Sul tavolo dei sindacati tra una decina di giorni ci saranno quelle 18 pagine che Mario Monti ha elaborato nel primo consiglio della ripresa. Ovvero, l’agenda degli ultimi mesi di legislatura, centrata prevalentemente sull’attuazione delle misure già varate e sulla crescita. Sarà questo lo schema con cui il premier affronterà l’incontro con i rappresentanti dei lavoratori, convocati ieri per l’11 settembre alle 16,30. Una settimana prima, il 5 settembre alle ore 12, il governo vedrà le associazioni datoriali, che avevano chiesto un incontro a inizio agosto. L’iniziativa è partita nella mattinata di ieri, dopo «diverse riunioni interministeriali per approfondire alcuni temi di rilevanza per l’attività di governo di questi giorni», riferisce un comunicato di Palazzo Chigi. «Saltato» il consiglio dei ministri che avrebbe dovuto varare il decreto Sanità, il premier ha tenuto comunque un giro di tavolo con i colleghi più coinvolti nelle iniziative d’autunno, da Corrado Passera a Elsa Fornero, da Filippo Patroni Griffi a Vittorio Grilli e Antonio Catricalà. In quella sede si è deciso di convocare anche i sindacati, «per sollecitare un dialogo che conduca a miglioramenti della produttività nelle imprese, nell’ambito del quadro predisposto dal governo con le nuove iniziative per la crescita e le riforme strutturali volte al miglioramento della competitività», prosegue il comunicato. documento unico La stessa nota annuncia anche un percorso accelerato per la realizzazione del «documento unificato» che comprenderà «la carta d’identità elettronica e la carta nazionale servizi e costituirà così l’infrastruttura necessaria per offrire tutta una serie di servizi pubblici on line (ivi compresa la tessera sanitaria)», spiegano da Palazzo Chigi. La convocazione piomba ai piani alti delle Confederazioni sindacali nel giorno in cui l’Istat dirama dati inequivocabili sulla crisi profonda del lavoro e dell’occupazione. E anche dopo l’apertura di Passera, che in un’intervista aveva auspicato un patto per la produttività. Raffaele Bonanni si dichiara soddisfatto, visto che da sempre aveva auspicato l’apertura di un dialogo. Superata, dunque, la polemica sulla concertazione scoppiata qualche tempo fa? Per ora sembra di sì, anche se è assai probabile che l’incontro programmato non vada oltre una semplice informativa sulle direttrici che il governo intende assumere. Si sta lavorando all’attuazione delle misure adottate, e a almeno due nuove iniziative: il «pacchetto» Passera-Patroni Griffi su digitale e semplificazione, e la legge di Stabilità che arriverà a fine settembre. Ma dall’Economia continuano ad arrivare segnali negativi sull’effettiva disponibilità di risorse per nuove iniziative. È probabile che si punti a qualche misura per la povertà assoluta, o per le famiglie numerose. Ma tutto questo non sembra coinvolgere la produttività. Tanto che la reazione della Cgil è gelida. «Ci auguriamo che questa convocazione rappresenti un deciso e netto cambiamento dell’agenda – si legge in un comunicato di Corso d’Italia – Anche perché al momento, sui temi della crescita, non è affatto chiaro cosa abbia in programma il governo». Non sembra un plauso. «Ribadiamo – si sottolinea inoltre – che per noi il lavoro è la vera e non più rimandabile emergenza da affrontare per arrestare un inesorabile declino, come i dati di oggi ancora una volta dimostrano. Ci auguriamo, visto che nulla abbiamo visto fin’ora, che finalmente il governo ci mostri le proposte, e le novità se le ha, per affrontare le vere emergenze del Paese». Insomma, Susanna Camusso chiede un cambiamento di passo. In quale direzione? «Si agisca sulla leva fiscale per i lavoratori e i pensionati», dichiara il segretario in un’intervista alla Stampa. Quanto alla competitività, il segretario ricorda che è materia di trattativa tra le parti, e che è già stato affrontato nell’intesa di fine 2011. Cosa potrà mai arrivare di nuovo, se non più risorse per il lavoro? Anche le imprese chiedono interventi fiscali, a partire dall’abbassamento dell’accise sui carburanti.
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"La fede e il dubbio", di Eugenio Scalfari
Oso pensare che sia stato un momento sereno o addirittura felice quello di Carlo Maria Martini quando ha deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita e consentirgli di entrare nel cielo delle beatitudini, se Dio vorrà. Ne abbiamo parlato spesso nei nostri incontri. Lui diceva che la sua fede era salda ma si confrontava ogni giorno con i dubbi. Non sulla fede ma sul modo di usarla, di farla vivere con gli altri e per gli altri. La fede – così diceva – è al tempo stesso contemplazione e azione, ma sono due movimenti dell´anima intimamente collegati. La contemplazione è solitaria, l´azione è solidale e pastorale.
