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"Ecologia e provocazioni I due volti della Biennale", di Stefano Bucci

Da una parte, un bosco di cinquemila felci. Dall’altra, il Belpaese riciclato da Michelangelo Pistoletto. Il Padiglione Italia della XIII Biennale d’Architettura di Venezia, curato da Luca Zevi, si gioca tutto tra questi due estremi che anche fisicamente lo aprono e lo chiudono. E nell’idea di un terreno comune, quel «Common Ground» che dà il titolo alla mostra diretta da David Chipperfield, che può essere, proprio come le cinquemila felci della prima sala e gli avanzi dell’allestimento riuniti da Pistoletto per la sua installazione temporanea al Giardino delle Vergini, frammento di passato degrado o tassello di futura crescita.
Quello di Zevi è il racconto delle «Quattro stagioni del Made in Italy», un racconto che prende le mosse da Adriano Olivetti e dalla sua idea «che il fare impresa non possa prescindere da un atteggiamento etico e responsabile nei confronti dei lavoratori del territorio che accoglie le fabbriche», un racconto in grado di coinvolgere i migliori designer e architetti del suo tempo. Ed è un esperimento riuscito se si pensa alle case per impiegati di Figini e Pollini a Ivrea (1940-’42) o allo stabilimento di Pozzuoli firmato da Luigi Cosenza (1951-’55).
Di questo si trovano testimonianze concrete (disegni, materiali sonori, filmati d’epoca) in questo allestimento (lineare e non invasivo, giocato sui toni del grigio e del nero, ravvivato da immagini realizzate con le stesse tecniche di Quentin Tarantino) tirato su in pochi mesi («mille metri in tredici giorni») con una precisione «quasi svizzera» come spiega lo stesso Zevi, in modo tanto efficiente da aver ad un certo punto «lasciato persino Pistoletto senza scarti da riciclare». E dove fa impressione scoprire da una tabella che, tra gli oltre trecento nomi che hanno lavorato a vario titolo per Olivetti (nelle architetture come nelle riviste), alla lettera M si possono trovare in sequenza Momigliano, Montale, Morandi, Morante e Moravia. Mentre tra i progettisti si può tranquillamente andare da Albini a Le Corbusier, da Quaroni a Zanuso.
Ma a fianco degli antichi maestri il Padiglione racconta anche di un’architettura italiana fatta oggi di professionisti eccellenti, senza tanti grattacieli né «edifici-monstre». Che ha prodotto soprattutto cantine, fabbriche, centri studi. E che in fondo altro non sono che la testimonianza diretta di quel «buon gusto quotidiano» che, come ha spiegato Chipperfield nell’intervista pubblicata ieri su «la Lettura», rende ancora unica l’esperienza del design e dell’architettura made In Italy. Novantanove le imprese presenti (ieri sera raccolte dal presidente della Biennale Paolo Baratta per una cena di gala a Ca’ Giustiniani) con centoquattro progetti (la Ferrari ne ha portati quattro), con poche «archistar» (Jean Nouvel, Richard Meier) e con tanti buoni progettisti. Un percorso quasi senza tempo che si conclude con la ricerca di nuovi «common ground» per l’architettura: da quello della green economy (davanti all’Italia riciclata di Pistoletto c’è quella consapevole che può produrre energia elettrica pedalando su dieci spinbike) a quelli legati ai progetti «GranTouristas» e «remade in Italy», veri esperimenti virtuali «in divenire» giocati sulla forza di Facebook e Twitter.
Ma non sono che alcuni dei tanti modi di fare architettura messi insieme da questa Biennale, scenografica fin dall’inizio (l’installazione luminosa «Gateway» di Norman Foster). Dove in qualche modo si cerca di esplorare possibili variazioni sul tema: dalla serialità-copia di «Copycat» di Cino Zucchi al rapporto spesso difficile con i media (il contestato progetto per l’Elbaphilarmonie di Herzog e de Meuron a Amburgo viene solo raccontato dalle polemiche sulle prime pagine dei quotidiani tedeschi). Un percorso certo più fresco e coinvolgente di quello firmato (nella XII edizione) da Kazuyo Sejima, dove anche le archistar si ritrovano inserite in un contesto più generale (la «Scheggia» di Renzo Piano figura all’interno di un lavoro dedicato alle strade e ai cieli di Londra). Dove c’è un sorprendente bar chiamato Torre Davide / Gran Horizonte (firmato dal gruppo Urban Think-Thank) ispirato al progetto di recupero di una favela venezuelana. Dove c’è tanta arte, da Ai Weiwei alla citazione di «Guernica»: bellissima, ad esempio, la sala che mette a fianco la «Femme de Venise» di Alberto Giacometti alle figure di Hans Josephson. E dove sembrano acquistare finalmente consistenza i Paesi emergenti: dalla Malesia, al Cile ai Paesi arabi.
Un percorso chiaro, senza tanti fronzoli. Di cui il Padiglione italiano rappresenta un tassello essenziale, al quale sarebbe servita forse qualche indicazione in più (per spiegare, ad esempio, la prima sala delle felci). Ma che funziona. Soprattutto perche oltre alla nostalgia del tempo di Olivetti, al passato dei capannoni-casa, al presente degli stabilimenti dei buoni professionisti e al futuro giocato sui network c’è anche il modo di raccontare (spesso con l’ausilio di mappe colorate ed efficaci) persino la fragilità del nostro territorio.

