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"La scuola sotto stress", di Fabrizia Bagozzi

Fra i presidi che mancano e il caro libri, riparte l’anno scolastico. Il ministro dell’istruzione Francesco Profumo non ha fatto a tempo ad annunciare il primo concorso per insegnanti dal 1999 – un vero e proprio evento, già segnato però da polemiche su inclusi ed esclusi – che le battute finali di un altro (tormentatissimo) concorso, quello per dirigenti scolastici rischia di incidere pesantemente sull’andamento del nuovo anno scolastico. Cominciata male (con mille domande su cinquemila della primissima fase concorsuale sonoramente sbagliate), proseguita peggio (nella successiva preselezione su cento domande 38 non erano completamente corrette per cui il tribunale amministrativo ha consentito l’accesso al test anche ai non ammessi), la selezione per diventare presidi – avvenuta in piena era Gelmini – ha seguito modalità di esecuzione che in diverse regioni italiane ha prodotto ulteriori ricorsi. Come in Lombardia, dove il Consiglio di stato ha dato ragione agli insegnanti che avevano chiesto l’annullamento del concorso perché durante la fase di correzione degli scritti non sarebbe stato garantito l’anonimato (troppo trasparenti le buste contenenti le prove).
La decisione definitiva arriverà a novembre. Intanto, però, un istituto su due è senza dirigente, con oltre cinquecento sedi scoperte su 1.200 autonomie. L’Ufficio scolastico della regione ha dovuto nominare 475 reggenti che si dovranno dunque dividere fra più istituti. «Un fatto gravissimo che inciderà negativamente sui livelli delle prestazioni in un sistema scolastico già messo a dura prova dai pesanti interventi delle diverse finanziarie», ha sottolineato il segretario generale Flc Cgil Mimmo Pantaleo. Nel frattempo, però, è scoppiato un nuovo pasticcio su un altro test, quello della preselezione per il Tirocinio formativo attivo, il corso che consente l’abilitazione all’insegnamento.
Nominata il 5 agosto 2011 – sempre regnante Gelmini, che però dice di non esserne responsabile – la commissione che ha elaborato le 2.220 domande di 37 abilitazioni diverse ne ha sbagliate 419. O meglio: 419 quesiti non erano conformi al bando. Per riparare, Profumo ha nominato una nuova commissione che alla fine ha assegnato un punteggio positivo a chi ha risposto male o, disorientato dalle formulazioni imprecise, non ha risposto. Pubblicando poi sul sito del ministero – che è andato in tilt – l’elenco dei 145 esperti che hanno redatto le domande. E aria di tempesta si addensa già attorno al nuovo concorso il cui bando sarà pubblicato il 24 settembre. In palio circa 24mila posti, metà dei quali da assegnare ai laureati abilitati e l’altra metà ai precari – attualmente più di 160mila – che hanno vinto i precedenti concorsi (1990 e 1999) e da allora giacciono in attesa in graduatoria. La polemica è già partita, con questi ultimi a chiedere di entrare di diritto. In ogni caso, per il mega concorso si attendono fra i 160mila e i 200mila candidati. Intanto le famiglie italiane con figli in età scolare fanno i conti un grande classico dell’avvio dell’anno scolastico: il caro libri. Il Codacons ha stimato che quest’anno l’incremento di spesa sarà di circa 100 euro. Non tanto per lo sfondamento dei tetti stabiliti dal ministero, quanto per il divieto di utilizzare unicamente testi stampati. Il Miur ha infatti stabilito a maggio che le scuole devono adottare libri di testo in formato misto o scaricabili da internet. Gli insegnanti hanno dovuto cambiare i testi adottati o scegliere le edizioni più aggiornate, dotate di contenuti multimediali.