Io, da tutt´altro punto di vista, obiettavo che il dubbio sull´azione finisce per coinvolgere la fede nella sua interezza. Lui, quando gli feci quest´osservazione, rispose che infatti ogni giorno chi ha fede deve riconquistarla; questo è il compito del cristiano e in particolare del vescovo, successore degli apostoli: mettere la sua fede al servizio degli altri, quindi metterla in gioco e insieme agli altri, insieme alle pecore smarrite, riconquistarla.
Un giorno gli domandai quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù: il discorso della montagna, oppure l´ultima cena o la preghiera nell´orto del Getsemani o l´interrogatorio dinanzi a Pilato o le «stazioni» della Passione o infine la crocifissione e la morte. «No – rispose – il momento culminante è la Resurrezione, quando scoperchia il suo sepolcro e appare a Maria e a Maddalena. E poi, trasfigurato, agli apostoli ai quali affida il compito di andare e predicare».
Martini è andato e ha predicato; si è confrontato, ha privilegiato i giovani preti e i laici più lontani ed ha considerato la morte come l´attimo in cui si varca la porta che conduce alla contemplazione eterna nella luce del Signore. L´anima abbandona il corpo dov´era rinserrata, ha fatto l´esperienza dei peccati, si è misurata con le tentazioni, ha pregato per gli altri in attesa di quel momento supremo. Per questo oso pensare che decidere di andare in pace sia stato l´attimo felice della sua vita.
Io non ho la fede nell´oltremondo e non la cerco. Lui lo sapeva e non ha mai fatto nulla per convertirmi. Non era questa la sua pastoralità, almeno con me. Voleva offrirmi la sua esperienza e forse utilizzare la mia. Ma quale esperienza? Non certo quella del mondo ma quella dell´anima, degli istinti, dei sentimenti, dei pensieri.
L´ultima volta che ci siamo incontrati, lo scorso inverno, gli portai il mio ultimo libro intitolato a Eros che non è certo una divinità cristiana. Lui non parlava già più, sussurrava e il suo assistente don Damiano leggeva il moto delle sue labbra e lo traduceva. Ma dopo aver rigirato tra le mani tremanti il libro, mi chiese (e don Damiano tradusse) se il protagonista del libro fosse l´amore e io risposi che sì, era un libro sull´amore e soprattutto l´amore per gli altri. E lui fece sì con la testa, per dire che gradiva il dono.
L´amore per gli altri è il modo che Gesù indicò come il solo che conduce a Dio, la «caritas» l´«agape». Quello è il compito della Chiesa apostolica: la «caritas» per arrivare a Dio attraverso il figlio che si è fatto uomo.
Quando ci lasciammo lui mi sussurrò nell´orecchio: «Pregherò per lei» e io risposi: io la penserò. E lui sussurrò ancora: «Eguale».
Oggi penso molto a lui. Lui, nell´immagine di quell´attimo finale, ha certo pensato che stava varcando la porta della vita eterna. E io penso che lui l´abbia pensato e questo mi consola della sua perdita.
La Repubblica 01.09.12
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“UN UOMO DI DIO”, di VITO MANCUSO
Chi è stato Carlo Maria Martini? Si può rispondere dicendo un cardinale per lungo tempo papabile, l´arcivescovo per oltre vent´anni di una delle più grandi diocesi del mondo, il presidente per un decennio del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.
un biblista all´origine dell´edizione critica più accreditata a livello internazionale del Nuovo Testamento (The Greek New Testament), il rettore di due tra le più prestigiose istituzioni accademiche del mondo cattolico (Università Gregoriana e Istituto Biblico), un esperto predicatore di esercizi spirituali a ogni categoria di persone, un gesuita di quella gloriosa e discussa Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola, un autore con una bibliografia sterminata in diverse lingue, e altre cose ancora. Ma la risposta che coglie la peculiarità della sua persona si ottiene dicendo che fu un uomo di Dio.
Il tratto essenziale della sua persona e del suo messaggio è tutto contenuto nel titolo del primo documento programmatico che egli indirizzò alla diocesi di Milano all´inizio del suo episcopato nel 1980: La dimensione contemplativa della vita. A questo obiettivo egli ha educato con i suoi insegnamenti, e ancor più con tutta la sua persona, con la voce, lo sguardo, il portamento. Accostare Martini significava infatti intravedere quanto di più alto può dimorare nel petto di un uomo, ovvero l´intelligenza che serve incondizionatamente il bene e la giustizia e che non cessa mai, neppure di fronte alle assurdità e alle tragedie del vivere, di nutrire una singolare speranza nel senso e nella direzione della vita. Se l´espressione “nobiltà dello spirito”, tanto cara a Meister Eckhart e a Thomas Mann, significa qualcosa, questo è il tentativo di descrivere l´esperienza suscitata dall´incontro con persone come Martini, profondamente uomini ma anche così diversi da ciò che è semplicemente umano, del tutto trasparenti ma non privi di silente mistero.