Il Corriere della Sera 27.08.12

"“Quota 96”: lettera aperta al ministro Francesco Profumo", di Antonio Pane *

Gentile Signor Ministro Francesco Profumo,

dal prossimo primo settembre circa tremila dipendenti del Suo Ministero (fra docenti e Ata) si ritroveranno, loro malgrado, ‘sequestrati al lavoro’, forzosamente costretti a rimanere in servizio nonostante siano in possesso dei requisiti (la ‘quota’ 96 o i quarant’anni di contributi) per accedere alla pensione di anzianità secondo le regole previgenti alla cosiddetta riforma Fornero (articolo 24 della legge 22 dicembre 2011, n. 214).
Un simile stato di ‘illegale detenzione’ si è determinato a causa di una difettosa formulazione della ‘norma di salvaguardia’, contenuta nel comma terzo della riforma anzidetta. Fissando al 31.12.2011, per tutti i lavoratori, il termine ultimo per la maturazione dei requisiti utili ad ottenere il pensionamento con le regole precedenti, questa norma ha ‘dimenticato’ che i lavoratori della scuola rimangono sottoposti, in materia pensionistica, al regime speciale stabilito da Leggi tuttora in vigore e non abrogate dalla ‘riforma Fornero’. Citiamo l’Art. 1 del D.P.R. 351/1998, che vincola la cessazione dal servizio nel comparto Scuola «all’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata», e l’articolo 59 della Legge 449/1997, che recita testualmente: «Per il personale del comparto scuola resta fermo, ai fini dell’accesso al trattamento pensionistico, che la cessazione dal servizio ha effetto dalla data di inizio dell’anno scolastico e accademico, con decorrenza dalla stessa data del relativo trattamento economico nel caso di prevista maturazione del requisito entro il 31 dicembre dell’anno».
La data del 31.12.2011 va infatti a confliggere con questo regime speciale negando, per la prima e unica volta nella storia dei pensionamenti scolastici, a lavoratori obbligati a rimanere comunque in servizio fino al 31.8.2012 il diritto di poter far valere i requisiti maturati fino a quella data. In altri termini, in virtù del vincolo a loro, e non ad altri imposto, una volta iniziato il servizio dell’anno scolastico 2011/12 (il 1° settembre 2011, cioè quattro mesi prima del 31.12.2011), i dipendenti che nel corso dello stesso (e comunque entro il 31.12.2012) maturavano i requisiti richiesti dalle norme previgenti, avevano già acquisito il diritto alla pensione, salvo il fatto che avrebbero poi potuto concretamente esercitarlo a partire dal 1° settembre 2012. Non a caso la legge 449/1997 sanciva che «la cessazione dal servizio ha effetto dalla data di inizio dell’anno scolastico e accademico», nel presupposto che una cosa è il momento di maturazione del diritto a pensione, il momento, cioè, in cui viene integrata la fattispecie costitutiva del diritto, che si compie con l’ultimo anno scolastico di lavoro, e altra cosa è il momento della decorrenza (fine anno scolastico), ossia della scadenza del termine per poter concretamente astenersi dal lavoro e godere del beneficio maturato.
La circolare MIUR 2012 sulle pensioni, non tenendo minimamente conto di questo oggettivo conflitto e rinunciando a declinare la norma generale stabilita dalla ‘riforma Fornero’ secondo la peculiarità del ‘comparto scuola’, ha prodotto un effetto paradossale, reso immediatamente visibile dal confronto con la corrispondente circolare sulle pensioni 2011, appresso citata:

