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«L’Emilia sarà d’esempio per il Paese», di Elisabetta Tedeschi

Gli amministratori riuniti alla Festa del Pd con il governatore Vasco Errani: «Qui non facciamo la cresta sul terremoto, riapriremo le scuole e le fabbriche senza dare spazio alle imprese mafiose». Barbara Bernardelli, energica giovane signora, è reduce da un doppio terremoto. Come sindaco di Reggiolo, comune del reggiano a pochi chilometri dal mantovano, nel giro di una trentina di giorni si è trovata, così come i suoi 9400 amministrati, colpita prima dal crac della Cmr, la storica Cooperativa muratori di Reggiolo, cui 800 famiglie avevano fiduciosamente affidato i propri risparmi, poi dalle scosse del 20 e del 29 maggio che, in particolare la seconda, hanno danneggiato un centinaio di attività commerciali e messo fuori casa 800 persone.
Adesso, racconta dal palco della Festa nazionale del Pd a Reggio Emilia, le cose sono migliorate: «Gli sfollati sono ridotti ad un’ottantina, ed è stato fatto un grande lavoro, grazie alla solidarietà, al volontariato e all’opera delle istituzioni. Ed anche per la vicenda Cmr, il movimento cooperativo sta cercando di venire incontro alle esigenze della nostra comunità».
Con lei, sabato sera, hanno discusso del dopo terremoto e delle prospettive della ricostruzione i primi cittadini di Crevalcore, nel bolognese, Claudio Broglia, e di Mirandola, in provincia di Modena, Maino Benatti, il presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani, il segretario regionale del Pd Stefano Bonaccini, il direttore de l’Unità Claudio Sardo. Al confronto ha voluto portare una breve testimonianza anche il leader degli Stadio Gaetano Curreri, tra i protagonista l’altra sera del tributo a Lucio Dalla (spettacolo d’apertura della Festa). Curreri ha ricordato davanti ai sindaci il concerto del 25 giugno scorso a Bologna di solidarietà per i terremotati ed «il grande contributo di Beppe Carletti» dei Nomadi, definito il Bob Geldof dell’Emilia.

Claudio Broglia ha snocciolato la sua triste contabilità del sisma: “Su 13500 abitanti, a Crevalcore, mille e 100 sono state le persone ospitate nei campi per gli sfollati. Abbiamo fatto, come Comune, 1350 ordinanze per strutture inagibili. Le attività produttive, nel nostro territorio, non hanno subito grossi danni, tant’è vero che adesso ospitiamo anche un’azienda di Mirandola del biomedicale. E a volte mi chiedo quale altra Regione avrebbe potuto sopportare un terremoto di questa gravità». Crevalcore è da pochi giorni il primo Comune terremotato dell’Emilia ad aver chiuso il campo dell’emergenza. E ovviamente il sindaco ne è molto contento.

Anche a Mirandola, 25mila abitanti, di cui un terzo fuori dalle proprie abitazioni nel momento dell’emergenza ed ora 890 ancora da sistemare, la situazione sta lentamente ritrovando una normalità. Ma Mirandola è uno dei Comuni più colpiti: «Siamo stati tra le realtà più ferite in tutti i sensi, ma dove c’erano capannoni inagibili tutti, lavoratori e imprenditori, si sono attivati per riprendere il lavoro in tensostrutture», ricorda Benatti, il cui impegno primario è ora «aprire le scuole, dal momento che sono inagibili tutte le superiori, due elementari ed una materna. Dobbiamo fare in modo che per 5mila studenti l’anno scolastico parta al più presto». Secondo il primo cittadino del Comune della bassa modenese, «si è dimostrato che questo paese funziona anche nella pubblica amministrazione, dando risposte umane ed efficaci». Bonaccini ha ricordato come i fondi raccolti da circoli e feste del Pd a favore delle popolazioni colpite dal sisma (oltre mezzo milione di euro, cui andrà aggiunta anche parte dei ricavi della Festa democratica) sono stati già consegnati ai Comuni interessati.

