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"Severino: la legge anti-corruzione è la nostra priorità", di Claudia Fusani

I giochi saranno più chiari in settimana, il 5 o il 6 settembre, quando sarà convocata la capigruppo della Camera per decidere il calendario dei lavori del mese. Un paio di giorni, appunto, in cui i partiti che sostengono il governo Monti dovranno decidere che fare sulle intercettazioni. Le posizioni sono sul tavolo. Il Pdl cavalca strumentalmente il caso Quirinale-trattativa Stato-mafia e accelera sulla necessità di fare quello che non è riuscito a fare in quattro anni: modificare le intercettazioni nel senso di impoverire lo strumento di indagine e impedire alla stampa di pubblicare. La posizione del Pd è altrettanto inequivocabile: il caso procura Palermo-Quirinale non ha nulla a che vedere con il disegno di legge sulle intercettazioni e chi spinge su questo portando ad esempio l’altro mistifica sapendo di farlo (con quali obiettivi è un altro tema). Non solo: il “vecchio” testo Alfano-Bongiorno – in aula alla Camera in terza e definitiva lettura e il cui destino potrebbe essere deciso in settimana- è da cestinare. Impossibile lavorarci sopra con aggiustamenti e modifiche. Se il governo vuole
intervenire sul tema può farlo, ovvio, ma solo con un nuovo testo a firma del ministro Paola Severino.
La novità è nella posizione del governo. E di questo si sta parlando in queste ore nei colloqui informali tra via Arenula, sede del ministero della Giustizia, e palazzo Chigi alla vigilia della settimana in cui riapriranno i lavori parlamentari. «La priorità – si ripete da settimane – è il disegno di legge contro la corruzione (già approvato alla Camera e fermo da giugno in Commissione al Senato, ndr) su cui il governo ha messo la faccia nonché ha scommesso per rilanciare il sistema Paese». Le nuove norme – tanto sul penale quanto sulla parte che riguarda la pubblica amministrazione – costituiscono sicuramente un deterrente per una piaga che ci costa 60 miliardi l’anno. E sono il segnale che l’Italia ha veramente cambiato pagina. Così come sull’evasione fiscale.
Insomma, un passaggio così impor- tante quello sulla corruzione che il governo sarebbe anche disposto ad accettare un compromesso pur di approvarlo. Il prezzo del compromesso si chiama legge sulle intercettazioni.
L’apertura di palazzo Chigi su questo punto è rintracciabile in modo palese nelle dichiarazioni di Casini, il leader dell’Udc e il più «montiano» tra i leader della maggioranza: «Si possono fare entrambe le riforme, corruzione e intercettazioni. È un treno che non passa più». Casini pur consapevole che la legge sugli ascolti è tema diverso dal caso intercettazioni Qurinale-procura di Palermo, crede in questo modo di facilitare il cammino altrimenti quasi chiuso del testo che combatte le corruzione. Oltre al fatto che il leader centrista non ha mai fatto mistero di considerare le intercettazioni una specie di arma impropria se non regolamentate in modo più stringente nella parte che riguarda le persone ascoltate ma non indagate, i cosiddetti “terzi”.
Occhi puntati quindi sulla capigruppo di mercoledì¬ o giovedì¬. Fabrizio Cicchitto (Pdl) potrebbe chiedere di calendarizzare in aula il testo intercettazioni Alfano-Bongiorno sapendo di poter avere dalla sua Casini che a sua volta chiederebbe di blindare e far approvare l’anticorruzione al Senato, un boccone amarissimo per la squadra di onorevoli-avvocati in quota Pdl.
In questo nuovo scenario il Pd sarebbe in difficoltà. Perché non vorrebbe dover essere costretto a mettere la materia all’ordine del giorno. Altre sono le priorità adesso nel Paese. Il responsabile Giustizia Andrea Orlando, la capogruppo in Commissione Giustizia alla Camera Donatella Ferrante e la sua “collega” al Senato Silvia della Monica lo hanno ripetuto per tutta l’estate: «Il testo Alfano-Bongiorno non va bene, va modificato ma essendo alla terza lettura esiste il problema della doppia conforme. Ovverosia esistono passaggi (ad esempio la modifica della legge Falcone, ndr) che non vanno bene e che però non possono più essere corretti». Un busillis tale per cui è necessario, sostiene il Pd, un nuovo testo Severino. La quale ha le idee molto chiare sul da farsi relativamente ai contenuti. Gli uffici stanno lavorando all’ipotesi di derogare alla doppia conforme. A quel punto si aprirebbe la strada per un maxiemendamento. Su cui poi poter anche pensare di mettere la fiducia. Una forzatura. In cambio del approvazione dell’anti-corruzione.
L’Unità 02.09.12