CIRCOLARE PENSIONI 2011 (n. 100 del 29.12.2010): «Si ricorda preliminarmente che, per il 2011, in virtù di quanto disposto dall’art. 1, comma 6, lettera c), della legge n. 243/2004, come novellato dalla legge n. 247/2007, per il personale della scuola i requisiti necessari per l’accesso al trattamento di pensione di anzianità sono 60 anni di età e 36 di contribuzione o 61 anni di età e 35 di contribuzione, ancorché maturati entro il 31 dicembre [2011]».
CIRCOLARE PENSIONI 2012 (n. 23 del 12 marzo 2012): «Si ricorda pertanto che, in virtù di quanto disposto dall’art. 1, comma 6, lettera c), della legge n. 243/2004, come novellato dalla legge n. 247/2007, i requisiti necessari per l’accesso al trattamento di pensione di anzianità sono di 60 anni di età e 36 di contribuzione o 61 anni di età e 35 di contribuzione, purché maturati entro il 31 dicembre 2011».
Il paradosso, come ben evidenzia il nostro neretto, consiste nel fatto che la circolare del 2012 non fa altro che ‘fotocopiare’ i requisiti richiesti per l’anno precedente come se, nel frattempo, un altro anno scolastico non fosse trascorso, cancellando irragionevolmente i requisiti maturati dell’anno scolastico 2011/2012; quando la logica più elementare, e persino il semplice buon senso, avrebbero suggerito di spostare il termine esattamente di un anno, vale a dire al 31.12.2012.
In conseguenza di questo paradosso circa tremila Suoi dipendenti (stima del MIUR) si sono trovati intrappolati, come dicevamo, in una riforma che non doveva riguardarli e, a metà di quello che avevano ragione di considerare il loro ultimo anno di lavoro, in virtù di un provvedimento oggettivamente retroattivo, si sono visti differire il pensionamento di vari anni (fino a un massimo di sei).
Una parte consistente di essi (circa settecento) si è legalmente costituita in Comitato Civico «Quota 96», con l’obiettivo di segnalare a tutte le sedi competenti e all’opinione pubblica quello che considerano un vero e proprio eccesso di potere oltre che una violazione delle leggi sopra citate – come ha evidenziato il giudice del lavoro di Oristano – e di promuovere azioni volte a una equilibrata soluzione del problema.
La questione che ci riguarda, anche in seguito alle nostre segnalazioni, è approdata nelle aule parlamentari, con due emendamenti, uno al ‘Milleproroghe’, l’altro alla ‘Spending review’, che si proponevano di risolverla, spostando ragionevolmente al 31.8.2012 il termine per la maturazione dei requisiti secondo le norme previgenti, termine che deve tuttavia intendersi, stando alle leggi che regolamentano da sempre il ‘comparto scuola’, al 31.12.2012. In entrambi i casi, il Governo di cui Lei è parte ha tenuto un comportamento sconcertante: con una mano ha infatti riconosciuto la fondatezza degli emendamenti (si vedano, ad esempio, le dichiarazioni del sottosegretario Polillo), con l’altra vi si è opposto adducendo la mancanza delle risorse necessarie. Nel secondo caso (‘Spending review’) ha poi, per soprammercato, prodotto un autentico pasticcio perché, in luogo dell’emendamento bocciato ne ha fatto approvare un altro in cui, da un lato si riconosce, senza peraltro motivarne l’origine, la data del 31.8.2012, dall’altro, se ne limita l’applicazione ai soli docenti in esubero escludendo i docenti non in esubero e tutti i non docenti (pure in possesso degli stessi, identici requisiti dei primi). Mi permetta di dire che il Governo si è così assunto la grave responsabilità di avallare una vergognosa lotteria; si è tenuto come quel proverbiale contribuente che, dinanzi alle legittime richieste del Fisco risponde: «Mi dispiace. Non ho denaro. Siete pregati di ripassare quando ne avrò. E anche allora, faccio presente che pagherò quanto riterrò opportuno».
I lavoratori coinvolti, posti dinanzi a questa incresciosa situazione, si son visti costretti, per salvaguardare il loro sacrosanto diritto, a ricorrere anche alle vie legali. Alcuni Giudici del Lavoro italiani, come quelli preposti ai Tribunali di Oristano, di Torino e di Venezia, per esempio, ravvisando nella ‘riforma Fornero’ un abuso di potere e una violazione delle leggi che disciplinano la materia previdenziale del ‘comparto scuola’, leggi sopra citate, hanno già emanato provvedimenti d’urgenza che ingiungono al MIUR di mandare in pensione, al 1° settembre 2012, i rispettivi ricorrenti. Si doveva aspettare l’iniziativa delle vittime anziché sanare, motu proprio, un diritto calpestato? Sappiamo che le strade giudiziarie sono lunghe e tortuose; sappiamo che passi successivi potrebbero sovvertire questi primi provvedimenti. Sappiamo queste e altre cose, egregio Ministro Profumo. Tuttavia non è difficile prevedere che, alla fine di questo itinerario, ci ritroveremo dentro una ulteriore roulette di casuali ‘salvati’ e di casuali ‘sommersi’, che violerebbe peraltro l’articolo 3 della nostra Costituzione.
Insieme a questo calvario, che da mesi li tiene ‘sull’orlo di una crisi di nervi’ (con preoccupanti ricadute sulla qualità delle loro prestazioni), i dipendenti del Suo Ministero, prof. Profumo, hanno dovuto accusare il Suo silenzio. Lei non ha finora mai speso una sola parola, sia essa di solidarietà o di comprensione, che fosse una ferma e chiara presa di posizione o un semplice parere, sul merito della questione che Le abbiamo prospettato. Noi credevamo – e crediamo – che fra i compiti di un Ministro ci fosse anche quello di prendersi cura delle problematiche dei suoi dipendenti; specie quando, come nel nostro caso, esse abbiano una dimensione non meramente individuale ma ampiamente collettiva. Avendo, da educatori, piena fiducia nelle nostre istituzioni democratiche, confidiamo che possa e voglia darci la risposta precisa e netta (non importa se positiva o negativa) che fino ad ora non ci è arrivata e che, anche in virtù del delicatissimo ruolo di cui siamo investiti, crediamo di meritare. Per questo Le chiediamo formalmente di ricevere, nei modi e nei tempi che riterrà più opportuni, una nostra delegazione, che tornerebbe ad illustrarLe il problema sopra esposto, con la richiesta di un provvedimento urgente del MIUR che sani, in via definitiva ed erga omnes, questa dolorosa ferita.

* Segretario del Comitato Civico «Quota 96».