da Europa Quotidiano 31.08.12

"La procreazione davvero responsabile", di Chiara Saraceno

Il quotidiano Avvenire, con la consueta pesantezza di toni quando si tratta di diritti dell’embrione e di status della “vita nascente”, ha agitato lo spauracchio dell’eugenetica nel caso l’Italia adeguasse la legge 40 sulla fecondazione assistita per rispondere ai rilievi critici della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il ministro della Sanità si è subito accodato, senza un attimo di riflessione. Tra l’accusa di omicidio e quella di pratiche eugenetiche sembra non ci siano soluzioni possibili — salvo la castità e la non procreazione — per chi, consapevole della potenzialità distruttiva dei propri geni, vuole evitare di generare figli destinati quasi subito a morte orribile e certa. Il fantasma di Mengele e dei suoi “esperimenti” nei campi di sterminio viene sovrapposto a quello di aspiranti genitori responsabili, che non vogliono un bambino perfetto, ma solo un bambino che abbia la possibilità di crescere. E non vogliono neppure accettare l’ipocrita, e fisicamente e psicologicamente costosa, scappatoia offerta dalla contraddittorietà delle leggi italiane. Mentre una vieta la diagnosi pre-impianto e la stessa fecondazione assistita ai portatori sani di malattie gravi che mettono a rischio i nascituri, un’altra consente l’aborto di feti che abbiano queste stesse malattie. È questa contraddittorietà ipocrita — per altro ampiamente nota al legislatore italiano, come ha ammesso lo stesso ministro della Salute — che è stata giudicata inaccettabile dalla Corte europea. Così come è stato giudicato inaccettabile che sia sottratta agli aspiranti genitori la decisione ultima rispetto alle condizioni in cui mettere al mondo un figlio, incluse le conoscenze necessarie per valutare ragionevolmente i pro e i contro.
L’idea che ci sia una responsabilità non solo verso i figli che si mettono al mondo, una volta nati, ma prima ancora rispetto alla stessa decisione di metterli al mondo è una conquista culturale relativamente recente. Implica che ci si interroghi non solo sullo spazio che si è in grado di fare nella propria vita al nuovo nato, ma sulle condizioni in cui, appunto, lo si mette al mondo. Condizioni materiali, sociali, relazionali, ma anche di possibilità ragionevoli di sopravvivenza e di protezione da sofferenze gravi durante il processo di crescita. Come si può giudicare egoista o irresponsabile, o peggio ancora un epigono di Mengele, un genitore che vuole evitare non solo a sé lo strazio di perdere un bambino fortemente voluto, ma soprattutto a questo bambino di morire soffocato dalla propria incapacità a respirare (è il caso della fibrosi cistica)?
Certo, come tutte le conoscenze, anche quella sulle caratteristiche sanitarie e il sesso degli embrioni può avere effetti perversi, non sulle norme in sé, ma sui comportamenti. Esattamente come già oggi l’amniocentesi può dare di fatto luogo ad aborti selettivi, non solo per motivi compassionevoli, come nel caso ricordato dalla Corte Europea, ma eugenetici, ed anche per sessismo culturale. È il caso degli aborti di embrioni di femmine in molti Paesi, e presso gruppi sociali, in cui la vita di una donna non conta nulla e una figlia femmina è percepita come una disgrazia. La soluzione non è mantenere le persone nell’ignoranza. Abbandoni, uccisione di neonate femmine o disabili, maltrattamento di bambine, ragazze, donne fanno parte purtroppo della storia dell’umanità ben prima, e indipendentemente, dell’accesso alle conoscenze mediche sugli embrioni. Contrastare questi abusi richiede forme di controllo efficaci, ma anche mutamenti culturali profondi e una diversa distribuzione di risorse, non un aumento dell’ignoranza e dei vincoli alla assunzione di responsabilità da parte degli individui. Al contrario, questa responsabilità va coltivata e fatta maturare con tutti i mezzi possibili.
Per altro, la diagnosi pre-impianto, dato che avviene solo in caso di embrioni fecondati al di fuori dell’utero e di un rapporto sessuale, riguarda casi molto più circoscritti e individuabili dell’amniocentesi. Consentirla (dopo una sentenza di un tribunale italiano del 2009) a chi ricorre alla fecondazione assistita perché ha difficoltà a procreare per le vie “naturali”, e non a chi rischia di procreare bambini destinati a sofferenze e morte precoce certa, non risponde ad alcuna logica.
È troppo sperare che il ministro della Salute e il governo di cui fa parte, prima di decidere se ricorrere contro la sentenza della Corte europea, si interroghino su quanto di irrispettoso della vita umana e del senso di responsabilità individuale ci sia nella legge 40? Senza cedere ai ricatti morali più o meno ipocriti di chi agita lo spettro dell’eugenetica per nascondere la propria incapacità a rispettare la durezza dei dilemmi in cui si trovano molti aspiranti genitori e la delicatezza di quella scelta complessa, per nulla solo biologica, e comunque non di pertinenza dello Stato, che riguarda il generare un figlio.

