mila frequentanti non hanno proseguito gli studi, in Campania sono stati 8.790 su 327 mila studenti, in Puglia 4.127 su 214 mila, in Calabria 2.187 su 102 mila.
In realtà a guardare le percentuali (il 2% la media totale sui 2 milioni e mezzo di studenti) il fenomeno non sembra così preoccupante: ma il dato secco dell’anno scolastico fotografa solo l’entrata di uno studente di un istituto e la sua decisione di lasciarlo di punto in bianco, senza dirci nulla su cosa farà l’anno successivo. Per avere un quadro completo bisogna considerare la percentuale di early school leavers, ovvero i ragazzi che tra i 18 e i 24 anni che, dopo aver conseguito la licenza media, non hanno né un diploma né una qualifica professionale e non frequentano corsi scolastici o altre attività formative. Per l’ultimo rapporto Istat, erano il 18,8% tra il 2004 e il 2010 (più uomini, 22% che donne, 15,4%), molto sopra la media europea del 14,1%, con un Sud indietro (22,3%) rispetto al Centro-nord (16,2%): le regioni più virtuose Umbria (13,4%), Emilia Romagna (14,9%), Veneto (16%), le maglie nere in Sardegna (23,9%), Campania (23%)e Sicilia (26%), dove almeno un giovane su quattro non porta a termine un percorso di formazione dopo la scuola media. Con picchi incredibili non solo nelle aree degradate del Sud (a Scampia 41 ragazzi su 100 non proseguono gli studi), ma anche nelle periferie di Milano, Verona, Torino, Bolzano. Perché c’è un altro fenomeno trasversale alla geografia del Paese, testimoniato dal rapporto della commissione povertà 2008: sono il degrado sociale, l’indigenza, ad allontanare i ragazzi dalla scuola, e quindi sono gli studenti dei quartieri più difficili quelli che avrebbero bisogno di aiuto, allo Zen di Palermo come a Porta Palazzo a Torino, per capirci.
In otto anni la media nazionale di early school leavers è scesa solo di due punti, troppo poco per parlare di inversione di tendenza: il traguardo del contenimento degli abbandoni al di sotto del 10%, fissato dalle linee europee entro il 2010, appare lontano. Non è solo un problema di fondi: «Dove la formazione professionale funziona davvero, come in Veneto, la dispersione è quasi inesistente — dice Maria Grazia Nardiello, capo dipartimento del ministero dell’Istruzione —. I ragazzi hanno bisogno di avere a che fare con l’esperienza diretta del mondo, con la pratica: mentre in Italia c’è una cultura troppo classica, tutti scelgono il liceo senza considerare seriamente le alternative. E le alternative, cioè gli istituti tecnici, quelli professionali, l’apprendistato, la formazione professionale, spesso neanche sono presenti sul territorio. Se seguissimo l’esempio della Germania, dove la formazione diversa da quella umanistica viene valorizzata, potremmo migliorare decisamente il livello generale di crescita del Paese».
Il Corriere della Sera 03.09.12