"Dopo tre mesi è già futuro", di Enrico Grazioli

Sono passati tre mesi dalle scosse che hanno piegato la Bassa e non sono passati invano. Persino un freddo comunicato di Palazzo Chigi certifica ufficialmente che “l’analisi sull’attuazione delle misure a sostegno delle popolazioni terremotate ha confermato una ripresa graduale del circuito economico locale e della vita delle famiglie”: è la frase che accompagna la proroga (sofferta più del lecito, parziale molto più del necessario) almeno fino a novembre della sospensione degli adempimenti fiscali per chi ha subito danni. Ma è anche il riconoscimento, senza enfasi e senza accaparrarsi meriti particolari, che l’Emilia ferita ha risposto nei fatti e in prima persona all’accanirsi del destino e della natura. E anche al timore che una delle zone storicamente simbolo di sviluppo, coesione ed efficienza si trasformasse in un’altra area cronicamente assistita o da assistere. A tre mesi da un disastro di queste dimensioni, di questa persistenza, nessuno in Italia è mai arrivato così avanti nel percorso di ritorno alla normalità: possiamo dirlo, consapevoli che difficoltà, contraddizioni, incongruenze, incertezze sono ancora tante e tante saranno; ma convinti anche che il senso civico, il perseguimento del bene comune, lo spirito di comunità hanno trovato qui un modo di esprimersi costruttivo e appassionato, la vera risorsa da investire per un futuro migliore e diverso. Perché dopo quelle scosse qui nessuno è più com’era prima: “la terra che fa le onde”, come dice il titolo della mostra sul terremoto cuore il della festa provinciale Pd, ci cambia e ci spinge a una navigazione in un altro mare, più che in alto mare. Di cui l’approdo non dovrà essere il solo ristabilimento dello status quo ante, ma la costruzione dell’Emilia in cui vogliamo vivere, che vogliamo affidare ai nostri figli. Ed è ora il momento, curate le ferite più urgenti, di progettarla: pensando ai bisogni che avremo e non solo a quelli che abbiamo sempre avuto, agli obiettivi che ci sentiamo di perseguire e non solo alle perdite di cui vogliamo essere risarciti: da soli non ce la faremo, ma chi ci darà aiuto saprà di potersi fidare. Se il nostro sguardo sarà rivolto al nuovo e non a un passato che è radice ma non catena. Quel coraggio, l’Italia lo ha imparato, ce l’abbiamo.

La Gazzetta di Modena 26.08.12

"L'identikit degli evasori d'Italia", di Marco Mobili

Non li chiameremo furbi così come ha chiesto il premier Mario Monti. Ma adottano sicuramente comportamenti “multiformi” e forse anche per questo difficili da far emergere. Sono gli evasori d’Italia su cui il Governo ha messo all’opera una task force composta, tra l’altro, da rappresentanti del ministero dell’Economia, agenzie fiscali e Guardia di Finanza. Il gruppo di lavoro ha realizzato una mappa (una «tassonomia» come la definisce il documento) delle possibili forme di evasione ed elusione che sarà il punto di partenza delle strategie dei prossimi mesi. Il catalogo comprende 19 tipologie: a ciascuna è stato assegnato un grado di complessità. Il livello più basso è rappresentato dagli evasori totali, vale a dire i contribuenti che non dichiarano e non versano nulla. Un grado più basso, però, non vuol dire affatto un’evasione meno pericolosa o più facile da estirpare. Lo dimostra anche la nuova frontiera dei giochi (scommesse in nero, apparecchi non in regola, siti Internet non autorizzati), in cui le tecniche per non pagare le imposte si intrecciano pericolosamente con altri fenomeni criminali come il riciclaggio di denaro sporco. Ma le vie dell’evasione possono essere anche più sofisticate: dai capitali all’estero alle società schermo a cui intestare i beni di lusso, dalle frodi su Iva, dazi e accise alle residenze fittizie in paradisi fiscali.
La tassonomia non si limita a definire gli identikit degli evasori ma cerca di indicare al Governo quali sono le principali criticità del sistema fiscale che spingono i contribuenti italiani a violare o ad aggirare le regole. I tecnici hanno individuato almeno cinque motivi che hanno provocato la crescita dell’evasione e la sua “differenziazione”: la pressione fiscale, l’esigenza (finora rimasta tale) di una riforma del sistema dei tributi, il funzionamento dell’amministrazione finanziaria, una certa avversione agli obblighi tributari e la complessità delle norme. Un groviglio su cui nel tempo si sono stratificati adempimenti e comunicazioni proprio per cercare di ridurre la montagna delle imposte non versate ogni anno all’Erario.
Sul fronte semplificazioni, Governo e agenzia delle Entrate si muoveranno già nelle prossime settimane, ascoltando anche le proposte delle categorie produttive. Sulla lotta al sommerso, invece, il rapporto segna la rotta degli interventi sia di prevenzione sia di repressione vera e propria. Interventi da calibrare sulla particolarità del singolo tipo di evasione perché c’è una differenza profonda tra il proprietario d’immobile che non registra il contratto di locazione e chi, invece, possiede patrimoni all’estero senza denunciarli in Unico. Eppure ci sono tre fattori comuni che – in base ai suggerimenti degli esperti – dovranno ispirare le linee d’azione dei prossimi mesi:
– una maggiore prevenzione con l’amministrazione finanziaria chiamata sempre più ad “accompagnare” il contribuente al pagamento delle tasse (come nel caso del tutoraggio su cui punta anche la delega fiscale);
– incrocio di banche dati per andare a colpo sicuro sui veri evasori, limitando gli accessi alle situazioni a più alto rischio e scongiurando così i cosiddetti controlli di massa;
– una maggiore sinergia tra le istituzioni impegnate nel contrasto al nero e al sommerso.
In pratica, la strada maestra per aprire una “fase 2” dopo la stagione dei blitz stile Cortina e dei controlli su chi non emette lo scontrino. Anche perché crescita e lotta all’evasione vanno di pari passo e dal contrasto al sommerso potrebbero arrivare le risorse per ridurre la pressione fiscale o almeno per evitare gli aumenti Iva da luglio 2013.