La Repubblica 31.08.12

"Crisi, si fa presto a dire riconversione. Ecco i pochi che ce l’hanno fatta", di Giovanni Cocconi

Crisi, si fa presto a dire riconversione. Ecco i pochi che ce l’hanno fatta. Dalle Fonderie Zen di Padova all’Eni di Porto Torres. Ma per l’industria pesante è molto più difficile. No, la soluzione non può essere solo il parco tematico. Nessuno si sente di sottoscrivere la proposta per le miniere del Sulcis ventilata l’altro giorno da Giulio Sapelli sulle pagine del Corriere della Sera. Però, certo, il paesaggio industriale italiano uscirà trasformato dalla grande crisi che sta attraversando, una gigantesca selezione naturale che lascerà sul campo morti, feriti e pochi sopravvissuti. C’è chi, come il columnist del Financial Times Peter Marsch, l’ha definitaThe new industrial revolution, titolo di un libro uscito a giugno secondo il quale questa crisi segna la fine della produzione di massa e l’ingresso in una nuova era, dove sarà premiato il connubio tra tecnologia e capitale umano, tra beni e servizi, e dalla quale l’industria pesante uscirà molto ridimensionata. Un libro che cita anche casi di successo in Italia. «Le miniere di carbone stanno chiudendo in tutto il mondo» dice lo storico dell’economia Giuseppe Berta «ma la risposta alla crisi industriale della Sardegna non possono essere i villaggi dei minatori delle Asturie. Il problema è infrastrutturare il territorio per ospitare altre attività economiche». Già, ma quali e soprattutto come? Un caso che ha fatto scuola è quello delle Fonderie Zen di Albignasego, provincia di Padova, in grave crisi nel 2009, con gli operai finiti in cassa integrazione che minacciano di saltare in aria insieme alle bombole a gas, salvata dal fallimento proprio da dipendenti e dirigenti e gestita con un modello che molti avvicinano alla co-gestione di tipo tedesco.
Alla maggioranza degli italiani nomi come Cooprint (Siena), D&C di Vigodarzere (Padova), Fantuzzi Reggiane (Reggio Emilia), Dalla Pietà Yachtas (Venezia) non dicono nulla, eppure si tratta di piccole aziende manifatturiere riconvertite con successo durante la crisi. Il problema è che in nessun caso si tratta di industria pesante. «La trasformazione delle miniere in un parco a tema non mi scandalizza, è già avvenuta da altre parti – spiega il sociologo Aldo Bonomi – ma non si tratta di ristrutturazioni industriali e, come insegna Schumpeter, l’economia dei servizi non sostituisce gli addetti della manifattura. Un caso di successo in Sardegna è quello del polo di Porto Torres dove l’Eni ha creato la cosiddetta chimica verde. Nel caso della lavorazione dell’acciaio la zona di Brescia offre esempi di successo ma tutti accompagnati da evoluzione del sistema produttivo e da pesanti dismissioni».
Operai associati in cooperativa hanno salvato il proprio lavoro alla Greslab di Scandiano e alla Art Lining di Sant’Ilario d’Enza, entrambe nel Reggiano. Capitali iraniani hanno salvato la Lofra cucine di Torreglia, nel Padovano, i cinesi della Wantong Group hanno comprato per quattro soldi da un’asta fallimentare la Dalla Pietà Yachts di Venezia, mentre la multinazionale americana Terex ha rilevato rilanciandolo un ramo d’azienda di una società specializzata nella produzioni di gru, la Fantuzzi Reggiane. «Però è più facile trovare casi di insuccesso di investimenti stranieri in Italia. In generale le multinazionali comprano aziende in fasi di espansione, spesso pagando cifre fuori mercato» spiega Marco Mutinelli, docente al Politecnico di Milano, che con Sergio Mariotti cura tutti gli anni il volume Italia multinazionale (la prossima edizione è in uscita a ottobre) sugli investimenti stranieri nel nostro paese. Un caso di insuccesso da manuale è quello del Nerviano Medical Sciences, il centro di ricerca oncologica alle porte di Milano, che ha divorziato da Pfizer e oggi è in mano alla regione Lombardia in cerca di investitori. Per trovare altri esempi di successo, invece, bisogna tornare ancora più indietro nel tempo, durante i tempi di relative vacche grasse. Il caso del Nuova Pignone, per esempio. Erano gli anni Novanta, anni bellissimi.

