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"La primavera araba non giova alle donne", di Giovanna Zincone

Non sempre il progresso giova alle donne. La Tunisia ne ha offerto da poco un infelice esempio. Grazie al Codice del 1956 e a successive riforme, rappresentava un ammirato precursore dell’emancipazione femminile tra i Paesi arabi. E il nuovo corso tunisino è stato considerato il più assennato tra quelli scaturiti dalla Primavera araba. I risultati elettorali del 2011 non hanno premiato i partiti laici moderati, ma i rischi di chiusure islamiste parevano evitabili. Purtroppo la Commissione «Diritti e libertà» dell’Assembla Costituente tunisina, in disinvolta contraddizione con il proprio titolo, ha approvato un nuovo articolo 28 che retrocede le donne. Afferma infatti: «Lo Stato assicura la protezione dei diritti della donna», un’affermazione positiva solo all’apparenza; secondo Roberta Aluffi, studiosa di diritto delle religioni, si tratta di una rischiosa espressione islamista perché implica specifici diritti femminili (il dono matrimoniale e il mantenimento), cui potrebbero fare da pendant pesanti diritti maschili (il ripudio e l’obbedienza delle donne di famiglia). L’articolo 28, inoltre, vuole la donna «associata» o «complementare» all’uomo non solo nella sfera familiare, ma anche nella «edificazione della Patria»; quindi, a differenza di quanto normalmente teorizzato da pensatori islamisti, in Tunisia il paternalismo potrebbe toccare anche la sfera pubblica. Manifestazioni anti-articolo 28 hanno coinvolto un buon numero di tunisine indignate. Richiami e proteste sono arrivati da organizzazioni internazionali, in primis il Consiglio d’Europa. La partita non è formalmente chiusa. La nuova Costituzione deve ancora essere approvata in seduta plenaria. L’Assemblea costituente include anche una componente femminile, ma non è chiaro quanto e come inciderà: sebbene eletta con il 50% dei posti in lista riservati alle donne, le rappresentanti sono solo il 24%. Per la quasi totalità appartengono al partito islamista di maggioranza, che sostiene di ispirarsi all’AKP di Erdogan, ma che in commissione ha votato l’articolo 28. In quel contestato articolo si dà pure un contentino ai progressisti perché all’ambigua protezione dei «diritti della donna» si affianca la protezione delle «acquisizioni», cioè di quanto esse hanno finora ottenuto. Quante difenderanno le proprie «acquisizioni» si vedrà nel voto in aula.

Torna, comunque, a farsi sentire quel sapore di dominanza maschile che troppo spesso ha accompagnato svolte istituzionali che parevano positive. La sindrome si è accompagnata al crollo di opprimenti dittature laiche, sostituite però da forme più o meno severe di regimi islamisti. L’autoritario Scià di Persia Reza Palhevi aveva comunque modernizzato il Paese e le sue donne, l’Iran degli ayatollah ha invertito la rotta. L’Afghanistan liberato dai comunisti è tenuto in scacco da talebani misogini.

Siamo dolorosamente abituati all’idea che la sostituzione di regimi autoritari modernizzanti con islamisti al potere possa nuocere alle donne. Dimentichiamo quel che le donne persero nei nuovi Stati di impronta liberale.

La nascita dell’Italia non giovò alle donne del Lombardo-Veneto. In quei territori, veniva applicato, fin dal 1816, il Codice civile austriaco che riconosceva a tutte le donne, mogli incluse, la capacità di agire, cioè di amministrare il patrimonio, stare in giudizio, concludere contratti senza l’autorizzazione del marito o di altri maschi. Al contrario, nel diritto civile del Regno di Sardegna le donne non avevano questo diritto e non lo ottennero con il Codice civile italiano del 1865; quindi le lombarde e le venete «liberate dal giogo austriaco» furono ridotte allo stato di minori, di incapaci. Solo con la riforma liberale del 1919 le maggiorenni italiane diventarono giuridicamente adulte. Ci pensò poi il Fascismo a imporre alle italiane notevoli passi indietro.

Neppure la formazione degli Stati Uniti fu per tutte un guadagno. Ad esempio, la Costituzione del 1776 del New Jersey concedeva il diritto di voto «a tutti gli abitanti», quindi alle donne. Ma è nel 1920, con il XIX emendamento, che tutte le americane diventano pienamente elettrici.

Quindi non solo la storia della democrazia fa passi indietro, ma procede anche a zigzag: acquisisce qualcosa, indipendenza nazionale, libertà per molti, ad esempio, ma perde altro, e quell’altro riguarda troppo spesso le donne.

Oggi si guarda con orrore alla Siria, a una repressione che non trova limiti umanitari. Preoccupa anche il futuro di quel Paese dopo la caduta di Assad. Chiunque abbia visitato la Siria prima della rivolta e del terribile massacro in corso capisce questa preoccupazione. Si poteva cogliere visivamente come quel regime poliziesco e autoritario fosse riuscito ad imporre una convivenza religiosa. Meravigliava la stretta e pacifica contiguità fisica tra chiese delle più diverse confessioni cristiane, la compresenza di moschee di declinazioni musulmane tra loro tradizionalmente ostili. Donne di culture e religioni diverse formavano patchwork opportunamente stridenti, alcune occultate da neri paramenti, altre esibite in più che liberali scollature. Come agire per bloccare il massacro e favorire l’avvento di un nuovo regime non oscurantista? Basta sostenere militarmente le componenti più moderate? Questa strategia per funzionare dovrebbe riuscire a coalizzare moderati, non si sa quanto numerosi, che appartengono a gruppi religiosi diversi, in particolare dovrebbe attrarre i meno integralisti dei sunniti. Infatti, se i democratici risultassero minoritari e isolati, quando si andasse votare, averli sostenuti militarmente sarebbe servito a poco.

