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"Luce Irigaray: l'educazione sentimentale andrebbe insegnata a scuola", di Luciana Sica

Più o meno tutti sappiamo chi è Luce Irigaray: grande teorica della differenza sessuale, psicoanalista per quanto critica di Freud e soprattutto di Lacan, direttrice di ricerca in filosofia presso il Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi. Nella sua formazione multidisciplinare, non solo la linguistica ha avuto un ruolo fondamentale, ma anche lo yoga che pratica da più di trent’anni: s’intitola Una nuova cultura dell’energia un saggio uscito l’anno scorso da Bollati Boringhieri, l’editore italiano di tutti i suoi libri principali. Tanti, e alcuni di gran successo come quell’Amo a te dedicato a sorpresa a Renzo Imbeni.
Se però le chiedi cosa può aver significato nella sua vita il sindaco di Bologna, agli inizi degli anni Novanta, la risposta avrà tutt’altro che un carattere personale. Perché lei si esprime così: «Ho voluto dare un esempio di relazione sessuata civile, rispettosa sia dell’uomo che della donna. Volevo insegnare, ai giovani in particolare, che per vivere anche carnalmente una relazione amorosa, è indispensabile passare attraverso un atteggiamento civile. Inoltre un uomo politico che pretende di essere un democratico deve mostrarsi capace di un comportamento corretto verso una donna, una modalità che deve essere reciproca… Ho indicato per iscritto, e nelle numerose presentazioni del libro fatte insieme, i diversi mezzi per raggiungere quest’atteggiamento civile che sia sessuato, non sedicente neutro ma conforme alla nostra identità reale».
Più o meno tutti sappiamo chi è Luce Irigaray, dell’importanza che assegna all’amore, eppure ignoriamo tutto delle sue scelte sentimentali. Ha un riserbo talmente radicale da somigliare anche un po’ a una civetteria. Per esempio, è difficile negare che sia nata in Belgio, dove ha preso una prima laurea in Filosofia all’università di Lovanio («Belga? Io sono francese! », dice lei…). Ma sarà nata nel maggio del 1930, come si legge ovunque? «Quella data, le assicuro che è sbagliata. La data giusta si saprà solo quando sarò morta…». Va bene, signora Irigaray, ma non se la prenda così a cuore con l’anagrafe e con quei cialtroni di Wikipedia.
In un’intervista sull’amore, non dovrebbe essere vietato chiedere qualcosa sul modo in cui si declinano e si vivono i sentimenti. Lei però non ha mai voluto parlare di sé… Non crede che una qualche conoscenza della sua vita privata la renderebbe più “umana”, senza sminuirne il ruolo intellettuale?
«So che è di moda raccontarsi, cosa che si può spiegare nel solco di una tradizione che ha mirato a un’esistenza ideale piuttosto che alla nostra vita quotidiana. Non ritengo però che la mia vicenda personale possa realmente interessare gli altri. Cerco piuttosto di partire dalle mie esperienze e di tradurle a un livello condivisibile. Inoltre nella mia vita sono coinvolte altre persone e non mi sembra opportuno svelare qualcosa di loro. Altro punto importante: i sentimenti hanno bisogno di riservatezza, di segretezza, l’intimità
esclude la dimensione pubblica. Potrei anche aggiungere che troppo spesso le donne sono state ridotte alla dimensione affettiva o erotica: un motivo in più per mantenere nascosta la mia vita privata».
Alla lettura dei suoi libri, l’amore risulta un’esperienza cruciale non solo per le persone, ma per la cultura e la politica. Può dire in breve perché?
«Vede, la nostra tradizione si è troppo preoccupata della vita relazionale, del modo in cui ci riferiamo a noi stessi, al mondo, all’altro o agli altri. Ora è forse proprio la maniera di vivere queste relazioni che può distinguerci dagli altri esseri viventi, al livello delle relazioni amorose ma anche delle relazioni pubbliche. Siamo ben lontani da una pratica adeguata della nostra vita relazionale e spesso ci comportiamo in modo peggiore degli animali… Penso che sviluppare una cultura dell’amore possa contribuire al divenire dell’umanità in quanto tale, per non parlare della realizzazione di una democrazia che non si limiti a problemi di danaro. Per di più, praticare l’amore corrisponde al modo d’incarnare il divino, secondo la tradizione cristiana prevalente nell’Occidente».
Amo a te, è il suo libro più celebre. Come a dire: non amo te in una condizione speculare, ma amo “a te”, un altro radicalmente diverso da me… «Il successo di Amo a te
indica la necessità di questo discorso, che ho continuato a sviluppare in altri miei libri più recenti come La via dell’amore e Condividere il mondo.
Ovviamente l’amore non può rimanere un affetto solo immediato e quasi istintivo. La lettera “a” di Amo a te ricorda il lavoro necessario che richiede l’amore per rivolgersi realmente all’altro. Significa che prima di poter dire “ti amo” è indispensabile soffermarsi a considerare chi è l’altro, senza sottomettersi o sottometterlo solo ai propri impulsi. Vuol dire:
amo “a” ciò e “a” chi tu sei, e cerco di creare una relazione d’amore con te in quanto persona e non solo in quanto oggetto o supporto dei miei sentimenti personali».
Dal possesso dell’altro al rispetto dell’altro, senza perdere la propria identità… Bisogna imparare ad amare, ma questa lezione come e dove si apprende? Può aiutare l’analisi?
«Senza dubbio, l’amore si deve imparare. Sarebbe l’insegnamento scolastico più importante fra tutte le materie in programma, e non a caso suscita un grande interesse da parte dei bambini, degli adolescenti e anche degli adulti – come ho verificato nelle esperienze condotte nelle scuole italiane. Ma i punti principali da insegnare non sono gli stessi per i maschi e le femmine: i primi spesso trasformano in oggetto la persona che amano, mentre le seconde hanno la tendenza a un atteggiamento fusionale con l’altro. Ciascuno deve dunque imparare in modo diverso a rispettare l’alterità dell’altro, la sua trascendenza, direi, per poter amare. Sono necessari altri gesti e parole, rispetto a quelli che ci sono consueti… Quanto alla psicoanalisi, se può aiutare a una presa di coscienza di ciò che proiettiamo di noi stessi sull’altro, temo che non si sia interrogata abbastanza sulle carenze della nostra cultura riguardo lo sviluppo e la condivisione dell’amore».
Attraverso la pratica dello yoga, nella sua accezione più spirituale, non esclude la possibilità di trasformare ognuno di noi in un ponte tra Oriente e Occidente… Ma c’è davvero un rapporto tra la capacità di respirare e la possibilità di amare?
«La nostra cultura troppo spesso ha fatto dell’amore un imperativo morale o religioso e non il mezzo e il luogo più determinanti perché l’umanità possa sbocciare. È accaduto perché non ci siamo abbastanza preoccupati di coltivare la vita, anzitutto la nostra vita umana, a cominciare dalla linfa che l’alimenta, che le permette di crescere e di fiorire. Questa linfa risulta da un’energia al contempo naturale e spirituale che si acquista proprio mediante la coltivazione consapevole del respiro… A me lo yoga ha senz’altro rivelato un modo di amare che la tradizione occidentale non mi aveva insegnato. Incrociare una cultura del respiro con una cultura dell’amore sarebbe una pratica davvero utile per un’evoluzione positiva dell’umanità ».