Martini è stato tra gli esponenti più significativi di ciò che viene solitamente definito cattolicesimo progressista, quell´ideale cioè di essere cristiani non contro, ma sempre e solo a favore della vita del mondo. In questo egli ha rappresentato uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II e di quella stagione che credeva nel rinnovamento della Chiesa in autentica fedeltà al Vangelo di Cristo, senza più nessun compromesso con il potere. Ora che egli è morto, quella stagione si allontana sempre di più e si fanno sempre più rare, nel mondo cattolico italiano, le voci profetiche. Ma proprio a proposito di profezia, è necessario sottolineare la sua libera autodeterminazione di affrontate la morte in modo del tutto naturale, senza sondini nasogastrici o altri apparecchi del genere messi a disposizione dalla tecnica, nella piena fiducia di chi sa che sta per entrare in quella dimensione eterna che la fede chiama “casa del Padre”.
Mi sia concesso infine un ricordo personale di colui che è stato il mio padre spirituale. Se io infatti iniziai a vivere seriamente la fede cristiana, fu prevalentemente a causa sua: in quanto vescovo della mia diocesi, egli faceva risplendere nella mia giovane mente di liceale l´ideale cristiano. Ciò che mi conquistò, fin dai suoi primi discorsi che leggevo o ascoltavo, fu il linguaggio. Prima ancora delle cose che diceva, ciò che catturava la mia giovane attenzione era il modo con cui le diceva, del tutto privo di retorica ecclesiastica ma al contempo così diverso rispetto al linguaggio quotidiano, un modo di parlare che sapeva far percepire un altro mondo senza essere “dell´altro mondo”. Le sue parole erano semplici ma severe, comprensibili ma profonde, elementari ma arcane, e soprattutto riferite sempre alle cose e alle situazioni, mai dette per se stesse, per far colpo sull´uditorio. Io ero poco più di un ragazzo e certamente allora non avrei saputo dire nulla delle caratteristiche del suo linguaggio, ma ne percepivo dentro di me l´autenticità esistenziale, avvertivo uno stile diverso, per nulla ecclesiastico ma non per questo privo di sacralità, anzi tale da farmi sentire che c´era veramente qualcosa di sacro nell´esistenza concreta degli uomini che andava servita con rettitudine, intelligenza e amore. E questo Carlo Maria Martini ha fatto, in fedeltà a Dio e agli uomini, per tutta la sua lunga vita.
La Repubblica 01.09.12
"La fede e il dubbio", di Eugenio Scalfari
Oso pensare che sia stato un momento sereno o addirittura felice quello di Carlo Maria Martini quando ha deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita e consentirgli di entrare nel cielo delle beatitudini, se Dio vorrà. Ne abbiamo parlato spesso nei nostri incontri. Lui diceva che la sua fede era salda ma si confrontava ogni giorno con i dubbi. Non sulla fede ma sul modo di usarla, di farla vivere con gli altri e per gli altri. La fede – così diceva – è al tempo stesso contemplazione e azione, ma sono due movimenti dell´anima intimamente collegati. La contemplazione è solitaria, l´azione è solidale e pastorale.
Io, da tutt´altro punto di vista, obiettavo che il dubbio sull´azione finisce per coinvolgere la fede nella sua interezza. Lui, quando gli feci quest´osservazione, rispose che infatti ogni giorno chi ha fede deve riconquistarla; questo è il compito del cristiano e in particolare del vescovo, successore degli apostoli: mettere la sua fede al servizio degli altri, quindi metterla in gioco e insieme agli altri, insieme alle pecore smarrite, riconquistarla.
Un giorno gli domandai quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù: il discorso della montagna, oppure l´ultima cena o la preghiera nell´orto del Getsemani o l´interrogatorio dinanzi a Pilato o le «stazioni» della Passione o infine la crocifissione e la morte. «No – rispose – il momento culminante è la Resurrezione, quando scoperchia il suo sepolcro e appare a Maria e a Maddalena. E poi, trasfigurato, agli apostoli ai quali affida il compito di andare e predicare».
Martini è andato e ha predicato; si è confrontato, ha privilegiato i giovani preti e i laici più lontani ed ha considerato la morte come l´attimo in cui si varca la porta che conduce alla contemplazione eterna nella luce del Signore. L´anima abbandona il corpo dov´era rinserrata, ha fatto l´esperienza dei peccati, si è misurata con le tentazioni, ha pregato per gli altri in attesa di quel momento supremo. Per questo oso pensare che decidere di andare in pace sia stato l´attimo felice della sua vita.
Io non ho la fede nell´oltremondo e non la cerco. Lui lo sapeva e non ha mai fatto nulla per convertirmi. Non era questa la sua pastoralità, almeno con me. Voleva offrirmi la sua esperienza e forse utilizzare la mia. Ma quale esperienza? Non certo quella del mondo ma quella dell´anima, degli istinti, dei sentimenti, dei pensieri.
L´ultima volta che ci siamo incontrati, lo scorso inverno, gli portai il mio ultimo libro intitolato a Eros che non è certo una divinità cristiana. Lui non parlava già più, sussurrava e il suo assistente don Damiano leggeva il moto delle sue labbra e lo traduceva. Ma dopo aver rigirato tra le mani tremanti il libro, mi chiese (e don Damiano tradusse) se il protagonista del libro fosse l´amore e io risposi che sì, era un libro sull´amore e soprattutto l´amore per gli altri. E lui fece sì con la testa, per dire che gradiva il dono.
