A Benigni che alla festa del Pd gli faceva bonariamente il verso («Lui ti tende la mano, è fatto così. A me ha detto: come stai vecchio cadavere putrefatto salma piduista?»), Grillo ha risposto senza un sorriso ma con la solita, banale e – questa sì – tipicamente fascista litania del «chi paga?». In effetti Benigni si fa pagare i suoi spettacoli dagli spettatori, esattamente come Grillo. Coltivare idee di sinistra, o comunque idee, non costituisce ancora una ragione per lavorare gratis. In questa disputa politica surreale di fine estate, Benigni si muove con la leggerezza di un cartone animato che ha studiato abbastanza per diffidare dei fanatici ma in fondo anche per compatirli. Grillo invece ha smarrito la levità corrosiva degli esordi, sostituendola con una maschera soffocante di livore. Il suo brontolio cupo e monocorde gli permetterà di raccogliere voti fra le macerie di un’Italia disperata, ma gli ha sottratto quell’energia positiva che sola consente di rimettere insieme le persone e le cose. Di ricostruire. Se Benigni è Pinocchio, e ne condivide le ingenuità e le furbizie, i fallimenti e le rimonte, Grillo non è il Grillo Parlante ma un Gabibbo barbuto che si è spogliato dell’autoironia per indossare i paramenti del vescovo della Rete. Sprezzante, assertivo, inutilmente volgare, unico illuminato in un mondo di anime perse e oscuri complotti. Ciò detto, lo considero innocente. Da una vita recita testi non suoi. Il dramma è che da troppo tempo a scriverglieli non sono più Antonio Ricci e Michele Serra, ma Casaleggio, il guru di Cinque Stelle. Uno che basta guardarlo in foto una volta per averne paura per sempre.
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"Chi lavora per un’uscita neo-giacobina dalla crisi", di Michele Ciliberto
Merita una breve riflessione la vivace discussione sulle posizioni politiche di Grillo e sul linguaggio che usa sul suo blog. Quali ne sono gli obiettivi, di quale ideologia esso è espressione (posto, naturalmente, che, come io penso, una domanda di questo tipo abbia senso)? Volendo usare una formula, approssimativa come tutte le formule, credo si possa qualificarla come una ideologia di tipo neo-giacobino.
Ora, perché il movimento di Grillo, basato su una ideologia di questo tipo cresce e si espande? La risposta sembra semplice e scontata: per la crisi della democrazia italiana di cui è al tempo stesso effetto e motore, e per il disprezzo oggi così diffuso verso la politica e le istituzioni rappresentative. Giusto. Ma non è una risposta sufficiente; bisogna approfondire, e per farlo occorre sottolineare questo termine: «rappresentativo», perché qui sta il punto decisivo.
Quelli che si riconoscono in Grillo sono contro la democrazia rappresentativa ma non, in generale, contro la democrazia. Sono per la democrazia diretta, e non è una differenza da poco. Anzi, essi contrappongono democrazia diretta imperniata sul web e democrazia rappresentativa, vedendo in questa l’origine di tutti i mali. L’antipolitica di cui tanto si parla, al fondo, è precisamente questo: un rifiuto drastico, e totale, della democrazia rappresentativa. In questo senso, l’ideologia di Grillo è un effetto e, al tempo stesso, una proposta di soluzione della crisi della sovranità aperta da tempo in Italia e acuitasi al massimo con la decomposizione del berlusconismo. Sta qui l’origine delle sue scelte politiche e anche del suo linguaggio: la democrazia diretta, infatti, è strutturalmente estremista, oltranzista, e sfocia naturaliter nel dispotismo perché cancella la divisione tra i poteri, come ci hanno spiegato i classici.
Da questo punto di vista l’ideologia di Grillo è spia, e indice, di processi profondi della nostra società, e perciò riscuote consensi. Quelle che oggi sono in discussione sono infatti le forme di soluzione della crisi della democrazia italiana e le prospettive, e le alleanze, attraverso cui questo può avvenire. Problema, e discussione, assai vasti perché in campo è una pluralità di opzioni (compresa, ovviamente, quella di tipo tecnocratico). Qui mi soffermo però solo su questa alternativa: se si debba procedere in direzione della democrazia diretta e verso una soluzione in termini neo-giacobini della crisi (senza peraltro che sia stato chiarito di cosa, in effetti, si tratti); o se si debba lavorare, e in che modo, per ricostruire le basi, e le forme, della nostra democrazia rappresentativa.