La Repubblica 28.08.12

Procreazione: corte Strasburgo boccia legge 40

La legge italiana sulla fecondazione assistita è incoerente e viola l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: lo stabilisce una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, nel caso Costa e Pavan contro l’Italia (richiesta n. 54270/10); la vicenda riguarda due portatori sani di mucoviscidosi che volevano ricorrere alla fecondazione assistita e alla diagnosi prenatale per evitare di trasmettere il gene ai figli.

La Corte ha rilevato l’«incoerenza del sistema legislativo italiano» che «da una parte priva i richiedenti dell’accesso alla diagnosi genetica pre impianto» e «d’altra parte li autorizza a una interruzione di gravidanza se il feto risulta afflitto da quella stessa patologia». La Corte ne conclude che «l’ingerenza nel diritto dei richiedenti al rispetto della loro vita privata e familiare è quindi sproporzionata».

Rosetta Costa e Walter Pavan, tutti e due italiani, nati nel 1977 e 1975 e residenti a Roma, in occasione della nascita della figlia nel 2006, affetta da mucoviscidosi, hanno scoperto di essere portatori sani della malattia. Di nuovo incinta nel 2010, Rosetta Costa effettuò una esame diagnostico prenatale che rivelò che anche il nuovo feto era colpito dalla malattia; la signora ha fatto allora ricorso a un aborto terapeutico.