da Europa Quotidiano 31.08.12

"Tuteliamo chi lavoro per il Made in Italy", di Carlo Petrini

Cresce in tutta Italia la sensibilità verso il mantenimento del paesaggio rurale contro la perdita di suolo agricolo e la cementificazione. Il Bel Paese sta perdendo la bellezza delle sue campagne, di coltivi secolari e borghi antichi. Più volte ho avuto modo di sottolineare che il mutamento del paesaggio è il frutto di un processo economico che ha impoverito le nostre campagne di quell’umanità contadina che garantiva non solo la bellezza dei luoghi, ma anche l’assetto idrogeologico dei terreni, i saperi e la memoria.
Negli ultimi anni molte produzioni agricole sono presidiate e garantite da lavoratori stranieri, cosicché, mentre i media, i gastronomi e i politici esaltano il made in Italy alimentare,
gli artefici di questo sistema sono i lavoratori di altre nazioni e continenti. Nelle mie Langhe la produzione dei vini pregiati è garantita da una comunità di oltre diecimila macedoni con le loro famiglie; nelle stalle per le vacche da latte emiliane si trovano gli indiani Sikh; maghrebini e polacchi nelle malghe valdostane. Insomma, molti dei nostri gioielli gastronomici sono prodotti da cittadini stranieri. Nei casi sopracitati, l’integrazione è garantita da imprenditori agricoli sensibili e rispettosi dei diritti dei lavoratori. Viceversa, quando si tratta di lavori stagionali, il grado di inciviltà di molti datori di lavoro è veramente impressionante. Fenomeni di caporalato nel Sud d’Italia, luoghi di accoglienza indecorosi, norme contrattuali violate e lavoro in nero. Il fenomeno si va estendendo in diverse parti del Paese, con la raccolta di frutta e verdura. Alcune settimane fa, nelle campagne di Alessandria fioccarono denunce da parte di braccianti verso aziende senza scrupoli, che speculavano sul lavoro, nel totale disprezzo delle norme. Da due anni, nella civilissima Saluzzo, nel cuore della provincia di Cuneo, la raccolta della frutta vede convergere centinaia di lavoratori africani che vengono accampati alla bell’e meglio in aree marginali della città. I comuni del territorio e la Caritas hanno messo in atto un po’ di ospitalità. Ma questa è stata insufficiente a garantire una sistemazione decorosa ai migranti. Questo encomiabile sussidio non può essere la regola dell’accoglienza, è compito primario dei datori di lavoro garantire un tetto a questi lavoratori, rispettare i contratti e le obbligazioni di legge. Vedere questi giovani dormire per terra su cartoni, senza riparo, costretti a cucinare all’aperto, senza luce e servizi igienici, senza assistenza medica (se si escludono alcuni medici volontari) è uno spettacolo indegno per un Paese civile.
Il colpo d’occhio di questa specie di accampamento ricorda il grande film tratto dal libro di Steinbeck, Furore, dove masse di profughi senza lavoro cercano nella grande campagna californiana il Paese che avevano sognato. Troveranno solo miseria e guerra tra poveri. Vorrei ricordare ai conterranei quel testo del cantautore cuneese Gian Maria Testa che per primo ha espresso solidarietà a questi lavoratori: «Eppure lo sapevamo anche noi? l’odore delle stive,? l’amaro del partire. […]? e la nebbia di fiato alle vetrine? il tiepido del pane? e l’onta di un rifiuto». Lo sapevamo anche noi, ma la memoria del nostro popolo è debole e occorre reagire con fermezza per ravvivarla. Spero che i sindacati assumano la tutela degli emigranti con più determinazione. Oggi i personaggi del Quarto stato di Pellizza da Volpedo avrebbero la pelle nera come questi contadini.
Chiedo alle organizzazioni agricole, specialmente se hanno tra gli associati questi produttori di mele e kiwi, di non fare come gli struzzi e mettere la testa sotto la sabbia. Provvedano a porre in essere tutte le condizioni per assicurare il rispetto e la dignità di queste persone. Ricostruiscano un tessuto sociale con la sussidiarietà della società civile ma con la responsabilità primaria e gli oneri a carico dei proprietari dei frutteti, nessuno escluso.
Solo così si estirperanno i pregiudizi che stanno alla base di comportamenti antidemocratici che impediscono una corretta integrazione. Solo così si sanerà una ferita che non fa onore alla grande tradizione contadina di questo angolo di Piemonte.