"Il populismo sanitario", di Pietro Greco

Nel suo monologo sul palco, non privo di inesattezze fattuali, Beppe Grillo fa proprie in un colpo solo tutte le cosiddette «teorie alternative dell’Aids». Sostiene che il virus Hiv non esiste. E che se esiste non è causa né necessaria né sufficiente per generare la Sindrome da immunodeficienza acquisita, l’Aids appunto, i cui fattori scatenanti sarebbero altri: il sangue infetto (ma da cosa?) e/o la droga e/o il farmaco Azt usato proprio nella cura della sindrome.
La malattia e le relative terapie sarebbero un’invenzione delle grandi multinazionali. Insomma, Grillo evoca la tesi che l’Aids è il frutto di un «grande complotto» messo a punto per propalare una remunerativa «bufala».
Sono argomentazioni utilizzate in passato da un noto ed esperto microbiologo dell’università della California, Peter Duesberg (che non ha mai vinto il Nobel) e da Gary Mullis, il chimico – non esperto di virologia – che ha messo a punto la Polymerase Chain Reaction (Pcr), la tecnologia che consente di clonare in maniera praticamente illimitata poche molecole o pochi frammenti di molecole di Dna. La Pcr è una grande scoperta, largamente degna del Nobel: ma Mullis non ha alcuna competenza in fatti di virologia e di immunologia.
Ma il problema non è tanto di competenza, quanto di fondamento delle affermazioni proposte da Duesberg e fatte proprie da Mullis. Il virus dell’Hiv purtroppo esiste. La sua esistenza è un fatto, provato da un’infinità di osservazioni empiriche. E ha anche quella grande capacità di mutare su cui, non si capisce perché, Grillo ironizza. Questa capacità di cambiare continuamente è una delle ragioni per cui non si è riusciti ancora a mettere a punto un vaccino.
Il virus Hiv, contrariamente a quanto afferma Grillo riprendendo Duesberg, è condizione necessaria per lo sviluppo dell’Aids. Si può avere, certo, una caduta delle capacità immunitarie di una persona per svariate cause. Ma senza il virus Hiv non si ha l’Aids. È vero che, all’inizio, alcuni virologi sostenevano che il virus Hiv è causa non solo necessaria, ma anche sufficiente per causare l’Aids.
Ma questa posizione da almeno venti anni è stata superata dalla comunità scientifica. Infatti una cosa è la contaminazione da virus Hiv, altra la malattia conclamata. Non c’è solo uno sfasamento temporale tra contagio e malattia conclamata. Ci sono alcune persone che, per cause che sono ancora da capire, pur essendo contagiate dal virus Hiv non sviluppano mai la malattia.
Quanto al fatto che sarebbe proprio l’Azt, uno dei farmaci usati in cocktail per contrastare i sintomi della malattia (perché la cura dell’Aids non esiste), non c’è alcuna prova scientifica che sia un co-fattore dell’Aids, ovvero che facilita lo sviluppo della sindrome. Mentre ci sono prove che l’Azt, somministrato insieme ad altre sostanze, funziona nel rallentare lo sviluppo dell’Aids.
Il problema da porre – se proprio si vuole fare una battaglia contro le multinazionali – è perché il cocktail di farmaci, anche a causa dell’alto costo, non sia accessibile a molte, a troppe delle persone contagiate dal virus Hiv, la gran parte delle quali si trova nell’Africa sub-sahariana.
Ultimo, ma non ultimo. Ogni populismo è criticabile. Ma quello sanitario è particolarmente odioso. Perché facilita comportamenti pericolosi nelle persone. Se qualche malato si convincesse che Grillo ha ragione, potrebbe smettere di usare i farmaci che gli consentono di rallentare lo sviluppo mortale della malattia.
Correndo un rischio enorme.