Oggi la coppia desidera fare ricorso alla fecondazione assistita con una diagnosi pre impianto. Ma, rileva la sentenza della Corte, la legge italiana non consente un depistaggio preimpianto. Invece consente la procreazione assistita per le coppie sterili o quelle ove l’uomo sia colpito da una malattia virale trasmissibile per via sessuale (come l’HIV o l’epatite B o C) per evitare la trasmissione di queste malattie.

In base alle disposizioni degli articoli 43 e 44 della Convenzione dei diritti dell’uomo, questa sentenza non è definitiva; entro tre mesi entrambe per parti possono chiedere il rinvio della vicenda davanti all’Alta Camera della Corte per i diritti dell’uomo. In questo caso un collegio di 5 giudici valuterà se la vicenda meriti un esame più ampio.

In questo caso l’Alta Camera esaminerà il caso e darà una sentenza definitiva. Una sentenza definitiva viene trasmessa al Comitato dei ministro del Consiglio d’Europa che ne sorveglia l’esecuzione. La mucoviscidosi o fibrosi cistica è una grave malattia genetica che dà problemi respiratori e può avere evoluzione fatale.

www.unita,it

“Ciao, maledetti piduisti” Benigni-show alla festa, di Paolo Baroni

Roberto Benigni irrompe sul palco della festa democratica di Reggio Emilia, si inventa un fantomatico fax di «saluti» da Beppe Grillo, e saluta così la platea: «Saluto il popolo del Pd, maledetti piduisti…». Impossibile, anche per lui, sfuggire alla polemica del giorno tra il comico genovese ed il segretario del Pd seduto in prima fila per assistere alla «lettura di Dante». E’ proprio a Bersani-zombie che Benigni si rivolge per primo: «Bersani reagisci… batti un colpo, alzati e cammina». E poi rivolto a Grillo: «Non si dice morto, al limite diversamente vivo…». «Mi è appena arrivato un suo fax di saluto – aveva esordito poco prima -. C’è scritto “cari Bersani ed elettori del Pd, vi volevo salutare e dire a tutti di andare a vaffa…” ed altre cosine personali. È la sua maniera di essere affettuoso. Grillo vuole fare l’alleanza, parla così. A me ha detto “vecchia salma, piduista zombie”. Grillo è fatto così. Ma quando si innervosisce può diventare anche volgare. Al punto di fare cose che Bossi sembra Lord Byron». E ancora: «Quando Grillo gli ha dato del “cadavere” – ha scherzato Benigni – Bersani si è innervosito ed è andato a sbattere con il carro funebre….Dai Bersani – ha aggiunto – dopo ci facciamo una partita a Tresette col morto. Piduista? No, ma ne parliamo domani qui al convegno con Licio Gelli».

Battute a tutto campo, anche sulle future alleanze nel centrosinistra. «Il prossimo anno la Festa democratica con Casini e Vendola si chiamerà Festa problematica». E poi: «Tutti vogliono candidarsi alle primarie: l’anno scorso in tre milioni hanno votato, quest’anno ci saranno tre milioni di candidati. Anche Di Pietro ha detto che si candiderà alle primarie, dopo averle vinte farà le secondarie (le superiori)».

Non poteva mancare una stoccata anche a Berlusconi. Il cavalier «dopo tutto quello che ha fatto, vuole fare il presidente della Repubblica… Ci crede davvero! Ci sarebbero tutte le sue foto in tutti i locali pubblici. Ma sarebbe l’unico modo per vederlo in una caserma dei Carabinieri…». «Dante e Berlusconi un po’ si somigliano ha poi aggiunto – Tutti e due ci hanno fatto vedere l’inferno». E non sia mai che il cavaliere voglia davvero tornare in campo: «Berlusconi ancora no, Berlusconi no, pietà», urla Benigni:«Si è ripresentato, sembra uno di quei film horror, tipo lo Squalo 6. Quando si è ripresentato, Alfano si è messo a piangere…Alfano, figurati noi. Dante, per sfuggire ai processi è stato vent’anni in esilio. Berlusconi è stato vent’anni a Palazzo Chigi. Dante ha avuto fede e anche Berlusconi ha avuto…Fede. A Dante il fatto di avere fede lo ha portato vicino alla Madonna. A Berlusconi il fatto di avere Fede lo ha portato vicino a Regina Coeli. Dante per un poema su una donna l’ha pagata cara. Anche Berlusconi le donne le paga care».

