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"Università, al via i test di ammissione. A Milano in 4.000 per 500 posti", di Valentina Santarpia

Quando c’è stato il test di ammissione a Medicina alla Cattolica, ad aprile, sull’Aurelia a Roma c’erano 22 km di coda per le auto che si dirigevano verso la sede dell’esame. La scorsa settimana, alle prove del Campus biomedico, i candidati erano così tanti che i quiz sono stat spostati alla Fiera di Roma perché l’ateneo non aveva abbastanza aule disponibili. E all’università di Palermo, in vista della sfida a suon di crocette di martedì prossimo, hanno già predisposto «speciali misure di sicurezza». Bastano questi tre esempi per avere un’idea della massa di studenti che anche quest’anno sta cercando disperatamente di indossare un camice bianco e intraprendere un corso di laurea in Medicina e chirurgia.
Secondo le stime di Angelo Mastrillo, docente dell’università di Bologna e membro dell’Osservatorio conferenza nazionale dei corsi di laurea Facoltà di medicina e chirurgia, saranno 77 mila i diplomati che martedì 4 settembre sosterranno gli esami per cercare di accaparrarsi uno degli 11 mila posti disponibili (10.173 per Medicina e chirurgia e 931 per Odontoiatria) a cui vanno aggiunti i 557 posti riservati agli extracomunitari, che quest’anno verranno assegnati agli italiani nel caso non ci fossero stranieri idonei. La vera novità di quest’anno è che le graduatorie saranno basate su gruppi di atenei nella stessa regione.
Nel totale le domande presentate su tutte le 41 università sono circa 97 mila, perché vanno messe nel conto anche le 15 mila confluite sulle tre università non statali (Milano S.Raffaele, Roma Campus e Roma Cattolica): complessivamente poco meno dei 98 mila dell’anno scorso (-0,9%). Considerando che spesso gli studenti tentano sia la chance dell’università privata che quella pubblica, si stima che ci saranno 8 candidati per ogni posto. Dopo il test in italiano, il 5 settembre, sarà la volta del test per i candidati al corso di Medicina in inglese (circa 4.000 iscritti in tutta Italia), mentre il 6 è la data per i futuri architetti (8.720 posti), il 10 per gli aspiranti veterinari (918), l’11 per le professioni sanitarie (circa 27 mila posti per 22 profili professionali che vanno dagli infermieri agli ostetrici ai logopedisti ai fisioterapisti).
Il boom di richieste degli aspiranti medici è naturalmente piovuto sugli atenei più importanti. Alla Statale di Milano ci sono 3.126 studenti che aspirano a 370 posti. Alla Bicocca ci sono 1.180 candidati per 135 posti: in linea con l’anno scorso (quando c’erano 1.149 aspiranti) ma con un vero boom di iscrizioni al femminile, 736, il 62%. Alla Sapienza di Roma concorreranno in 6.833, per 997 posti, con un rapporto di 6,8 aspiranti per ogni posto. All’università di Pavia ci sono 1.448 iscritti per 210 posti (medicina in italiano) più 20 (odontoiatria), e altri 1.524 che proveranno il test in inglese per 100 posti. All’università di Napoli Federico II, per 436 posti totali, ci saranno 3.831 candidati, un po’ meno rispetto all’anno scorso, quando erano 3.831. A Pisa, per 280 posti, ci sono 1.969 iscritti ai test di ammissione. A Palermo ci sono 3.365 ragazzi pronti a sfidarsi per uno dei 400 posti messi «in palio»: severissime le regole di partecipazione ai test, che si svolgeranno in ben 22 aule con oltre 250 persone addette alla sorveglianza per garantire sicurezza e ordine. Nell’università siciliana, dove è stato deciso di mettere il numero chiuso a tutti i corsi di laurea, alla data di scadenza di iscrizione ai test c’erano oltre 26 mila candidati, per 10.261 posti disponibili nella varie facoltà. E non è un’eccezione: con il 33% di corsi a numero chiuso in tutta Italia, l’accesso all’università non è più scontato. Non c’è da meravigliarsi che, secondo un sondaggio di Universinet.it su 13.500 risposte on line, i candidati ammettono che sarebbero disposti a tutto per essere ammessi: il 49% per una raccomandazione offrirebbe addirittura una prestazione sessuale.

Il Corriere della Sera 02.09.12

"Università, al via i test di ammissione. A Milano in 4.000 per 500 posti", di Valentina Santarpia