La Repubblica 31.08.12

"Il welfare pensiero", di Gustavo Zagrebelsky

In un “festival della mente”, è naturale parlare di idee. Che cosa, infatti, sono le idee, se non ciò che viene dalla mente, che è “prodotto” o “scoperto” dalla mente? Come si dice, ordinariamente, “viene in mente”? Ma, possiamo anche, in certo senso, rovesciare l’affermazione e dire che la mente è ciò che viene dalle idee, che senza idee non c’è mente. Quando usiamo una parola così violenta come de-mente, non intendiamo forse uno per la cui mente non passa alcuna idea? Dunque, possiamo dire che mente e idee sono tutt’uno, che si tengono insieme e, in sintesi, che la mente tende alle idee e in esse trova il suo compimento, la sua realizzazione.
In queste prime frasi della mia relazione, desidero tessere un elogio delle idee, considerandole beni che possono dare felicità, talora molta felicità.
Gli antichi, con perfetta ragione, dicevano che la felicità è il completamento di ciò che è “per sua natura”, cioè è la realizzazione di ciò cui la nostra natura aspira. Possiamo, allora, dire che nelle idee noi troviamo la felicità, per la parte che riguarda la mente. Uno dei primi trattati sulla felicità, il dialogo Gerone, il tiranno del poeta lirico Simonide (VI-V secolo a. C.), tratta per l’appunto dei beni che fanno la felicità, quando li si possiede, e l’infelicità, quando mancano. Non esistono beni di questo genere in assoluto: dipende dalla natura degli esseri umani. Le persone sensuali troveranno i loro beni «con gli occhi per ciò che vedono (gli spettacoli), con gli orecchi per ciò che sentono (la musica), col naso per gli odori (i profumi), con la bocca per ciò che ingurgitano (il cibo e il vino) e con ciò che tutti ovviamente conosciamo in ragione del sesso (i corpi degli amati). C’è poi il sonno, che genera felicità per il corpo e per l’anima, anche se è difficile dire come e perché, forse a causa del sonno stesso che rende le sensazioni meno chiare di quanto siano nella veglia». Ma poi conosciamo persone per natura superbe e arroganti. Costoro trovano la felicità nel concepire grandi progetti, portarli rapidamente a termine, avere il superfluo in abbondanza, possedere cavalli d’ineguagliabile velocità, armi d’incomparabile potenza e bellezza, gioielli squisiti per le proprie amanti, dimore magnifiche, i servi migliori, poter danneggiare i propri nemici più di ciò che a chiunque altro sia consentito, essere ammirati dal maggior numero possibile dei propri simili. Ancora: ci sono le persone spirituali, per le quali i veri beni sono quelli dell’anima, l’amicizia, l’amore, la saggezza, la contemplazione, la filosofia, l’armonia con i propri simili, l’agricoltura, come armonia con la natura.
Ma, nei tanti elenchi che riguardano quelli che consideriamo i beni della nostra vita, non troviamo mai le idee. Invece, possono dare anch’esse felicità, per qualcuno e in qualche momento, anche più di altri beni alle, per così dire, persone di pensiero. Ciò