Benigni si era intrattenuto col segretario del Pd per circa un quarto d’ora prima dell’inizio dello spettacolo ed anche in questa occasione il comico toscano non si era tenuto: «E’ una gioia vederti, illumini tutto l’ambiente». E ancora: «L’altra sera a Firenze mi hai lasciato tutta la sera con Renzi: ti aspettavo». «Grillo? Non è successo niente, quindi non abbiamo nulla da dire stasera», aveva aggiunto beffardo facendo capire che sulla querelle di questi giorni su zombie e fascisti del web avrebbe certamente detto la sua. «Benigni è una delle persone più miti che si possa incontrare, che dice le cose, anche le più critiche, in modo accettabile. Vi risulta che io abbia dei problemi davanti alle critiche fatte in modo civile?», ha commentato il segretario Pd rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano quale differenza ci fosse tra i monologhi di Benigni e i post sul blog di Beppe Grillo. Affettuoso, ma sempre sarcastico, anche il controcanto dell’attore toscano: «A Bersani farei una statua: ci deve fare vincere. Non ci può fermare nessuno, siete costretti a vincere. Anche se vi alleate con Casini vi votiamo lo stesso, anche se ce la mettete tutta per non farvi votare».

La Stampa 28.08.12

"Perché Profumo è rimandato", di Paola Fabi

Il concorso della scuola non passa l’esame e se non viene proprio bocciato, comunque è rimandato agli esami di riparazione. Sindacati e docenti precari chiedono prima la stabilizzazione dei docenti in graduatoria e il Pd teme il “rispolvero” del vecchio sistema del ’99 (anno dell’ultimo megaconcorso). E che l’effetto annuncio non abbia fatto un grande effetto si è visto ieri alla Festa del Pd quando prima e durante il dibattito sulla scuola insegnati precari hanno contestato il ministro chiedendo spiegazioni sulle modalità del concorso e sul futuro dei docenti già precari.
E malgrado le risposte rassicuranti di Profumo (saranno messi in ruolo insegnanti presenti nelle graduatorie, al concorso potranno partecipare gli abilitati mentre quelli in attesa di abilitazione parteciperanno a un altro concorso previsto nel 2013) la tensione resta alta. Un nervosismo che si è misurato chiaramente durante il dibattito della Festa democratica, con Francesca Puglisi, responsabile scuola dei dem, che ha “ricordato” al ministro quanto fatto dal centrosinistra prima della mannaia dei tagli e cioè un piano pluriennale per la stabilizzazione dei precari delle graduatorie, e poi con Manuela Ghizzoni, presidente della commissione cultura della camera, che ha “rimproverato” al ministro la mancanza di dialogo con le forze politiche e con i lavoratori della scuola. Ma non solo: Puglisi e Ghizzoni hanno anche ricordato le due ultime pessime prove del Miur: il concorso per dirigenti scolastici e per l’accesso ai Tfa (Tirocini formativi attivi) sulle quali sono piovuti centinaia di ricorsi per i quesiti sbagliati.
Accuse che il titolare di viale Trastevere ha rispedito al mittente rassicurando su «tempi certi e trasparenza» ma che hanno, comunque, lasciato l’amaro in bocca a quei docenti che negli ultimi anni hanno potuto contare solo su contratti a tempo determinato, supplenze, graduatorie a scorrimento. Le perplessità del Partito democratico erano state spiegate dall’ex collega all’istruzione (che aveva riesumato quella “pubblica istruzione” tanto invisa alla Gelmini) Beppe Fioroni che era andato giù duro: «Il concorso ha ancora vecchie regole che non fanno della scuola italiana una scuola normale. La scuola ha bisogno di far esaurire le graduatorie permanenti che, negli ultimi anni, sono raddoppiate aumentando il numero di precari. Serve una nuova metodologia di reclutamento».
Ma chi sono e quanti sono i potenziali candidati con l’abilitazione riconosciuta che potrebbero partecipare al concorso? A tentare potrebbero essere anche gli iscritti nelle graduatorie stufi di aspettare i tempi lunghi (a volte lunghissimi) della chiamata in ruolo: sono circa 210mila. Secondo i sindacati almeno un terzo di loro (circa 70mila) potrebbe presentarsi alla prova. Subito dopo ci sono 30mila docenti abilitati (soprattutto in scienze della formazione primaria) che hanno tentato inutilmente di entrare delle graduatorie a esaurimento.
Poi ci sono i diplomati dei vecchi istituti magistrali ai quali una norma del 1997 ha riconosciuto, in via permanente, la validità dell’abilitazione conseguita con il diploma. Il Miur li ha bloccati ma i ricorsi al Tar potrebbe rimettere in gioco circa 200mila persone. Poi ci sono gli altri abilitati, iscritti come seconda fascia, che finora si sono accontentati solo delle supplenze ma che potrebbero aggiungersi a questo esercito di candidati per 11.982 cattedre.