L´amore per gli altri è il modo che Gesù indicò come il solo che conduce a Dio, la «caritas» l´«agape». Quello è il compito della Chiesa apostolica: la «caritas» per arrivare a Dio attraverso il figlio che si è fatto uomo.
Quando ci lasciammo lui mi sussurrò nell´orecchio: «Pregherò per lei» e io risposi: io la penserò. E lui sussurrò ancora: «Eguale».
Oggi penso molto a lui. Lui, nell´immagine di quell´attimo finale, ha certo pensato che stava varcando la porta della vita eterna. E io penso che lui l´abbia pensato e questo mi consola della sua perdita.
La Repubblica 01.09.12
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“UN UOMO DI DIO”, di VITO MANCUSO
Chi è stato Carlo Maria Martini? Si può rispondere dicendo un cardinale per lungo tempo papabile, l´arcivescovo per oltre vent´anni di una delle più grandi diocesi del mondo, il presidente per un decennio del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.
un biblista all´origine dell´edizione critica più accreditata a livello internazionale del Nuovo Testamento (The Greek New Testament), il rettore di due tra le più prestigiose istituzioni accademiche del mondo cattolico (Università Gregoriana e Istituto Biblico), un esperto predicatore di esercizi spirituali a ogni categoria di persone, un gesuita di quella gloriosa e discussa Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola, un autore con una bibliografia sterminata in diverse lingue, e altre cose ancora. Ma la risposta che coglie la peculiarità della sua persona si ottiene dicendo che fu un uomo di Dio.
Il tratto essenziale della sua persona e del suo messaggio è tutto contenuto nel titolo del primo documento programmatico che egli indirizzò alla diocesi di Milano all´inizio del suo episcopato nel 1980: La dimensione contemplativa della vita. A questo obiettivo egli ha educato con i suoi insegnamenti, e ancor più con tutta la sua persona, con la voce, lo sguardo, il portamento. Accostare Martini significava infatti intravedere quanto di più alto può dimorare nel petto di un uomo, ovvero l´intelligenza che serve incondizionatamente il bene e la giustizia e che non cessa mai, neppure di fronte alle assurdità e alle tragedie del vivere, di nutrire una singolare speranza nel senso e nella direzione della vita. Se l´espressione “nobiltà dello spirito”, tanto cara a Meister Eckhart e a Thomas Mann, significa qualcosa, questo è il tentativo di descrivere l´esperienza suscitata dall´incontro con persone come Martini, profondamente uomini ma anche così diversi da ciò che è semplicemente umano, del tutto trasparenti ma non privi di silente mistero.
Martini è stato tra gli esponenti più significativi di ciò che viene solitamente definito cattolicesimo progressista, quell´ideale cioè di essere cristiani non contro, ma sempre e solo a favore della vita del mondo. In questo egli ha rappresentato uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II e di quella stagione che credeva nel rinnovamento della Chiesa in autentica fedeltà al Vangelo di Cristo, senza più nessun compromesso con il potere. Ora che egli è morto, quella stagione si allontana sempre di più e si fanno sempre più rare, nel mondo cattolico italiano, le voci profetiche. Ma proprio a proposito di profezia, è necessario sottolineare la sua libera autodeterminazione di affrontate la morte in modo del tutto naturale, senza sondini nasogastrici o altri apparecchi del genere messi a disposizione dalla tecnica, nella piena fiducia di chi sa che sta per entrare in quella dimensione eterna che la fede chiama “casa del Padre”.
Mi sia concesso infine un ricordo personale di colui che è stato il mio padre spirituale. Se io infatti iniziai a vivere seriamente la fede cristiana, fu prevalentemente a causa sua: in quanto vescovo della mia diocesi, egli faceva risplendere nella mia giovane mente di liceale l´ideale cristiano. Ciò che mi conquistò, fin dai suoi primi discorsi che leggevo o ascoltavo, fu il linguaggio. Prima ancora delle cose che diceva, ciò che catturava la mia giovane attenzione era il modo con cui le diceva, del tutto privo di retorica ecclesiastica ma al contempo così diverso rispetto al linguaggio quotidiano, un modo di parlare che sapeva far percepire un altro mondo senza essere “dell´altro mondo”. Le sue parole erano semplici ma severe, comprensibili ma profonde, elementari ma arcane, e soprattutto riferite sempre alle cose e alle situazioni, mai dette per se stesse, per far colpo sull´uditorio. Io ero poco più di un ragazzo e certamente allora non avrei saputo dire nulla delle caratteristiche del suo linguaggio, ma ne percepivo dentro di me l´autenticità esistenziale, avvertivo uno stile diverso, per nulla ecclesiastico ma non per questo privo di sacralità, anzi tale da farmi sentire che c´era veramente qualcosa di sacro nell´esistenza concreta degli uomini che andava servita con rettitudine, intelligenza e amore. E questo Carlo Maria Martini ha fatto, in fedeltà a Dio e agli uomini, per tutta la sua lunga vita.