Il presidente Errani ha espresso soddisfazione per il rinvio al 30 novembre prossimo del pagamento delle tasse per i cittadini delle zone terremotate, ferma restando la richiesta di una proroga di durata maggiore, «perché non chiediamo assistenza, ma non accettiamo cose inique». Il commissario per l’emergenza ha ripercorso l’azione delle istituzioni negli ultimi tre mesi, improntata a «umanità, socialità e responsabilità». Ma non si nasconde che esiste ancora un’ampia area di disagio. «Abbiamo predisposto 37mila e 500 schede per i danni ai fabbricati in due mesi e posto alcuni paletti, innanzitutto assicurare l’inizio dell’anno scolastico per quei 18mila alunni che non avevano più le scuole e per gli allievi dei 260 istituti che stiamo mettendo in sicurezza. Altra priorità della nostra azione è la sicurezza sul lavoro, perché non possiamo più permettere che lavoratori e imprenditori muoiano sotto i capannoni». Errani ha assicurato la massima vigilanza negli appalti: «Sappiamo che nella nostra Regione ci sono rischi di infiltrazioni mafiose. Fermeremo le imprese non in regola, anche nei lavori affidati dai privati».

Non è mancato l’affondo del presidente della Regione nei confronti di «chi fa facile populismo in rete, perché il populismo cerca solo un Cavaliere bianco da applaudire». «L’esperienza dell’Emilia Romagna dovrà dimostrare ad italiani e tedeschi che esiste un’Italia che non fa la cresta sul terremoto. Che esiste una politica utile ai cittadini. Il mio desiderio è di tornare fra tre anni e mezzo e di camminare a testa alta a Mirandola, Reggiolo e Crevalcore: una cosa che non potrà fare chi è andato a l’Aquila con gli elicotteri e ha promesso miracoli…».

L’Unità 27.08.12

"Medici di base, ok alla riforma ma i dottori degli ospedali bocciano i limiti all’attività privata", di Michele Bocci

Avanti con gli ambulatori aperti 24 ore al giorno. I medici di famiglia apprezzano le misure del decretone sanità che li riguardano. «Per noi è la riforma più importante dal 1980 ad oggi», si spinge a dire Giacomo Milillo, il segretario della Fimmg, il sindacato di categoria con più iscritti. Sono decisamente meno soddisfatti i camici bianchi ospedalieri per le norme sull’intramoenia che andrà svolta in strutture comprate, affittate o convenzionate dalle aziende. Il cambiamento che inciderà di più sui cittadini, tra tutte le norme dell’atto che il ministro Renato Balduzzi porterà venerdì in Consiglio dei ministri, è quello sugli studi dei medici di famiglia. Si prevede la creazione di gruppi di professionisti – che potranno lavorare anche con pediatri, guardie mediche, specialisti e infermieri – che gestiranno insieme strutture aperte tutto il giorno, dove gli assistiti troveranno sempre una risposta a molti dei loro problemi di salute. Se non sarà il loro dottore a dargliela, ci penserà un altro medico del maxi ambulatorio. A qualsiasi. «Stimiamo che per mandare avanti questi studi ci vogliano 15-25 dottori spiega Milillo – Siamo contenti che il decreto raccolga le nostre proposte di rifondazione della professione del medico di famiglia ». I medici di famiglia di recente hanno polemizzato duramente con Balduzzi per la norma che li obbliga a scrivere il principio attivo dei farmaci sulle ricette e non più il nome commerciale. «Non facciamo ripicche, quella legge non ci piace ma questa ci va bene – spiega Milillo – Certo, non escludo che i singoli medici, dopo anni di frustrazioni e di manovre che hanno cercato di condizionare la loro attività, siano un po’ diffidenti, però la strada è quella giusta». Con gli ambulatori strutturati in modo diverso i dottori potranno dedicarsi anche alla medicina di iniziativa, «cioè potremo essere noi a contattare i pazienti, ad esempio cronici, per sincerarci che seguano le terapie facciano gli esami». La novità sarà a costo zero. «Anzi se lavoriamo bene, con il tempo – dice Milillo vedremo una diminuzione del-l’attività degli ospedali, e quindi una riduzione di spesa. Certo, a quel punto le risorse andranno spostate sulle nostre strutture».
Sul fronte ospedaliero c’è meno soddisfazione per la norma sui medici dipendenti del servizio
pubblico, quella sulla libera professione intramoenia. I dottori che continueranno a farla fuori dagli ospedali, ma in strutture comunque convenzionate dalla Asl, saranno controllati con una sorta di “tele lavoro”, tramite il computer. «Intanto le cose non mi sembrano molto diverse da prima – spiega Costantino Troise del sindacato Anaao – Siamo d’accordo sulla questione telematica, il punto però è capire se le Asl hanno gli spazi chiesti dalla legge, separati e distinti, per permettere ai professionisti di fare intramoenia negli ospedali. In molte Regioni non ci sono». A Massimo Cozza della Cgil non piace la possibilità data alle amministrazioni di sperimentare comunque convenzioni con i privati. «Non ci sono grossi cambiamenti, il provvedimento ha troppe deroghe. I principi di trasparenza e tracciabilità vanno bene ma non si può lasciare ancora la possibilità al medico di allontanarsi dal pubblico».