da Europa Quotidiano 28.08.12

"Senza libri, Napoli perde la sua anima", di Massimiliano Amato

È una corsa contro il tempo: oggi pomeriggio, riunione plenaria con la partecipazione di molti amministratori del Napoletano, accorsi al capezzale di uno dei templi della cultura laica europea e dei parlamentari eletti in città. Venerdì, incontro tra Gerardo Marotta, presidente e «anima» dell’Istituto italiano di Studi Filosofici, e Guido Trombetti, già rettore della Federico II, oggi assessore della Giunta regionale di centrodestra. Il «siluro», denuncia Marotta, è partito proprio da Palazzo Santa Lucia: la revoca di una serie di delibere adottate durante l’era Bassolino, che condanna all’esilio da Napoli una delle più fornite e prestigiose biblioteche d’Occidente.

C’è l’anima e il sangue della grande cultura europea, dal Seicento in poi, nei milleseicento scatoloni che l’ultimo giacobino di Napoli ha malinconicamente chiuso e spedito provvisoriamente a Casoria, nel capannone di un’ex azienda ottenuto grazie all’intercessione di un amico imprenditore. Trecentomila volumi, molti rarissimi, un’infinità di «prime edizioni»: dall’En- cyclopedie di Diderot e D’Alembert agli scritti di Giordano Bruno, alle opere di Benedetto Croce. Passando per Filangieri, Genovesi, Kant, Hegel, Fisher. Un patrimonio stimato in dieci milioni di euro, da qualche giorno senza più fissa dimora, dopo l’ultimo intimo di sfratto ricevuto dall’avvocato amministrativista geloso custode delle memorie della Repubblica Partenopea del 1799. «Mi sono esposto personalmente – racconta Marotta – vendendo alcune proprietà di famiglia: un attico a Roma e una villa settecentesca a Napoli». Ma i soldi, complici anche i tagli decisi dai governi Berlusconi e da quello in carica, sono finiti presto. Da tre anni l’Istituto di Palazzo Serra di Cassano a Monte di Dio, non prende più un centesimo di contributi pubblici. E la biblioteca, frequentata da intere generazioni di studiosi provenienti da tutto il mondo, è stata costretta a migrare nel deserto postindustriale, da incubo wenderiano, dell’hinterland cittadino, per evitare l’onta di una visita dell’ufficiale giudiziario. La situazione è precipitata all’improvviso, ma questa storiaccia ha radici lunghe. E profonde.

La giunta Bassolino, di concerto con la Sovrintendenza, aveva destinato a sede definitiva dei trecentomila volumi un palazzo un tempo di proprietà del Coni in piazza Santa Maria degli Ange- li, a poche decine di metri dallo storico portone di Palazzo Serra di Cassano, chiuso dopo la decapitazione dei rivoluzionari del ’99 vittime della reazione sanfedista e significativamente riaperto dallo stesso Marotta nel 1993, quando Antonio Bassolino fu eletto sindaco di Napoli.
Ma una delibera dell’anno scorso dell’amministrazione Caldoro ha stabilito diversamente. Ha deciso, cioè, che in quei locali saranno prioritariamente ospitati i libri ottenuti in dono dalla Regione. Tanto per dire: se avanzerà dello spazio, Giordano Bruno e Immanuel Kant dovranno convivere con «A tavola con il porco», manuale di gastronomia di sconosciuto autore vesuviano. Marotta se la prende con il «blocco sociale che impedisce ogni rilancio della cultura cittadina, ormai legata solo alle feste di piazza: imprenditori e politici corrotti che rischiano di irretire anche Caldoro e de Magistris, due ottime persone». Proprio il sindaco, a luglio, aveva avviato un tentativo di mediazione.