Quando c’è stato il test di ammissione a Medicina alla Cattolica, ad aprile, sull’Aurelia a Roma c’erano 22 km di coda per le auto che si dirigevano verso la sede dell’esame. La scorsa settimana, alle prove del Campus biomedico, i candidati erano così tanti che i quiz sono stat spostati alla Fiera di Roma perché l’ateneo non aveva abbastanza aule disponibili. E all’università di Palermo, in vista della sfida a suon di crocette di martedì prossimo, hanno già predisposto «speciali misure di sicurezza». Bastano questi tre esempi per avere un’idea della massa di studenti che anche quest’anno sta cercando disperatamente di indossare un camice bianco e intraprendere un corso di laurea in Medicina e chirurgia.
Secondo le stime di Angelo Mastrillo, docente dell’università di Bologna e membro dell’Osservatorio conferenza nazionale dei corsi di laurea Facoltà di medicina e chirurgia, saranno 77 mila i diplomati che martedì 4 settembre sosterranno gli esami per cercare di accaparrarsi uno degli 11 mila posti disponibili (10.173 per Medicina e chirurgia e 931 per Odontoiatria) a cui vanno aggiunti i 557 posti riservati agli extracomunitari, che quest’anno verranno assegnati agli italiani nel caso non ci fossero stranieri idonei. La vera novità di quest’anno è che le graduatorie saranno basate su gruppi di atenei nella stessa regione.
Nel totale le domande presentate su tutte le 41 università sono circa 97 mila, perché vanno messe nel conto anche le 15 mila confluite sulle tre università non statali (Milano S.Raffaele, Roma Campus e Roma Cattolica): complessivamente poco meno dei 98 mila dell’anno scorso (-0,9%). Considerando che spesso gli studenti tentano sia la chance dell’università privata che quella pubblica, si stima che ci saranno 8 candidati per ogni posto. Dopo il test in italiano, il 5 settembre, sarà la volta del test per i candidati al corso di Medicina in inglese (circa 4.000 iscritti in tutta Italia), mentre il 6 è la data per i futuri architetti (8.720 posti), il 10 per gli aspiranti veterinari (918), l’11 per le professioni sanitarie (circa 27 mila posti per 22 profili professionali che vanno dagli infermieri agli ostetrici ai logopedisti ai fisioterapisti).
Il boom di richieste degli aspiranti medici è naturalmente piovuto sugli atenei più importanti. Alla Statale di Milano ci sono 3.126 studenti che aspirano a 370 posti. Alla Bicocca ci sono 1.180 candidati per 135 posti: in linea con l’anno scorso (quando c’erano 1.149 aspiranti) ma con un vero boom di iscrizioni al femminile, 736, il 62%. Alla Sapienza di Roma concorreranno in 6.833, per 997 posti, con un rapporto di 6,8 aspiranti per ogni posto. All’università di Pavia ci sono 1.448 iscritti per 210 posti (medicina in italiano) più 20 (odontoiatria), e altri 1.524 che proveranno il test in inglese per 100 posti. All’università di Napoli Federico II, per 436 posti totali, ci saranno 3.831 candidati, un po’ meno rispetto all’anno scorso, quando erano 3.831. A Pisa, per 280 posti, ci sono 1.969 iscritti ai test di ammissione. A Palermo ci sono 3.365 ragazzi pronti a sfidarsi per uno dei 400 posti messi «in palio»: severissime le regole di partecipazione ai test, che si svolgeranno in ben 22 aule con oltre 250 persone addette alla sorveglianza per garantire sicurezza e ordine. Nell’università siciliana, dove è stato deciso di mettere il numero chiuso a tutti i corsi di laurea, alla data di scadenza di iscrizione ai test c’erano oltre 26 mila candidati, per 10.261 posti disponibili nella varie facoltà. E non è un’eccezione: con il 33% di corsi a numero chiuso in tutta Italia, l’accesso all’università non è più scontato. Non c’è da meravigliarsi che, secondo un sondaggio di Universinet.it su 13.500 risposte on line, i candidati ammettono che sarebbero disposti a tutto per essere ammessi: il 49% per una raccomandazione offrirebbe addirittura una prestazione sessuale.
Il Corriere della Sera 02.09.12

"Così l'industria sarda ha smarrito il suo orizzonte", di Giacomo Mameli

In tour elettorale per le regionali Silvio Berlusconi lascia Palazzo Chigi e piomba nel Sud dell’isola che ribolle di rabbia. Il polo metallurgico di Portovesme è in agonia, Iglesias non sa più che cosa sia il lavoro produttivo, Carbonia è in apnea. Buio pesto per Ila e Rockwall, Alcoa in stand by, l’Eurallumina passata ai russi della Rusal sta per chiudere i cancelli. Agli operai B. promette il “massimo impegno” perché “chiamo subito il mio amico Putin e la fabbrica incrementerà i volumi di produzione e avrete il lavoro”. I sardi credono alla patacca. Ricompensano B. dandogli un carrettata di voti. Ma da Mosca arriva un niet grande quanto gli Urali. Oggi, dopo quattro anni di governo di centrodestra sostenuto da sedicenti sardisti, la Sardegna è in coma. Ha perso 42 mila posti di lavoro, “18mila nella sola industria”, come rimarca il leader della Cgil Enzo Costa. Dal Golfo degli Angeli all’Asinara si assiste sgomenti alla necrosi del tessuto produttivo, quello che aveva fatto uscire la Sardegna dal Medioevo. E si mette una pietra tombale sulla vocazione industriale del Sulcis Iglesiente dove nessuno è riuscito a garantire alcun tipo di prospettiva a una zona che ha il più alto tasso di disoccupazione nella Ue con quella giovanile che svetta al 47 per cento. Chiusa l’epopea mineraria (dalla fine dell’800 aveva rappresentato il laboratorio tecnologico nella trasformazione metallurgica) il Sulcis doveva diventare il banco di prova della verticalizzazione dei metalli in un’Italia secondo Paese industrializzato d’Europa. Nacque l’Efim, ente legato alle Partecipazioni statali con targa socialdemocratica. Se con le miniere si erano persi 18 mila posti di lavoro, col polo metallurgico se ne potevano creare seimila con l’alluminio. Ma le capacità innovative dei manager di Stato politicizzati al midollo erano ridotte a zero. Molto inquinamento e nessuna iniziativa in innovazione tecnologica a difesa di un ambiente dove era stata sepolta l’agricoltura. E così dopo anni di contributi a gogò, dopo assunzioni clientelari, di incapacità totale di gareggiare con i competitor francesi e i tedeschi, non poteva che giungere il tramonto. Viaggiare oggi fra le città-mito di Iglesias e Carbonia equivale a voler percorrere un deserto di ciminiere spente, in un contesto sociale dove regnano la disperazione perché dicono gli operai Alcoa “non abbiamo più un orizzonte”. La catastrofe dell’industria minero-metallurgica si accompagna alla totale scomparsa della chimica e del tessile dal resto della Sardegna. Era decollata negli anni ’60 più in risposta a un banditismo feroce e spavaldo (sequestri di persona e catene di faide nello scacchiere caldissimo della Barbagia) che a un disegno di politica industriale. Si doveva arginare l’emigrazione che stava svuotando paesi e città in una regione che era solo pastorizia, agricoltura di risulta e basso commercio. Furono le assemblee, anche le rivolte popolari a pretendere l’industria, caparbiamente, per “avere il lavoro in casa non Oltremare, per non sopravvivere solo di pecore e patate”. Anche in quella fase le patacche politiche dilagavano durante ogni elezione con promesse di un Eldorado di buste paga. Si invocava pomposamente il New Deal dei nuraghi. Flaminio Piccoli, ministro delle Partecipazioni statali dal ’70 al ’72, sparò novemila posti di lavoro nel Nuorese con fabbriche non solo a Ottana ma a Siniscola, Isili, Macomer, perfino a Bitti, sui monti, a oltre mille metri di quota (qui, con tre milioni di pecore brucanti, la follia politica romana e sarda immaginò la trasformazione della lana del Camerun). Una classe sindacale responsabile vide il vuoto progettuale e disse no al raddoppio nella Media Valle del Tirso o al decollo di un impianto nel Sarcidano, a valle di una colonia penale. “Era evidente anche ai miopi che l’Italia, con Acerra, Priolo, Marghera, la Sir, l’Enfi, la Montefibre e la Snia si avviava a un surplus di capacità produttiva ingestibile con produzioni di scarto”, ricorda Pietro Vitzizzai, ingegnere, leader-mito del consiglio di fabbrica negli anni di avvio degli impianti. “Nessun manager privato o di Stato si misurava con la parola qualità”. Eppure proprio le ciminiere di Ottana avevano contribuito a mitigare il malessere sotto il Gennargentu. La stagione industriale aveva scardinato la solitudine dell’ovile facendo conoscere le assemblee, la contrattazione collettiva serviva a curare l’esasperato individualismo sardo. Nascevano villaggio dopo villaggio i club culturali, le biblioteche. Era davvero stagione di rinascita. Si formò una classe amministrativa di spessore con sindaci-operai che avviavano la ripresa nei paesi attorno alla fabbrica. Il sociologo Gianfranco Bottazzi poteva titolare un libro Cuec sulla Sardegna: “Eppur si muove”. Fu una stagione breve. Perché mancava il progetto industriale. La trasformazione del petrolio (“è un olio, unge” diceva Pietro Melis, ex assessore sardista-doc all’Industria) diventò Tangentopoli. In Germania, Francia, Svizzera si consolidava la farmaceutica, la chimica fine, la biomedicina. Ma l’Italia non era quasi in grado di sfornare piatti e bicchieri di plastica. Perché non si è mai investito in ricerca, in ambiente. E così anche nelle classi dirigenti, anche fra gli intellettuali è montata una ribellione antindustriale che ha causato danni devastanti. Ilva e Alcoa docent. Ma dell’industria l’Italia della grande disoccupazione ha di nuovo bisogno. Oggi come ieri. In quattro anni l’economia dell’isola ha perso 42mila posti di lavoro Il centrodestra ha fatto solo promesse elettorali: Berlusconi si affidò all’amico Putin…