Una delle contraddizioni della democrazia sta nel fatto che il demos , il popolo, non è sempre prevalentemente democratico, tollerante e femminista. Il pessimismo in casi come quello siriano è quindi quasi inevitabile, e riguarda molti aspetti. Sono stati finora espressi fondati timori per un futuro di endemici conflitti interreligiosi, di ulteriori scompensi nello scacchiere mediorientale. Dovremmo più spesso pensare alle donne siriane, agli strazi e ai lutti che stanno subendo, alle perdite di dignità e di diritti che potrebbero colpirle in futuro.

La Stampa 28.08.12

"L’importanza dei numeri primi", di Piergiorgio Odifreddi

Un mese fa, l’inserto domenicale del New York Times ha pubblicato un articolo intitolato L’algebra è necessaria? A porsi la domanda non era ovviamente un matematico, o uno scienziato. Bensì, un politologo, preoccupato del fatto che ormai nelle scuole statunitensi la matematica sia diventata un ostacolo obbligatorio, che devono superare tutti coloro che poi vorranno iscriversi a qualunque tipo di corso di laurea all’università, scientifico o umanistico che sia. «Pure i poeti o i filosofi devono studiare la matematica alle superiori», si scandalizzava il povero politologo! E il suo argomento era che è giusto far sudare sulle equazioni o i polinomi gli studenti che se lo meritano, perché vogliono diventare ingegneri o fisici.
Ma perché mai torturare gli altri, così sensibili, che vogliono invece scrivere versi o dedicarsi alla metafisica? Da noi, queste cose le dicevano Croce e Gentile un secolo fa, e il bel risultato che si ottiene a non far studiare la matematica agli umanisti lo si vede anzitutto dalle loro opere filosofiche, appunto.
Più in generale, non è certamente un caso che la filosofia analitica, che monopolizza il mondo anglosassone, sia così diversa da quella continentale, che domina nella vecchia Europa. Lo standard di rigore adottato dalla prima è infatti contrapposto allo stile letterario della seconda, e la matematica insegna anzitutto proprio quello standard. Questo è il primo motivo per studiarla: perché chi viene forgiato da una logica ferrea, nella quale un solo segno sbagliato può provocare disastri irreparabili, non si accontenterà più dei non sequitur di Heidegger o di Ratzinger, e rimarrà felicemente sordo alle sirene della metafisica filosofica o teologica.
Naturalmente, la ragione ha una sua bellezza. Dunque, il secondo motivo per studiare la matematica è educare l’occhio o l’orecchio della mente, per essere in grado di vederla o sentirla, questa bellezza. In fondo, nessuno si chiede perché si creano e si fruiscono l’arte o la musica: semplicemente, sono espressioni dello spirito umano, che soddisfano ed elevano chi le intende. Ma pochi sanno che c’è tanta bellezza nei progetti di Fidia, nelle fughe di Bach o nei quadri di Kandinsky, quanta ce n’è nei teoremi di Pitagora, di Newton e di Hilbert.
Gli esempi non sono scelti a caso. Perché nell’arte e nella musica ci sono, e ci sono sempre state, correnti razionaliste che parlano lo stesso linguaggio della matematica. E capire e apprezzare i loro prodotti richiede lo stesso grado di istruzione, e lo stesso livello di addestramento, che servono per capire e apprezzare i teoremi e le dimostrazioni. In entrambi i casi, all’insegna del motto che, certe cose, «intender non le può chi non le prova».
È ovvio che certa arte e certa musica, allo stesso modo della matematica, richiedono uno sforzo superiore di quello sufficiente per guardare una pubblicità, orecchiare una canzonetta o leggere un romanzetto. Anche scalare l’Himalaya o le Alpi è più impervio che andare a passeggio, ma solo così si possono conquistare le vette, delle montagne o della cultura. E questo è il terzo motivo per studiare la matematica: perché lo sforzo di concentrazione e lo studio assiduo che sono necessari per fruirla, vengono ampiamente ricompensati dalle altezze intellettuali a cui elevano coloro che li praticano.
Infine, il quarto motivo per studiare la matematica è che serve. Senza le derivate e gli integrali, non avremmo la tecnologia meccanica ed elettromagnetica, dalle automobili ai telefoni. Senza la logica matematica, non ci sarebbero i computer. Senza la teoria dei numeri, i nostri pin sarebbero insicuri. Senza il calcolo tensoriale, i navigatori satellitari non funzionerebbero. Addirittura, senza la geometria non sarebbe stato scoperto il pallone da calcio. Ma senza tutte queste cose, non saremmo comunque meno uomini, o uomini peggiori. Senza la ragione, la bellezza e la cultura, invece, sì. È per questo che la giustificazione utilitaristica, che di solito viene invocata per prima, qui appare non solo come last, ma anche come least: cioè, per ultima, anche in ordine di importanza.