Il Sole 24 Ore 27.08.12

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“L’allarme per il «nero» fa rotta sulla Lombardia”, di Cristiano Dell’Oste

La crisi riscrive la geografia del rischio di evasione fiscale. Le regioni del Sud restano in cima alla classifica del “sommerso potenziale”, ma la situazione sta peggiorando nel Centro-Nord, e in particolare in Lombardia. A disegnare questa particolarissima mappa sono i dati del Centro studi Sintesi, che come ogni anno ha confrontato il reddito disponibile con il tenore di vita delle famiglie italiane. I ricercatori sono partiti da sette indicatori di benessere – dalle auto di lusso alle case di pregio – e li hanno condensati in un numero che esprime il rapporto tra ricavi e spese: fatta 100 la media nazionale, dove il punteggio è più alto vuol dire che i consumi sono in qualche modo “giustificati” dai redditi; dove il punteggio è basso, invece, si spende in media più di quanto si dichiara al fisco. E quindi cresce il rischio che ci siano somme incassate in nero.
Uno sguardo alla cartina d’Italia – colorata per fasce di rischio in base al punteggio calcolato da Sintesi – mostra una realtà spaccata in due: redditi più alti al Nord, consumi superiori ai ricavi al Sud. Ma è spulciando le statistiche alla base delle elaborazioni che si scoprono gli aspetti più interessanti (le tabelle complete sono pubblicate su internet).
In provincia di Catania, ad esempio, circolano quasi 68 auto ogni 100 abitanti, mentre a Padova ci si ferma a 61. In provincia di Salerno i consumi alimentari superano i 2.700 euro all’anno, mentre a Modena l’importo è appena superiore ai 2.500 euro. Se si guardano i redditi disponibili, invece, il rapporto è invertito: a Catania e Salerno non si arriva a 13mila euro pro capite, a Modena e Padova si superano i 20mila euro. E le sorprese non mancano neppure sui beni di lusso: la percentuale di auto con una cilindrata superiore ai 2mila cc supera il 10% a Trento, Brescia, Bolzano, Vicenza e Treviso; ma restano casi come l’8,1% di Isernia, che batte – tra le altre – Varese, Rovigo, Como e Rimini.
Eppure, un confronto con la situazione del 2006 rivela un’evoluzione per certi versi inaspettata. Quest’anno i primi tre posti sono occupati, nell’ordine, dal l’Emilia Romagna (che pure perde 3 punti in valore assoluto), dal Friuli Venezia Giulia e dal Piemonte. Quattro anni fa, invece, accanto all’Emilia Romagna c’erano la Lombardia e il Trentino Alto Adige. Ed è proprio il dato lombardo a colpire: 13 punti in meno e cinque posizioni perse nella classifica regionale. Nel dettaglio, il grosso del calo non dipende da Milano, che ha perso solo una posizione, ma dalle altre città: Pavia, Cremona, Varese, Como, Lecco, Mantova sono le sei province italiane che hanno peggiorato di più il proprio ranking. Come interpretare questi risultati? «Mediamente la Lombardia ha perso reddito – spiegano da Sintesi – mentre i consumi sono rimasti sostanzialmente gli stessi». Questo quindi non significa necessariamente che il rischio-evasione sia aumentato, perché in molti casi il reddito risulta superiore ai consumi, e perché le famiglie potrebbero aver attinto ai risparmi (o essersi indebitate) per finanziare le spese non sostenute dai redditi. Ma certo le ricadute della crisi hanno accresciuto in modo drammatico il grado di stress cui è sottoposto il sistema economico, accendendo alcune spie d’allarme che potrebbero essere approfondite dell’agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza, in prima linea nello «stato di guerra» all’evasione dichiarato dal premier Mario Monti.

In altre regioni l’interpretazione diventa più lineare. Rilevano ancora da Sintesi: «Rispetto al 2006, il reddito è aumentato in Friuli Venezia Giulia, nelle Marche e nel Lazio: il fenomeno potrebbe spiegarsi con un certo recupero di base imponibile nascosta al fisco».

Il dato del Sud va letto con particolare attenzione. Qui le posizioni in classifica possono essere davvero ingannevoli, perché mostrano miglioramenti che in realtà non ci sono. Di fatto, rispetto al 2006 cinque regioni si sono scambiate gli ultimi cinque posti – Puglia, Campania, Calabria, Sardegna e Sicilia – e nessuna di loro ha visto migliorare il punteggio in valore assoluto. Anzi, la Sardegna è quella in cui la distanza tra redditi e consumi si è allargata di più. E in questi casi le spiegazioni possibili sono due: un calo dei redditi dichiarati (magari per colpa della crisi che ha spinto verso il nero imprese borderline) oppure un aumento dei consumi (dovuto con ogni probabilità ad aumenti delle tariffe o del prezzo di beni di prima necessità, più che a un reale miglioramento del tenore di vita).