Ridotti all’osso, e semplificando, sono questi i termini dello scontro che c’è stato in questi giorni. Oggi si contrappongono frontalmente, e in modo violento, opposte opzioni su quali debbano essere, dopo la decomposizione del berlusconismo, le fondamenta della Repubblica, a cominciare dai rapporti fra i poteri: esecutivo, legislativo, giudiziario. È perciò che in questo periodo si sono intensificati, da un lato, la frantumazione e la scomposizione dei vecchi schieramenti; dall’altro la tendenziale ricollocazione di tutte le forze in campo, con il prodursi di convergenze e, parallelamente, di conflitti che fino a poco tempo fa sarebbero apparsi impensabili.
Qualora questa analisi abbia un fondamento un punto appare chiaro: se nel quadro di una normale dialettica politica le forze che si dichiarano progressiste intendono fermare il movimento di Grillo, o limitarne il consenso, esse devono avere la piena consapevolezza della posta in gioco che tocca il problema della sovranità nel nostro Paese, e richiede perciò di essere considerata a un duplice livello. Quello che segnala la crescita del movimento di Grillo è, precisamente, questa forte esigenza di democrazia diretta presente, in varie forme, nel nostro Paese. Questo è, oggi, il problema di fondo per le forze che si dicono progressiste, sia sul piano teorico che su quello politico. E in questo quadro anche le primarie possono essere uno strumento importante, ma senza pensare che esse possano risolvere, da sole, un problema vasto e complesso come questo.
Quella che è aperta in Italia è una partita assai difficile, che peserà sul futuro. Ma non si tratta di un problema solo italiano. Il partito dei pirati che ha conseguito un importante, e sorprendente, risultato alle ultime elezioni amministrative a Berlino, ha fatto suo il motto di Willy Brandt: «Osare più democrazia», sostenendo una visione radicale della democrazia diretta attraverso l’uso di internet e una riduzione dei propri rappresentanti alla funzione di delegati, cancellando anche in questo caso il momento della mediazione. In altri termini, il partito dei pirati ha rovesciato in modo integrale il rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa.
Questa è la posta in gioco, anche in Italia. E ha ragione Roberto Weber: sbaglia chi dà per acquisita la vittoria delle forze progressiste. In Italia una soluzione neo-giacobina (continuo a usare questa formula approssimativa) può anche prevalere. È diventato ormai di moda usare il termine populismo in modo indifferenziato (le parole si consumano!) e i neo-giacobini ne sono, certo, una specie; ma assai particolare. Se sono pericolosi per la democrazia rappresentativa, come i tecnocrati o altri tipi di populisti, non lo sono pero allo stesso modo. Siamo seduti su un vulcano; bisognerebbe prenderne coscienza, una volta per tutte.
L’Unità 30.08.12
"È arrivata l’ora di cambiare la legge 40", di Roberta Agostini
La Corte di Strasburgo ha messo a segno un altro colpo contro la legge 40. E’ solo l’ultimo atto di una storia di demolizione di una legge crudele ed ingiusta che dura ormai dal 2005, da quando cioè le coppie hanno cominciato a presentare ricorsi e i tribunali ad emettere sentenza sui punti più controversi ed assurdi. La Corte di Strasburgo ci offre l’occasione per riprendere un dibattito, provando ad uscire dalle forzature ideologiche e dalle contrapposizioni che hanno dominato la storia della legge, a partire dalla discussione parlamentare che si svolse durante la sua approvazione.
La Corte ci dice che c’è una sfera della vita e delle relazioni tra le persone che deve essere rispettata e riconosciuta, che non è possibile consentire la diseguaglianza tra le coppie (ora solo le coppie sterili possono accedere alle tecniche, non chi è portatore di malattie geneticamente trasmissibili), che la tutela della salute è un valore fondamentale, così come il rispetto del rapporto medico-paziente.
Per capire la necessità della modifica della legge basterebbe partire da questi tre principi di fondo e prendere atto della storia di questi anni e delle sentenze a partire da quella della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la norma che obbliga all’impianto contemporaneo di tre embrioni che hanno praticamente smantellato il testo e profondamente messo in discussione il suo impianto regressivo.
Basterebbe prendere atto della realtà di migliaia di coppie che compiono in tanti Paesi europei, e non solo, i cosiddetti viaggi della speranza, per rendersi conto che la legge va profondamente cambiata. Chi si sottopone alle lunghe e spesso dolorose tecniche di fecondazione assistita non sta cercando un figlio con gli occhi azzurri, ma semplicemente un figlio, possibilmente sano.