vale per le idee in quanto tali, indipendentemente dal fatto che siano vere o false, giuste o ingiuste, buone o cattive. Non si tratta di giudizi sul contenuto delle idee, ma d’idee in quanto tali. I giudizi vengono dopo.
Permettete un riferimento personale alla mia attività nell’ambito dell’Università. Ho ormai preso l’abitudine, poiché il tempo passa, la memoria diminuisce e l’improvvisazione è sempre più pericolosa, di preparare le lezioni e di scriverne la traccia, per poterla usare quasi come una rete di sicurezza. Ebbene, una mattina, mi sono trovato senza. Non sapevo doveva era sparita, la sera prima. Ho proposto allora agli studenti di fare così: prendere l’ultimo argomento
trattato (era la pena di morte, un argomento davvero inesauribile) e di ragionarci su insieme, lasciando per così dire libero il pensiero di svilupparsi da sé, da un’idea all’altra. Abbiamo insieme, per due ore, “prodotto idee” con molta nostra soddisfazione d’esseri pensanti, riconosciuta da tutti (aggiungo: purtroppo con soddisfazione maggiore di quella che davano le lezioni “normali”). Chi abbia fatto una qualche simile esperienza di scoperta d’idee, che può giungere anche a punte d’esaltazione, non avrà dunque difficoltà nel considerare le idee “beni della vita” e l’elaborazione d’idee qualcosa cui può essere dedicata, in tutta o in parte, la propria esistenza, non meno degnamente di come altri la dedicano all’autorealizzazione in altri aspetti dell’umana natura.
Invece, nella comune accezione, le idee non entrano affatto a far parte dei beni della vita. Anzi: sembrano stancare, essere perdita di tempo, divagazioni senza costrutto; nella migliore delle ipotesi, qualcosa di cui la gran parte delle persone può fare facilmente a meno, per essere riservate solo a qualcuno, coloro che chiamiamo, non senza una certa dose di sottinteso disprezzo, gli “intellettuali”.
Da qualche tempo, il tempo in cui tutto, per esistere, sembra dover essere misurabile, quantificato, ci si dà da fare per “calcolare” la felicità degli esseri umani. Perfino i governi si dedicano a questo compito, evidentemente in vista di “politiche per la pubblica felicità”, secondo gli intenti dei “principi illuminati” del ’700. Ora, questa politica si vorrebbe impiantare su basi scientifiche e, a questo scopo, si usano mezzi demoscopici, insomma sondaggi. Il 26-27 marzo 2010 una sessantina di psicologi, politici, filosofi, economisti si sono riuniti a Rennes, in Bretagna, per discutere del tema: Le bonheur: une idée neuve.
Per la verità, già Saint Just, sulla fine del ’700, aveva esclamato: «la felicità è un’idea nuova in Europa». “Felicità” è una delle parole più ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo.