Il sole 24 Ore 27.08.12

"Lo spread del sapere", di Marc Augè

La crisi attuale dovrebbe fornire l’occasione per riflettere in maniera schietta sulle cause, sulla portata e sulle conseguenze della crescente diseguaglianza nel mondo, mentre a sua volta, per riprendere l’espressione di Jean-François Lyotard, la “grande narrazione” liberale perde colpi. Oggi la stragrande maggioranza degli economisti è d’accordo nel riconoscere che, se il divario di reddito tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo globalmente si è un poco ridotto, è considerevolmente aumentato quello tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri. Da ciò l’apparizione e l’incremento di una grande povertà nei paesi ricchi e di una miseria assoluta nei paesi poveri.
Questo fenomeno, di cui siamo ogni giorno spettatori, implica diverse conseguenze. La prima è una minore disponibilità dei paesi ricchi ad aiutare i paesi poveri: l’incremento della povertà interna pone già loro abbastanza problemi. La seconda è un’instabilità sociale, testimoniata, in zone diverse e con modalità differenti, sia dalla crisi dei subprime, segno premonitore della tormenta attuale, sia dalle rivolte della fame.
Ma un fenomeno connesso a quello della povertà, che si sviluppa parallelamente a esso e che evidentemente è ad esso collegato, quello delle crescenti diseguaglianze nell’ambito della conoscenza, è ancora più inquietante. Il problema della sopravvivenza in certi continenti e quello del potere d’acquisto in altri hanno infatti per effetto un decadimento delle riflessioni sull’insegnamento e la ricerca. Ora, anche se i temi della disoccupazione, della precarietà del lavoro e dei redditi bassi dominano legittimamente la nostra attenzione, non dovrebbero comunque distrarci e renderci ciechi sulle carenze delle nostre politiche educative, visto che anch’esse hanno conseguenze sull’aumento della povertà.
Mentre la scienza progredisce a velocità esponenziale, tanto la scienza di base quanto le sue ricadute pratiche, il divario tra i suoi protagonisti, o almeno i dilettanti coltivati, e la massa di chi non ha la più pallida idea delle sue poste in gioco aumenta più rapidamente rispetto a quello dei redditi. Il divario tra i paesi che si impegnano nella ricerca scientifica e quelli che ne sono alieni, nonché, all’interno di ognuno di essi, tra l’élite scientifica e i più carenti nel campo della conoscenza, aumenta più velocemente di quello delle ricchezze. George Steiner ha fatto notare che il budget per la ricerca della sola Harvard University è superiore alla somma di tutti quelli delle università europee. Se nei paesi emergenti nascono dei poli di sviluppo scientifico, al loro interno le diseguaglianze in materia di istruzione e di conoscenze sono ancora più considerevoli che nei paesi sviluppati, dove pure continuano a crescere.
Possiamo dunque temere di veder apparire, nel medio termine, non una democrazia diffusa su tutta la Terra ma un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, contrapposta a una massa di semplici consumatori e a una massa, ancora maggiore, di esclusi sia dal sapere sia dal consumo. Saremo dinanzi a un’aristocrazia globale (nei laboratori delle università americane si incontrano già individui provenienti da ogni parte del mondo, molti dei quali non ritorneranno nel paese di origine).
Saremo dinanzi a un’aristocrazia polare (nel senso che le reti di circolazione delle conoscenze si incroceranno in più punti del pianeta). Infine, e senza irrigidire necessariamente i rapporti di forza esistenti, essa tenderebbe a rinforzarli (dato che il costo degli studi e le condizioni di vita sociale giocano certamente un ruolo essenziale nella diffusione del sapere). Se pensiamo, rispettivamente, alle possibilità per il futuro di una ragazzina che vive a casa del diavolo, in una campagna isolata dell’Afghanistan, e di un ragazzino americano figlio di due professori di Harvard, possiamo capire quel che rischia di essere il futuro dell’umanità.
La storia ha un senso? Quale senso? L’unico senso è la conoscenza. E l’unico ostacolo alla conoscenza è l’arroganza intellettuale degli allucinati di ogni sorta che vogliono imporre le loro convinzioni all’umanità. Certo, esistono diversi livelli di allucinazione, e non metto sullo stesso piano i teorici del liberalismo e i fanatici religiosi. Ma anche i primi sono ben lontani dalla modestia scientifica (parlo della modestia della scienza in sé, non di quella degli scienziati) che mira a spostare progressivamente le frontiere dell’ignoto.
Alla fin fine, la storia dell’umanità sarà quella di questa conquista paziente, la cui necessaria conseguenza dovrà essere la liberazione di ogni individuo. Solo le procedure di esclusione, messe in opera sottilmente o violentemente dai preconcetti dei sistemi ideologici e religiosi, che fondano sulla natura la diseguaglianza e il destino degli esseri umani, si oppongono a questo movimento doppio e parallelo. Se un giorno ci sarà una rivoluzione sarà una rivoluzione dell’istruzione e dell’educazione alla libertà.