La lezione di questi ultimi anni, quelli che ci separano dal referendum del 2005 e che vide protagonisti molti scienziati, ginecologi, medici, dove misurammo una contrapposizione ideologica e spesso un uso politico della religione intorno ai cosiddetti «valori non negoziabili», sta in questi pronunciamenti della giurisprudenza, nei valori di laicità della nostra Costituzione, nella tenacia di tante coppie che sono state decise nel far valere i propri diritti.
La fiducia verso la responsabilità delle persone ed una legislazione non invasiva dovrebbero essere i principi in base ai quali ridiscutere e modificare le parti più controverse della legge, compreso il divieto di fecondazione eterologa, che ad oggi è uno dei principali motivi dei viaggi all’estero delle coppie che se lo possono permettere. Prima di fare ricorso alla Grande Camera europea, il governo dovrebbe riflettere molto bene sulla storia di questa legge e su quanto avvenuto in questi anni.
La legge 194 fu conquistata in un grande dibattito pubblico, che fece i conti con la vita concreta di tante donne che allora morivano a causa degli aborti clandestini ed ha saputo superare barriere ideologiche sulla base di un principio di fiducia verso le persone, di autodeterminazione, libertà e responsabilità, che ha prodotto una buona legge, consentendo oggi il dimezzamento del numero interruzioni di gravidanza; semmai è aperto il problema di una sua piena attuazione. Fu un passo che segnò un salto di maturazione e di consapevolezza del Paese. La nostra responsabilità, come partito nel quale vivono insieme culture, storie e provenienze diverse è quella di raccogliere la migliore eredità della nostra storia ed aiutare il Paese a compiere nuovamente questo salto provando a riscrivere una buona legge.
L’Unità 30.08.12
"Il pericolo di tanti piccoli Sulcis", di Marco Alfieri
La chiamano polveriera Sulcis, minatori e operai disposti a fare «gesti pazzi» per difendere dignità e posti di lavoro. Una bomba sociale tutt’altro che inattesa. In questo scorcio di Sardegna ruvida, nella latitanza di istituzioni e programmazione economica sta infatti collassando quel che resta dell’industrializzazione forzata: la riconversione flop dopo la fine delle attività estrattive di metà Anni 90; la filiera dell’alluminio di Portovesme incardinata intorno ad Alcoa, il gigante americano che in mancanza di offerte di subentro il 3 settembre avvierà lo spegnimento degli impianti; e adesso le proteste in Carbosulcis, l’ultima società carbonifera in produzione. Nel 1995 Eni l’aveva ceduta alla Regione che ogni anno spende parecchi milioni per mantenere le attività estrattive. Costretta da Bruxelles alla privatizzazione per evitare l’infrazione «aiuti di stato», ha bisogno del via libera (e dei finanziamenti) al progetto di produzione di energia a basse emissioni di CO , altrimenti nessun gruppo troverà conveniente investirci dei soldi, garantendo l’occupazione ai 463 dipendenti.
Ma bisogna tornare al 1993 per capire lo sfacelo di oggi, quando al tramonto dello stato imprenditore le grandi miniere (San Giovanni, Campo Pisano, Monteponi, Masua) vengono chiuse per ragioni di costo. Governo di Roma e Regione Sardegna firmano un accordo di programma per riconvertire l’area di Carbonia e Iglesias. Anche tra i minatori alla fine vince la linea favorevole all’uscita dello Stato dalla siderurgia: dare una prospettiva ai propri figli vale il sacrificio del posto.
Peccato che le promesse di allora siano state tradite. Niente centrale termoelettrica, niente collegamenti ferroviari, niente nuove banchine a Portovesme. Persino sulla cinquantina di iniziative incentivate (fabbriche di cd, carte magnetiche, biciclette, laminati) in vent’anni si è visto quasi nulla. Ogni minatore portava in dote 50 milioni di lire: li hanno assunti, e pochi mesi dopo troppi capitalisti di rapina sono scappati con la borsa dei soldi. Nel frattempo il polo di Portovesme, nato come sbocco industriale dell’attività estrattiva, viene privatizzato. In Sardegna arrivano le multinazionali. Sembra l’avvio di un’epoca d’oro, capace di compensare la chiusura delle miniere. Sarà un altro fuoco di paglia. Eurallumina, controllata dal colosso Rusal, è ferma dal 2009 per gli alti costi dell’energia: i suoi 330 dipendenti sono in cassa integrazione. Il gigante Alcoa (500 dipendenti, 900 con il primo indotto) è invece rimasto sull’isola finché il governo ha garantito un prezzo dell’energia calmierato, risparmiando in 15 anni 2 miliardi. Ma appena l’Ue ha sanzionato Roma, ecco che decide di tagliare la corda. La stessa Ex Ila (laminati di alluminio), dopo 4 anni di fermo, pochi mesi fa ha trovato un acquirente (un imprenditore di Iglesias), ma non ci sarà futuro per i suoi 200 addetti se Alcoa non verrà rimpiazzata.