La Repubblica 28.08.12

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“La fabbrica Francia”, di ANAIS GINORI

Nella storia di questo premio inventato nel 1936, gli studiosi francesi hanno conquistato il venti per cento delle medaglie, al secondo posto dopo gli americani. Qualche giorno fa, un altro importante riconoscimento internazionale, il Prix Henri Poincaré, è stato assegnato per la prima volta a due donne, Sylvia Serfaty e Nalini Anantharaman, entrambi ricercatrici al Cnrs, il
centro nazionale di ricerca. Negli ultimi mesi, ha calcolato con orgoglio sciovinista Le Monde,
i francesi si sono accaparrati cinque dei dodici premi della società europea di matematica per i ricercatori di meno di 35 anni.
La Francia è il paese dei numeri primi. I libri ludici intorno ai misteri dell’algebra o alla geometria diventano bestseller. Nelle edicole si vendono diverse riviste di esercizi per tenersi in allenamento. È il paese che ha inventato il campionato mondiale di logica e matematica che si è disputato qualche giorno fa nel palazzo parigino dell’Unesco. La matematica piace tanto che Fondazione Cartier ha persino allestito una mostra dedicata all’estetica che si cela dietro
a formule, teoremi, equazioni. Lo scienziato pazzo e scorbutico? È un cliché superato. Personaggi come Cédric Villani o Stella Baruk, autrice di manuali alternativi per insegnare ai bambini, sono delle “mathstar”, un po’ come nell’architettura esistono le “archistar”.
Nonostante la concorrenza dei paesi emergenti e il saldo primato statunitense, a Parigi lavorano in pianta stabile oltre mille ricercatori di questa disciplina. «È la più alta concentrazione in una sola città, neanche gli americani ci battono» racconta soddisfatto Jean-Yves Chemin, direttore della fondazione di scienze matematiche di Parigi che riunisce i migliori centri di ricerca e università della capitale.
Il segreto di questo record è presto svelato. Per scoprirlo basta andare nel quinto arrondissement, in rue d’Ulm, sede dell’Ecole Normale Supérieure, fondata nel 1794 da Napoleone, affiliata all’epoca con la Normale di Pisa. L’istituto, che tutti chiamano semplicemente
«Normale Sup», ha il record mondiale di studenti con medaglie Fields. La sua particolarità è riunire insegnamenti letterari e scientifici. Qui ha studiato il biologo Louis Pasteur ma anche i filosofi Jean-Paul Sartre e Michel Foucault. «Normale Sup» ha anche sfornato cinque premi Nobel per la Fisica.
Un livello di eccellenza mantenuto fino ad oggi. L’Ens che ha aperto altre due sedi a Lione e Cachan, è uno dei pochi atenei francesi che trova posto nella classifica internazionale di
Shangai sulle migliori università. Un sistema che si basa sull’alta selezione dei futuri cervelloni già nei licei scientifici, poi nelle “classes préparatoires”, almeno due anni di preparazione per accedere al concorso d’ingresso all’Ens. “L’altro punto di fondamentale – continua Chemin – è il finanziamento dei giovani ricercatori”. Il “brain drain” è molto ridotto, meno del 3% degli studenti che si sono specializzati in Francia sono costretti a valicare il confine per trovare un posto di lavoro. Al contrario, molti matematici transalpini arrivano dall’estero. Il vietnamita Ngo Bao Chau, che ha vinto il premio Fields nel 2010, ha studiato in Francia. All’Institut des Hautes Etudes Scientifiques, tre dei cinque insegnanti titolari di cattedra sono di origine straniera. I campi di ricerca si sono anche molto modernizzati, dalla nanomedicina alle previsioni meteo, dagli algoritmi per l’alta finanza fino ai navigatori satellitari. Non è un caso insomma che il presidente François Hollande si sia vantato degli ultimi riconoscimenti internazionali ottenuti.
Una tradizione che risale idealmente al secolo dei Lumières con personaggi appassionati di matematica come Jean D’Alembert, Gaspard Monge, Joseph Fourrier. C’è stato anche il gruppo Bourbaki che a partire dal 1935 ha rivoluzionato il modo di scrivere la matematica e al quale hanno partecipato cinque ricercatori premiati con le medaglie Fields. Quest’anno ricorre il centenario di Henri Poincaré, matematico ma anche fisico, ingegnere, filosofo. «Incarna una rara sintesi tra i vari rami della disciplina, è stato uno degli ultimi matematici universali” racconta Cédric Villani, direttore dell’istituto dedicato all’insigne scienziato morto nel 1912 e che diede un contributo all’elaborazione della teoria della relatività. Guardato con sospetto dai colleghi più seriosi, Villani è convinto che il posto del matematico sia dentro alla società. «Dobbiamo svecchiare la nostra immagine».
Uno spirito divulgativo che si ritrova anche nei libri di Jean-Paul Delahaye, autore di volumi come Stupefacenti numeri primi, Affascinante Pi greco.
Stella Baruk è chiamata invece la “fata della matematica”. La scienziata di origine iraniana ha inventato una nuova tecnica di insegnamento del calcolo fondata sull’uso del linguaggio. Baruk fa spesso l’esempio di un problema proposto in classe. «Ci sono 4 file, ognuna con 7 tavoli. Quanti anni ha la maestra?». Molti bambini rispondono 28, facendo automaticamente la moltiplicazione, senza neanche pensare al senso della frase e alla domanda non consequenziale. Il “metodo Baruk”, che prevede anche la valorizzazione dell’errore come strumento conoscitivo, è stato applicato in molte scuole di banlieue, con sorprendenti risultati. Lo scrittore Daniel Pennac, anche lui insegnante, lo ha spesso consigliato agli alunni in difficoltà.
Le polemiche sulla didattica da usare risorgono continuamente. La Francia ha più volte rivoluzionato il metodo di insegnamento della matematica. Nel record delle medaglie Fields, delle “mathstar” e di tutta questa curiosità per i misteri della matematica, si nasconde infatti un paradosso. Il livello medio degli alunni francesi è in progressivo calo e le ore insegnate sono diminuite negli ultimi quindici anni. «Purtroppo la natura elitista del nostro sistema non ricade sulla maggioranza » ha notato Le Monde in un editoriale. Qualche anno fa è stata lanciata la petizione “Sauvons les maths!”, salviamo la matematica, proprio perché nei nuovi programmi c’era stata un’ulteriore decurtazione della materia. Un problema che non hanno avuto le migliaia di appassionati che si ritrovano nei giorni scorsi a Parigi per il campionati internazionali di giochi matematici. La competizione, rivolta a studenti ma anche ad adulti, è stata inventata proprio dai francesi venticinque anni fa.