Ora ritorna d’attualità, sotto specie di “benessere”. Il governo Sarkozy ha commissionato a tre dei maggiori intellettuali del nostro tempo: Stiglitz, Sen e Fitoussi un rapporto, reso pubblico nel settembre 2009, destinato a suggerire criteri per il ricalcolo del benessere collettivo, sottraendolo alle regole puramente produttivistiche del Pil. Si è andati al di là, suggerendo di prendere in considerazione non solo la misura del prodotto e del consumo di beni materiali, ma anche i cosiddetti “beni relazionali” come i rapporti sociali e il tempo libero, la pubblica sicurezza, ecc. Altri, hanno aggiunto la salute pubblica, l’istruzione, la certezza del lavoro, la casa, la vivibilità delle città, il verde pubblico, gli affetti familiari e la loro stabilità, ecc. A nessuno sono venute in mente le idee. Sembra che siano irrilevanti. Capisco che sono difficilmente censibili (forse non diversamente da altre cose che si considerano “beni”) e che, ancor meno, possono essere prodotti di politiche pubbliche (anche se, però, le politiche pubbliche possono favorire il loro fervore). Eppure, comprendiamo facilmente che una vita senza idee, una società che non libera da sé idee, sono letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere a se stesse, come colonie. Se confrontassimo le diverse società e le loro diverse epoche dal punto di vista del loro fervore ideale, potremmo, per quanto approssimativamente, stabilire un più e un meno; cioè, in fondo, potremmo stilare classifiche e, per esempio, interrogarci sullo stato della nostra società, nel nostro tempo. Forse, la risposta sarebbe rattristante.
Ma, in generale, che cosa ci dice questo silenzio sul valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo? Forse che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella realtà ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e che di quella libertà non sa che farsi.
Lasciamo stare. Ognuno dia la sua risposta. Cerchiamo invece di entrare nel grande mondo delle idee, non per quel che riguarda la loro origine – se prodotte dalla fisica o dalla metafisica: questione delle neuroscienze o della filosofia – ma attraverso qualche suddivisione concettuale, che ci consenta di gettare un po’ di luce in un fascinoso mondo di realtà impalpabili.
Si possono fare distinzioni basate sui più diversi criteri. Ora, assumeremo un criterio, per così dire, funzionale che corrisponde alla domanda: a che cosa servono le idee? Le idee possono essere collocate come su una scala a tre gradi maggiori, con gradini minori, a seconda che, a partire dal basso verso l’alto, valgano per conoscere, per risolvere e per progettare “cose”. L’immagine della scala non deve suggerire l’idea d’una distribuzione secondo una minore o maggiore dignità delle idee, a seconda del posto che esse vengono a occupare. Nella scala i gradini più in basso sono indispensabili per salire su quelli più alti e quelli più in alto non sarebbero raggiungibili senza quelli più in basso. Come l’immagine della scala anche suggerisce, i gradini non sono separati da divisioni insormontabili. Anzi, servono per passare dall’uno all’altro, in salita e in discesa. Dobbiamo ora passare a vedere come.