La Repubblica 27.08.12

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Guerra: “Nessun taglio alle prestazioni”

«Non taglieremo la spesa sociale, questo deve essere chiaro». Maria Cecilia Guerra, sottosegretario al Welfare, segue da mesi l’iter di revisione dell’Isee. E ne difende le novità.
Imu, rendite finanziarie. Il nuovo Isee sarà più alto. Non si rischia una stretta sulle agevolazioni?
«No, anzi. L’intervento sarà a platea invariata. E lo strumento, ora più mirato, selettivo ed equo, ci consentirà di favorire i bisognosi. Escludendo chi bara. Un quarto lo fa sui redditi, figuriamoci sui patrimoni. E il 10,4% dichiara Isee zero. Troppi».
Aumenterete i controlli?
«Il nuovo Isee arriverà già “precompilato”, con i dati acquisiti dagli archivi delle amministrazioni. Chi lo richiede lo integrerà o correggerà. Poi Inps e Agenzia delle entrate incroceranno le verifiche».
Nel 2010 ben 15 milioni di italiani dichiaravano, ai fini Isee, di non avere neanche un conto corrente.
«Molti svuotano i conti poco prima di fare la dichiarazione. Per questo il “31 dicembre” non sarà più la data entro la quale comunicare “quanto hai sul conto”. Ma un giorno, estratto a sorte, degli ultimi tre mesi dell’anno».
Un Isee più elevato comporterà cambiamenti nelle soglie?
«Ogni ente erogatore dovrà rivederle ».
E lo Stato?
«Ne rivedremo, al ribasso, solo due: l’assegno di maternità alle madri non coperte da altre garanzie, e l’assegno per nuclei con almeno tre minori ».
Molti ne saranno esclusi, allora.
«Non dai nostri calcoli. Il nuovo Isee sarà uguale o più basso per chi usufruisce di questi assegni».
Si introdurranno soglie Isee anche per le prestazioni oggi a carattere universale, come pensioni di invalidità civile o assegni sociali?
«Assolutamente no. Non è mai stato nelle nostre intenzioni».
Rifinanzierete la social card di Tremonti?
«Sì, nella legge di stabilità».