La Repubblica 28.08.12

"Concorso, quiz per 500 mila prof", di Alessandra Ricciardi

È il punto forse più delicato, certamente più dibattuto, del bando di gara che sarà ufficializzato a fine settembre: i test di preselezione. Domande a risposta chiusa e di tipo logico, senza nessun riferimento alle specificità disciplinari. Insomma, quiz generalisti per aspiranti docenti di lettere così come di matematica, con l’obiettivo di indagare le attitudini trasversali dei candidati più che le competenze specifiche. La preselezione si rende necessaria per scremare l’esercito dei candidati alle 11.892 nuove cattedre a tempo indeterminato, la metà dei posti complessivamente disponibili (l’altro 50% sarà coperto con lo scorrimento delle graduatorie a esaurimento) per il prossimo anno scolastico.

Trascorsi 13 anni dall’ultimo concorsone, al ministero dell’istruzione le stime ufficiose parlano di almeno 500 mila aspiranti prof che avrebbero i requisiti per il concorso. A dare l’annuncio ufficiale dell’avvio delle procedure di selezione è stato lo stesso ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, al termine del consiglio dei ministri della scorsa settimana. Profumo aveva dichiarato l’intenzione di procedere a un concorso sin dalle prime settimane del suo insediamento a viale Trastevere. Ma quella che doveva essere una selezione totalmente nuova, per immettere a scuola prof giovani, diceva il ministro, sarà un concorso vecchio stampo, a cui potranno partecipare docenti già abilitati e, grazie alle norme della fase transitoria, i diplomati alle magistrali entro il 2001, i docenti laureati entro il 2003 e i diplomati per gli insegnamenti tecnico-pratici. Età media, 30-40 anni. In assenza di un nuovo regolamento, su cui inutilmente aveva provato a esercitarsi l’ex ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, le uniche innovazioni potranno riguardare le prove, visti i margini di discrezionalità dati all’amministrazione dall’articolo 400 del decreto legislativo n. 297 del 1994. I docenti che si stanno per abilitare attraverso i Tirocini formativi attivi resteranno invece fuori, per ammetterli servirebbe un decreto legge di modifica. Dovranno attendere il prossimo treno, forse già nel 2013, quando l’agenda di Profumo prevede una ulteriore selezione. Stessa sorte per i laureati più recenti e che non rientrano nelle specificità della normativa transitoria: il ministero non vuole avere nessun rilievo da parte del Consiglio di stato al momento della registrazione del bando. E però i sindacati chiedono assoluta certezza e già nei prossimi giorni dovrebbe svolgersi un incontro chiarificatore al ministero. L’amministrazione deve procedere a ritmi serrati per rispettare i tempi indicati al consiglio dei ministri da Profumo:prova selettiva da svolgersi alla fine di ottobre, su una batteria di test uguale per tutte le classi di concorso; a gennaio la prova scritta, anche di verifica delle competenze disciplinari. A stretto giro la prova orale e graduatorie pubblicate in tempo utile per l’immissione in ruolo per settembre 2013. Novità sono attese per la prova orale, con l’inserimento della simulazione di una lezione per verificare l’abilità didattica, e per la valutazione dei titoli che danno punteggio, anche questi in fase di elaborazione. In arrivo poi modifiche dei criteri di selezione dei componenti delle commissioni: ad oggi possono essere commissari i docenti dichiarati idonei negli anni ’90, l’Istruzione vorrebbe innalzare l’asticella della formazione richiesta. E comunque al ministero incrociano le dita, visti i pasticci delle recenti gare: quelle dell’ultimo concorso a dirigente scolastico, non ancora concluso in tutte le regioni, tanto che il governo ha autorizzato solo 1200 assunzioni, a dispetto dei 1700 posti messi a gara. E quelle per l’ammissione ai Tfa, dove errori e superficialità nei test hanno destato più di una critica. Intanto si dovrà decidere a chi assegnare lo svolgimento della preselezione: il Cineca, il Consorzio di 54 università italiane, oppure il Formez.

da ItaliaOggi 28.08.12

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Profumo: «Il concorso non danneggia i precari»di Simone Collini