Ora, attende che il governatore rientri dalle ferie di agosto per riprendere la questione di petto. Ma il tempo stringe, e una robusta catena di solidarietà si è già andata saldando, anello dopo anello. In campo è sceso Vittorio Emi-iani, presidente del Comitato per la Bellezza, un attestato di vicinanza è arrivato dal sindaco di Ravenna, Fabrizio Matteucci, che ha messo a disposizione le biblioteche della sua città per ospitare la preziosa collezione. Ma per Napoli sarebbe un colpo troppo duro da digerire: e allora, dall’amministrazione comunale di San Giorgio a Cremano, a guida Pd, è giunta la proposta di trasferire gran parte dei volumi a Villa Bruno, la Cgil regionale ha messo a disposizione alcune stanze della sua sede al Vasto, mentre negli ultimi giorni è tramontata anche l’ipotesi di allocare la collezione nei locali ristrutturati del monumentale complesso dell’Albergo dei Poveri, in piazza Carlo III. Soluzione, questa, caldeggiata dallo stesso Marotta. Per ora, i libri restano impacchettati nel capannone industriale di Casoria. Marotta ha voluto accompagnarli di persona, come un padre premuroso che vede allontanarsi i suoi figli. Tenace e combattivo come sempre, l’ultimo giacobino di Napoli ha tratto la città dal torpore agostano presiedendo un’affollata assemblea nella sede dell’Istituto. Una grande e ululante camera di compensazione della città ferita a morte, in attesa di un auspicabile (ma tutt’altro che scontato) dietrofront della Regione.