L’Unità 02.09.12

"Così l'industria sarda ha smarrito il suo orizzonte", di Giacomo Mameli

In tour elettorale per le regionali Silvio Berlusconi lascia Palazzo Chigi e piomba nel Sud dell’isola che ribolle di rabbia. Il polo metallurgico di Portovesme è in agonia, Iglesias non sa più che cosa sia il lavoro produttivo, Carbonia è in apnea. Buio pesto per Ila e Rockwall, Alcoa in stand by, l’Eurallumina passata ai russi della Rusal sta per chiudere i cancelli. Agli operai B. promette il “massimo impegno” perché “chiamo subito il mio amico Putin e la fabbrica incrementerà i volumi di produzione e avrete il lavoro”. I sardi credono alla patacca. Ricompensano B. dandogli un carrettata di voti. Ma da Mosca arriva un niet grande quanto gli Urali. Oggi, dopo quattro anni di governo di centrodestra sostenuto da sedicenti sardisti, la Sardegna è in coma. Ha perso 42 mila posti di lavoro, “18mila nella sola industria”, come rimarca il leader della Cgil Enzo Costa. Dal Golfo degli Angeli all’Asinara si assiste sgomenti alla necrosi del tessuto produttivo, quello che aveva fatto uscire la Sardegna dal Medioevo. E si mette una pietra tombale sulla vocazione industriale del Sulcis Iglesiente dove nessuno è riuscito a garantire alcun tipo di prospettiva a una zona che ha il più alto tasso di disoccupazione nella Ue con quella giovanile che svetta al 47 per cento. Chiusa l’epopea mineraria (dalla fine dell’800 aveva rappresentato il laboratorio tecnologico nella trasformazione metallurgica) il Sulcis doveva diventare il banco di prova della verticalizzazione dei metalli in un’Italia secondo Paese industrializzato d’Europa. Nacque l’Efim, ente legato alle Partecipazioni statali con targa socialdemocratica. Se con le miniere si erano persi 18 mila posti di lavoro, col polo metallurgico se ne potevano creare seimila con l’alluminio. Ma le capacità innovative dei manager di Stato politicizzati al midollo erano ridotte a zero. Molto inquinamento e nessuna iniziativa in innovazione tecnologica a difesa di un ambiente dove era stata sepolta l’agricoltura. E così dopo anni di contributi a gogò, dopo assunzioni clientelari, di incapacità totale di gareggiare con i competitor francesi e i tedeschi, non poteva che giungere il tramonto. Viaggiare oggi fra le città-mito di Iglesias e Carbonia equivale a voler percorrere un deserto di ciminiere spente, in un contesto sociale dove regnano la disperazione perché dicono gli operai Alcoa “non abbiamo più un orizzonte”. La catastrofe dell’industria minero-metallurgica si accompagna alla totale scomparsa della chimica e del tessile dal resto della Sardegna. Era decollata negli anni ’60 più in risposta a un banditismo feroce e spavaldo (sequestri di persona e catene di faide nello scacchiere caldissimo della Barbagia) che a un disegno di politica industriale. Si doveva arginare l’emigrazione che stava svuotando paesi e città in una regione che era solo pastorizia, agricoltura di risulta e basso commercio. Furono le assemblee, anche le rivolte popolari a pretendere l’industria, caparbiamente, per “avere il lavoro in casa non Oltremare, per non sopravvivere solo di pecore e patate”. Anche in quella fase le patacche politiche dilagavano durante ogni elezione con promesse di un Eldorado di buste paga. Si invocava pomposamente il New Deal dei nuraghi. Flaminio Piccoli, ministro delle Partecipazioni statali dal ’70 al ’72, sparò novemila posti di lavoro nel Nuorese con fabbriche non solo a Ottana ma a Siniscola, Isili, Macomer, perfino a Bitti, sui monti, a oltre mille metri di quota (qui, con tre milioni di pecore brucanti, la follia politica romana e sarda immaginò la trasformazione della lana del Camerun). Una classe sindacale responsabile vide il vuoto progettuale e disse no al raddoppio nella Media Valle del Tirso o al decollo di un impianto nel Sarcidano, a valle di una colonia penale. “Era evidente anche ai miopi che l’Italia, con Acerra, Priolo, Marghera, la Sir, l’Enfi, la Montefibre e la Snia si avviava a un surplus di capacità produttiva ingestibile con produzioni di scarto”, ricorda Pietro Vitzizzai, ingegnere, leader-mito del consiglio di fabbrica negli anni di avvio degli impianti. “Nessun manager privato o di Stato si misurava con la parola qualità”. Eppure proprio le ciminiere di Ottana avevano contribuito a mitigare il malessere sotto il Gennargentu. La stagione industriale aveva scardinato la solitudine dell’ovile facendo conoscere le assemblee, la contrattazione collettiva serviva a curare l’esasperato individualismo sardo. Nascevano villaggio dopo villaggio i club culturali, le biblioteche. Era davvero stagione di rinascita. Si formò una classe amministrativa di spessore con sindaci-operai che avviavano la ripresa nei paesi attorno alla fabbrica. Il sociologo Gianfranco Bottazzi poteva titolare un libro Cuec sulla Sardegna: “Eppur si muove”. Fu una stagione breve. Perché mancava il progetto industriale. La trasformazione del petrolio (“è un olio, unge” diceva Pietro Melis, ex assessore sardista-doc all’Industria) diventò Tangentopoli. In Germania, Francia, Svizzera si consolidava la farmaceutica, la chimica fine, la biomedicina. Ma l’Italia non era quasi in grado di sfornare piatti e bicchieri di plastica. Perché non si è mai investito in ricerca, in ambiente. E così anche nelle classi dirigenti, anche fra gli intellettuali è montata una ribellione antindustriale che ha causato danni devastanti. Ilva e Alcoa docent. Ma dell’industria l’Italia della grande disoccupazione ha di nuovo bisogno. Oggi come ieri. In quattro anni l’economia dell’isola ha perso 42mila posti di lavoro Il centrodestra ha fatto solo promesse elettorali: Berlusconi si affidò all’amico Putin…
L’Unità 02.09.12