"Il cortocircuito dell’insulto", di Nadia Urbinati

Beppe Grillo è sceso in campo contro gli “aizzatori di professione” nei suoi confronti e nei confronti del MoVimento 5 Stelle, denunciando il linguaggio “fragoroso” e “indecente” che non alimenta la discussione sulle cose, ma ha per obiettivo l’insulto, l’isolamento, la distruzione dell’avversario. Odio e violenza verbali hanno scandito la nostra storia politica in questi anni di transizione. Anni di transizione incompiuta dalla democrazia dei partiti di massa a qualcosa di cui nessuno sa ancora vedere i contorni, da quando odio e violenza erano domati all’interno di narrative ideologiche che consentivano a chi le condivideva di imbastire discorsi, nei quali gli avversari non erano le persone ma le idee per le quali le persone si spendevano. La politica delle idee è una politica di civiltà perché induce i cittadini a trascendere la dimensione personale — a comportarsi e sentirsi come rappresentanti delle idee che condividono; ad avere avversari, mai nemici da distruggere. Dalla fine dei partiti tradizionali questa civiltà della rappresentanza, della separazione tra dimensione personale e dimensione politica è decaduta. L’antipolitica è una conseguenza di questa decadenza, e il MoVimento 5 Stelle uno dei suoi artefici.
I candidati, i leader e i cittadini che con loro si identificano hanno in questi anni di decadenza della politica dei partiti cominciato a “metterci la faccia”, come si sente dire spesso, la loro faccia personale, a parlare in prima persona sfoderando le emozioni più intime e gusti privatissimi, cose dalle quali non si può né dissentire né convenire, proprio perché personali e non mediabili. Tutti come sovrani assoluti in un gioco di parole al massacro che non fa prigionieri. Le trasmissioni di “approfondimento” hanno fatto la loro fortuna mettendo in scena questo tremendo circolo vizioso di istigazione alla violenza verbale e denuncia dei suoi effetti devastanti. La pubblicità è assicurata in entrambi i casi. E allora, i gusti, le opinioni di pancia, le caricature dell’avversario, la distruzione del carattere, il dileggio e il disprezzo sono diventati le componenti del discorso, che discorso ovviamente non è.
Questa privatizzazione del linguaggio politico ha spalancato le porte alla pratica dell’insulto, con l’uso delle parole brandite come clave e dei decibel usati come strategia per imporre il silenzio. L’arena politica come un Colosseo. E la società civile stessa, dalla carta stampata ai blog, come un ring nel quale non si valutano e discutono le preferenze o le opinioni, ma si manda a ko o si distrugge moralmente chi non la pensa allo stesso modo. Tutto questo per fare spettacolo, per attirare l’attenzione, per crescere nei sondaggi. Fino a quando… un esagitato tira una statuina del Duomo di Milano contro Silvio Berlusconi. Fino a quando… Beppe Grillo vede cambiare il clima intorno a sé, e dopo aver vestito i panni del lupo indossa quelli dell’agnello e scatena una campagna a rovescio. Dopo aver armato tastiere e menti di parole violente, di offese, di denigrazioni. Dopo aver tirato il sasso. Le favole di Esopo sono la miglior griglia interpretativa.
Il fatto nuovo di questi giorni è però un altro. Il fatto nuovo è che questi metodi non sono più circoscritti a chi sta fuori, non sono più volti solo ad attaccare gli avversari. Il mutamento di clima è ora anche all’interno del Movimento 5 Stelle. Anzi, forse questa nuova campagna a rovescio lanciata sul blog («I due minuti dell’odio») serve a celare quel che sta avvenendo tra i blogger, quel dissenso che non può essere più fermato. Succede dunque che abitare in una società democratica allena anche senza premeditazione alla riflessione, al pensare con la propria testa, al rivendicare i limiti del potere, quale che esso sia. Ci troviamo di fronte a un caso interessante di un movimento che è punito dalla democrazia per averla male usata e abusata – né partito né movimento, e quindi senza regole e statuti che ne scandiscano la dialettica interna, è la stessa pratica democratica alla quale i cittadini sono ormai abituati a mettere in crisi il Movimento 5 Stelle. E dove la pratica della democrazia è forte e consolidata, come in Emilia Romagna, la crisi interna è dirompente.
Con un certo sollievo teorico osserviamo che in democrazia non c’è proprio modo di ingessare una condizione per sempre, di replicarla senza rischio di vederla contestare, di accumulare consensi senza pagare il costo del dissenso, di vincere solo e mai perdere, di crescere e mai calare nei sondaggi. Grillo è contestato all’interno del suo movimento, dai suoi seguaci, sul suo blog. E non uscirà indenne da questa contesa democratica. Il fatto è che siccome questo non-partito e non-associazione, questa proprietà della “Casaleggio e Associati” non ha regole scritte, né leader eletti, ma solo la volontà del blogger, allora il dissenso non ha altro modo di esprimersi se non con i toni usuali della violenza verbale, e poi, quando non c’è altro da fare con la defezione, la scomunica, e infine la denuncia legale. Non c’è spazio per il dialogo deliberato. È interessante vedere come il referente della denuncia che è seguita all’espulsione di Filippo Boriani, sia il garante della concorrenza e del mercato, ovvero un organismo che presiede alle relazioni economiche delle società che operano nel mercato. Il Movimento 5 Stelle è a tutti gli effetti privato dunque, sia per il linguaggio che ha messo in uso e di cui si avvale, sia per i metodi di gestione del dissenso al suo interno, sia infine per le norme alle quali chi dissente si deve affidare. E i simpatizzanti o la pensano come vuole il blogger o sono epurati e si rivolgono alla giustizia civile. Il metodo è dispotico a tutti gli effetti proprio perché privato. Si discute nei forum, con gli attivisti arrabbiati per l’espulsione di Boriani, eletto in un quartiere a Bologna e poi licenziato con un post scriptum dal blog di Grillo! Una battaglia di libertà e di democrazia a tutti gli effetti, perché libertà di esprimere e far valere le proprie idee come cittadini autonomi, non come dipendenti che rischiano il licenziamento.