L’Unità 02.09.12

"Il populismo sanitario", di Pietro Greco

Nel suo monologo sul palco, non privo di inesattezze fattuali, Beppe Grillo fa proprie in un colpo solo tutte le cosiddette «teorie alternative dell’Aids». Sostiene che il virus Hiv non esiste. E che se esiste non è causa né necessaria né sufficiente per generare la Sindrome da immunodeficienza acquisita, l’Aids appunto, i cui fattori scatenanti sarebbero altri: il sangue infetto (ma da cosa?) e/o la droga e/o il farmaco Azt usato proprio nella cura della sindrome.
La malattia e le relative terapie sarebbero un’invenzione delle grandi multinazionali. Insomma, Grillo evoca la tesi che l’Aids è il frutto di un «grande complotto» messo a punto per propalare una remunerativa «bufala».
Sono argomentazioni utilizzate in passato da un noto ed esperto microbiologo dell’università della California, Peter Duesberg (che non ha mai vinto il Nobel) e da Gary Mullis, il chimico – non esperto di virologia – che ha messo a punto la Polymerase Chain Reaction (Pcr), la tecnologia che consente di clonare in maniera praticamente illimitata poche molecole o pochi frammenti di molecole di Dna. La Pcr è una grande scoperta, largamente degna del Nobel: ma Mullis non ha alcuna competenza in fatti di virologia e di immunologia.
Ma il problema non è tanto di competenza, quanto di fondamento delle affermazioni proposte da Duesberg e fatte proprie da Mullis. Il virus dell’Hiv purtroppo esiste. La sua esistenza è un fatto, provato da un’infinità di osservazioni empiriche. E ha anche quella grande capacità di mutare su cui, non si capisce perché, Grillo ironizza. Questa capacità di cambiare continuamente è una delle ragioni per cui non si è riusciti ancora a mettere a punto un vaccino.
Il virus Hiv, contrariamente a quanto afferma Grillo riprendendo Duesberg, è condizione necessaria per lo sviluppo dell’Aids. Si può avere, certo, una caduta delle capacità immunitarie di una persona per svariate cause. Ma senza il virus Hiv non si ha l’Aids. È vero che, all’inizio, alcuni virologi sostenevano che il virus Hiv è causa non solo necessaria, ma anche sufficiente per causare l’Aids.
Ma questa posizione da almeno venti anni è stata superata dalla comunità scientifica. Infatti una cosa è la contaminazione da virus Hiv, altra la malattia conclamata. Non c’è solo uno sfasamento temporale tra contagio e malattia conclamata. Ci sono alcune persone che, per cause che sono ancora da capire, pur essendo contagiate dal virus Hiv non sviluppano mai la malattia.
Quanto al fatto che sarebbe proprio l’Azt, uno dei farmaci usati in cocktail per contrastare i sintomi della malattia (perché la cura dell’Aids non esiste), non c’è alcuna prova scientifica che sia un co-fattore dell’Aids, ovvero che facilita lo sviluppo della sindrome. Mentre ci sono prove che l’Azt, somministrato insieme ad altre sostanze, funziona nel rallentare lo sviluppo dell’Aids.
Il problema da porre – se proprio si vuole fare una battaglia contro le multinazionali – è perché il cocktail di farmaci, anche a causa dell’alto costo, non sia accessibile a molte, a troppe delle persone contagiate dal virus Hiv, la gran parte delle quali si trova nell’Africa sub-sahariana.
Ultimo, ma non ultimo. Ogni populismo è criticabile. Ma quello sanitario è particolarmente odioso. Perché facilita comportamenti pericolosi nelle persone. Se qualche malato si convincesse che Grillo ha ragione, potrebbe smettere di usare i farmaci che gli consentono di rallentare lo sviluppo mortale della malattia.
Correndo un rischio enorme.
L’Unità 02.09.12

"Otto euro per la formazione e aiuti dalle famiglie. Chi è l'insegnante del 2012", di V. San.

Non più giovanissimi, a volte demotivati, pieni di voglia di fare nonostante le difficoltà oggettive moltiplicate dalla crisi economica: sono gli insegnanti italiani, oltre 700 mila persone che ogni anno cercano di istruire i quasi 8 milioni di studenti delle 9.500 scuole statali di ogni ordine e grado. Non ci sono solo i 600 mila docenti di ruolo, che percepiscono regolarmente uno stipendio che va dai 1.300 a 2.000 euro in base all’anzianità, con ferie e tredicesima retribuite: ci sono anche 60mila insegnanti di sostegno e 50 mila precari, che in questi giorni aspettano con ansia di essere richiamati in servizio per cominciare a lavorare, ma senza ferie retribuite e con la malattia pagata solo al 50% se l’incarico non è annuale. La maggior parte è donna, il 79,4%. E moltissimi non sono più giovani: se l’età media degli insegnanti di ruolo è 49 anni (dati del ministero dell’Istruzione), nel 2007-2008 più della metà dei docenti italiani in servizio nella scuola secondaria era over 50, tra i più vecchi in Europa, mentre nella scuola primaria e dell’infanzia si trovano docenti di 42 anni in media.
Le nuove immissioni in ruolo contribuiscono solo parzialmente ad uno svecchiamento: l’età media di chi è nelle graduatorie ad esaurimento è di 39 anni. I precari spesso cambiano regione, pur di continuare a fare supplenze. E quando finalmente arriva la chiamata per la messa in ruolo devono sottoporsi ancora ad un anno di prova, con tanto di giudizio finale di commissione. A volte la vita del docente definitivo non è facile, «tra scartoffie da compilare per i test Invalsi, classi sovraffollate, un budget per la formazione ridicolo, 8 euro circa a insegnante, e materiali da elemosinare alle famiglie», sintetizza Mimmo Pantaleo, Cgil scuola. Eppure hanno un’energia straordinaria che spendono tutta per i propri ragazzi.
«Ho 35 anni, sono vincitrice di concorso, lavoro nella scuola da 13 anni, ma sono ancora precaria — racconta Simona Aquilano Monetti, Torino —. Avevo solo 60 persone davanti a me, pensavo di essere assunta: invece ne hanno presi 29. Pazienza, anche quest’anno ricomincerò daccapo e magari tenterò il concorso. A darmi la forza sono i bambini che anche a distanza di anni mi raccontano i loro successi. E i progetti che seguo con passione».
Caterina Altamore, 39 anni, di cui gli ultimi 17 passati nella scuola, è diventata famosa per i suoi scioperi della fame davanti a Montecitorio. «Forse sono serviti, visto che finalmente a ottobre avrò l’immissione in ruolo. Adesso sto insegnando a Palazzolo sull’Oglio (Brescia) lontana da mio marito e dai miei tre figli, e non potrò richiedere il trasferimento per altri 5 anni. Nonostante tutto, continuo a credere in questo lavoro: quello che mi dispiace è che non si investa di più nella scuola, che rappresenta il nostro futuro, il futuro di tutti».
«Insegno nelle scuole medie da 33 anni — dice Teresa Magna, Vallo della Lucania (Salerno) — Sono entrata in ruolo nell’87, dopo 7 anni di supplenze. Speravo di andare in pensione ma la legge Fornero ha fatto slittare la possibilità di alcuni anni. A volte sono stanca, perché faccio fatica ad adeguarmi a lavagne elettroniche e strumenti multimediali. Ci viene richiesto sempre di più ma i fondi diminuiscono».
Ma com’è cambiato il panorama dell’insegnamento, gloria del nostro dopoguerra? «Nella seconda metà del Novecento c’è stato uno sviluppo enorme del comparto scolastico — commenta l’esperto di politiche scolastiche Benedetto Vertecchi — bisognava superare il gap di istruzione, con un solo bambino su 4 che proseguiva gli studi. Ma lo sviluppo è stato solo quantitativo, non qualitativo: e tutte le difficoltà sono state ricacciate sulla testa degli insegnanti. Lo Stato ha inseguito l’obiettivo della prima scolarizzazione senza curarsi della necessità di avere edifici scolastici adeguati, delle aspettative e delle motivazioni della domanda sociale, della cultura dell’educazione: è stata una follia». Il nuovo concorso rinfrescherà la classe docente? «Più che sul concorso, bisognerebbe concentrarsi su come rendere adeguata la cultura della scuola per non produrre un’altra classe di docenti frustrati, demotivati, malpagati. Se potessi dare un consiglio a un nuovo insegnante, gli direi: cura la tua qualità culturale, è l’unica arma che può salvarti».