"Quirinale, le ragioni di un privilegio", di Ugo De Siervo

Le polemiche sempre più sgradevoli e sfilacciate, che si sono prodotte a causa dell’ascolto e dell’inopinata conservazione da parte della Procura di Palermo di alcune intercettazioni «casuali ed indirette» di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica possono contribuire a spiegare i motivi istituzionali del particolare privilegio che è attribuito al Presidente dalla nostra Costituzione. Ciò appare opportuno, anche perché la sentenza della Corte Costituzionale sul conflitto sollevato dalla presidenza della Repubblica non potrà giungere prima del prossimo dicembre, pur con tutte le opportune accelerazioni del caso (mentre l’udienza del 19 settembre prossimo riguarda la mera ammissibilità del conflitto, che peraltro appare scontata).

Fino ad allora purtroppo si continuerà a operare in un contesto nel quale chiunque potrà cercare di trarre qualche vantaggio dalla irresponsabile asserzione dell’uno o dell’altro contenuto delle conversazioni intercettate ed i pochi – si spera – che quelle conversazioni davvero hanno ascoltato disporranno di un potere del tutto improprio e saranno sottoposti a molteplici pressioni per rivelarle o comunque farle conoscere.

In un contesto pre-elettorale in cui alcuni soggetti sembrano disposti, in modo del tutto irresponsabile, ad ogni presa di posizione che reputino per loro utile o comunque tale da indebolire (o vendicarsi di) presunti avversari, già sono emerse varie e pericolose campagne di stampa o politiche, che nel loro complesso possono creare oggettivi turbamenti all’esercizio delle delicatissime funzioni di cui dispone un organo individuale di «garanzia ultima» del sistema, come il Presidente della Repubblica.

Allora è bene cercare di chiarire le ragioni istituzionali che sono alla base del divieto di sottoporre il Presidente della Repubblica a controlli relativi alle sue conversazioni, salvo il caso limite che al Presidente si imputi da parte del Parlamento un delitto di attentato alla Costituzione o di alto tradimento. Nel nostro sistema costituzionale, gli altri organi politici sono sottoposti a maggiori controlli poiché sono revocabili da parte di chi li ha nominati, ma essi trovano la loro forza proprio nella permanenza del rapporto fiduciario: basti pensare al rapporto fiduciario della maggioranza parlamentare verso i componenti dei governi, che può portare alla sfiducia, ma più comunemente al superamento di eventuali fasi critiche sorte in riferimento a loro comportamenti. Il Presidente della Repubblica ha invece un incarico a durata fissa, non è di norma revocabile o sostituibile, e quindi la sua autonomia personale viene particolarmente tutelata poiché l’eventuale sistematica contestazione delle modalità di normale esercizio dei suoi poteri potrebbe portare ad un irrimediabile logoramento della sua persona e all’impossibilità di un libero esercizio dei suoi poteri.