Gli insegnanti precari protestano silenziosamente sotto il palco dell’area dibattiti Festa nazionale del Pd, tenendo alti cartelli con sopra scritto «la scuola dei tecnici è una scuola di classe», o «con il ministro Profumo c’è puzza di concorso-imbroglio». La responsabile Scuola del Pd Francesca Puglisi, sul palco, è gentile nei toni quanto dura nei contenuti: «Da troppi anni si specula sulla pelle di insegnanti precari, che vengono assunti a settembre e licenziati a luglio. Ce ne sono 180mila nelle graduatorie. I loro diritti, quali che siano le decisioni del ministro Profumo, saranno lesi in ogni caso. Noi siamo pronti a collaborare col governo ma siamo terrorizzati dal rischio che il concorso sia fatto con le stesse modalità di quello del ’99». Il ministro Francesco Profumo non si scompone, ringrazia per l’invito a Reggio Emilia, sorride cordiale, spiega che il concorso per docenti «è previsto per legge» e dunque non c’è nessuna volontà da parte del ministero di danneggiare i precari storici, che chi sta in graduatoria «può sempre decidere di partecipare, di mettersi in gioco» e che d’ora in poi i concorsi avranno scadenza biennale «così diventeremo un Paese normale». Qui parte un applauso della platea, ma i tanti insegnanti precari arrivati a Campovolo rumoreggiano.

Durante il dibattito, a cui partecipano anche il responsabile Università del Pd Marco Meloni e Manuela Ghizzoni, si innesca anche un botta e risposta tra Profumo e Puglisi, col ministro che accusa la responsabile Scuola del Pd di «trasmettere, durante le riunioni che facciamo insieme, le mie parole in tempo reale alle agenzie o pubblicandole su Twitter». Accusa a cui Puglisi risponde duramente: «Non le permetto di dire questo, esigo il rispetto che le ho sempre dato. Io rappresento una forza politica, lei piuttosto controlli i suoi uffici perché le informazioni escono da lì». Il problema però adesso è più che altro la scarsità di informazioni sul futuro concorso per docenti.

A Profumo viene chiesto di illustrare quale siano i criteri di selezione, argomento che interessa a molti dei presenti in sala. Il ministro legge da un foglio le caratteristiche di chi può partecipare alle prove: saranno ammessi coloro che hanno abilitazione all’insegnamento conseguita entro la data di scadenza del termine per la presentazione della domanda ma anche, per la primaria, chi ha titoli di studio conseguiti al termine dei corsi quadriennali e quinquennali sperimentali dell’istituto magistrale, iniziati entro l’anno scolastico 1997-1998, o comunque conseguiti entro l’anno scolastico 2001-2002.

Ma Profumo, sottolineando che «la scuola ha bisogno di un rinnovamento» dice anche che andranno selezionati docenti che «abbiano competenze di tipo informatico, sappiano le lingue, abbiano capacità di interpretazione di un testo e capacità logica». Per Francesca Puglisi il punto è un altro, e cioè che la principale modalità di selezione deve «pre- vedere un percorso unico tra formazione e reclutamento» perché quel che conta è la «continuità didattica». E di nuovo gli applausi sono per lei, più che per il ministro. Che poi, passando dal versante docenti a quello studenti, mette sul piatto la carta del merito e dice che i fuoricorso devono pagare di più. «Le persone, come gli studenti lavoratori, che per qualche motivo non sono in condizione di terminare nei tempi il ciclo di studi devono poter avere la possibilità di dire “invece di 4 impiegherò 6 anni”. Ma c’è una parte di studenti che fanno altre cose e questa parte deve contribuire di più al sistema dell’istruzione».