Il Corriere della Sera 02.09.12

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“È guerra tra precari e laureati”, di Roberto Ciccarelli

Il 2014 sarà l’anno zero della scuola, sostiene il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. E non potrebbe essere altrimenti visto che non basterà essere iscritti da un decennio e più ad una graduatoria ad esaurimento (Gae) per aspirare ad un posto di ruolo da insegnante. Centosessantatre mila docenti precari, decine di migliaia abilitati alle scuole d’insegnamento (Siss), dovranno sperare di superare, ogni due anni, un concorso sgomitando con i neo-laureati e coloro che avranno superato il «tirocinio formativo attivo» (Tfa). La prova generale di questa guerra senza quartiere avverrà il prossimo 24 settembre quando sarà bandito un concorso per 11.892 posti (i test preliminari sono previsti a ottobre, gli scritti a dicembre), oppure la prossima primavera quando sarà bandito un altro concorso per 10 mila persone. I precari che non riusciranno a strappare un posto in questa doppia tornata resteranno in graduatoria, in attesa di una supplenza, ma senza diritto all’assunzione. Per raggiungere questa chimera dovranno sottoporsi ad un infernale gioco dell’oca in cui saranno obbligati a ripetere la stessa prova che hanno già superato nel 1991, nel 1999, oppure con l’esame di stato conclusivo del corso abilitante delle Siss o del Tfa. Coloro che invece non ci sono mai entrati in una graduatoria, dovranno saltare un turno e attendere il concorso successivo.
Ammesso, e non concesso, che i posti messi a concorso ogni biennio saranno sempre gli stessi, per esaurire le graduatorie ci vorrà probabilmente una generazione, o forse più, sfidando i limiti biologici degli aspiranti docenti in ruolo la cui età media sfiora i 47 anni. Da questi calcoli vanno escluse le 21.112 stabilizzazioni autorizzate dal precedente governo (Gelmini-Tremonti) che si sono concluse il 31 agosto, una misura resa necessaria per assorbire il numero dei pensionamenti. Tutto questo avverrà con le procedure concorsuali in vigore dal 1990, e mai più aggiornate. Allora erano riservate a «semplici laureati», oggi serviranno impropriamente a valutare abilitati iscritti alle graduatorie, quelli che non hanno potuto farlo visto che l’accesso alle Gae è precluso dal 2009, e i laureati entro l’anno accademico 2003. Quello che è certo, oggi, è che i diritti – e l’esperienza – accumulati in anni di precariato nella scuola rischiano seriamente di valere un centesimo bucato.
Dai sindacati trapelano preoccupazioni e una denuncia. Quella del segretario Flc-Cgil Domenico Pantaleo per il quale il «vero obiettivo del ministro Profumo è cancellare le graduatorie e con esse i precari che da anni garantiscono il funzioinamento delle scuole». Per la Cgil è necessario un piano pluriennale di stabilizzazioni che svuoti le graduatorie; determinare il fabbisogno di nuovi docenti in base al tempo pieno e al numero degli alunni per classe (che deve essere ridotto) e infine procedere alle nuove assunzioni. Dalla Cisl invitano il ministro ad un maggiore realismo: «Quando si affronta l’argomento del precariato – afferma Francesco Scrima – si deve andare cauti e con i piedi di piombo; la conflittualità in atto tra docenti abilitati e laureati non abilitati che rivendicano il concorso di settembre ne è un esempio lampante». Massimo Di Menna della Uil ribadisce la necessità di «trovare un sistema di reclutamento che faccia modo che i giovani laureati possano accedere direttamente all’insegnamento dopo il concorso».
Nel marasma sono passate quasi inosservate le dichiarazioni di Profumo sull’aumento delle tasse universitarie e, soprattutto, quelle sull’introduzione del prestito d’onore. Per quanto riguarda l’aumento delle rette, escluso dal titolare di Viale Trastevere, gli studenti del coordinamento universitario Link ribadiscono che ci sarà, e sarà pari a 256,75 euro per i fuoricorso con un Isee inferiore ai 90 mila euro. Le tasse potrebbero passare da 1027 a 1283 euro. Gli studenti della Rete della conoscenza denunciano anche l’intenzione di Profumo di introdurre il «prestito d’onore», in anni in cui le borse di studio sono state tagliate senza pietà. Nelle intenzioni del ministro questa misura dovrebbe ispirarsi al modello asiatico, perchè quello statunitense è troppo oneroso. Il 2012 è stato infatti un anno nero per gli studenti Usa. Il loro debito ha superato per la prima volta quello delle carte di credito. Per chi, ad esempio, conosce la realtà studentesca giapponese queste affermazioni suoneranno come l’ennesima gaffe. L’80 per cento degli studenti giapponesi laureati deve ripagare un debito medio di 8.800 euro alla Japan Student Service Organization (Jasso), un’azienda privata di riscossione che ha il compito di denunciare alle autorità bancarie chi non ripiana il debito. Le pene previste vanno dalla chiusura dei conti correnti al blocco delle carte di credito fino all’arresto degli studenti inseriti in una «lista nera». Forse il governo Monti sta progettando un ampliamento delle competenze di Equitalia?