L’Unità 28.08.12

"I roghi, crimine italiano", di Cesare De Seta

In questa torrida estate l’Italia è assediata dal fuoco. Nella mappa degli incendi che divorano boschi e macchia non è risparmiata nessuna parte del Paese: dalla Liguria alla Sicilia, dalla Toscana alla Calabria. Oltre l’88 per cento, secondo le stime più caute, sono incendi dolosi, l’autocombustione è un fenomeno marginale di un disastro ecologico di vaste proporzioni. Sono stati arrestati alcuni piromani, ma le forze dell’ordine hanno dichiarato che in molti luoghi sono stati ritrovati primitivi congegni a lenta combustione: in modo che l’incendiario possa porsi al riparo da ogni personale rischio. La simultaneità di questi roghi, che investono vasti fronti di fuoco, rende il lavoro – rischioso e costoso – del Corpo forestale e della Protezione civile un’impresa che non è retorico definire disperata. Il caso dell’incendio doloso appiccato a Monte Mario, nel cuore della capitale del Paese, è un segno di una disfatta che fa il paio con l’incendio dei Camaldoli a Napoli. Non mi pare che qualcosa di simile si registri a Barcellona o a Marsiglia.
Il mare di fuoco dilaga in ogni direzione: dalle cronache si raccolgono i lamenti e la rabbia di amministratori e comuni cittadini che spesso hanno visto con i propri occhi l’impotenza dei mezzi messi in campo dallo Stato per fronteggiare queste calamità. E non è a dire che siano gli uomini preposti a questo servizio a venir meno al loro compito, anzi la loro abnegazione – volta fino al personale sacrificio – serve a mettere in luce la debolezza di un quadro operativo che sia capace di programmare un’organica politica di prevenzione. Qualche sera fa il responsabile della Protezione civile, Franco Gabrielli, ha detto al G7, senza giri di parole, che, con i tagli previsti dalla Finanziaria per l’anno prossimo, saranno dimezzati i canadair di cui dispone questo servizio essenziale dello Stato. C’è da auspicare che il governo dinanzi a tale spettacolo ci ripensi.
In taluni casi è stato denunciato il sabotaggio degli acquedotti in modo da rendere impossibile l’opera di spegnimento, o l’ostruzione delle strade per giungere ai roghi. Si è ben oltre la così detta «calamità naturale», siamo propriamente al disegno delittuoso. Al bollettino della guerra in corso, fa eco il fronte della siccità che sta arrecando danni ingentissimi alle colture, agli animali e alle popolazioni di queste terre. La siccità è un fenomeno antico, ma in qualche misura nuovo per le proporzioni che ha assunto: Leonardo Sciascia, in un profetico scritto, ne spiegò le ragioni, come meglio non si potrebbe.
La Campania, dalla Penisola Sorrentina fino al Cilento, ha il triste primato di roghi divampati, ma in tutto il Paese gli incendi sono, fino ad oggi, cresciuti del 79%. In un solo giorno, ad esempio domenica 19 agosto, ci sono stati 155 incendi boschivi. L’Italia, che ha risorse naturalistiche risicate, sta dilapidando un patrimonio, in molti casi di eccezionale bellezza, che è difficilmente riproducibile – comunque con tempi molto lunghi – e la cui distruzione innesca una serie di frane e alluvioni che immancabilmente si verificheranno. Infatti, la morfogenesi delle frane e delle alluvioni è la diretta conseguenza, nelle dorsali collinari che solcano la penisola, e in quelle montane, del disfacimento di quel sistema di drenaggio dei suoli sui quali sono cresciuti nei secoli i boschi. L’abbandono da parte dell’uomo di vaste zone appenniniche ha fatto sì che il sottobosco sia divenuto terra di nessuno. Il fatto più drammatico è che le regole elementari che governano questi monumenti naturalistici sono disattese in primo luogo da chi dovrebbe assicurarne il rispetto.
Il risicato patrimonio collettivo di verde in questi anni ha subito un gravissimo e irreparabile saccheggio. Per costruire un bosco ci vogliono almeno cinquant’anni, in taluni casi di più: se domani stesso si avviasse una politica organica per ripiantumare i boschi andati in fumo, ne godrebbero i nostri nipoti. In questa condizione, disperatamente orwelliana, si sente il bisogno di un risveglio delle coscienze e di una politica adeguata, che non mi sembra ci sia. Un bosco con piante secolari andrebbe curato come un organismo vivente, quale è, le cui leggi bisogna rispettare. La funzione dei boschi non significa solo produzione d’ossigeno per un Paese assai densamente popolato, largamente cementificato e inquinato, dove industrie senza controllo continuano ad esercitare l’odioso ricatto del lavoro. Incendi, siccità e alluvioni sono una perversa catena che va spezzata. Gli incendi dei boschi (anche in città), a cui seguiranno inevitabili smottamenti, frane, dilagare di corsi d’acqua e fiumi, sono costi passivi nell’economia del Paese che nessuno valuta con la dovuta accortezza, per non dire delle vite umane immolate sull’altare di un’assurda imprevidenza. Con questo triplice fronte del disastro – incendio, siccità, alluvioni – sembra d’esser tornati ad un’era del nostro pianeta in cui gli elementi primordiali hanno preso il sopravvento sulla capacità di controllo dell’uomo.

La Repubblica 28.08.12

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L´amaca MICHELE SERRA

Dalle molte inchieste sugli incendi che devastano il Paese (ottima quella di Corrado Zunino su questo giornale) esce un dato statistico implacabile, e veramente impressionante. Esistono i piromani, non esistono le piromani. Dare fuoco a un bosco, a un campo, a un pezzo di mondo, e calcinarlo così da renderlo sterile per molti anni, è una prerogativa esclusivamente maschile. L
e donne in genere commettono molti meno reati degli uomini, pur essendo la metà abbondante del genere umano. Possono macchiarsi di crimini anche efferati (per esempio uccidere, anche se non serialmente). Ma avere l´impulso di devastare un luogo per sottometterlo, per negarlo, per cancellarne le tracce di vita, è cosa solo dei maschi: la statistica non concede eccezioni. In questo senso il piromane è colui che trasferisce sul volto della Terra lo stesso sfregio che il maschio padrone infligge al volto della femmina che considera infedele o indegna, o più semplicemente non sua. Gea è femmina, accoglie il seme e lo fa germogliare. Piromani, stupratori e sfregiatori di donne andrebbero inclusi nella stessa branca del Male.