Né si dica che questo vale solo nel quadro costituzionale, dove non è negabile che l’art. 90 della Costituzione afferma la normale irresponsabilità del Presidente relativamente agli «atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni». Sul piano legislativo, invece, ci troveremmo dinanzi ad una lacuna incolmabile, se non ad opera del futuro legislatore, per tutto ciò che riguarda la disciplina dei suoi privilegi: a prescindere che – come molti hanno ricordato – una legge già esiste e permette le intercettazioni delle conversazioni del Presidente solo in ipotesi del tutto particolari ed in riferimento al presunto compimento da parte sua di due eccezionali delitti, si dovrebbe ben sapere che il nostro sistema giuridico è unitario e ricomprende, insieme alle leggi, anche la Costituzione, le norme comunitarie e quelle internazionali direttamente applicabili. Più in particolare, i magistrati italiani sanno bene che la Corte Costituzionale addirittura da vari anni esige che le questioni di legittimità siano sollevate dai giudici solo dopo aver cercato di eliminare il dubbio di costituzionalità della legge tramite una sua interpretazione fondata sulla Costituzione. Ma allora, come si fa a nascondersi dietro l’assenza di una norma specifica che dica come fare a distruggere le intercettazioni casuali di una conversazione di un Presidente della Repubblica senza coinvolgere ulteriori soggetti? E ciò mentre il fatto stesso della conservazione, oltre che la previa lettura, di quelle intercettazioni produce comunque danni oggettivi, come stiamo purtroppo constatando.

Ma se le cose stanno in questi termini, ben si capisce come sia del tutto improprio parlare della risoluzione del problema solo nell’ambito della tanto contrastata revisione della legislazione in tema di intercettazioni: mentre per tutti noi, cittadini comuni, il problema si riduce ad una migliore redazione ed efficace applicazione della disposizione relativa alla eliminazione delle parti penalmente irrilevanti delle registrazioni operate, il problema che sembra stare a cuore di tanti parlamentari è il destino di intercettazioni indirette o casuali di conversazioni telefoniche che coinvolgano i parlamentari, in assenza della previa autorizzazione parlamentare prevista dal terzo comma dell’art. 68 della Costituzione. Ma per il Presidente della Repubblica è lo stesso sistema costituzionale, nonché l’art. 7 della legge n. 219 del 1989, che vietano espressamente le intercettazioni salvo che nei casi specifici previsti, con tutto ciò che logicamente ne deve conseguire.

La Stampa 02.09.12

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“Ma il bersaglio vero è Monti”, di LORENZO MONDO

Non sappiamo se abbia ragione il procuratore antimafia Grasso quando afferma che contro il Quirinale sono scese in campo «menti raffinatissime». Raffinate o grezze che siano, rappresentano comunque l’ennesimo attacco a Napolitano. Tutto nasce, come noto, dalle intercettazioni delle sue telefonate con l’ex ministro Nicola Mancino nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte trattative tra lo Stato e la mafia. Ma raggiunge l’acme con la pubblicazione sul settimanale Panorama di quello che la Procura di Palermo definisce «un collage di indiscrezioni, notizie più false che vere», frutto di illazioni e abusive ricostruzioni. I magistrati non sembrano escludere tuttavia la fuga di notizie «vere», e manipolabili. Con tanti saluti alla proclamata riservatezza, mentre si prende tempo per la prevista distruzione dei nastri che vengono definiti peraltro di nessuna utilità per le indagini. E’ inevitabile allora che l’opinione pubblica si interroghi un’altra volta sugli oscuri meandri della giustizia italiana.

Quel che appare evidente è invece il tentativo pretestuoso di delegittimare la presidenza Napolitano, una delle poche istituzioni sopravvissute allo sfacelo della Seconda Repubblica. E’ un’offensiva che vede impegnati i manipoli della destra e trova alleati nelle frange radicali della sinistra. Perché accanirsi contro un Presidente che, al di là della comprovata correttezza, si trova al limite del suo mandato? In realtà, attraverso Napolitano si intende colpire Monti, visto come sua creatura e fiduciario. Si affilano cioè le armi in vista delle prossime elezioni.

Il capo del governo, se non personalmente, per la continuità della sua politica -da molti vagheggiata – è tutt’altro che fuori dal gioco. E Napolitano farà ancora in tempo a esercitare in merito la sua influenza. E’ la danza velleitaria e chiassosa dei pasdaran di varia coloritura davanti all’inconcludenza delle forze portanti, e nominalmente più responsabili, del comparto politico. Non c’è, anche per questo verso, da stare allegri. Monti si affanna, con viaggi defatiganti in mezzo mondo, a contrastare ed esorcizzare la grave crisi in cui si dibatte il Paese. Ma rischia di trovarsi come pietra d’inciampo la dibattuta questione Stato-mafia: che, per quanto importante, rimanda a una storia lontana, affidata peraltro ad un preciso percorso investigativo e giudiziario. Non appassiona, francamente, i cittadini. Che registrano semmai con inquietudine la pungente domanda rivolta da Angela Merkel all’amico Monti: «Ma dopo il voto (conclusa cioè la sua esperienza di governo) che cosa succederà in Italia?».