Il Manifesto 02.09.12

"Otto euro per la formazione e aiuti dalle famiglie. Chi è l'insegnante del 2012", di V. San.

Non più giovanissimi, a volte demotivati, pieni di voglia di fare nonostante le difficoltà oggettive moltiplicate dalla crisi economica: sono gli insegnanti italiani, oltre 700 mila persone che ogni anno cercano di istruire i quasi 8 milioni di studenti delle 9.500 scuole statali di ogni ordine e grado. Non ci sono solo i 600 mila docenti di ruolo, che percepiscono regolarmente uno stipendio che va dai 1.300 a 2.000 euro in base all’anzianità, con ferie e tredicesima retribuite: ci sono anche 60mila insegnanti di sostegno e 50 mila precari, che in questi giorni aspettano con ansia di essere richiamati in servizio per cominciare a lavorare, ma senza ferie retribuite e con la malattia pagata solo al 50% se l’incarico non è annuale. La maggior parte è donna, il 79,4%. E moltissimi non sono più giovani: se l’età media degli insegnanti di ruolo è 49 anni (dati del ministero dell’Istruzione), nel 2007-2008 più della metà dei docenti italiani in servizio nella scuola secondaria era over 50, tra i più vecchi in Europa, mentre nella scuola primaria e dell’infanzia si trovano docenti di 42 anni in media.
Le nuove immissioni in ruolo contribuiscono solo parzialmente ad uno svecchiamento: l’età media di chi è nelle graduatorie ad esaurimento è di 39 anni. I precari spesso cambiano regione, pur di continuare a fare supplenze. E quando finalmente arriva la chiamata per la messa in ruolo devono sottoporsi ancora ad un anno di prova, con tanto di giudizio finale di commissione. A volte la vita del docente definitivo non è facile, «tra scartoffie da compilare per i test Invalsi, classi sovraffollate, un budget per la formazione ridicolo, 8 euro circa a insegnante, e materiali da elemosinare alle famiglie», sintetizza Mimmo Pantaleo, Cgil scuola. Eppure hanno un’energia straordinaria che spendono tutta per i propri ragazzi.
«Ho 35 anni, sono vincitrice di concorso, lavoro nella scuola da 13 anni, ma sono ancora precaria — racconta Simona Aquilano Monetti, Torino —. Avevo solo 60 persone davanti a me, pensavo di essere assunta: invece ne hanno presi 29. Pazienza, anche quest’anno ricomincerò daccapo e magari tenterò il concorso. A darmi la forza sono i bambini che anche a distanza di anni mi raccontano i loro successi. E i progetti che seguo con passione».
Caterina Altamore, 39 anni, di cui gli ultimi 17 passati nella scuola, è diventata famosa per i suoi scioperi della fame davanti a Montecitorio. «Forse sono serviti, visto che finalmente a ottobre avrò l’immissione in ruolo. Adesso sto insegnando a Palazzolo sull’Oglio (Brescia) lontana da mio marito e dai miei tre figli, e non potrò richiedere il trasferimento per altri 5 anni. Nonostante tutto, continuo a credere in questo lavoro: quello che mi dispiace è che non si investa di più nella scuola, che rappresenta il nostro futuro, il futuro di tutti».
«Insegno nelle scuole medie da 33 anni — dice Teresa Magna, Vallo della Lucania (Salerno) — Sono entrata in ruolo nell’87, dopo 7 anni di supplenze. Speravo di andare in pensione ma la legge Fornero ha fatto slittare la possibilità di alcuni anni. A volte sono stanca, perché faccio fatica ad adeguarmi a lavagne elettroniche e strumenti multimediali. Ci viene richiesto sempre di più ma i fondi diminuiscono».
Ma com’è cambiato il panorama dell’insegnamento, gloria del nostro dopoguerra? «Nella seconda metà del Novecento c’è stato uno sviluppo enorme del comparto scolastico — commenta l’esperto di politiche scolastiche Benedetto Vertecchi — bisognava superare il gap di istruzione, con un solo bambino su 4 che proseguiva gli studi. Ma lo sviluppo è stato solo quantitativo, non qualitativo: e tutte le difficoltà sono state ricacciate sulla testa degli insegnanti. Lo Stato ha inseguito l’obiettivo della prima scolarizzazione senza curarsi della necessità di avere edifici scolastici adeguati, delle aspettative e delle motivazioni della domanda sociale, della cultura dell’educazione: è stata una follia». Il nuovo concorso rinfrescherà la classe docente? «Più che sul concorso, bisognerebbe concentrarsi su come rendere adeguata la cultura della scuola per non produrre un’altra classe di docenti frustrati, demotivati, malpagati. Se potessi dare un consiglio a un nuovo insegnante, gli direi: cura la tua qualità culturale, è l’unica arma che può salvarti».
Il Corriere della Sera 02.09.12
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“È guerra tra precari e laureati”, di Roberto Ciccarelli