La Repubblica 27.08.12

"Cattedre, non escludere i giovani", di Fausto Raciti*

In tempi di strettezze economiche riuscire a istruire percorsi per l’assunzione stabile di nuovi docenti per la scuola pubblica è un risultato da accogliere positivamente. Certo, gli errori del passato si riflettono negativamente sulle soluzioni del presente. In tempi di strettezze economiche riuscire a istruire percorsi per l’assunzione stabile di nuovi docenti per la scuola pubblica è un risultato da accogliere positivamente. Certo, gli errori del passato si riflettono negativamente sulle soluzioni del presente. E oggi ne leggiamo i caratteri più torvi nella diatriba che ha aperto l’annuncio del concorso. Senza uno diminuzione pesante delle risorse all’istruzione pubblica avremmo potuto evitare questo dibattito annoso, magari avremmo potuto godere di qualche posto in più nel concorso, che presenta un numero troppo esiguo di cattedre disponibili. La Gelmini, che oggi esulta per il concorso, qualche anno fa parlava della docenza italiana come sinonimo di ammortizzatore sociale, come funzione decrescente della qualità del sistema di istruzione pubblica, un corpo da snellire insomma. Giusto per darci qualche promemoria e sgombrare il campo dalle ambiguità. Mentre passava strisciante nell’informazione pubblica l’idea assistenzialistica della scuola, aumentava l’esercito di docenti precari, sempre meno giovani, sempre più sfiancati. Anni trascorsi a spostarsi da una scuola ad un’altra con ritmi imbarazzanti per la qualità della vita e dell’insegnamento. Nel riconoscimento necessario allo spirito di sacrificio e di altissima dedizione all’insegnamento che dobbiamo a tutti i docenti precari, bisogna preservare il futuro dagli errori che loro stessi portano sulla pelle, mentre uno spirito di forte solidarietà generazionale deve arginare la passione per la classica guerra patricida. Fare il docente in Italia non può voler dire ripetere in eterno sacrifici generazionali, per cui si ha il diritto ad aspirare ad un posto stabile solo dopo vent’anni di onorata carriera, a meno che non si espatri. Non vorremmo che ritardare ulteriormente la soluzione di questa vicenda fosse un modo per scaricare sulle spalle delle giovani generazioni la stessa sorte che hanno subito le generazioni precedenti. L’effettiva distribuzione dei posti assegnati dal concorso, rispettivamente ai docenti già presenti nelle vecchie graduatorie e ai nuovi concorrenti, deve essere paritetica. Questo non vuol dire abbandonare come problema irrisolvibile la questione della precarietà. Sia chiaro, le ragioni che hanno alimentato le proteste di qualcuno sono le stesse che negli ultimi anni ci hanno fatto scendere in piazza con i precari del mondo della scuola. Il governo, questo o il prossimo, deve stabilire un percorso robusto per conciliare la stabilizzazione dei precari della scuola e l’immissione in ruolo di una nuova generazione di docenti. Garantire la presenza di concorsi che nei prossimi anni possano esaurire definitivamente le graduatorie vuol dire restituire un sano bisogno di certezze e di prospettive che nell’impegno quotidiano all’insegnamento servono al docente e alla persona stessa. Anche in Italia è possibile una scuola in cui un professore possa avere meno di trent’anni in condizioni di stabilità? O per una volontaria opera di ascetismo collettivo è necessario espiare i mali della scuola sacrificando le prossime tre generazioni? Il buon senso e la ragionevolezza impongono che le scale non si salgano saltando ad ogni passo uno scalino, altrimenti o si cade o ci si deve fermare.

* segretario nazionale Giovani PD

L’Unità 27.08.12

"Anticorruzione una riforma senza scambi", di Carlo Federico Grosso

Il ministro Severino, alla ripresa dei lavori del governo, ha fatto il punto sulle riforme possibili in materia di giustizia. Ancora una volta le idee del ministro mi sono sembrate in larga misura condivisibili: priorità assoluta allo smaltimento dei processi civili e alle norme anticorruzione, anche per rispondere positivamente alle sollecitazioni europee. Poi si vedrà. Questa calendarizzazione mi sembra importante. Durata irragionevole dei processi civili e dilagare della corruzione costituiscono due piaghe che, unitamente alle lungaggini della burocrazia, contribuiscono a rendere l’Italia un luogo poco appetibile per le imprese e a danneggiare pertanto la sua economia. Non stupisce pertanto che siano individuate come priorità da un governo che si prefigge, appunto, il risanamento economico del Paese e la sua uscita dalla crisi, costituendo la durata eccessiva delle controversie civili e la corruzione oneri aggiuntivi molto pesanti per chi intende intraprendere un’attività imprenditoriale o commerciale.

I numeri della giustizia civile forniti ieri da «La Stampa» sono drammatici: cinque milioni e mezzo di processi pendenti al 30 giugno 2011, oltre quattro anni la durata media di un processo, 1032 giorni quella di un processo di appello.

Giusto, quindi, che il ministro annunci misure specifiche per contrastare il fenomeno: introduzione (già decisa) di un filtro per l’appello nei processi civili (che in prospettiva dovrebbe consentire di non accumulare eccessivi arretrati), una task force da dedicare alla trattazione dei processi pendenti (secondo una simulazione, ha rilevato il ministro, se si applicassero duecento persone a smaltire le cause in appello che sono in attesa di decisione da oltre tre anni, calcolando quarantamila sentenze l’anno, s’impiegherebbero cinque anni e mezzo per azzerare l’arretrato complessivo). Semmai, se possibile, le misure dovrebbero essere ancora più incisive.

Per altro verso, l’Europa sta aspettando da oltre dieci anni che l’Italia adempia agli obblighi internazionali assunti con la sottoscrizione dei trattati anticorruzione. Una legge perfettibile, ma tutto sommato ampiamente accettabile (anche se non è riuscita a risolvere adeguatamente tutti i problemi: ad esempio, quello della prescrizione dei reati), è stata approvata dalla Camera prima dell’estate e attende ora l’approvazione del Senato. Il Consiglio dei ministri di venerdì scorso ha, giustamente, ribadito che l’approvazione definitiva di tale ddl costituisce una priorità del governo. Ma esso riuscirà davvero a condurlo in porto, date le critiche concentriche, di segno contrapposto, che sono state rivolte sia da una parte consistente del Pdl sia dall’attuale opposizione? L’auspicio è che vi riesca, anche se le difficoltà (e i possibili costi) sono elevati.