La Repubblica 03.09.12

"Il cortocircuito dell’insulto", di Nadia Urbinati

Beppe Grillo è sceso in campo contro gli “aizzatori di professione” nei suoi confronti e nei confronti del MoVimento 5 Stelle, denunciando il linguaggio “fragoroso” e “indecente” che non alimenta la discussione sulle cose, ma ha per obiettivo l’insulto, l’isolamento, la distruzione dell’avversario. Odio e violenza verbali hanno scandito la nostra storia politica in questi anni di transizione. Anni di transizione incompiuta dalla democrazia dei partiti di massa a qualcosa di cui nessuno sa ancora vedere i contorni, da quando odio e violenza erano domati all’interno di narrative ideologiche che consentivano a chi le condivideva di imbastire discorsi, nei quali gli avversari non erano le persone ma le idee per le quali le persone si spendevano. La politica delle idee è una politica di civiltà perché induce i cittadini a trascendere la dimensione personale — a comportarsi e sentirsi come rappresentanti delle idee che condividono; ad avere avversari, mai nemici da distruggere. Dalla fine dei partiti tradizionali questa civiltà della rappresentanza, della separazione tra dimensione personale e dimensione politica è decaduta. L’antipolitica è una conseguenza di questa decadenza, e il MoVimento 5 Stelle uno dei suoi artefici.
I candidati, i leader e i cittadini che con loro si identificano hanno in questi anni di decadenza della politica dei partiti cominciato a “metterci la faccia”, come si sente dire spesso, la loro faccia personale, a parlare in prima persona sfoderando le emozioni più intime e gusti privatissimi, cose dalle quali non si può né dissentire né convenire, proprio perché personali e non mediabili. Tutti come sovrani assoluti in un gioco di parole al massacro che non fa prigionieri. Le trasmissioni di “approfondimento” hanno fatto la loro fortuna mettendo in scena questo tremendo circolo vizioso di istigazione alla violenza verbale e denuncia dei suoi effetti devastanti. La pubblicità è assicurata in entrambi i casi. E allora, i gusti, le opinioni di pancia, le caricature dell’avversario, la distruzione del carattere, il dileggio e il disprezzo sono diventati le componenti del discorso, che discorso ovviamente non è.
Questa privatizzazione del linguaggio politico ha spalancato le porte alla pratica dell’insulto, con l’uso delle parole brandite come clave e dei decibel usati come strategia per imporre il silenzio. L’arena politica come un Colosseo. E la società civile stessa, dalla carta stampata ai blog, come un ring nel quale non si valutano e discutono le preferenze o le opinioni, ma si manda a ko o si distrugge moralmente chi non la pensa allo stesso modo. Tutto questo per fare spettacolo, per attirare l’attenzione, per crescere nei sondaggi. Fino a quando… un esagitato tira una statuina del Duomo di Milano contro Silvio Berlusconi. Fino a quando… Beppe Grillo vede cambiare il clima intorno a sé, e dopo aver vestito i panni del lupo indossa quelli dell’agnello e scatena una campagna a rovescio. Dopo aver armato tastiere e menti di parole violente, di offese, di denigrazioni. Dopo aver tirato il sasso. Le favole di Esopo sono la miglior griglia interpretativa.
Il fatto nuovo di questi giorni è però un altro. Il fatto nuovo è che questi metodi non sono più circoscritti a chi sta fuori, non sono più volti solo ad attaccare gli avversari. Il mutamento di clima è ora anche all’interno del Movimento 5 Stelle. Anzi, forse questa nuova campagna a rovescio lanciata sul blog («I due minuti dell’odio») serve a celare quel che sta avvenendo tra i blogger, quel dissenso che non può essere più fermato. Succede dunque che abitare in una società democratica allena anche senza premeditazione alla riflessione, al pensare con la propria testa, al rivendicare i limiti del potere, quale che esso sia. Ci troviamo di fronte a un caso interessante di un movimento che è punito dalla democrazia per averla male usata e abusata – né partito né movimento, e quindi senza regole e statuti che ne scandiscano la dialettica interna, è la stessa pratica democratica alla quale i cittadini sono ormai abituati a mettere in crisi il Movimento 5 Stelle. E dove la pratica della democrazia è forte e consolidata, come in Emilia Romagna, la crisi interna è dirompente.
Con un certo sollievo teorico osserviamo che in democrazia non c’è proprio modo di ingessare una condizione per sempre, di replicarla senza rischio di vederla contestare, di accumulare consensi senza pagare il costo del dissenso, di vincere solo e mai perdere, di crescere e mai calare nei sondaggi. Grillo è contestato all’interno del suo movimento, dai suoi seguaci, sul suo blog. E non uscirà indenne da questa contesa democratica. Il fatto è che siccome questo non-partito e non-associazione, questa proprietà della “Casaleggio e Associati” non ha regole scritte, né leader eletti, ma solo la volontà del blogger, allora il dissenso non ha altro modo di esprimersi se non con i toni usuali della violenza verbale, e poi, quando non c’è altro da fare con la defezione, la scomunica, e infine la denuncia legale. Non c’è spazio per il dialogo deliberato. È interessante vedere come il referente della denuncia che è seguita all’espulsione di Filippo Boriani, sia il garante della concorrenza e del mercato, ovvero un organismo che presiede alle relazioni economiche delle società che operano nel mercato. Il Movimento 5 Stelle è a tutti gli effetti privato dunque, sia per il linguaggio che ha messo in uso e di cui si avvale, sia per i metodi di gestione del dissenso al suo interno, sia infine per le norme alle quali chi dissente si deve affidare. E i simpatizzanti o la pensano come vuole il blogger o sono epurati e si rivolgono alla giustizia civile. Il metodo è dispotico a tutti gli effetti proprio perché privato. Si discute nei forum, con gli attivisti arrabbiati per l’espulsione di Boriani, eletto in un quartiere a Bologna e poi licenziato con un post scriptum dal blog di Grillo! Una battaglia di libertà e di democrazia a tutti gli effetti, perché libertà di esprimere e far valere le proprie idee come cittadini autonomi, non come dipendenti che rischiano il licenziamento.
La Repubblica 03.09.12