La Stampa 02.09.12

"Quirinale, le ragioni di un privilegio", di Ugo De Siervo

Le polemiche sempre più sgradevoli e sfilacciate, che si sono prodotte a causa dell’ascolto e dell’inopinata conservazione da parte della Procura di Palermo di alcune intercettazioni «casuali ed indirette» di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica possono contribuire a spiegare i motivi istituzionali del particolare privilegio che è attribuito al Presidente dalla nostra Costituzione. Ciò appare opportuno, anche perché la sentenza della Corte Costituzionale sul conflitto sollevato dalla presidenza della Repubblica non potrà giungere prima del prossimo dicembre, pur con tutte le opportune accelerazioni del caso (mentre l’udienza del 19 settembre prossimo riguarda la mera ammissibilità del conflitto, che peraltro appare scontata).
Fino ad allora purtroppo si continuerà a operare in un contesto nel quale chiunque potrà cercare di trarre qualche vantaggio dalla irresponsabile asserzione dell’uno o dell’altro contenuto delle conversazioni intercettate ed i pochi – si spera – che quelle conversazioni davvero hanno ascoltato disporranno di un potere del tutto improprio e saranno sottoposti a molteplici pressioni per rivelarle o comunque farle conoscere.
In un contesto pre-elettorale in cui alcuni soggetti sembrano disposti, in modo del tutto irresponsabile, ad ogni presa di posizione che reputino per loro utile o comunque tale da indebolire (o vendicarsi di) presunti avversari, già sono emerse varie e pericolose campagne di stampa o politiche, che nel loro complesso possono creare oggettivi turbamenti all’esercizio delle delicatissime funzioni di cui dispone un organo individuale di «garanzia ultima» del sistema, come il Presidente della Repubblica.
Allora è bene cercare di chiarire le ragioni istituzionali che sono alla base del divieto di sottoporre il Presidente della Repubblica a controlli relativi alle sue conversazioni, salvo il caso limite che al Presidente si imputi da parte del Parlamento un delitto di attentato alla Costituzione o di alto tradimento. Nel nostro sistema costituzionale, gli altri organi politici sono sottoposti a maggiori controlli poiché sono revocabili da parte di chi li ha nominati, ma essi trovano la loro forza proprio nella permanenza del rapporto fiduciario: basti pensare al rapporto fiduciario della maggioranza parlamentare verso i componenti dei governi, che può portare alla sfiducia, ma più comunemente al superamento di eventuali fasi critiche sorte in riferimento a loro comportamenti. Il Presidente della Repubblica ha invece un incarico a durata fissa, non è di norma revocabile o sostituibile, e quindi la sua autonomia personale viene particolarmente tutelata poiché l’eventuale sistematica contestazione delle modalità di normale esercizio dei suoi poteri potrebbe portare ad un irrimediabile logoramento della sua persona e all’impossibilità di un libero esercizio dei suoi poteri.
Né si dica che questo vale solo nel quadro costituzionale, dove non è negabile che l’art. 90 della Costituzione afferma la normale irresponsabilità del Presidente relativamente agli «atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni». Sul piano legislativo, invece, ci troveremmo dinanzi ad una lacuna incolmabile, se non ad opera del futuro legislatore, per tutto ciò che riguarda la disciplina dei suoi privilegi: a prescindere che – come molti hanno ricordato – una legge già esiste e permette le intercettazioni delle conversazioni del Presidente solo in ipotesi del tutto particolari ed in riferimento al presunto compimento da parte sua di due eccezionali delitti, si dovrebbe ben sapere che il nostro sistema giuridico è unitario e ricomprende, insieme alle leggi, anche la Costituzione, le norme comunitarie e quelle internazionali direttamente applicabili. Più in particolare, i magistrati italiani sanno bene che la Corte Costituzionale addirittura da vari anni esige che le questioni di legittimità siano sollevate dai giudici solo dopo aver cercato di eliminare il dubbio di costituzionalità della legge tramite una sua interpretazione fondata sulla Costituzione. Ma allora, come si fa a nascondersi dietro l’assenza di una norma specifica che dica come fare a distruggere le intercettazioni casuali di una conversazione di un Presidente della Repubblica senza coinvolgere ulteriori soggetti? E ciò mentre il fatto stesso della conservazione, oltre che la previa lettura, di quelle intercettazioni produce comunque danni oggettivi, come stiamo purtroppo constatando.
Ma se le cose stanno in questi termini, ben si capisce come sia del tutto improprio parlare della risoluzione del problema solo nell’ambito della tanto contrastata revisione della legislazione in tema di intercettazioni: mentre per tutti noi, cittadini comuni, il problema si riduce ad una migliore redazione ed efficace applicazione della disposizione relativa alla eliminazione delle parti penalmente irrilevanti delle registrazioni operate, il problema che sembra stare a cuore di tanti parlamentari è il destino di intercettazioni indirette o casuali di conversazioni telefoniche che coinvolgano i parlamentari, in assenza della previa autorizzazione parlamentare prevista dal terzo comma dell’art. 68 della Costituzione. Ma per il Presidente della Repubblica è lo stesso sistema costituzionale, nonché l’art. 7 della legge n. 219 del 1989, che vietano espressamente le intercettazioni salvo che nei casi specifici previsti, con tutto ciò che logicamente ne deve conseguire.
La Stampa 02.09.12
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“Ma il bersaglio vero è Monti”, di LORENZO MONDO
Non sappiamo se abbia ragione il procuratore antimafia Grasso quando afferma che contro il Quirinale sono scese in campo «menti raffinatissime». Raffinate o grezze che siano, rappresentano comunque l’ennesimo attacco a Napolitano. Tutto nasce, come noto, dalle intercettazioni delle sue telefonate con l’ex ministro Nicola Mancino nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte trattative tra lo Stato e la mafia. Ma raggiunge l’acme con la pubblicazione sul settimanale Panorama di quello che la Procura di Palermo definisce «un collage di indiscrezioni, notizie più false che vere», frutto di illazioni e abusive ricostruzioni. I magistrati non sembrano escludere tuttavia la fuga di notizie «vere», e manipolabili. Con tanti saluti alla proclamata riservatezza, mentre si prende tempo per la prevista distruzione dei nastri che vengono definiti peraltro di nessuna utilità per le indagini. E’ inevitabile allora che l’opinione pubblica si interroghi un’altra volta sugli oscuri meandri della giustizia italiana.
Quel che appare evidente è invece il tentativo pretestuoso di delegittimare la presidenza Napolitano, una delle poche istituzioni sopravvissute allo sfacelo della Seconda Repubblica. E’ un’offensiva che vede impegnati i manipoli della destra e trova alleati nelle frange radicali della sinistra. Perché accanirsi contro un Presidente che, al di là della comprovata correttezza, si trova al limite del suo mandato? In realtà, attraverso Napolitano si intende colpire Monti, visto come sua creatura e fiduciario. Si affilano cioè le armi in vista delle prossime elezioni.
Il capo del governo, se non personalmente, per la continuità della sua politica -da molti vagheggiata – è tutt’altro che fuori dal gioco. E Napolitano farà ancora in tempo a esercitare in merito la sua influenza. E’ la danza velleitaria e chiassosa dei pasdaran di varia coloritura davanti all’inconcludenza delle forze portanti, e nominalmente più responsabili, del comparto politico. Non c’è, anche per questo verso, da stare allegri. Monti si affanna, con viaggi defatiganti in mezzo mondo, a contrastare ed esorcizzare la grave crisi in cui si dibatte il Paese. Ma rischia di trovarsi come pietra d’inciampo la dibattuta questione Stato-mafia: che, per quanto importante, rimanda a una storia lontana, affidata peraltro ad un preciso percorso investigativo e giudiziario. Non appassiona, francamente, i cittadini. Che registrano semmai con inquietudine la pungente domanda rivolta da Angela Merkel all’amico Monti: «Ma dopo il voto (conclusa cioè la sua esperienza di governo) che cosa succederà in Italia?».
La Stampa 02.09.12