E’ una questione di filiera. Per anni Eurallumina ha venduto alla multinazionale americana per il suo ciclo produttivo, alimentato grazie all’energia fornitagli da Enel, a sua volta acquirente di carbone dalla Carbosulcis: se s’interrompe il ciclo integrato dell’alluminio, che ne sarà dei 5 mila occupati del polo industriale in una delle province più povere d’Italia? Non è un caso che le proteste in Carbosulcis scoppino ora: quando un territorio è senza sbocchi alternativi, quando non ci sono politiche di sviluppo, difendere il proprio posto di lavoro diventa questione di vita o di morte.
Al dramma locale si somma poi un’urgenza nazionale, che investe il futuro industriale del paese. L’Italia manifatturiera vuol restare nelle produzioni di base (chimica, acciaio, carta, vetro, alluminio) oppure lasciare i trasformatori «padani» in balia dei colossi cinesi? E’ questa la domanda di politica industriale che arriva da posti come il Sulcis e, in fondo, da vicende drammatiche come quelle tarantine dell’Ilva. L’industria pesante energivora beneficia di tariffe agevolate in tutto il mondo. Si sa ad esempio che gli svizzeri di Glencore sono interessati a rilevare lo stabilimento Alcoa, a patto che le istituzioni garantiscano competitività sui fattori di costo energetico come avviene in Francia e Germania. Altrimenti l’Italia è destinata a perdere altri pezzi di industria, senza il beneficio di piani di riconversione efficaci. Trasformando i territori in tanti piccoli Sulcis.
La Stampa 30.08.12
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“NAPOLITANO AI MINATORI: STO CON VOI”, di Giuseppe Vespo
Le sue parole arrivano alla fine del quarto giorno di lotta a quattrocento metri di profondità. Giorgio Napolitano segue con «apprensione» la protesta della Carbonsulcis e vuole che i lavoratori sentano la sua vicinanza: «Vorrei che i minatori del Sulcis, impegnati in una prova durissima, sapessero come mi senta profondamente partecipe della loro condizione e delle loro ansie», scrive il presidente della Repubblica in un messaggio che viene reso noto in serata. IL SULCIS senza lavoro «La loro storia – continua il Capo dello Stato – è parte integrante della storia del lavoro in Sardegna ed è espressione specialissima di attaccamento alla loro terra e di impegno umano e professionale, anche nelle condizioni più pesanti, nell’interesse generale della Regione e del Paese. Capisco perciò fino in fondo la volontà di lotta che manifestano per una causa di vitale importanza per ciascuno di essi e per le loro famiglie». Napolitano ha ben presente la situazione dell’isola, che forse soffre più delle altre Regioni il peso della crisi economica arrivata ormai al quinto anno. «In occasione della mia visita in Sardegna lo scorso febbraio, e incontrando i lavoratori di tutte le aziende a rischio – si legge nel messaggio – rilevai pubblicamente come la Sardegna sia stata colpita da una crisi che investe più che in qualsiasi regione un intero assetto produttivo e occupazionale. Di qui la necessità di un profondo ripensamento delle politiche di sviluppo seguite nel passato e di rilancio su basi nuove e più solide dell’economia regionale». Adesso l’attesa – anche quella del presidente – è per l’incontro di domani al ministero dello Sviluppo economico: «Ritengo che debba costituire un’occasione di bilancio delle verifiche e delle esplorazioni già compiute – scrive Napolitano – e dare prime risposte che possano trasmettere serenità e fiducia in un momento così drammatico specie per i lavoratori raccoltisi nella profondità della miniera». «Nello stesso tempo – conclude – sono sicuro che non mancherà da parte di nessuno, e tanto meno da parte delle forze del lavoro in Sardegna, la realistica e coraggiosa consapevolezza dell’esigenza di trovare per i problemi così acutamente aperti soluzioni sostenibili dal punto di vista della finanza pubblica e della competitività internazionale in un mondo radicalmente cambiato rispetto a quello di decenni orsono». È su quest’ultimo concetto che si concentra il dibattito politico e sindacale. Il governo per bocca del sottosegretario allo Sviluppo, Claudio De Vincenti, ritiene la riconversione della miniera di Nuraxi Figus per lo stoccaggio nel sottosuolo dell’anidride carbonica e la produzione di energia pulita, un progetto che «non sta in piedi». L’esecutivo, dice De Vincenti, punta invece ad un piano «per andare oltre l’attività estrattiva». In ogni caso «nessun lavoratore sarà abbandonato a se stesso». Parole che non sono piaciute ai sindacati, alcuni dei quali convinti invece che il progetto «Zero Emissioni» possa funzionare. Tra questi la Cisl di Raffaele Bonanni, che ritiene che «si possa costruire nel Sulcis un nuovo polo dell’energia pulita purché ci sia l’impegno dello Stato». Sulla stessa linea anche Luigi Angeletti, segretario Uil, secondo cui «la protesta dei minatori è giusta perché c’è un progetto per la produzione di energia elettrica a basso costo». Mentre Susanna Camusso, leader Cgil, riferendosi al minatore che ieri si è ferito al polso, avverte che l’assenza di lavoro «è il vero dramma del Paese». Sul fronte politico, per il Pd interviene il senatore Francesco Ferrante, che punta il dito contro «la classe politica incapace che per anni ha rappresentato quei lavoratori e che ora sembra prenderli in giro. La conversione andava fatta anni fa».