"Unione politica il traguardo e non l'alibi per stare fermi", di Giuliano Amato

Bando, allora, alle ubbie federaliste, alle visioni che non risolvono i problemi immediati e, in nomine Draghi, immergiamoci a testa bassa nelle cose che già stiamo facendo, alla maniera di Gurdulù, il mitico personaggio del «Cavaliere inesistente» di Calvino! Se è questo il succo che ricaviamo dall’articolo pubblicato questa settimana su Die Zeit da Mario Draghi, temo che andiamo ben oltre ciò che è giusto e utile ricavarne. È vero, nell’articolo ci sono, sul tema dell’unione politica, due passaggi che colpiscono: il primo è che dobbiamo sottrarci ad una rigida scelta binaria fra il ritorno al passato e gli Stati Uniti d’Europa. Il secondo è che non è il caso di mettere l’asticella troppo alta ed è meglio perciò lavorare su obiettivi più modesti. È una critica a chi, come me, è venuto predicando la necessità degli Stati Uniti d’Europa? Forse, ma se leggo i due passaggi nel discorso complessivo di Draghi e penso alle sue preoccupazioni, arrivo io stesso a concludere che nei suoi panni proporrei più o meno le stesse priorità.

La prima cosa è mettersi, appunto, nei suoi panni. È il presidente della Banca Centrale Europea, è convinto che l’assetto istituzionale a cui l’euro fu affidato all’origine è del tutto inadeguato e che i dubbi e il nervosismo dei mercati davanti alla parzialità, alle lentezze e alle reticenze del processo con il quale a pezzi e a bocconi lo si sta rafforzando, possono esplodere da un momento all’altro. E qui viene la sua preoccupazione più forte, vale a dire che la Germania, dove allignano le reticenze maggiori, faccia valere l’unione politica come una necessità pregiudiziale per non andare avanti neppure sulle cose per le quali è invece sin da ora non solo possibile, ma urgente farlo.