L’Unità 28.08.12

"La democrazia al bivio", di Nadia Urbinati

La democrazia rappresentativa è in crisi. Lo si legge con frequenza quotidiana. A questa, che sembra ormai una verità assodata, manca un codicillo di non poca importanza: non è in crisi dovunque. Né la sua riuscita è percepita come problematica ovunque. La democrazia rappresentativa è in crisi in Italia più che in Germania o in Finlandia o in Francia. Contestualizzare è necessario. Anche per comprendere bene la portata della partita che si sta giocando, non soltanto fra poteri eletti e non eletti all’interno dei confini nazionali, ma soprattutto fra gli stessi Paesi europei, tra quelli nei quali la democrazia è un fatto acquisito e quelli nei quali pare lo sia meno. Abbiamo appreso anche di recente che da Oltralpe si guarda con preoccupazione all’eventualità – che è un atto dovuto, costituzionale – che in Italia ci siano nuove elezioni e che Monti possa non essere più primo ministro. Leggiamo il testo preoccupato riportato qualche giorno fa su questo giornale in un articolo di Alberto D’Argenio: «Sul medio periodo il pericolo maggiore per l’Italia è che vengano smontati pezzi delle difficili riforme strutturali approvate dal governo Monti, così come il timore che ci siano arretramenti rispetto alle misure prese per mettere in sicurezza i conti pubblici». Il riferimento alle future elezioni è qui abbastanza chiaro e diretto. Nell’Europa dei Paesi nordici, dove c’è lo stesso sistema democratico che c’è in Italia, si teme che il ritorno dei partiti, e quindi le libere elezioni, metta fine all’impegno italiano di rientrare nei ranghi, riportando Roma ad essere un problema per il Continente. La democrazia rappresentativa preoccupa quando è praticata in Italia come non preoccupa quando lo è altrove. Nessuno si sarebbe sognato di mostrare preoccupazione prima delle elezioni francesi. Nessuno si sogna di dirsi preoccupato se Angela Merkel non verrà rieletta. Ma la democrazia rappresentativa praticata in Italia incute timore e desta preoccupazione.
La crisi della democrazia rappresentativa è allora una crisi di credibilità nella e della politica elettorale nel nostro Paese. Il Sud dell’Europa è sotto tutela – chi più chi meno, dalla Grecia giù giù fino al Portogallo, alla Spagna e all’Italia. È l’Europa non protestante o quella che, come la Francia, ha avuto il suo protestantesimo politico (come Piero Gobetti chiamò la Rivoluzione francese) a nutrire dubbi sull’uso della democrazia nell’Europa non protestante e non nordica. Questa preoccupazione è una forma di pensiero del quale temere gli effetti perversi. Si sente l’eco delle parole di Martin Lutero sulla libertà dei cristiani: una libertà perfetta nei cristiani riformati, e via via meno perfetta negli altri, sapendo i primi soltanto obbedire alla legge senza bisogno di un guardiano esterno. Letta questa diagnosi con le lenti politiche di oggi, si potrebbe dire che Oltralpe si pensa che non tutti siano capaci di sopportare la libertà, di vivere sotto un governo democratico usando bene la libertà politica. La pratica della democrazia come un bene che è di difficile uso, quindi, perché le sue scelte possono avere conseguenze preoccupanti. Questo sembra sia oggi il senso delle elezioni in Italia: una libertà che desta preoccupazione.
Noi diamo l’impressione delpaesi
la fragilità. La democrazia dei partiti da noi desta preoccupazione. È questo il segno della crisi della «nostra» democrazia rappresentativa. Ed è questo il senso della distanza che separa le democrazie del Nord Europa da quelle del Sud Europa (e l’Italia come centro del Sud). Una distanza molto visibile poiché, a leggere i giornali in questi giorni, nel Sud la politica democratica è meno sicura che al Nord e forse ha più scettici che al Nord. Stessi regimi, a Nord come a Sud, stesse procedure: eppure lassù la democrazia rappresentativa segue le sue regole senza sostanziali scossoni e senza destare problemi, mentre quaggiù i capipopolo sono sempre in agguato, e rendono le regole democratiche meno funzionali, più incerte negli esiti. E, come nei secoli passati, anche nell’Europa quasi unita (ma mai una), sembra che si torni ad accarezzare l’idea che il governo libero (leggi la democrazia rappresentativa) si adatti meglio ai
del Nord che a quelli del Sud, o comunque che non si adatti a tutti egualmente.
Ad alcuni, sembra di leggere tra le righe, si può adattare meglio un dispotismo illuminato, cioè, in fondo, un governo dei tecnici che può in prospettiva diventare un governo di esperti confermati per plebiscito, purché non scelti nella lotta dei partiti, attori di un’opinione politica non saggia, di un mercato elettorale confuso, incerto, poco coraggioso e molto propenso a portare acqua al proprio mulino. La democrazia dei confermati per plebiscito può diventare la forma moderna del dispotismo illuminato. Ed è una tentazione che sembra catturare l’attenzione di molti, Oltralpe e, purtroppo, anche nel Paese. Un pericolo da sfuggire a tutti i costi. Un pensiero nefasto che dà alla politica un’ulteriore responsabilità perché solo ad essa spetta la determinazione a volerlo ribaltare.