L’Unità 30.08.12
"Ribelli. Generazione Pussy Riot le nuove forme della protesta", di Adriano Sofri
In principio c’è il ragazzo di Tiananmen che balla col carro armato. Chissà chi avrebbe citato se ne avesse mai potuto parlare, in un interrogatorio o un’intervista. Non si scherza, là. Nella “dichiarazione conclusiva” di Maria Alëkhina, una delle tre di Pussy riot condannate a due anni senza condizionale, si citano i nomi di Nikolaj Berdiaev e di Guy Debord. Berdjaev (1874-1948) è il filosofo della libertà cristiano ortodosso, esiliato dai bolscevichi, che si ispirava a Dostoevskij. Debord è il fondatore dell’Internazionale situazionista e il teorico della società dello spettacolo morto (suicida) nel 1994. Sulla maglietta indossata al processo da Nadezhda Tolokonnikova c’è un pugno chiuso e la scritta “NO PASARAN!”, che le viene dalla Spagna di Dolores Ibarruri. La famosa canzone cantata e ballata nella cattedrale del Cristo Salvatore lo scorso 21 febbraio, in piena campagna per la rielezione di Putin, dice: «Madre di Dio, Vergine, diventa femminista… Madre di Dio, Vergine, caccia via Putin».
Parole e gesta (un’orgia inscenata anni fa all’istituto di biologia, un eterodosso impiego sessuale di un pollo congelato in un supermercato) mostrano un eclettismo piuttosto spinto: anarchismo, surrealismo e soprattutto femminismo. Pussy riot significa la rivolta della fica. Quando si chiamavano banalmente Voina (guerra), avevano disegnato un gigantesco pene bianco sul fondo di un ponte levatoio a San Pietroburgo: il ponte si sollevava, il pene faceva altrettanto. (La rivista Internazionale ospita un dossier sulle “cattive ragazze”). Il nudismo del movimento Femen era nato a sua volta dalla denuncia della prostituzione e del turismo sessuale in Ucraina. Il proposito di mostrare per queste vie che l’imperatore è nudo esige un imperatore, e povero di senso del ridicolo: qualità che abbondano nell’Europa già sovietica. Ancora in Russia, alle restrizioni alla libertà di manifestare disposte da Putin, analoghe a quelle nel Quebec canadese che da mesi agitano Montreal, si era risposto sparpagliando pupazzetti anti-Putin.
A luglio una coppia di pubblicitari svedesi noleggia un aereo a elica, viola le difese della Bielorussia e paracaduta sul paese del satrapo Lukashenko orsacchiotti di peluche che intre
vocano la libertà di parola. A distanza di un mese, Lukashenko congeda due generali della sua aereonautica, arresta dei suoi concittadini quali complici, e rompe i rapporti diplomatici con la Svezia. Storie che si ripetono. Nel 1987 un tedesco di 19 anni, Mathias Rust, atterrò col suo aeroplanino, eludendo i radar sovietici, sul selciato della Piazza Rossa a Mosca. Licenziato il ministro della difesa, Gorbaciov graziò il giovane avventurista. Lo slogan era già quello: Una risata vi seppellirà. Un risotto, anche: anni dopo Rust aprì un ristorante nella Piazza Rossa, e Putin è diventato un baciapile di Madre Chiesa. Nel folgorante resoconto di Julia Ioffe sul processo alle tre ragazze si leggono citazioni degne dei processi alle streghe, quelli classici e quelli staliniani, salvo che qui è il tribunale di stato della Russia di Putin (e del Kgb) ad accusare di aver «tentato di sminuire secoli di dogmi riconosciuti e venerati».