La Repubblica 31.08.12

Biennale architettura: Ghizzoni, politica e istituzioni prendano esempio

Rimettere al centro la persona e le sue esigenze. Quest’anno la Biennale architettura rimette al centro la persona, le sue esigenze. – Lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, dopo aver partecipato all’inaugurazione degli spazi espositivi della Biennale Architettura – Eventi come questa Biennale rappresentano una grande opportunità per il nostro Paese, che ha tutte le capacità di diventare un grande laboratorio internazionale di visioni sul futuro, sapendo coglierne gli stimoli offerti dai Paesi partecipanti.
La Mostra – sottolinea Ghizzoni – pone in rilievo l’esigenza di una relazione continua tra architettura e società, una connessione necessaria per ricreare un rapporto virtuoso tra i cittadini e i professionisti, tra la vita quotidiana e l’architettura. È una mostra a cui le istituzioni dovrebbero guardare con interesse – conclude la presidente Ghizzoni – non solo per il valore artistico, ma anche per la capacità di ripensare la polis in modo partecipato.

"Guarda chi si rivede al cinema: la signora politica", di Curzio Maltese

Come chiamarla? Nostalgia per la politica? C’era più politica in due film di Venezia, Il fondamentalista riluttante di Mira Nair e Water di un collettivo di israeliani e palestinesi, di quanta ne abbiamo vista agitarsi nell’ultimo anno di risse televisive e in rete. Quella vera, intendo. Non il gioco di potere fra burocrati e demagoghi, politicanti e antipoliticanti in gara per esibire l’ego più arroventato. Ma la politica intesa come passione umana, quella che c’entra con l’amore per una donna, un uomo, i genitori o un figlio, la terra e la cultura, insomma con la vita. Arte e politica hanno in comune questo, di finire dove comincia il disprezzo per l’altro. Nel Fondamentalista riluttante non c’è un solo istante di disprezzo per l’altro. Neppure nella scena più scandalosa della storia. Quando il giovane pachistano Changez, laureato a Princeton e lanciato verso una carriera da squalo di Wall Street, vede alla televisione il crollo delle Torri Gemelle. E sorride. Una reazione inattesa, di cui subito si vergogna. Un tempo si pensava che una risata potesse seppellire i regimi. Il sorriso inatteso di Changez lo costringe a guardarsi dentro e a fare la propria rivoluzione, rinunciando al baratto fra identità e carriera. Tornato in patria come professore, si avvierà sulla difficile strada della lotta a ogni forma di fondamentalismo. Quello fanatico religioso e il fondamentalismo dell’impero americano e del suo autentico braccio armato, la finanza. Senza smettere per questo di amare a modo suo l’America, di sentirsi un “vero newyorkese”.
Le immagini di Mira Nair non sono travolgenti come la novella di Hamid, la più bella scritta sulle conseguenze dell’11 settembre. Nella necessità di confezionare anche un film per le sale americane, si perde l’assoluta bellezza di una storia d’amore, quello fra Changez e la bella americana Erica, narrata con un’intensità ormai sconosciuta alla letteratura occidentale. Se ne va un po’ della voluta ambiguità dell’originale, che è in forma di confessione del protagonista a un misterioso interlocutore americano, forse un sicario o al contrario la vittima di un agguato. In modo da lasciare sino alla fine nell’incertezza il lettore su quale dei commensali sia l’assassino.
Ma rimane sullo schermo la grandezza politica e morale della storia. Un magnifico, rivoluzionario elogio del dubbio. Un Conrad rovesciato, dov’è un giovane Kurtz pachistano a rivelare il cuore di tenebra dell’Occidente. Altro esempio di bella politica è Water, film minuscolo al confronto, frutto dell’incontro fra giovani registi israeliani e palestinesi. Sette episodi, alcuni straordinari, leggono l’eterno conflitto dal punto di vista della lotta per l’acqua, che sta per sostituire il petrolio nel motivo scatenante delle guerre future. Un progetto voluto dall’università di Tel Aviv, uno dei più avanzati centri di ricerca del mondo nel settore del risparmio idrico. Anche qui non si trovano spiegazioni facili, torti e ragioni ben separate, comode teorie del complotto.
Ora non resta che confrontare questi sguardi alti e intelligenti sui problemi del mondo con la miserabile bolgia d’insulti vomitati ogni giorno dal menu dei media sotto l’etichetta di “politica”. Ripensare alla retorica violenta che la peggiore pubblicistica rovesciò dopo l’11 settembre contro l’intero mondo islamico, a colpi di demonizzazioni e spettri ridicoli di Eurabia. Guardare ai tanti furbi venditori di rancore che si arricchiscono usando nuovi strumenti commerciali per ripetere la più antica sciocchezza del mondo: noi siamo solo buoni, loro sono i cattivi. E magari vergognarsi un po’.

La Repubblica 30.08.12