La Repubblica 28.08.12

"Il lavoro tradito", di Luciano Gallino

La chiusura ventilata della Carbosulcis avrà forse delle ragioni economiche, ma per diversi aspetti ha un forte contenuto politico, e un non meno rilevante potenziale di innovazione del modello industriale. Se le ragioni economiche finissero per prevalere sulle altre, come rischiano di prevalere, sempre in Sardegna, nei casi dell’Alcoa, dell’Euroallumina, della Portovesme, le relazioni industriali in Italia farebbero un altro passo all’indietro, e le spinte a innovare qui e ora un modello industriale superato subirebbero un lungo rinvio.
Il contenuto politico deriva dal fatto che si tratta di minatori. La memoria non può non andare al durissimo attacco che venne sferrato dal governo Thatcher nel 1984-85 contro il sindacato nazionale dei minatori, il più forte del Paese. Ben più che ridurre i costi dell’industria mineraria o avviarla a qualche tipo di conversione, esso aveva lo scopo manifesto di spezzare le reni all’intero movimento sindacale. L’operazione ebbe successo. I sindacati britannici non si sono mai più ripresi da quella sconfitta. Inflitta loro dal governo a carissimo prezzo per l’intero Paese. Tra perdite di produzione, riduzione degli introiti fiscali e sussidi che si dovettero pagare per un lungo periodo, la vittoria della signora Thatcher costò al Regno Unito circa 36 miliardi di sterline di allora, più di tre punti di Pil.
La Carbosulcis è ben più piccola dell’industria mineraria britannica di quei tempi, ma il nodo di fondo rimane. Si tratta di decidere se il primo obbiettivo da conseguire è ridurre alla sottomissione i diretti interessati, e con essi il numero assai maggiore di lavoratori che sono costretti a dirsi “se non accetto tutto ciò che mi chiedono domani toccherà a me”, oppure di convenire che i lavoratori hanno delle buone ragioni per opporsi alla chiusura. Al tempo stesso si tratta pure di decidere se una differenza del rendimento economico rilevabile tra un sito produttivo locale e un sito analogo che risiede chissà dove, giustifica la decisione di togliere il lavoro a qualche centinaio o migliaio di persone. Differenza di rendimento comparato, si noti, non di produzione in perdita: è la stessa situazione dell’Alcoa. I lavoratori italiani hanno pagato e stanno pagando un prezzo durissimo alla crisi, di cui peraltro non portano alcuna responsabilità, anche se qualcuno ha il coraggio di dirgli che hanno vissuto al disopra dei loro mezzi. I quattro milioni effettivi di disoccupati, il miliardo di ore di cassa integrazione previste per il 2014, i quattro milioni di precari, dovrebbero essere uno scenario sufficiente per stabilire che nessuna impresa piccola o grande dovrebbe chiudere, licenziando, ma va guidata e sorretta affinché trovi il modo di far transitare i lavoratori ad altre occupazioni.
Regione e governo sono quindi dinanzi alla sfida di non smantellare un altro pezzo del tessuto produttivo, del sistema occupazionale e delle relazioni industriali in Italia, dopo il degrado che essi hanno subito negli ultimi anni e mesi. C’è di più. Nel quadro deprimente che appare disegnato non soltanto dalla crisi, ma anche dalle politiche che ogni giorno vengono prospettate per superarla, la modernità appare stare proprio dalla parte dei minatori sardi. Non chiedono di continuare a estrarre carbone. Chiedono di convertire la miniera in un contenitore di anidride carbonica, quella che avvelena i nostri cieli e le nostre città. Sarebbe un passo significativo verso un modello produttivo che non si proponga di tornare presto a produrre esattamente quel che si produceva prima, in quantità ancora maggiori – una ricetta sicura per accelerare il disastro non solo ambientale ma pure economico e sociale che ci attende. Al contrario rientra in una idea di produrre condizioni e servizi e ambienti che migliorino la qualità della vita. Saremmo sconfitti tutti noi, cioè l’intero Paese, se ancora una volta vincesse lo spirito conservatore e revanscista che contraddistinse il governo britannico un quarto di secolo addietro.

La Repubblica 28.08.12

"Le Province «passano» ai sindaci", di Antonello Cherchi

Il conto alla rovescia per il riordino delle Province è cominciato. Già entro la prossima settimana, secondo lo stringente cronoprogramma fissato dal decreto legge sulla spending review (il Dl 95, convertito a inizio agosto dalla legge 135), dovrebbe essere sistemato il primo mattone di questa nuova costruzione istituzionale, che sarà pronta – come è stato ricordato anche dal consiglio dei ministri di venerdì – entro fine anno e promette di essere assai più leggera ed economica dell’attuale sistema. Entro il 5 settembre dovrebbe, infatti, vedere la luce il decreto del Governo che individua le funzioni di competenza statale che ora sono svolte dalle Province e che, nel futuro assetto, saranno trasferite ai Comuni.
Il cantiere ferve, però, anche a livello locale, dove le amministrazioni destinate a scomparire si ingegnano per trovare la quadra della nuova geografia, con accorpamenti di territori che consentano di rientrare nei parametri indicati dal Governo: almeno 350mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati di superficie. Per ora si tratta solo di ipotesi, più o meno realizzabili. Non sarà comunque facile, come spiega il responsabile della Provincia di Sondrio, Massimo Sertori, che giovedì ha coordinato, in qualità di presidente dell’Unione delle Province lombarde, il primo incontro con gli altri suoi colleghi. «Non siamo contrari alla riorganizzazione – afferma il leghista Sertori – ma questo programma con questi parametri è irrealizzabile. Non si tiene conto delle specificità di ciascun territorio e del fatto che la Regione Lombardia ha conferito alle Province oltre 150 funzioni».
Non sarà per niente semplice anche perché il calendario è incalzante: entro il 15 ottobre (al massimo entro il 24 dello stesso mese nei casi in cui le Regioni non hanno avanzato alcuna proposta di “rimpasto”) il Governo dovrà tirare le fila e disegnare la nuova mappa. Ma non è solo la ristrettezza dei tempi a destare perplessità – dopo che di interventi sulle Province, dall’abolizione totale alla risistemazione, si parla da tempo – quanto anche il susseguirsi delle scadenze. Con la stranezza (sicuramente un lapsus del legislatore) che le regioni possono inviare le loro proposte di riordino anche dopo il 15 ottobre, ovvero dopo il termine entro cui il Governo deve chiudere la partita.
Eppure questa volta pare sia la volta buona. Ne è convinto Piero Antonelli, direttore generale dell’Upi, l’Unione delle Province: «Magari non nei tempi fissati dalla legge, ma entro l’anno la riforma arriverà. La volontà delle Province c’è tutta e già ci si sta muovendo. Ora si è nella fase di organizzazione del lavoro, che entrerà nel vivo la prossima settimana. Abbiamo già fissato per il 12 settembre un incontro a Roma con i presidenti provinciali dell’Upi in cui faremo un primo punto».
C’è poi il fatto che alla riorganizzazione delle Province è legata un’altra serie di interventi, a iniziare da quelli sugli uffici territoriali del Governo, prefetture in testa. A tenere insieme il tutto è poi l’attesa dei risparmi, che solo per le Province sono stati stimati in poco più di 2 miliardi di euro.
Più difficile è, invece, dire che cosa succederà una volta varato il riordino: le nuove amministrazioni diventeranno subito operative? Questo, però, vorrebbe dire mandare a casa prima del tempo gli attuali presidenti. Con non pochi dubbi di legittimità costituzionale su una simile manovra. Anche perché si creerebbe una situazione di disparità nei confronti sia dei presidenti delle Province non soggette al riordino (che non avrebbero alcun motivo di lasciare l’incarico) sia di quelli delle Regioni a statuto speciale, dove di riorganizzazione si inizierà a parlare nel nuovo anno. Nel timing manca, dunque, una data: quella di effettivo debutto del futuro assetto.