La Repubblica 01.09.12
"La disoccupazione vola al 10,5%. Tre milioni i lavoratori precari", da repubblica.it
Su base trimestrale si tratta del tasso più alto dal 1999, lo rileva l’Istat secondo cui base mensile il dato è stabile al 10,7% come a giugno. Continuano a crescere i senza impiego tra i 15 e i 24 anni. Record di senza lavoro nell’eurozona all’11,3%, 18 milioni di persone. L’Italia non esce dalla crisi. Peggio. Sprofonda sempre più in basso e il tasso di disoccupazione nel secondo trimestre 2012 vola al 10,5%, in crescita di 2,7 punti percentuali su base annua. Lo rileva l’Istat analizzando i dati grezzi, ma si tratta, comunque, del tasso più alto, in base a confronti tendenziali, dal secondo trimestre del 1999. Numeri record anche tra i dipendenti a termine che nello stesso periodo sono stati 2 milioni 455mila, ai massimi dal 1993: aggiungendo anche i collaboratori (462mila) i precari sono poco meno di 3 milioni.
Il tasso di disoccupazione a luglio resta, invece, stabile al 10,7%, lo stesso livello di giugno, ma il più alto da gennaio 2004, quando iniziano le serie storiche mensili. Su base annua il tasso è in rialzo di 2,5 punti: nel complesso i senza lavoro sono 2 milioni 764mila, mentre le persone in cerca di occupazione sono cresciute del 33,6%, di 695mila unità. A pagare il prezzo più alto sono ancora i giovani: i senza lavoro tra i 15 e i 24 anni a luglio sono il 35,3%, in aumento di 1,3 punti percentuali su giugno e di 7,4 punti su base annua. Con un picco del 48%, su base trimestrale, tra le ragazze del Mezzogiorno. E, come se non bastasse, il ritmo di crescita annuo della disoccupazione giovanile è triplo rispetto a quello complessivo: le persone in cerca di lavoro sono 618 mila e rappresentano il 10,2% della popolazione in questa fascia d’età.
Non crescono, invece, gli occupati stabili a 23 milioni 25mila. Secondo l’Istat, la stabilità dell’occupazione è sintesi del calo della componente maschile e dell’aumento di quella femminile. E così il tasso di occupazione è pari al 57,1%. Gli inattivi tra 15 e 64 anni diminuiscono dello 0,2% rispetto al mese precedente con un tasso pari al 36%, in calo di 0,1 punti percentuali rispetto a giugno. Nel secondo trimestre si registra, quindi, un calo del numero degli occupati in termini tendenziali dello 0,2% (-48mila unità). L’aumento dell’occupazione più adulta con almeno 50 anni, soprattutto a tempo indeterminato, si contrappone al persistente calo su base annua di quella più giovane e dei 35-49enni. Al calo tendenziale dell’occupazione italiana (-133mila unità) si associa la crescita di quella straniera (+85mila unità). In confronto al secondo trimestre 2011, tuttavia, il tasso di occupazione degli italiani rimane stabile, mentre quello degli stranieri segnala una nuova significativa riduzione (dal 63,5% al 61,5%).
Eurozona. Nuovo record per il tasso di disoccupazione dell’eurozona che a luglio è salito all’11,3%, il livello più alto dalla nascita della moneta unica: lo ha reso noto Eurostat, che ha rivisto al rialzo il dato di giugno, passato dall’11,2 all’11,3%. Stabile, ma sempre al livello record del 10,4%, il tasso nell’Ue a 27 paesi. In termini assoluti, Eurostat stima che il numero di disoccupati nell’Ue a luglio sia salito a 25,254 milioni di persone di cui 18 nella sola Eurozona, pari ad un aumento di 343mila unità nei 27 e di 88mila unità nei 17. Rispetto a un anno fa, quando il tasso di disoccupazione era al 10,1% nell’eurozona e al 9,6% nell’Ue-27, i disoccupati sono aumentati rispettivamente di 2,05 milioni e di 2,1 milioni. I paesi in cui la disoccupazione è più elevata sono la Spagna, dove una persone su quattro è senza lavoro (25,1%) e la Grecia (23,1% a maggio). I tassi più bassi sono invece stati registrati in Austria (4,5%), Olanda (5,3%), Germania e Lussemburgo (entrambi 5,5%). Sempre problematica anche la disoccupazione giovanile, ancora in aumento, arrivata al 22,6% nell’eurozona e al 22,5% nell’Ue a 27, dove ci sono rispettivamente 204mila e 182mila giovani disoccupati in più rispetto a giugno, per un totale di quasi 5 milioni e mezzo di persone sotto i 25 anni senza lavoro. In Spagna e Grecia oltre la metà dei giovani è disoccupata (rispettivamente 52,9% e 53,8%).
da www.repubblica.it
"Una tenaglia eversiva", di Claudio Sardo
Questa volta l’attacco al quirinale ha le forme più subdole e ipocrite, degne della moralità dei suoi autori. Non si citano verbali secretati o testimoni più o meno diretti, ma si scrive, sulla base di pettegolezzi e supposizioni, che Giorgio Napolitano, nella famosa telefonata intercettata con Nicola Mancino, avrebbe espresso apprezzamenti poco lusinghieri su questo o quel personaggio pubblico. Il pettegolezzo ha il compito di occultare l’attacco infamante e, al tempo stesso, di confondere ogni traccia di verità. E gli ipocriti si fingono persino benevoli: il Capo dello Stato non vuole rendere pubblico il contenuto del colloquio telefonico proprio per quelle parole sconvenienti, anche se non c’è nulla di scorretto nel suo comportamento.