Ebbene, Mario Draghi ha perfettamente ragione. Se vogliamo salvare la baracca, ora e non fra un anno, dobbiamo dotarci di un fondo a livello europeo per gestire gli eventuali fallimenti delle banche, dobbiamo rafforzare la sorveglianza sui bilanci nazionali e dobbiamo lasciare che la Bce, pur nei limiti del suo mandato, intervenga quanto serve per garantire la stabilità dell’euro.

Si deve però, per consentire queste cose, fare prima l’unione politica? Assolutamente no, sono tutte più che compatibili con gli assetti esistenti ed era perciò più che opportuno dirlo ai tedeschi con la chiarezza che Draghi ha usato.

Ma negare che l’unione politica possa essere un alibi per stare fermi in attesa che arrivi, non può significare negare la rilevanza del tema e negare che le forze politiche fanno bene ad occuparsene davanti agli umori che sempre più percorrono le opinioni pubbliche dei nostri paesi. È un fatto che in più paesi dell’Eurozona, a partire dai due paesi maggiori, Francia e Germania, si è preso a parlare addirittura di referendum sulla gestione futura dell’euro. E in particolare l’Spd tedesca ha annunciato che, in caso di vittoria, organizzerà un referendum in Germania per modificare la stessa costituzione interna, in modo da autorizzare rigide e severe politiche di bilancio dettate a livello europeo e, con esse, la mutualizzazione dei debiti nazionali.

C’è in tale proposito la consapevolezza che decisioni sempre più rilevanti per la vita dei cittadini, come quelle che si adottano nelle sedi europee, diventano insostenibili se non corroborate con il consenso popolare e la legittimazione democratica. Quando si parla di unione politica a questo comunque ci si riferisce e, piaccia o non piaccia, è una prospettiva ineludibile, giacché eludendola si rischia ormai la rivolta contro l’Europa. Ma – ed è questo il punto sul quale da tempo vado insistendo – la rivolta non la si rischia con la stessa Europa prefigurata dal referendum dell’Spd, un’Europa che continua ad ancorare l’euro ai bilanci dei singoli Stati e che per questo è costretta a dettare dal centro regole sempre più vincolanti per tutti e a prefigurare un unico ministro finanziario europeo che decide non sul bilancio europeo, ma su quelli di tutti gli stati dell’euro?

Non credo di essere il solo a pensarlo. Ho appena letto la nota di Katinka Baysch, vice-direttore del Centre for European Reform di Londra, che il 29 agosto segnala sul sito dello stesso Cer il duplice rischio che l’Europa dell’Spd appaia ai tedeschi la “transfer union” che essi non accettano e agli europei del Sud, pur gratificati dalla mutualizzazione dei debiti, la fonte di vincoli interni che espropriano loro e i loro parlamenti.

E allora? Allora, come ha scritto giustamente Draghi, dall’unione politica non c’è ragione di partire, ma ad essa non si potrà non arrivare (e a dirlo è quel «Rapporto del Presidente» presentato in giugno da Herman Van Rumpuy, anche a nome dello stesso Draghi). La vera questione è intendersi sull’unione politica che vogliamo costruire, se quella della mutualizzazione dei vincoli e dei debiti, destinata al generalizzato ripudio popolare, o quella che fa «il salto di binario» verso un ben più accettabile assetto di tipo federale.

Mi si fanno svariate obiezioni da parte di coloro che non vogliono essere distolti dai lavori in corso. Mi si dice che un passaggio del genere non lo si fa con un “salto”, come dimostra la gradualità con la quale si sono consolidati gli stati federali più classici. E io sono d’accordo, lo so bene che Washington accentrò compiutamente l’emissione di moneta solo dopo la guerra civile del 1861 e che la Federal Reserve fu creata nel 1913. Ma il “salto” verso la Federazione, che aveva precostituito un solido fondamento a tutto questo, era stato fatto oltre un secolo prima e paradossalmente, se lo facessimo noi (in modo certo non eguale), avremmo già alcuni degli strumenti di cui gli americani si sono dotati così tardi.