Il 2014 sarà l’anno zero della scuola, sostiene il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. E non potrebbe essere altrimenti visto che non basterà essere iscritti da un decennio e più ad una graduatoria ad esaurimento (Gae) per aspirare ad un posto di ruolo da insegnante. Centosessantatre mila docenti precari, decine di migliaia abilitati alle scuole d’insegnamento (Siss), dovranno sperare di superare, ogni due anni, un concorso sgomitando con i neo-laureati e coloro che avranno superato il «tirocinio formativo attivo» (Tfa). La prova generale di questa guerra senza quartiere avverrà il prossimo 24 settembre quando sarà bandito un concorso per 11.892 posti (i test preliminari sono previsti a ottobre, gli scritti a dicembre), oppure la prossima primavera quando sarà bandito un altro concorso per 10 mila persone. I precari che non riusciranno a strappare un posto in questa doppia tornata resteranno in graduatoria, in attesa di una supplenza, ma senza diritto all’assunzione. Per raggiungere questa chimera dovranno sottoporsi ad un infernale gioco dell’oca in cui saranno obbligati a ripetere la stessa prova che hanno già superato nel 1991, nel 1999, oppure con l’esame di stato conclusivo del corso abilitante delle Siss o del Tfa. Coloro che invece non ci sono mai entrati in una graduatoria, dovranno saltare un turno e attendere il concorso successivo.
Ammesso, e non concesso, che i posti messi a concorso ogni biennio saranno sempre gli stessi, per esaurire le graduatorie ci vorrà probabilmente una generazione, o forse più, sfidando i limiti biologici degli aspiranti docenti in ruolo la cui età media sfiora i 47 anni. Da questi calcoli vanno escluse le 21.112 stabilizzazioni autorizzate dal precedente governo (Gelmini-Tremonti) che si sono concluse il 31 agosto, una misura resa necessaria per assorbire il numero dei pensionamenti. Tutto questo avverrà con le procedure concorsuali in vigore dal 1990, e mai più aggiornate. Allora erano riservate a «semplici laureati», oggi serviranno impropriamente a valutare abilitati iscritti alle graduatorie, quelli che non hanno potuto farlo visto che l’accesso alle Gae è precluso dal 2009, e i laureati entro l’anno accademico 2003. Quello che è certo, oggi, è che i diritti – e l’esperienza – accumulati in anni di precariato nella scuola rischiano seriamente di valere un centesimo bucato.
Dai sindacati trapelano preoccupazioni e una denuncia. Quella del segretario Flc-Cgil Domenico Pantaleo per il quale il «vero obiettivo del ministro Profumo è cancellare le graduatorie e con esse i precari che da anni garantiscono il funzioinamento delle scuole». Per la Cgil è necessario un piano pluriennale di stabilizzazioni che svuoti le graduatorie; determinare il fabbisogno di nuovi docenti in base al tempo pieno e al numero degli alunni per classe (che deve essere ridotto) e infine procedere alle nuove assunzioni. Dalla Cisl invitano il ministro ad un maggiore realismo: «Quando si affronta l’argomento del precariato – afferma Francesco Scrima – si deve andare cauti e con i piedi di piombo; la conflittualità in atto tra docenti abilitati e laureati non abilitati che rivendicano il concorso di settembre ne è un esempio lampante». Massimo Di Menna della Uil ribadisce la necessità di «trovare un sistema di reclutamento che faccia modo che i giovani laureati possano accedere direttamente all’insegnamento dopo il concorso».
Nel marasma sono passate quasi inosservate le dichiarazioni di Profumo sull’aumento delle tasse universitarie e, soprattutto, quelle sull’introduzione del prestito d’onore. Per quanto riguarda l’aumento delle rette, escluso dal titolare di Viale Trastevere, gli studenti del coordinamento universitario Link ribadiscono che ci sarà, e sarà pari a 256,75 euro per i fuoricorso con un Isee inferiore ai 90 mila euro. Le tasse potrebbero passare da 1027 a 1283 euro. Gli studenti della Rete della conoscenza denunciano anche l’intenzione di Profumo di introdurre il «prestito d’onore», in anni in cui le borse di studio sono state tagliate senza pietà. Nelle intenzioni del ministro questa misura dovrebbe ispirarsi al modello asiatico, perchè quello statunitense è troppo oneroso. Il 2012 è stato infatti un anno nero per gli studenti Usa. Il loro debito ha superato per la prima volta quello delle carte di credito. Per chi, ad esempio, conosce la realtà studentesca giapponese queste affermazioni suoneranno come l’ennesima gaffe. L’80 per cento degli studenti giapponesi laureati deve ripagare un debito medio di 8.800 euro alla Japan Student Service Organization (Jasso), un’azienda privata di riscossione che ha il compito di denunciare alle autorità bancarie chi non ripiana il debito. Le pene previste vanno dalla chiusura dei conti correnti al blocco delle carte di credito fino all’arresto degli studenti inseriti in una «lista nera». Forse il governo Monti sta progettando un ampliamento delle competenze di Equitalia?
Il Manifesto 02.09.12