Vale la pena di fare il punto della situazione per cercare d’individuare appunto difficoltà e rischi dell’iter prossimo venturo degli interventi legislativi in materia di giustizia. Il Pdl, critico nei confronti di alcuni profili importanti della legge anticorruzione (ha manifestato, ad esempio, contrarietà all’introduzione dei reati di corruzione fra privati e di traffico d’influenze illecite, e all’aumento generalizzato dei massimi delle pene, in quanto a suo dire esso allungherebbe eccessivamente i tempi della prescrizione), prima dell’estate aveva posto come condizione che in Senato si affrontassero insieme i temi della legge anticorruzione, delle intercettazioni e della responsabilità civile dei magistrati. L’obiettivo era evidente: affrontare insieme tutti i nodi sul tappeto avrebbe consentito di trattare con le altre forze politiche di maggioranza e con lo stesso governo possibili scambi, ed eventualmente ottenere soluzioni auspicate sull’uno o sull’altro fronte.

I rischi maggiori concernono la materia delle intercettazioni, sulla quale da anni governi e Parlamenti si stanno cimentando. E’ noto come il Pdl, ma anche frange non marginali del Pd, da anni cerchino di ridurre l’incisività delle indagini penali e d’imbavagliare l’informazione attraverso una drastica limitazione delle intercettazioni e un altrettanto drastico divieto di pubblicare atti delle indagini penali (ben al di là del ragionevole intento di evitare che persone estranee ai processi penali, casualmente intercettate, possano finire nel tritacarne massmediatico). Ebbene, preoccupa non poco che questo tema possa diventare oggetto di scambio con la normativa anticorruzione, magari utilizzando, come clava, lo spauracchio della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, ufficialmente osteggiata dal Pd ma appoggiata dalla Lega.

Ecco perché una rigorosa calendarizzazione dei problemi, che non consenta improprie confusioni fra l’una e l’altra questione, mi sembrerebbe essenziale per una ragionevole ed ordinata loro soluzione (anche per, eventualmente, porre la fiducia sull’uno o sull’altro provvedimento). Il ministro, nell’intervista rilasciata ieri a «La Stampa», dopo avere precisato che costituisce valutazione comune dell’intero governo che la legge anticorruzione rappresenti una assoluta priorità, ha soggiunto che «i problemi tecnici sono, comunque, tutti ragionevolmente risolvibili» e che anche il tema delle intercettazioni «va risolto laicamente» e che in ogni caso «si è molto avanti, grazie anche al contributo del confronto svolto dai responsabili dei partiti della maggioranza».

Continuo a ritenere che sarebbe in ogni caso più tranquillizzante se il governo, rispettando le priorità che a dire del ministro esso stesso si sarebbe dato, procedesse senza tentennamenti lungo la strada indicata, senza rischiare pericolose commistioni fra problemi diversi e senza mescolare le urgenze (legge anticorruzione, accelerazione dei processi civili) con questioni che non sembrano proprio essere altrettanto urgenti per il bene del Paese.