Una coincidenza di tempi ha fatto accostare la condanna di Mosca alla sorte di Assange, che dal balcone dell’ambasciata equadoregna non ha fatto mancare la sua solidarietà alle
giovani donne. È una trama curiosa, dal momento che addosso ad Assange si è cucita, chissà con quale fondamento, l’accusa di violenza sessuale nella Svezia degli orsacchiotti che ha mandato a quel paese le proteste del despota bielorusso. C’è una differenza di taglia fra i due fenomeni, come fra un’industria e un artigianato, ambedue mediaticamente sapienti.
Si è sempre ansiosi di riconoscere nuovi modi di lotta e annunciare ultime notizie. Più di mezzo secolo fa Eric J. Hobsbawm studiava, a partire dai “ribelli primitivi”, lo svolgimento della rivolta sociale che avrebbe portato ai rivoluzionari e al movimento operaio. I ribelli di oggi sono all’altro capo di quella parabola, una postistoria di quella preistoria, anche quando, come Tolokonnikova, salutano a pugno chiuso. Diffido un po’ degli annunci ricorrenti sull’invenzione di “nuove e creative forme di lotta”. San Francesco era andato molto avanti su questa strada, e anche i milanesi che fecero lo sciopero del fumo contro Radetzky nel 1848. Però questa impronta femminista è un’altra cosa, tanto più se la si confronti con un connotato originario delle ribellioni del Vicino Oriente, dall’Egitto allo Yemen (poi tradito e castigato), o con lo sciopero del sesso appena proclamato dalle donne del Togo contro il presidente Gnassinbe, sulla scorta dell’esperienza liberiana del 2003. Le Pussy riot della cattedrale di Cristo Salvatore che chiedono alla Madonna di diventare femminista mettono insieme rivoluzione proletaria e futurismo e suffragette. La loro dissacrazione ha bisogno della dittatura, e del suo corredo di imbecillità e di ipocrisia. Le due ultime abbondano anche in democrazia, e specialmente da noi, ma la prima manca al punto di rendere ormai irrilevante un seno nudo o una crocifissione femminile (la copertina dell’Espresso risale al 1975). L’ironia è una buona idea, come diceva Gandhi della democrazia, ma ci vorrà tempo, e intanto in Siria si massacra, e in Sardegna ci si butta in mare davanti alla prua di un traghetto, o si scende nel fondo di una miniera. Le lotte nella nostra parte di mondo sono “nuove”, in gran parte: ma assomigliano tanto a quelle dei detenuti di tanti anni fa. Salgono sui tetti.
La Repubblica 30.08.12
"Un segnale di speranza", di Massimo Riva
Una cometa della speranza è comparsa da ieri nel cielo sopra Berlino. Ad accenderne la luce, che potrebbe non essere effimera, è stata una davvero insolita Angela Merkel al termine del suo incontro con il premier italiano Mario Monti. I commenti della Cancelliera, infatti, hanno segnato più di un passo avanti sul cammino che dovrebbe condurre alla fuoriuscita dal tunnel in cui brancola il sistema monetario europeo. In particolare perché le sue parole sembrano dirette a spazzare via quel clima di sospetti, riserve mentali e diffidenze che rischia di far precipitare il dialogo fra i condomini dell’euro in una disputa rissosa e drammaticamente inconcludente.
Fino a ieri, per esempio, sui rapporti fra Roma e Berlino aleggiava l’incresciosa impressione che il governo tedesco volesse in cuor suo imporre a quello italiano di passare per le forche caudine di una richiesta esplicita di aiuti al fine di potergli dettare dall’esterno condizioni più stringenti di politica economica. Insomma, in parole più semplici, il dubbio è che si volesse commissariare l’Italia per somministrarle quella lezione di austerità che una parte dell’establishment germanico – Bundesbank in testa – ritiene sua missione storica applicare un po’ a tutta la fascia mediterranea dell’eurozona.