La Repubblica 27.08.12

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“Il caso degli europei che non sanno leggere una frase”, di Giuseppe Sarcina

Un adulto su sette legge a fatica. Sillaba le parole, a stento collega le frasi, quasi mai capisce il senso di un testo semplice. Sono circa 73 milioni di cittadini europei (su una popolazione totale di 495 milioni). Una cifra inaspettata, per certi versi clamorosa nell’Unione europea che quest’anno ha giustamente celebrato i 25 anni di Erasmus, lo scambio di studenti tra le Università europee.
La Commissaria Androulla Vassiliou (Educazione, cultura, multilinguismo e gioventù) sta aspettando le conclusioni di gruppo di studio. Il 6 settembre, a Bruxelles, presenterà un piano di contromisure. È certamente un problema economico, perché queste persone con poche o alcuna capacità troveranno meno spazio nel mondo del lavoro. Oggi, in Europa, gli impieghi sotto qualificati sono pari al 20% del totale. Entro il 2020 scenderanno al 15% e la percentuale continuerà a diminuire. Ma è chiaro che chi (di fatto) non sa più leggere ha zero possibilità di migliorare la propria condizione. Gli altri corrono, loro sono fermi: una distanza che rischia di portare alla marginalità sociale.
Il fenomeno è trasversale ai diversi Paesi, anche se è difficile misurarlo con precisione. Eurostat, l’istituto statistico della Commissione, assume come parametro la quota di persone, comprese nell’età tra 25 e 64 anni, che non ha neanche completato il ciclo scolastico secondario inferiore (in Italia le scuole medie). Il Portogallo lascia interdetti con una percentuale del 50%; la Grecia è intorno al 22%; la Spagna al 20%; Francia e Italia tra il 10 e l’11%. Nella colonna positiva, con cifre quasi vicine allo zero, troviamo Repubblica Ceca, Danimarca, Lettonia, Austria, Polonia. La Germania? Intorno al 2% e l’altro Paese sempre citato come modello, la Finlandia, supera l’8%.
Dentro questi numeri ci sono gli effetti dell’immigrazione, ma anche dalla scarsa diffusione dei programmi di «formazione permanente», in molti casi, evidentemente, rimasti solo degli slogan.
La Commissione vuole intervenire anche alla base della piramide, quando i cittadini europei sono ancora, o dovrebbero essere, sui banchi di scuola. Anche qui i dati sono pesanti: scorporando i risultati dei test Pisa (i test internazionali sull’apprendimento degli studenti) si scopre che in Europa un quindicenne su cinque rivela «gravi» difficoltà con la lettura (le ragazze vanno meglio dei coetanei). Questo 20% è vicino al 18% degli Stati Uniti, ma lontanissimo dal 10% del Canada e dal 6% della Corea.

Il Corriere della Sera 27.08.12

"La Costituente nel 2014", di Pier Luigi Bersani

È giunto il momento di chiederci se è la stessa idea dell’Europa unita ad essere poggiata su fragili fondamenta o se sono stati gli architetti che nei decenni si sono succeduti alla guida
dei lavori di edificazione a non averla saputa realizzare compiutamente. Le forze politiche europee che hanno espresso alternativamente le classi dirigenti negli organismi comunitari portano una grande responsabilità rispetto alla crisi di legittimazione che il progetto d’integrazione soffre in questi anni.
Le principali famiglie politiche, pur avendo infatti contribuito al disegno comune investendo di responsabilità europea personalità di grande carisma e capacità di visione, non hanno poi saputo, e in alcuni casi voluto, mantenere vivo e alimentare negli anni il legame tra i cittadini e l’idea di Europa. L’idea vera e originaria.
Un’idea che è per noi fondata innanzitutto sui valori di pace, democrazia, giustizia e solidarietà. Un’idea che ispira un progetto mirato a fare della nostra regione l’area con il più alto tasso di svilup- po e conoscenza dell’intero pianeta.
Un’idea nata dalle ceneri dei nazionalismi fascisti e nazisti, e la cui prospettiva era di liberare le donne e gli uomini europei dalla minaccia delle ideologie totalitarie e dalle dmagogie populiste.
Quest’idea appare oggi sfibrata, pallida rispetto alla luce che emanava nel passato. Dopo anni di scontri ai vertici europei, i processi decisionali sono divenuti inintelligibili per i no- stri concittadini.
Attraversiamo una crisi senza precedenti, la cui natura è finanziaria, economica, sociale e quindi politica, ma diamo, agli occhi di chi vive, lavora e studia in Europa per costruire il proprio futuro, l’impressione di navigare a vista, quasi in balia tra le ondate delle agenzie di rating e le sirene della miopia politica comune a gran parte delle leadership europee.
La sfida del nostro tempo è di una complessità inedita. Saper coniugare la partecipazione democratica all’esercizio della sovranità in un contesto di globalizzazione economica e finanziaria è il vero compito di una leadership politica progressista con l’ambizione di governare per il bene comune la propria società (o comunità).
Vincere questa sfida è vitale per il rilancio dell’integrazione europea e la politica democratica che ne deve es- sere cardine principale. È imperativo rimettere al centro della partita i cittadini, gli elettori, le pubbliche opinioni. Dimostrare che solo con la loro partecipazione attiva il motore di un’Europa giusta e democratica può ripartire e finalmente portarci al tra- guardo di un’integrazione politica, sociale ed economica sana ed equilibrata. Non si tratta semplicemente di trasferire la sovranità da un piano all’altro. La sovranità è dei cittadini e deve rimanere tale. Si tratta invece di far condividere agli stessi cittadini europei il progetto di un’Unione la cui sovranità si legittima su una base di condivisone tra eguali.
Per questo obiettivo sarà necessario ripartire dall’unica vera istituzione comunitaria direttamente rappresentativa della cittadinanza europea. Il Parlamento, in cui già oggi l’Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici svolge un lavoro prezioso, sarà il luogo di partenza per effettuare il salto di qualità necessario a costruire una nuova Europa. Se lo vorremo tutti saranno le prossime elezioni europee del 2014 ad essere le prime elezioni democratiche sul percorso di una Costituente Europea. Riscrivere le regole della nostra Unione. Permettere a tutte e tutti di scegliere quale strada perseguire per il proprio futuro insieme. Pensando alle nuove generazioni è nostro dovere dedicare tutti noi stessi a questa sfida.