"La paura di tornare ai lavori più umili", di Gian Arturo Ferrari

Nei borghi agricoli della Laconia, derelitta punta sudorientale del Peloponneso di recente guadagnata alle colture intensive, si aggirano frotte di indiani Tamil, neri e nodosi come bastoni. Fanno parte, propriamente parlando, dei lavoratori della Grecia e, nonostante l’aria sperduta, sono gente energica e coraggiosa. Parlano almeno tre lingue (la loro o le loro, un po’ di greco e un più che discreto inglese) e senza tante storie hanno varcato oceani e migliaia di chilometri per venire a cogliere le arance e le olive, a fare tutti quei lavori pesanti ai quali i laconici, pur se attanagliati — si dice — dalla crisi, si negano tuttavia recisamente.
Non è pigrizia quella dei laconici, non è infingardaggine, o, perlomeno, non solo. C’è la memoria, non troppo remota, di un tempo di abbrutimento e fatica inenarrabile; c’è la recente felicità di esserne usciti, di aver conquistato gli agognati simboli del riscatto, solette e piloni di cemento armato, servizi igienici in porcellana, adorati suv giapponesi; c’è il terrore che rimettere mano alle antiche fatiche significhi riprecipitare, per un atroce scherzo della storia, nell’abisso da cui si credeva di essere usciti. È lo stesso meccanismo di rimozione che ha distrutto tanta parte del paesaggio italiano: certo gli speculatori, ma soprattutto l’odio — popolare, diffuso, sincero — per il proprio passato e per i suoi segni, per l’umiliazione secolare che essi rappresentano.
L’Europa non è solo l’Eurotower e l’Europa mediterranea — la Grecia, gran parte dell’Italia, gran parte della Spagna — non è (non è solo?) patria di lazzaroni e cape scariche. È una regione complicata, molto lontana parente (ahimè!) di quel meraviglioso Mediterraneo dell’età di Filippo II, cantato da Braudel. Non sarà un caso se i tre Paesi che vi si affacciano sono stati tutti e tre lacerati nel Novecento da sanguinose guerre civili. E se due di essi, Grecia e Spagna, sono usciti da dittature feroci solo, rispettivamente, nel 1974 e nel 1975. È una regione traballante, di traballante economia e di traballante, perché recentissima, democrazia, minata per di più, nel caso dell’Italia, da una viceversa stabile e solida criminalità organizzata. A medicare questi mali, e prima ancora a spiegarli, non basta certo la contrapposizione, accademica e leziosa, tra un’ Europa della virtù, settentrionale e protestante, e un’Europa del vizio, mediterranea e cattolica (ma anche ortodossa).
Una contrapposizione che è soprattutto falsa. Il problema non è trasformare i laconici o i siciliani o gli andalusi in discepoli di Max Weber, ma di assimilare progressivamente l’Europa mediterranea all’Europa centrale, al cuore storico ed economico dell’Europa, cattolico in grande maggioranza, di cui l’Italia settentrionale o la Catalogna fanno già parte. Esiste insomma una questione meridionale su scala europea, il che mette noi italiani nella singolare posizione di chi ha in materia l’esperienza massima e i massimi fallimenti. Ma se in centocinquanta anni noi la nostra questione meridionale non l’abbiamo risolta, non è che la politica europea degli ultimi vent’anni abbia saputo fare di molto meglio. Ha distribuito, anche generosamente, denaro, ma così facendo ha creato non lavoro, ma illusione di lavoro. Oggi che il lavoro elargito viene meno, rimane il disinganno e d’improvviso agli occhi dei mediterranei l’Europa si trasforma da madre lontana e svagata, ma benefica, in matrigna vigile e crudele.