Gli ipocriti assalitori, poi, si dividono in due fronti. I primi sono quelli che, muovendo dal caso del Quirinale, vogliono depotenziare le intercettazioni come strumento investigativo.
Napolitano, dicono, è una vittima innocente come tanti altri prima di lui, quindi bisogna rimettere mano alla legge e, guarda caso, non puntano tanto a ridurre l’area della pubblicità delle trascrizioni quanto a impoverire la magistrutura di strumenti d’indagine. Il tentativo di ricatto sul Quirinale è fin troppo esplicito: ma è anche evidente che Napolitano non c’entra nulla. L’intercettazione incidentale del Capo dello Stato non ha alcuna parentela giuridica con le intercettazioni di chiunque altro. Il conflitto di attribuzione sollevato dal presidente resterebbe tal quale, qualunque fosse la legislazione sulle intercettazioni. Napolitano ha semplicemente rimesso alla Consulta la decisione su un punto controverso: può una conversazione del Capo dello Stato finire in un’inchiesta giudiziaria quando la Costituzione limita la responsabilità penale del presidente ai soli reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione? Ci ricordiamo bene che Berlusconi ha più volte tentato di estendere le guarantigie del presidente ad altre figure istituzionali: ma ciò non è avvenuto (per fortuna) e va detto con chiarezza che togliere al presidente-garante l’unicità della sua posizione nell’ordinamento vuol dire scardinare l’intero sistema di equilibri e la stessa forma di governo parlamentare.
Ma c’è anche un’altra categoria di ipocriti assalitori. Quelli che dicono: se davvero il Capo dello Stato non ha nulla da nascondere perché non chiede lui stesso di pubblicare quelle telefonate private. Qui l’attacco e la provocazione assumono aspetti addirittura grotteschi: ma come? Si tenta un volgare ricatto fondato su chiacchiere raccolte al mercato o al bar e poi si chiede, nientemeno, al presidente della Repubblica di capitolare, di auto-delegittimarsi, di rinunciare non per sé a una prerogativa e a una collocazione di garanzia, esterna alla dialettica tra poteri e organi dello Stato, ma addirittura per i suoi successori (perché questo sarà l’oggetto della sentenza della Consulta)? È il più vergognoso ribaltamento dell’onore della prova: Napolitano dovrebbe correggere la propria posizione istituzionale perché colpito da insinuazioni torbidamente fabbricate. Per ciò che Napolitano ha fatto e rappresentato fin qui, siamo certi che non cederà a questa offensiva destabilizzante.
Tuttavia, i democratici devono stare molto attenti. Perché non è in questione solo la solidarietà verso un uomo, Giorgio Napolitano, a cui l’Italia e ciascuno di noi deve molto, un uomo che ha riproposto con forza il tema dell’unità nazionale quando i fattori corrosivi sembrano prevalere, che ha condotto la transizione politica nel dopo Berlusconi preservando le istituzioni come luogo della ricostruzione democratica, che tuttora è presidio di una credibilità internazionale, senza la quale il Paese sarebbe più fragile ed esposto alle turbolenze esterne.
Ecco, l’obiettivo di questa campagna a tenaglia di delegittimazione del Quirinale è esattamente quello di colpire, di demolire la figura oggi più credibile nelle istituzioni, quella che gode di maggiore fiducia popolare. Se riuscisse l’impresa ci troveremmo in un deserto. Questa impresa, è bene dirlo senza infingimenti, ha un carattere eversivo. Delegittimare il Capo dello Stato in un contesto così critico per la politica – dove alla sfiducia, alla paura dei cittadini per la crisi, si unisce l’eccezionalità di un governo tecnico che esalta inevitabilmente le debolezze dei partiti – vuol dire delegittimare il finale di legislatura, le candidature e le alleanze elettorali, insomma le stesse forze che saranno chiamate dai cittadini a guidare il Paese dopo il voto.
Questo spiega la tenaglia, l’alleanza di fatto tra la destra senza scrupoli e il populismo giustizialista, compreso quello annidato a sinistra. Entrambe queste forze vogliono impedire la ricostruzione. Vogliono distruggere tutto ciò che rimane perché esse prosperano nella sfiducia e nella paura. Il Capo dello Stato è il simbolo più visibile ai cittadini di un riscatto possibile. Per questo è il bersaglio. Le intercettazioni sono solo armi, magari non convenzionali. Ma la ragione dell’attacco è tutta politica. Si vuole impedire che l’Italia abbia, come i maggiori Paesi europei, una competizione tra alternative politiche legittime. Si vuole impedire che dopo il voto emerga un cambiamento. Anzi, si vuole dimostrare che il cambiamento è impossibile, lasciando il campo a oligarchi e nuovi populisti.