Contro questa visione pangermanica del problema Italia Frau Merkel ha tenuto a rimarcare la sua piena fiducia che il governo di Roma sia in grado di assumere tutte le decisioni necessarie affinché il nostro Paese possa farcela da solo. E lo ha fatto richiamando non soltanto una convinzione personale ma un dato oggettivo che è sotto gli occhi di tutti: l’agevole collocamento dei titoli del nostro debito pubblico che sta spuntando, proprio in questi ultimi giorni, tassi d’interesse in netta discesa e ben lontani dalle bizzarrie da tempo in corso sul mercato degli spread. Così, fra l’altro, offrendo a Mario Monti un riconoscimento che potrebbe regalargli ulteriori e maggiori soddisfazioni nelle prossime aste di titoli pubblici.
Ora si tratta di capire fino a dove la cometa accesa nel cielo di Berlino saprà far giungere la sua luce. Soprattutto se questa arriverà ad illuminare quella zona d’ombra assai oscura che si è creata nei rapporti fra la Bundesbank e la Banca centrale europea di Francoforte sul nodo cruciale del cosiddetto Fondo salva Stati.
Su questo punto ieri Angela Merkel ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Da un lato, ha ribadito la sua contrarietà a concedere al meccanismo europeo di stabilità quella licenza bancaria che aprirebbe la strada a eventuali robusti interventi monetari sui mercati. Così rendendo omaggio ai timori della Bundesbank che una politica di aiuti massicci ai Paesi in difficoltà diventi una droga tale da spegnerne ogni volontà di risanamento dei propri bilanci. Dall’altro lato, però, la Cancelliera ha ribadito con fermezza che la Bce è un’istituzione indipendente nelle sue decisioni. Così lanciando a Mario Draghi un invito a proseguire autonomamente nella sua opera di custode supremo della stabilità monetaria.
Opera che lo stesso Draghi, proprio ieri in un suo intervento pubblicato da un prestigioso settimanale tedesco, ha dichiarato di voler compiere andando «anche oltre gli strumenti standard della politica monetaria». Al vertice della Bce, infatti, seguono ormai con crescente preoccupazione l’andamento divaricato degli spread che sta svuotando di potere e significato il ruolo di governo della moneta poiché all’interno della medesima area valutaria fa coesistere economie a tassi prossimi allo zero (la Germania) con Paesi costretti a un dazio monetario di sei o sette punti percentuali, come Italia e Spagna. Prima che una simile forbice tagli in due o tre parti l’eurozona, con conseguenze letali facilmente immaginabili per la moneta unica, occorre agire in tempi brevi. Con quelle che ieri Draghi ha chiamato appunto «misure eccezionali» e che altro non possono essere se non acquisti calmieratori sul mercato dei titoli più aggrediti dalle scorrerie della speculazione.
Due scadenze prossime consentiranno di valutare meglio il peso del viatico di indipendenza rinnovato ieri da Berlino al vertice della Bce. La prima è il 6 settembre quando la riunione del direttivo della Banca centrale sarà chiamato ad esprimersi su modi e tempi operativi delle «misure eccezionali» che Draghi ha in progetto di mettere in campo. La seconda scadenza riguarda la sentenza che la Corte suprema tedesca pronuncerà sei giorni dopo (il 12 settembre) sulla compatibilità degli impegni per il Fondo salva Stati con la Costituzione della Repubblica federale. Il che equivale a dire che nelle prossime due settimane si dovranno superare in un modo o nell’altro due passaggi essenziali e fra loro concatenati per la sopravvivenza dell’euro.
È improbabile che il 6 settembre Draghi voglia affermare la sua riconosciuta indipendenza forzando il passo delle decisioni d’intervento sui mercati sfidando il rischio di una sentenza negativa da parte della Corte di Karlsruhe. Anche perché le sue recenti sortite hanno già prodotto benefici effetti di disorientamento fra i mercenari della speculazione e da ultimo sui mercati non sono in atto gli sfracelli dei mesi precedenti. Tutto, quindi, resta più che mai appeso alla giornata del 12 settembre. Mentre Angela Merkel ha tenuto ieri a riaffermare con forza la vocazione europea del suo Paese, giuristi tedeschi di primo rango si dicono convinti che la Corte di Karlsruhe non potrebbe emettere una sentenza positiva in base al formale dettato della propria carta costituzionale. La cometa accesa ieri nel cielo sopra Berlino potrebbe così essere spenta all’insegna del ciceroniano summum ius, summa iniuria. E l’Europa, una volta di più, negli ultimi cent’anni sarebbe costretta a riproporsi il minaccioso interrogativo del che
fare con la Germania.