Il Sole 24 Ore 27.08.12

"Insulto dunque navigo", di Beppe Severgnini

Pierluigi Bersani ha ragione, ma sbaglia aggettivo. Chi approfitta di Internet per insultare gli avversari non è «fascista»: è un maleducato. Immaginate, tuttavia, due leader di partito che, di questi tempi, si danno del maleducato. Qualche anziana maestra capirebbe, ma pochi altri.
«Fascisti!». Nel grido bersaniano contro Grillo & C. c’è molta autobiografia. Quarant’anni fa, quando la chiesa comunista faceva sul serio, il vocabolo era una scomunica. «Fascista!». E qualsiasi discussione – dalle assemblee sindacali ai collettivi studenteschi – si chiudeva lì. La cosa grave è che a quei tempi i (neo)fascisti c’erano davvero, ed erano pericolosi; ma degli aggettivi, mussolinianamente, se ne fregavano.

Detto ciò, Bersani ha ragione. L’urlo di chi non sa più parlare sta diventando insopportabile. L’avversario non si contesta più: lo si demolisce. Non c’è solo Beppe Grillo e il suo popolo votante (in genere meno esagitato di lui). Il dibattito sui quotidiani, in questi giorni, è sconcertante; e dobbiamo ringraziare l’estate, altrimenti il tutto verrebbe amplificato in televisione.

Considerare l’insulto come la forma più genuina di democrazia, ed etichettare come pavido chi cerca di essere ragionevole, non è solo irritante: sta diventando rischioso. Se il capo di un movimento, il segretario di un partito e noti commentatori politici usano l’anatema come normale mezzo di discussione, molti si sentiranno autorizzati a fare altrettanto. Anzi, essendo semplici cittadini, andranno oltre. «Se nei comizi e sui giornali i capi si trattano a vaffa» pensano «allora alé, liberi tutti».

Liberi di insultare gli avversari, di offendere chi la pensa diversamente, di chiamare vigliacco chi prova a essere ragionevole. È un trucco, questo, che nei bar d’Italia conoscevano bene, e un tempo finiva in un brindisi e una risata. La nuova cattiveria invece aleggia a lungo, come un alito pesante, e accompagna un Paese stanco verso elezioni importanti. E mentre i capi, i segretari e gli editorialisti si incrociano nelle serate estive, e si sorridono nel gioco delle parti, i loro epigoni trasportano il livore accumulato nei social network, sui blog e nei forum.

La moderazione sta diventando un problema per tutti i siti: insulti, minacce e accuse volgari sono all’ordine del giorno (anche su « Italians », presente su Corriere.it dal 1998, abbiamo dovuto disabilitare i commenti). Quando vengono affrontati, alcuni si scusano, e ammettono di aver esagerato. Ma la maggior parte rivendica con orgoglio la propria violenza verbale. C’è da stupirsi, se per dire «non sono d’accordo» il capo grida «siete degli zombie, vi seppelliremo vivi!» e il giorno dopo «fallito, amico dei piduisti»?

Purtroppo c’è chi non ha capito che Facebook e Twitter – per citare le due piattaforme più popolari – sono mezzi di comunicazione di massa, non balconi per conversazioni private. Fino a pochi anni fa, strumenti tanto potenti erano riservati ai professionisti della comunicazione: coloro che avevano accesso a un giornale, a un microfono, a una telecamera. Oggi chiunque può diffondere un’opinione. Questo, naturalmente, è bene. La libertà in questione ha però dei limiti: nelle buone maniere, nel buon senso e nel codice penale. E qualcuno non lo capisce. Questo, ovviamente, è male.

Sia chiaro: una modica quantità di provocatori e molestatori è fisiologica. Eric Schmidt, presidente di Google, ha detto all’Aspen Ideas Festival in giugno: «Facciamocene una ragione: l’uno per cento della popolazione è pazzo. Ha vissuto nel seminterrato per anni, e la mamma gli portava ogni giorno da mangiare. Due anni fa la mamma gli ha regalato la connessione a banda larga. Mi chiedo, tuttavia, se sia una consolazione. E se non sia il caso, a questo punto, di parlare con le mamme».

Non servirebbe, probabilmente. La follia italiana supera l’uno per cento, e appare purtroppo lucida. La faziosità che, da anni, gronda dai media ha ormai allagato la vita quotidiana. La protervia con cui la classe politica italiana ha trattato i cittadini ha demolito gli argini. C’è da chiedersi, a questo punto, come sarà il raccolto.

Il Corriere della Sera 27.08.12