La Repubblica 27.08.12

"Un’altra politica è possibile", di Massimo D'Antoni

Esiste oggi, in Italia, lo spazio per un’autonoma proposta di politica economica per la coalizione di centrosinistra? Oppure, nella situazione data, il compito prioritario di tale coalizione è quello di recuperare la fiducia internazionale, attuando una ricetta predefinita? In questa domanda può riassumersi il nucleo del dibattito in corso, e la risposta che diamo è rilevante anche per la tanto discussa questione della continuità del prossimo con l’attuale governo. La domanda non è affatto retorica. Non sarebbe del resto la prima volta che il ruolo di una forza progressista viene identificato nella sua maggiore capacità di garantire il consenso del proprio elettorato di riferimento attorno a riforme impopolari, o magari nella sua capacità di ridurre il danno, senza tuttavia mettere in discussione la direzione di marcia. Intendiamoci: qui non si vuole né sottovalutare il tema dell’affidabilità del Paese rispetto agli investitori, né eludere gli impegni derivanti dalla nostra partecipazione all’Unione e all’eurozona. Si tratta semmai di decidere quale sia lo spazio di manovra, se cioè la necessità di «fare i compiti a casa» debba prevalere su ogni altra considerazione. D’altra parte, la risposta non può esaurirsi nel richiamo appassionato all’Europa, necessario a marcare la distanza dalla destra populista, ma di per sé ancora troppo vago in termini di contenuti. Credo allora che, se c’è spazio per una linea di politica economica progressista, i suoi caratteri debbano ritrovarsi in riferimento a tre temi.

Il primo è quello del lavoro. Si tratta di mettere in discussione l’assunto che crescita e modernizzazione del Paese passino per ulteriori dosi di deregolamentazione del mercato del lavoro. È una visione che non riconosce un ruolo positivo alla stabilità della relazione di lavoro, che pure è la condizione per i necessari investimenti in capitale umano, e quindi associata a maggiore produttività; e che è incapace di comprendere la funzione irrinunciabile delle organizzazioni sindacali, il cui coinvolgimento e la cui responsabilizzazione sono alla base dell’attuale vantaggio competitivo della Germania e dei Paesi nordici.

Il secondo tema è quello del ruolo della spesa pubblica. Non c’è dubbio che essa vada in molti casi riqualificata e rimodulata. Vanno tuttavia rigettate come fuorvianti le rappresentazioni schematiche che contrappongono spesa pubblica e privata ed evocano un inesistente nesso tra riduzione della spesa e crescita. Finanziamento pubblico delle prestazioni (sanità, istruzione, ecc.) significa in molti casi risparmio, e quasi sempre maggiore eguaglianza di accesso. Riduzione del pubblico e flessibilizzazione del mercato del lavoro hanno quale inevitabile effetto l’aumento delle diseguaglianze; troppo a lungo ci si è nascosti dietro al richiamo elusivo all’eguaglianza di opportunità, come se questa fosse raggiungibile senza una decisa azione redistributiva e regolatoria pubblica.

L’ultimo tema è quello del ruolo di indirizzo pubblico nella ridefinizione della nostra vocazione produttiva e nel rilancio dell’innovazione. Ci si è illusi che bastasse un arretramento della mano pubblica per modernizzare la struttura produttiva del Paese. Prigionieri di un liberismo di scuola, si è scambiata ogni azione di politica industriale per dirigismo, rinunciando così a porsi il problema del futuro produttivo del Paese e ad adottare politiche coerenti.

Rispetto a questi tre temi è possibile identificare una linea di azione compatibile con obiettivi di responsabilità fiscale, che non rinunci ad un impulso riformista, ma che allo stesso tempo si distingua da ricette di impronta più marcatamente liberale. Peserà su questo indirizzo il vincolo europeo? Per rispondere, bisogna evitare l’errore ricorrente di pensare l’Europa come un dato immutabile. Meno di un anno fa era fortemente minoritaria l’idea, ormai accettata nelle cancellerie europee, che la crisi dei debiti sovrani originasse da difetti di costruzione dell’eurozona. Contro l’opinione a lungo dominante, c’è sempre maggiore consapevolezza della rilevanza del fattore domanda nella soluzione della crisi. L’Europa si muove, il momento è gravido di rischi ma anche di opportunità per chi voglia esercitare iniziativa politica.

L’Unità 28.08.12