L’Unità 27.08.12

"Atti sediziosi", di Massimo Giannini

Il conflitto istituzionale che sta dilaniando la Bce non ha precedenti. Non era forse mai capitato che il rappresentante di una singola banca centrale sparasse contro il “quartier generale”. L’accusa che il rappresentante della Bundesbank Jens Weidmann rivolge al presidente dell’Eurotower Draghi ricorda quella che Guido Carli usò ironicamente contro se stesso negli anni ’70, chiedendosi se la Banca d’Italia dovesse cedere alle pressioni della politica, e creare base monetaria per sostenere la finanza pubblica: «atti sediziosi ».
La Bundesbank è un’istituzione prestigiosa. Nella tormentata storia della democrazia tedesca ha sempre svolto un ruolo fondamentale, per la rigorosa custodia dell’ortodossia monetaria: la banca centrale ha solo un obiettivo, il controllo dei prezzi e della base monetaria. Ogni altro compito spetta ai governi. La Bundesbank è anche un’istituzione preziosa: nella tormentata storia della costruzione europea ha sempre svolto una funzione cruciale, a difesa dell’autonomia della politica monetaria dalla politica politicante. Spesso la sua acribia ha rasentato la miopia. È accaduto negli Anni Novanta, quando la «Buba» era diventata la bestia nera del Club Med che arrancava per entrare nell’euro, e l’allora governatore Hans Tietmeyer non gli risparmiava la tortura delle critiche quotidiane.
Ma oggi la Bundesbank sta diventando un’istituzione tecnicamente «pericolosa». La «Stabilitaet Kultur», la teutonica cultura della stabilità che ha meritoriamente riversato nella casa comune europea, rischia di cozzare contro il principio di realtà. Weidmann accusa a viso aperto Draghi di aver trasformato la Bce in un «Pantalone» degli Stati dissoluti di Eurolandia. Contesta gli acquisti di titoli di Stato che l’Eurotower ha effettuato nei mesi scorsi e si oppone all’ulteriore acquisto di bond per ristabilire il corretto funzionamento degli ingranaggi di politica monetaria inceppati dal micidiale effetto degli spread. Per la Bundesbank, questo è solo un modo surrettizio di finanziare gli Stati. Per Weidmann, che rivendica il suo diritto a dissentire rievocando addirittura il «Politburo sovietico», il differenziale dei tassi non si restringe con la «droga» della liquidità, ma con la «cura » delle riforme strutturali dei governi. Una posizione legittima, visto che in passato qualche Stato-cicala ha approfittato di politiche monetarie troppo concilianti. Ma una posizione sbagliata, oggi, per due ragioni di fondo.
La prima ragione è l’evidente malfunzionamento dei mercati di questi ultimi mesi. Gli spread non riflettono più in modo così automatico la sfiducia degli investitori sulla tenuta di questo o di quel Paese. Le manovre compiute dalla Bce sulla leva dei tassi di interesse non producono più alcun effetto. Il differenziale tra i rendimenti sta generando un’allocazione distorta dei capitali e delle provviste bancarie: fisiologica in un regime di cambio diversificato, patologica in un sistema valutario unificato. Dunque, per la Bce comprare bond in questa fase serve solo a ripulire gli ingranaggi e a far ripartire la macchina della politica monetaria. Non certo a finanziare i deficit degli «Stati canaglia». La seconda ragione è che la Bce può liberamente acquistare bond sul secondario. La misura e la frequenza degli acquisti è discrezionale, e per decidere gli interventi non ha bisogno di un «mandato speciale». Se lo fa, si muove nel rispetto delle regole fissate dai Trattati e dal suo Statuto. Se non lo fa, è solo perché Draghi da un lato rispetta la posizione tedesca, dall’altro aspetta il Consiglio direttivo fissato per il 6 settembre, e soprattutto la decisione della Corte di Karlsrhue sui Fondi salva-Stati prevista per il 12 settembre. Ma è proprio in vista di questi appuntamenti decisivi che i tedeschi, ancorati alla Bundesbank e caricati dalla loro campagna elettorale, lanciano l’assedio all’Eurotower, per blindarne le mosse.
Ma questa volta non si scherza. È chiaro a tutti che se dal consiglio del 6 settembre la Bce uscirà un’altra «fumata grigia», senza decisioni concrete sulla soglia degli interventi e sui volumi d’acquisto, sulle scadenze dei bond da comprare e sulle altre misure «non convenzionali» già annunciate ai primi di agosto, non saranno solo i soliti «Piigs» a crollare, ma l’intero edificio monetario europeo. Allora sorge un dubbio: i veri «atti sediziosi » sono quelli di Draghi o quelli di Weidmann?

La Repubblica 27.08.12