Mi si dice che la gente è interessata a ciò che risolve i suoi problemi immediati, non alle visioni di lungo periodo. Ma qui la gente è sempre più ostile al modo in cui si sta inchiavardando la soluzione dei suoi problemi immediati e davanti all’ipotesi, sempre più concreta, che sia chiamata ad esprimersi per via referendaria sull’Europa di oggi e che la bocci con un devastante no, offrirle la prospettiva di un’Europa più forte e per questo meno bisognosa di essere oppressiva sui singoli Stati, può essere l’unica, concretissima via d’uscita.

Mi si dice che i governi non vanno distratti dal lavoro che stanno facendo sull’unione bancaria, sui fondi salva-stati e sul resto. È quello che scrive Draghi e io concordo. Tocca infatti alle forze politiche preparare le carte per una partita che si dovrà giocare nel 2014, con le prossime elezioni del Parlamento Europeo. Disponibilità a farlo ce ne sono di già e in Italia c’è quella autorevole del segretario del Pd. Certo bisognerà convincere chi la vede in altro modo, in primis l’Spd, e non meno essenziale sarà il consenso dei popolari europei. Non facile, ma l’adrenalina di Altiero Spinelli andrebbe alle stelle.

Il Sole 24 Ore 02.09.12

"Unione politica il traguardo e non l'alibi per stare fermi", di Giuliano Amato

Bando, allora, alle ubbie federaliste, alle visioni che non risolvono i problemi immediati e, in nomine Draghi, immergiamoci a testa bassa nelle cose che già stiamo facendo, alla maniera di Gurdulù, il mitico personaggio del «Cavaliere inesistente» di Calvino! Se è questo il succo che ricaviamo dall’articolo pubblicato questa settimana su Die Zeit da Mario Draghi, temo che andiamo ben oltre ciò che è giusto e utile ricavarne. È vero, nell’articolo ci sono, sul tema dell’unione politica, due passaggi che colpiscono: il primo è che dobbiamo sottrarci ad una rigida scelta binaria fra il ritorno al passato e gli Stati Uniti d’Europa. Il secondo è che non è il caso di mettere l’asticella troppo alta ed è meglio perciò lavorare su obiettivi più modesti. È una critica a chi, come me, è venuto predicando la necessità degli Stati Uniti d’Europa? Forse, ma se leggo i due passaggi nel discorso complessivo di Draghi e penso alle sue preoccupazioni, arrivo io stesso a concludere che nei suoi panni proporrei più o meno le stesse priorità.
La prima cosa è mettersi, appunto, nei suoi panni. È il presidente della Banca Centrale Europea, è convinto che l’assetto istituzionale a cui l’euro fu affidato all’origine è del tutto inadeguato e che i dubbi e il nervosismo dei mercati davanti alla parzialità, alle lentezze e alle reticenze del processo con il quale a pezzi e a bocconi lo si sta rafforzando, possono esplodere da un momento all’altro. E qui viene la sua preoccupazione più forte, vale a dire che la Germania, dove allignano le reticenze maggiori, faccia valere l’unione politica come una necessità pregiudiziale per non andare avanti neppure sulle cose per le quali è invece sin da ora non solo possibile, ma urgente farlo.
Ebbene, Mario Draghi ha perfettamente ragione. Se vogliamo salvare la baracca, ora e non fra un anno, dobbiamo dotarci di un fondo a livello europeo per gestire gli eventuali fallimenti delle banche, dobbiamo rafforzare la sorveglianza sui bilanci nazionali e dobbiamo lasciare che la Bce, pur nei limiti del suo mandato, intervenga quanto serve per garantire la stabilità dell’euro.
Si deve però, per consentire queste cose, fare prima l’unione politica? Assolutamente no, sono tutte più che compatibili con gli assetti esistenti ed era perciò più che opportuno dirlo ai tedeschi con la chiarezza che Draghi ha usato.
Ma negare che l’unione politica possa essere un alibi per stare fermi in attesa che arrivi, non può significare negare la rilevanza del tema e negare che le forze politiche fanno bene ad occuparsene davanti agli umori che sempre più percorrono le opinioni pubbliche dei nostri paesi. È un fatto che in più paesi dell’Eurozona, a partire dai due paesi maggiori, Francia e Germania, si è preso a parlare addirittura di referendum sulla gestione futura dell’euro. E in particolare l’Spd tedesca ha annunciato che, in caso di vittoria, organizzerà un referendum in Germania per modificare la stessa costituzione interna, in modo da autorizzare rigide e severe politiche di bilancio dettate a livello europeo e, con esse, la mutualizzazione dei debiti nazionali.