"Mali antichi insidiano il nostro fragile paese", di Eugenio Scalfari

Ho ancora nel mio cuore e nei miei pensieri l’immagine di Carlo Maria Martini mentre il popolo sfila davanti al suo feretro e gremisce il Duomo e la grande piazza di Milano dove per tanti anni esercitò la sua missione di Vescovo. Se n’è andato un padre che poteva anche essere un Papa alla guida della Chiesa in tempi così procellosi? No, non poteva essere un Papa e non era un padre. È stata una presenza ancora più toccante e inquietante: è stato un riformatore che si era posto il problema dell’incontro tra la Chiesa e la modernità, tra il dogma e la libertà, tra la fede e la conoscenza. «Non sono i peccatori che debbono riaccostarsi alla Chiesa ma è il pastore che deve cercare e ritrovare la pecora smarrita». Così diceva e così faceva.
È morto nel pomeriggio di venerdì, i medici l’avevano già sedato, ma la mattina di giovedì aveva ancora celebrato la messa e mormorato dentro di sé il Vangelo perché la voce era del tutto scomparsa, le mani non reggevano più neppure l’ostia e non deglutiva. Ma la mente era vigile, la fede intatta e lui sorretto davanti all’altare ne era la prova vivente.
Pochi giorni prima aveva risposto ad un suo confratello che gli chiedeva quale fosse lo stato della Chiesa: «C’è ancora una brace ardente nel braciere, ma lo strato di cenere che la ricopre ha un tale spessore che rischia di spegnerla del tutto. Perciò bisogna disperdere quella cenere perché il fuoco torni a riaccendersi».
Chi l’ha seguito condividendone la fede dovrà ora impegnarsi a disperdere quella cenere ma dubito molto che si riesca.
Chi ne ha apprezzato il coraggio e la modernità di pensiero dovrà farne uso per evitare che la modernità si incanaglisca nello schiamazzo e si impantani negli egoismi e nella palude dell’indifferenza.
Questo è il tema che oggi voglio affrontare. Lo dedico a lui per la sua lotta contro tutte le simonie. Quella lotta è anche la nostra e la sua immagine
ci incita a restarle fedele.

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Noi viviamo in un Paese arrabbiato, in un continente arrabbiato, in un mondo arrabbiato. Questa situazione non è normale. La rabbia sociale è un elemento permanente in ogni epoca perché in ogni epoca ci sono ingiustizie, invidie, rancori. Ma non dovunque, non in tutto il pianeta contemporaneamente. Questo invece sta accadendo. C’è rabbia in Siria, in Iran, in Palestina, in tutto il continente africano dal nord al sud e dall’est all’ovest; c’è rabbia in Russia, in Ucraina, in Cina, in Giappone, nelle Filippine. E in tutti i Paesi di antica opulenza, oggi in crisi, in perdita di velocità e costretti a darsi carico delle rabbie altrui e delle proprie.
La rabbia sociale accresce gli egoismi e ottunde la consapevolezza. Chi odia è posseduto da nevrosi di gelosa invidia e da istinti distruttivi. Chi odia vuole distruggere. La rabbia divide e al tempo stesso unisce, gli individui arrabbiati diventano folla, la folla è una forza anonima sensibilissima alle emozioni che evocano i demagoghi.
La demagogia è il climax ideale di questa fase e di solito – così insegna la storia – non ha altro sbocco se non la perdita della libertà. I demagoghi lo sanno ma rimuovono questo pericolo confidando nel loro virtuosismo di trattenere le folle agganciate al loro precario carisma.
Rabbie sociali, folle emotive, demagoghi che cavalcano quelle emozioni e ne diventano le icone; poi quelle stesse folle applaudiranno e isseranno sulle loro spalle i dittatori che imbavaglieranno le loro bocche e li legheranno alla catena della servitù.
La storia è gremita di esempi, ma noi ne abbiamo avuti in casa di recenti. L’arma di cui si servono sia i demagoghi sia i dittatori, che spesso sono le stesse persone e coprono gli stessi interessi, è la semplificazione. Le folle non sopportano i ragionamenti complessi, vogliono risposte immediate, vogliono emozioni forti, vogliono il nemico da abbattere, il traditore da linciare, il bersaglio sul quale concentrare i colpi.
I Paesi di antica democrazia possiedono anticorpi robusti che riescono di solito a contenere e a vincere il virus demagogico. Ma noi italiani non viviamo in un Paese di antica e solida democrazia.
La democrazia ha come condizione preliminare l’esistenza dello Stato. L’Italia ha uno Stato, creato appena 150 anni fa, che la maggioranza degli italiani non ha mai amato. Non lo amò quando nacque, si ribellò contro di esso tutte le volte che poté. Il fascismo nacque da una ribellione contro lo Stato che nasceva da sinistra e fu utilizzata dalla destra. Ne venne fuori lo Stato totalitario, cioè la negazione della democrazia.
Poi la democrazia arrivò, frutto delle catastrofi della guerra, ma quanto fragile! Basta una spinta, basta un buon venditore di slogan, basta una dose di antipolitica per ammaccarla e mandarla in pezzi.
Il procuratore generale dell’antimafia ha detto l’altro giorno che «menti finissime sono al lavoro per colpire le Procure e il capo dello Stato». Può darsi che sia così, ma non credo ci vogliano menti finissime. In un Paese nel quale alligna la furbizia e il disprezzo delle regole, basta una ciurma di demagoghi da strapazzo per provocare un incendio. I piromani mandano a fuoco ogni estate decine di migliaia di ettari di bosco e
ancora non si è capito il perché.