La Repubblica 30.08.12
"Test di ammissione contestati il ministero svela gli autori", di Salvo Intravaia
Il ministro Profumo pubblica l’elenco di tutti coloro che hanno confezionato le domande dei quizzoni che consentiranno a poco più di 20 mila precari di conquistare la preziosa abilitazione all’insegnamento. Che si sono rivelate in buona parte non conformi al bando. La Gelmini su Facebook: “Io non c’entro”. Ecco i responsabili del disastro sui test per l’ammissione ai Tfa. Dopo giorni di polemiche – anche con l’ex ministro Mariastella Gelmini – sulle responsabilità del flop sotto gli occhi di tutti, il ministro Profumo pubblica l’elenco di tutti coloro che hanno confezionato le contestate domande dei quizzoni che consentiranno a poco più di 20 mila precari di conquistare la preziosa abilitazione all’insegnamento. Tfa è l’ennesimo acronimo di matrice scolastica che sta per Tirocinio formativo attivo, introdotto dalla riforma Gelmini sulla cosiddetta Formazione iniziale dei docenti: la carriera universitaria che occorre intraprendere per diventare insegnanti del terzo millennio.
Questi ultimi, per sedere in cattedra alla media e al superiore, in futuro dovranno seguire un corso di laurea quinquennale ad indirizzo “insegnamento” e un tirocinio di un anno sul campo. Con accesso rigorosamente a numero programmato. Ma prima che i volenterosi aspiranti insegnanti completino gli studi, il ministero ha aperto il solo tirocinio a coloro che si sono laureati negli anni scorsi. Purtroppo, la prima volta dei Tfa è stata clamorosamente steccata dal ministero. Perché su 2.220 domande di 37 abilitazioni diverse – una per ogni disciplina o gruppo di discipline – il ministero ha registrato ben 419 domande non conformi al bando.
“Domande – precisa il verbale della seconda revisione – con due o più risposte esatte; domande con più risposte esatte, di cui una più pertinente; domande con nessuna risposta giusta e/o con una formulazione sbagliata; domande e/o risposte formulate con termini ambigui, in grado di disorientare il candidato”. Di fronte ad un insuccesso di queste proporzioni, i circa 170 mila docenti che hanno partecipato alle selezioni, si sono chiesti per giorni come fosse possibile confezionare test in modo così rabberciato e superficiale, i cui errori saltavano all’occhio immediatamente dei laureati alle prese con l’esame.
Così, lo scorso 5 agosto il ministro Francesco Profumo pubblicava una nota con la quale si tirava fuori dalle responsabilità politiche. “I test somministrati ai candidati – spiegano da viale Trastevere – sono stati elaborati da commissioni nominate dal ministro il 5 agosto 2011 e secretati, per ovvie ragioni di sicurezza”, chiamando in causa direttamente la Gelmini. “Il ministro – proseguiva il comunicato – scusandosi per l’accaduto, assicura l’impegno dell’amministrazione a dare certezza in tempi rapidi a tutti i candidati”, attraverso una revisione complessiva di tutte le domande in questione ad opera di una supercommissione di docenti universitari.
Una precisazione che non va giù all’ex inquilino di viale Trastevere che, su Facebook replica alle accuse. A proposito delle “commissioni che hanno redatto i test del Tfa e si è fatta trapelare la notizia – scrive l’ex ministro – che le commissioni sarebbero state nominate da me lo scorso agosto”. Ma in realtà, precisa, si tratta di un decreto direttoriale e non di un decreto ministeriale: “tradotto dalla burolingua ministeriale, Gelmini non c’entra”. E incassa la solidarietà della vicepresidente della commissione Cultura della Camera, Paola Frassinetti, che dichiara: “E’ in mala fede chi tenta di attribuire responsabilità al precedente ministro, in quanto all’epoca non aveva competenza alcuna sulle nomine”.
Intanto, a seguito della revisione delle domande, vengono ripubblicate le graduatorie e ammessi agli scritti un numero di gran lunga superiore di candidati rispetto alla prima selezione: le 419 domande contestate vengono considerate corrette a prescindere da quale risposta avesse segnato il candidato. Ma nonostante tutto, la polemica continua: questa volta vede, gli uni contro gli altri armati, gli ammessi in prima istanza e i ripescati. Così, questa mattina, “al fine di rendere trasparente l’intera procedura di predisposizione e di verifica dei test delle prove nazionali di preselezione ai corsi di Tirocinio Formativo Attivo”, il ministro Profumo ha messo in linea tutti i documenti relativi alla vicenda: compreso l’introvabile decreto del 5 agosto 2011, firmato da Luciano Chiappetta, con tutti i nomi dei “colpevoli”.
da repubblica.it