C’è in tale proposito la consapevolezza che decisioni sempre più rilevanti per la vita dei cittadini, come quelle che si adottano nelle sedi europee, diventano insostenibili se non corroborate con il consenso popolare e la legittimazione democratica. Quando si parla di unione politica a questo comunque ci si riferisce e, piaccia o non piaccia, è una prospettiva ineludibile, giacché eludendola si rischia ormai la rivolta contro l’Europa. Ma – ed è questo il punto sul quale da tempo vado insistendo – la rivolta non la si rischia con la stessa Europa prefigurata dal referendum dell’Spd, un’Europa che continua ad ancorare l’euro ai bilanci dei singoli Stati e che per questo è costretta a dettare dal centro regole sempre più vincolanti per tutti e a prefigurare un unico ministro finanziario europeo che decide non sul bilancio europeo, ma su quelli di tutti gli stati dell’euro?
Non credo di essere il solo a pensarlo. Ho appena letto la nota di Katinka Baysch, vice-direttore del Centre for European Reform di Londra, che il 29 agosto segnala sul sito dello stesso Cer il duplice rischio che l’Europa dell’Spd appaia ai tedeschi la “transfer union” che essi non accettano e agli europei del Sud, pur gratificati dalla mutualizzazione dei debiti, la fonte di vincoli interni che espropriano loro e i loro parlamenti.
E allora? Allora, come ha scritto giustamente Draghi, dall’unione politica non c’è ragione di partire, ma ad essa non si potrà non arrivare (e a dirlo è quel «Rapporto del Presidente» presentato in giugno da Herman Van Rumpuy, anche a nome dello stesso Draghi). La vera questione è intendersi sull’unione politica che vogliamo costruire, se quella della mutualizzazione dei vincoli e dei debiti, destinata al generalizzato ripudio popolare, o quella che fa «il salto di binario» verso un ben più accettabile assetto di tipo federale.
Mi si fanno svariate obiezioni da parte di coloro che non vogliono essere distolti dai lavori in corso. Mi si dice che un passaggio del genere non lo si fa con un “salto”, come dimostra la gradualità con la quale si sono consolidati gli stati federali più classici. E io sono d’accordo, lo so bene che Washington accentrò compiutamente l’emissione di moneta solo dopo la guerra civile del 1861 e che la Federal Reserve fu creata nel 1913. Ma il “salto” verso la Federazione, che aveva precostituito un solido fondamento a tutto questo, era stato fatto oltre un secolo prima e paradossalmente, se lo facessimo noi (in modo certo non eguale), avremmo già alcuni degli strumenti di cui gli americani si sono dotati così tardi.
Mi si dice che la gente è interessata a ciò che risolve i suoi problemi immediati, non alle visioni di lungo periodo. Ma qui la gente è sempre più ostile al modo in cui si sta inchiavardando la soluzione dei suoi problemi immediati e davanti all’ipotesi, sempre più concreta, che sia chiamata ad esprimersi per via referendaria sull’Europa di oggi e che la bocci con un devastante no, offrirle la prospettiva di un’Europa più forte e per questo meno bisognosa di essere oppressiva sui singoli Stati, può essere l’unica, concretissima via d’uscita.
Mi si dice che i governi non vanno distratti dal lavoro che stanno facendo sull’unione bancaria, sui fondi salva-stati e sul resto. È quello che scrive Draghi e io concordo. Tocca infatti alle forze politiche preparare le carte per una partita che si dovrà giocare nel 2014, con le prossime elezioni del Parlamento Europeo. Disponibilità a farlo ce ne sono di già e in Italia c’è quella autorevole del segretario del Pd. Certo bisognerà convincere chi la vede in altro modo, in primis l’Spd, e non meno essenziale sarà il consenso dei popolari europei. Non facile, ma l’adrenalina di Altiero Spinelli andrebbe alle stelle.
Il Sole 24 Ore 02.09.12