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I focolai dell’incendio sono numerosi ma il più esteso deriva dal fatto che l’economia europea è da un anno in recessione e ci resterà per un altro anno ancora. Noi siamo purtroppo in testa a questa classifica per una ragione evidente: siamo in coda nel tasso di produttività, di crescita e di investimenti; per di più abbiamo accumulato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.
Responsabilità? Generali. La politica ne ha molte perché ha sempre preferito guardare all’oggi anziché al domani; una responsabilità non minore ce l’hanno il capitalismo italiano, le lobby, le clientele. Anche i sindacati, forse un po’ meno di altri ma comunque non trascurabili: hanno difeso più il posto di lavoro che il lavoro, favorendo in questo modo l’ingessatura del sistema produttivo e rendendo difficile la mobilità sociale. Questo non è un errore da poco, caro Landini.
Adesso molti di questi nodi sono arrivati al pettine e i sacrifici sono diventati necessari. Ma i sacrifici non piacciono a nessuno e scatenano la rabbia sociale. «Vengono colpiti i soliti noti». In gran parte è vero ma bisognerebbe anche capire che mille euro tolti a 20 milioni di persone
dovrebbero salire a duecentomila euro se le persone fossero soltanto centomila di numero. Gli evasori ovviamente sono infinitamente di più e per quanto li riguarda il problema è la loro rintracciabilità.
Comunque: i sacrifici non piacciono a nessuno ed è quindi normale che creino disagio, in certi casi anche molto acuto. Poi ci sono focolai di incendio più ristretti nella loro estensione ma molto più intensi.

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Uno di questi è certamente l’Alcoa che gestisce le miniere sarde di carbone allo zolfo. Quelle miniere – lo ricorda Alessandro Penati su la Repubblicadi ieri – furono aperte a metà dell’Ottocento. Poi furono chiuse perché il carbone di quella qualità non aveva mercato e la sua produzione era antieconomica. Ma poiché in quella zona della Sardegna non c’erano altre risorse per creare lavoro, la sequenza di aperture, chiusure e riaperture delle miniere fu continua ed è durata fino ad oggi passando dallo Stato all’Iri, all’Enel, all’Eni. Infine anche l’Eni chiuse perché il carbone allo zolfo non lo comprava nessuno.
Lo Stato però riuscì a vendere le miniere alla società canadese Alcoa che produce alluminio ed ha bisogno di carbone. Il costo di quello del Sulcis era fuori mercato e l’Alcoa accettò il contratto solo se lo Stato gli avesse fornito l’energia elettrica necessaria alla produzione di alluminio a prezzo sussidiato. Il contratto è durato 15 anni, il sussidio è stato pagato da ciascuno di noi nella bolletta dell’energia elettrica. Adesso è scaduto e lo Stato non lo ha rinnovato, per cui l’Alcoa se ne va salvo nuove trattative per nuove soluzioni.
La rabbia dei cinquecento minatori si è almeno in parte placata dopo l’annuncio dato dal ministro Passera a trecento metri di profondità e forse una soluzione sta per essere trovata.
È invece ancora in altissimo mare la questione dell’Ilva di Taranto. La riassumo con le parole del giovane attore Riondino che è uno degli esponenti nel movimento di protesta tarantino: «I lavoratori dell’Ilva, compreso l’indotto, sono diciottomila. Diciamo pure che considerando il sub-indotto arrivino a trentamila. Sono molti e la chiusura dell’azienda per loro è una catastrofe. Ma la popolazione di Taranto, compresi quei trentamila lavoratori, è di 186 mila abitanti, tutti quanti, bambini e neonati compresi, respirano polvere di carbone dalla mattina alla sera: un’incubazione che passa da una generazione all’altra e che mette Taranto al più alto livello di tumori delle vie respiratorie».
Questo è il problema. La rabbia dei lavoratori si somma a quella di tutti gli abitanti per due ragioni diverse anzi opposte: il lavoro e la salute. I sindacati e le parti politiche di riferimento vorrebbero conciliare le due cose, ma ci vuole molto tempo e moltissimi soldi che lo Stato non ha. E quindi la rabbia infuria. Di esempi analoghi c’è una lista lunghissima. Ciascuno produce rabbia. I motivi, le cause, le responsabilità sono diversi, ma tutto si unifica. Agitate con energia e il cocktail è pronto.

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Tanti fiumi più o meno fangosi si uniscono a valle in un solo grande fiume e un solo delta, ma quel delta diventa palude perché manca – vedi caso – la liquidità.
Nel caso specifico la liquidità è Draghi che dovrebbe darla e a quanto risulta sembra deciso a farlo. Darà battaglia il 6 prossimo al Consiglio direttivo della Bce e aspetterà il 12 la sentenza della Corte costituzionale tedesca sul fondo salva-Stati. Poi si muoverà. Forse, per superare l’opposizione della Bundesbank, chiederà l’ok dell’Ue e Monti dovrà fare in modo di farglielo avere impegnandosi ad un calendario rigoroso per attuare iniziative già approvate dal Parlamento che attendono però i decreti attuativi.
L’intervento di Draghi sarà della massima importanza per uscire dal pantano, mitigare le rabbie, depotenziare i demagoghi e consentire che Monti porti a termine il suo lavoro con l’appoggio indispensabile del presidente della Repubblica, senza il quale saremmo da un pezzo finiti nell’immondezzaio dell’Europa.
Ma è anche necessario uno sfondo politico per un’Europa politica. Ci sarà?
Il cardinale Martini si occupò anche di questo problema e lo espose con parole chiarissime dinanzi al Parlamento di Strasburgo dove fu invitato a parlare nel 1997. Trascrivo le sue parole a chiusura di questo articolo che ho a lui dedicato.
«L’Europa si trova dinanzi a un bivio decisivo della sua storia. Da un lato si apre la strada d’una più stretta integrazione politica che coinvolga i popoli europei e le loro istituzioni. Dall’altro ci può essere un arresto del processo di unificazione o una sua riduzione solo da alcuni aspetti economici e limitatamente ad alcuni Paesi».
Questo è il dilemma: la nascita d’una vera Europa in un mondo globale o la sua irrilevanza politica e storica. Gli italiani responsabili non possono essere indifferenti di fronte a questo dilemma.

La Repubblica 02.09.12