L’Unità 31.08.12
Bersani vede Prodi: «Noi gli europeisti», di Simone Collini
Un incontro di due ore a casa di Romano Prodi, poi un più breve colloquio con Walter Veltroni in una saletta del Parco Nord, prima di salire insieme a lui sul palco della Festa dell’Unità per parlare dell’ultimo romanzo dell’ex segretario. Pier Luigi Bersani si prepara alla campagna per le primarie e soprattutto alla prossima sfida elettorale, e nella trasferta bolognese di ieri ha illustrato i suoi piani a un paio di interlocutori di cui non gli era chiaro quale atteggiamento avessero deciso di tenere nei prossimi mesi.
Con Prodi il leader del Pd ha parlato di Europa, crisi economica e della situazione politica italiana, dell’intenzione di lavorare a un «centrosinistra di governo» con Nichi Vendola e diverse associazioni civiche, per poi cercare di arrivare alla definizione di un «patto di legislatura» con Pier Ferdinando Casini («Non ho mai avuto intenzione di arruolarlo nel centrosinistra»), e anche della sfida per la candidatura alla premiership. Il Professore si è detto d’accordo con l’analisi politica e la strategia delle alleanze, col fatto che il Pd si debba caratterizzare come una forza «europeista» e che si rivolga a tutte le forze «anche moderate» che intendono contrastare la «deriva populista». E anche se Prodi non ha garantito un endorsement al segretario per le primarie, ha chiesto al suo staff di far uscire la notizia dell’incontro in via Gerusalemme (che doveva rimanere riservato), lanciando un chiaro segnale.
Anche sul dopo-Monti l’analisi è condivisa. E se dalla Germania arrivano voci di una Merkel preoccupata per quel che può succedere in Italia nel 2013, Bersani è convinto del fatto che «più che gli arrivi, a preoccupare sono i populismi e i ritorni» (riferimento a Grillo e Berlusconi) mentre il centrosinistra ha dimostrato in passato di essere affidabile e convintamente europeista. «Noi siamo quelli che hanno portato l’Italia nell’euro», è la battuta. Ma Bersani ricorda anche un aneddoto nei colloqui di queste ore, e cioè che l’attuale presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, era il giovane consulente che Merkel inviò a Roma a studiare le «lenzuolate» e il progetto «Italia 2015», e che Bersani ricevette cinque anni fa al ministero dello Sviluppo economico. Anche con Veltroni gli argomenti toccati sono in parte quelli affrontati con Prodi, e di nuovo c’è stata condivisione di vedute. In particolare sulle primarie, l’ex segretario del Pd aspetta di ascoltare cosa dirà Matteo Renzi il 13, quando dal Veneto ufficializzerà la sua candidatura. Se il registro sarà quello mostrato anche ieri dal sindaco di Firenze («Ridge di Beautiful è entrato nelle case degli italiani 25 anni fa e ha capito che è ora di cambiare, in Parlamento invece ci sono sempre gli stessi») e se Bersani manterrà la linea illustrata all’ultima Direzione del Pd (rivendicazione della scelta di sostenere Monti e Pd impegnato a far sì che la prossima sia una legislatura costituente e di ricostruzione), l’appoggio al segretario è naturale.
Renzi, che assicura che non è intenzionato a fare un nuovo partito nel caso in cui perdesse le primarie, critica Bersani per l’uscita sul «linguaggio fascista» («Sono necessari fatti concreti e proposte serie come il dimezzamento dei parlamentari, delle indennità e l’abolizione del vitalizio, non serve dare del fascista») e soprattutto insiste sulla linea del «tutti a casa». Un’impostazione che non piace a Bersani: «Non siamo dei matusa, ed essere giovani è importante ma non decisivo». Né sarebbe positivo, è il ragionamento di Bersani, se Renzi partecipasse alle primarie con l’obiettivo di modificare gli equilibri interni al Pd. «Se uno vuole ribaltare un partito, quando ci sarà il congresso, l’anno prossimo, si faranno le primarie per il congresso. Le prossime, invece, non sono primarie da utilizzare per riequilibrare pesi e misure nel partito. Sono di coalizione, aperte, per decidere il candidato del centrosinistra alla guida del governo».
Bersani si prepara alle prossime sfide anche guardando al mondo del web, e ieri, prima di arrivare a Bologna, è andato a Villanova di Castenaso, alle porte del capoluogo, per inaugurare (con un click) il primo circolo virtuale del Pd (ci si può iscrivere, si può partecipare ai forum, usufruire di una biblioteca, tutto on line e 24 ore su 24). A Bersani non è piaciuto il fatto che il suo aver criticato chi usa un «linguaggio fascista» al riparo della rete sia stato trasformato in un attacco al web in sé. E approfitta dell’inaugurazione del circolo virtuale per mandare on line questo: «Qualche… non dico cosa… dice che sono contro la Rete. Sei un pirla se dici così, io sono per la Rete».