Il Corriere della Sera 02.09.12

"La paura di tornare ai lavori più umili", di Gian Arturo Ferrari

Nei borghi agricoli della Laconia, derelitta punta sudorientale del Peloponneso di recente guadagnata alle colture intensive, si aggirano frotte di indiani Tamil, neri e nodosi come bastoni. Fanno parte, propriamente parlando, dei lavoratori della Grecia e, nonostante l’aria sperduta, sono gente energica e coraggiosa. Parlano almeno tre lingue (la loro o le loro, un po’ di greco e un più che discreto inglese) e senza tante storie hanno varcato oceani e migliaia di chilometri per venire a cogliere le arance e le olive, a fare tutti quei lavori pesanti ai quali i laconici, pur se attanagliati — si dice — dalla crisi, si negano tuttavia recisamente.
Non è pigrizia quella dei laconici, non è infingardaggine, o, perlomeno, non solo. C’è la memoria, non troppo remota, di un tempo di abbrutimento e fatica inenarrabile; c’è la recente felicità di esserne usciti, di aver conquistato gli agognati simboli del riscatto, solette e piloni di cemento armato, servizi igienici in porcellana, adorati suv giapponesi; c’è il terrore che rimettere mano alle antiche fatiche significhi riprecipitare, per un atroce scherzo della storia, nell’abisso da cui si credeva di essere usciti. È lo stesso meccanismo di rimozione che ha distrutto tanta parte del paesaggio italiano: certo gli speculatori, ma soprattutto l’odio — popolare, diffuso, sincero — per il proprio passato e per i suoi segni, per l’umiliazione secolare che essi rappresentano.
L’Europa non è solo l’Eurotower e l’Europa mediterranea — la Grecia, gran parte dell’Italia, gran parte della Spagna — non è (non è solo?) patria di lazzaroni e cape scariche. È una regione complicata, molto lontana parente (ahimè!) di quel meraviglioso Mediterraneo dell’età di Filippo II, cantato da Braudel. Non sarà un caso se i tre Paesi che vi si affacciano sono stati tutti e tre lacerati nel Novecento da sanguinose guerre civili. E se due di essi, Grecia e Spagna, sono usciti da dittature feroci solo, rispettivamente, nel 1974 e nel 1975. È una regione traballante, di traballante economia e di traballante, perché recentissima, democrazia, minata per di più, nel caso dell’Italia, da una viceversa stabile e solida criminalità organizzata. A medicare questi mali, e prima ancora a spiegarli, non basta certo la contrapposizione, accademica e leziosa, tra un’ Europa della virtù, settentrionale e protestante, e un’Europa del vizio, mediterranea e cattolica (ma anche ortodossa).
Una contrapposizione che è soprattutto falsa. Il problema non è trasformare i laconici o i siciliani o gli andalusi in discepoli di Max Weber, ma di assimilare progressivamente l’Europa mediterranea all’Europa centrale, al cuore storico ed economico dell’Europa, cattolico in grande maggioranza, di cui l’Italia settentrionale o la Catalogna fanno già parte. Esiste insomma una questione meridionale su scala europea, il che mette noi italiani nella singolare posizione di chi ha in materia l’esperienza massima e i massimi fallimenti. Ma se in centocinquanta anni noi la nostra questione meridionale non l’abbiamo risolta, non è che la politica europea degli ultimi vent’anni abbia saputo fare di molto meglio. Ha distribuito, anche generosamente, denaro, ma così facendo ha creato non lavoro, ma illusione di lavoro. Oggi che il lavoro elargito viene meno, rimane il disinganno e d’improvviso agli occhi dei mediterranei l’Europa si trasforma da madre lontana e svagata, ma benefica, in matrigna vigile e crudele.
Il Corriere della Sera 02.09.12