"Severino: la legge anti-corruzione è la nostra priorità", di Claudia Fusani

I giochi saranno più chiari in settimana, il 5 o il 6 settembre, quando sarà convocata la capigruppo della Camera per decidere il calendario dei lavori del mese. Un paio di giorni, appunto, in cui i partiti che sostengono il governo Monti dovranno decidere che fare sulle intercettazioni. Le posizioni sono sul tavolo. Il Pdl cavalca strumentalmente il caso Quirinale-trattativa Stato-mafia e accelera sulla necessità di fare quello che non è riuscito a fare in quattro anni: modificare le intercettazioni nel senso di impoverire lo strumento di indagine e impedire alla stampa di pubblicare. La posizione del Pd è altrettanto inequivocabile: il caso procura Palermo-Quirinale non ha nulla a che vedere con il disegno di legge sulle intercettazioni e chi spinge su questo portando ad esempio l’altro mistifica sapendo di farlo (con quali obiettivi è un altro tema). Non solo: il “vecchio” testo Alfano-Bongiorno – in aula alla Camera in terza e definitiva lettura e il cui destino potrebbe essere deciso in settimana- è da cestinare. Impossibile lavorarci sopra con aggiustamenti e modifiche. Se il governo vuole
intervenire sul tema può farlo, ovvio, ma solo con un nuovo testo a firma del ministro Paola Severino.
La novità è nella posizione del governo. E di questo si sta parlando in queste ore nei colloqui informali tra via Arenula, sede del ministero della Giustizia, e palazzo Chigi alla vigilia della settimana in cui riapriranno i lavori parlamentari. «La priorità – si ripete da settimane – è il disegno di legge contro la corruzione (già approvato alla Camera e fermo da giugno in Commissione al Senato, ndr) su cui il governo ha messo la faccia nonché ha scommesso per rilanciare il sistema Paese». Le nuove norme – tanto sul penale quanto sulla parte che riguarda la pubblica amministrazione – costituiscono sicuramente un deterrente per una piaga che ci costa 60 miliardi l’anno. E sono il segnale che l’Italia ha veramente cambiato pagina. Così come sull’evasione fiscale.

Insomma, un passaggio così impor- tante quello sulla corruzione che il governo sarebbe anche disposto ad accettare un compromesso pur di approvarlo. Il prezzo del compromesso si chiama legge sulle intercettazioni.

L’apertura di palazzo Chigi su questo punto è rintracciabile in modo palese nelle dichiarazioni di Casini, il leader dell’Udc e il più «montiano» tra i leader della maggioranza: «Si possono fare entrambe le riforme, corruzione e intercettazioni. È un treno che non passa più». Casini pur consapevole che la legge sugli ascolti è tema diverso dal caso intercettazioni Qurinale-procura di Palermo, crede in questo modo di facilitare il cammino altrimenti quasi chiuso del testo che combatte le corruzione. Oltre al fatto che il leader centrista non ha mai fatto mistero di considerare le intercettazioni una specie di arma impropria se non regolamentate in modo più stringente nella parte che riguarda le persone ascoltate ma non indagate, i cosiddetti “terzi”.

Occhi puntati quindi sulla capigruppo di mercoledì¬ o giovedì¬. Fabrizio Cicchitto (Pdl) potrebbe chiedere di calendarizzare in aula il testo intercettazioni Alfano-Bongiorno sapendo di poter avere dalla sua Casini che a sua volta chiederebbe di blindare e far approvare l’anticorruzione al Senato, un boccone amarissimo per la squadra di onorevoli-avvocati in quota Pdl.
In questo nuovo scenario il Pd sarebbe in difficoltà. Perché non vorrebbe dover essere costretto a mettere la materia all’ordine del giorno. Altre sono le priorità adesso nel Paese. Il responsabile Giustizia Andrea Orlando, la capogruppo in Commissione Giustizia alla Camera Donatella Ferrante e la sua “collega” al Senato Silvia della Monica lo hanno ripetuto per tutta l’estate: «Il testo Alfano-Bongiorno non va bene, va modificato ma essendo alla terza lettura esiste il problema della doppia conforme. Ovverosia esistono passaggi (ad esempio la modifica della legge Falcone, ndr) che non vanno bene e che però non possono più essere corretti». Un busillis tale per cui è necessario, sostiene il Pd, un nuovo testo Severino. La quale ha le idee molto chiare sul da farsi relativamente ai contenuti. Gli uffici stanno lavorando all’ipotesi di derogare alla doppia conforme. A quel punto si aprirebbe la strada per un maxiemendamento. Su cui poi poter anche pensare di mettere la fiducia. Una forzatura. In cambio del approvazione dell’anti-corruzione.

L’Unità 02.09.12