Spiega più tardi arrivando alla Festa dell’Unità di Bologna, dove non manca la presenza di un gruppo di grillini che contesta il leader del Pd, che «la Rete deve diventare luogo di democrazia e libertà ma con meccanismi che garantiscano un livello di civiltà». Denuncia Bersani: «Sento un linguaggio violento e aggressivo, noi vogliamo una riscossa civica, e in questo ci sta anche il linguaggio perché il linguaggio modifica il pensiero, e il pensiero modifica la realtà. Quindi alt a certi linguaggi». E chi vi critica per non aver invitato la ministra Fornero alla Festa nazionale del Pd? «Nessuna chiusura o discriminazione, abbiamo valutato l’opportunità. Ci sono dei problemi che è meglio chiarire positivamente fuori da una situazione come quella di una festa. Noi abbiamo deciso di affrontare il tema del lavoro con le grandi organizzazioni sindacali».
L’Unità 31.08.12
Franceschini: “La legge elettorale deve dare stabilità il premio al primo partito va bocciato”, di Alessandra Longo
La legge elettorale, insieme alla canzone «Non vivo più senza di te» di Biagio Antonacci, è il vero tormentone dell’estate. Si fa o non si fa? Lo chiediamo a Dario Franceschini che non chiude la porta al dialogo ma ribadisce la sua contrarietà all’ipotesi del premio di maggioranza alla lista anziché alla coalizione: «Il premio al partito spinge inesorabilmente a costruire liste eterogenee in cui si mette dentro di tutto pur di prendere un voto in più e porta all’instabilità».
Franceschini gli elettori assistono ad un estenuante stop and go. Il finale quale sarà?
«Guardi che il Pd questa riforma elettorale vuole assolutamente farla, la legge “porcata” l’abbiamo subita per decisione altrui e non è pensabile tornare a votare con una legge che toglie agli elettori il diritto di scegliersi gli eletti».
Va bene, ma a che punto siete?
«Una legge, per essere approvata, necessita di una maggioranza in Parlamento e di un accordo almeno tra i partiti che appoggiano Monti. La nostra proposta era per il doppio turno alla francese ma ci siamo aperti ad una mediazione pur di non rimanere con il Porcellum. Detto questo
ogni mediazione ha dei limiti invalicabili».
Il premio di maggioranza alla coalizione è irrinunciabile per voi?
«È uno dei due punti di distanza, assieme alle preferenze, tra noi e il Pdl. Ma vorrei spiegare perché diciamo sì al premio alla coalizione e non alla lista e preferiamo i collegi uninominali alle preferenze. Non c’è traccia di calcolo, ricerca di vantaggio per il Pd. Ma è un ragionamento di sistema ».
Nel senso?
«L’Italia del dopo Monti ha bisogno di stabilità e i premi alla lista portano invece nella direzione opposta. Le faccio un esempio: mettiamo che la lista vincente prenda il 30 per cento. Con un premio in seggi del 12, 15 per cento arriverebbe attorno al 42, 45 per cento dei seggi. Ogni scelta sulla maggioranza, sul premier, sulla larga coalizione o meno, viene dunque rinviata al dopo elezioni. Non solo: la maggioranza può anche cambiare nel corso di una legislatura. Non è certo di questo che ha bisogno l’Italia. Il premio alla coalizione garantisce al contrario chiarezza di fronte agli elettori e governabilità. Confesso che, all’inizio della legislatura, anch’io avevo immaginato che un bipolarismo italiano, basato su Pd e Pdl, potesse anche reggere in un sistema proporzionale ma il caos della destra e il fenomeno Grillo dicono che il proporzionale con correttivi insufficienti genera instabilità».
A proposito di Grillo, concorda con chi lo accusa di avere un linguaggio di sapore fascista?
«Ci vedo populismo e demagogia ».
«Torniamo all’altro nodo: le preferenze.
«Mi vengono in mente le politiche del 1992. Fu l’ultima volta che si votò con le preferenze ed è proprio dai costi di quella campagna elettorale che partì Tangentopoli.
Le preferenze moltiplicano per mille i costi e finisce che viene eletto chi ha più soldi da spendere. Sarà un caso che Francia , Inghilterra, Spagna e Germania, votino con collegi uninominali o piccole liste bloccate e non con le preferenze?
Allora le rifaccio la domanda iniziale. Si fa o non si fa la riforma elettorale?
«C’è spazio e tempo per costruire un’intesa alla luce del sole in Parlamento».
Si è parlato di uno scambio cui il Pdl sarebbe interessato: accordo sulla legge elettorale in cambio di elezioni a novembre.
«Se qualcuno vuol far cadere il governo Monti lo deve dire con chiarezza, non cerchi accordi con noi».
Passiamo a Matteo Renzi. Dice che se vince le primarie, manda via tutti i dinosauri. Paura di perdere il posto?
«Appartengo al gruppo dei “graziati” da Renzi perché sono in Parlamento da meno di 15 anni… Vorrei ricordare però che queste primarie servono per scegliere il presidente del consiglio e ci si candida a sostituire Monti. Quelle per scegliere il segretario del partito e i nuovi gruppi dirigenti del Pd si terranno il prossimo anno».
La Repubblica 31.08.12