La Stampa 27.08.12

"E' rischioso giocare col voto", di Ilvo Diamanti

Ancora un anno fa, vennero raccolte oltre un milione di firme per abrogare il Porcellum. Inutilizzate, perché la Corte costituzionale dichiarò il referendum inammissibile. Da allora, il dibattito non si è fermato un secondo. Spinto dalle ripetute esortazioni del presidente della Repubblica Napolitano. Sin qui, senza esiti. Nonostante si sia, ormai, al limite dei tempi consentiti per votare con una nuova legge. Peraltro, non è facile capire di cosa si discuta. Perché i margini di incertezza, intorno al progetto, sono ancora ampi. Visto che si parla di un premio di maggioranza, ma non si sa se attribuirlo alla coalizione o al partito che ottiene più voti. E non è chiaro come ripartire i seggi: in base a collegi uninominali oppure mediante il ritorno al proporzionale e alle preferenze. Oppure, ancora, attraverso collegi uninominali proporzionali. Combinando le preferenze con un listino a candidature “bloccate”. Insomma, si arriverà a un nuovo sistema elettorale. Forse. I cui risultati non sono prevedibili. Da nessuno. Neppure dai negoziatori e dalle forze politiche che essi rappresentano. Una riforma elettorale “preterintenzionale”, come altre. Approvata contando sull’incomprensione e sul disinteresse dei cittadini. La cui attenzione è assorbita da problemi diversi, ben più urgenti. Il lavoro, il reddito, le pensioni, i risparmi, il fisco, i servizi… Tuttavia, l’importanza della legge elettorale è fondamentale. Soprattutto per i cittadini. Perché riguarda il fondamento, non unico, non sufficiente, ma comunque necessario, della democrazia rappresentativa. Il voto. Anello di congiunzione fra elettori, partiti, Parlamento e governo. Attraverso il voto, nonostante l’autonomia relativa degli eletti, i cittadini possono sentirsi – o almeno “immaginare” di essere – coinvolti nella scelta di chi guida e gestisce lo Stato e le istituzioni.
Il sistema elettorale è, peraltro, un meccanismo chiave nel controllo e nella riproduzione del potere. A ogni livello. Modificare le regole e i criteri delle elezioni contribuisce, infatti, a orientare oppure a modificare i risultati e gli esiti. Com’è avvenuto nell’autunno 2005, quando la maggioranza di centrodestra – allargata, allora, all’Udc introdusse il Porcellum. In fretta. Sulla base di una semplice valutazione: con il precedente sistema elettorale l’Unione di centrosinistra, guidata da Prodi, appariva destinata a una larga vittoria. Perché i sondaggi la vedevano largamente in vantaggio nella competizione maggioritaria, con cui si eleggevano i tre quarti dei candidati, in collegi uninominali. Il Porcellum azzerò questo procedimento. Lo sostituì con un sistema proporzionale che attribuisce la maggioranza assoluta dei seggi alla coalizione vincente. In questo modo, i partiti sono indotti – meglio: costretti – a coalizzarsi “prima” del voto. Mentre le segreterie nazionali dei partiti hanno acquisito grande potere nella scelta dei candidati e, quindi, degli eletti. Visto che l’elezione avviene in base a liste bloccate e senza preferenze.
Il voto. Il legame più diretto fra cittadini e governo, fra elettori e partiti, nelle democrazie rappresentative. Per questo è sempre stato difficile riformare le leggi elettorali senza spargimento di sangue e senza colpi di mano. Non è un caso che la “fine” della Prima Repubblica coincida non con Tangentopoli, nel 1992, ma con il referendum elettorale del 1991, promosso, fra gli altri, da Mario Segni e dai Radicali. Avversato da molti leader politici, per primo Bettino Craxi, che invitò gli elettori ad “andare al mare”. Inutilmente. Anzi, l’esortazione fornì agli elettori una “buona ragione” in più per votare. Contro i partiti. È interessante rammentare come quel referendum prevedesse di ridurre a una sola le preferenze nell’elezione della Camera dei deputati. Perché allora le preferenze costituivano uno strumento – e un simbolo – del controllo dei partiti sulla società. Soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno. Il che, a distanza di tempo, può apparire curioso. Visto che oggi si parla di reintrodurre le preferenze per ragioni inverse. Cioè, proprio per restituire agli elettori un maggior controllo sui partiti. Una maggiore possibilità di scelta dei rappresentanti. Oltre che per ricostruire il rapporto fra gli eletti e il territorio.
Ciò sottolinea come le tecniche e le norme elettorali siano importanti, ma non sufficienti a garantire la qualità della democrazia. E il funzionamento della rappresentanza. Come, inoltre, possano produrre effetti diversi, in tempi e contesti diversi. Un’avvertenza che oggi appare utile almeno quanto vent’anni fa. Perché, quanto e forse più di allora, è in crisi il rapporto fra cittadini, partiti e Parlamento. Rammentiamo: la quota di persone che esprime Molta o Abbastanza fiducia verso i partiti è inferiore al 5%. Nei confronti del Parlamento sale (si fa per dire) al 9% (Demos-la Repubblica, “Gli Italiani e lo Stato”, dicembre 2011). In altri termini, circa nove italiani su dieci non hanno fiducia negli attori principali e nel luogo emblematico della democrazia rappresentativa. Cioè: non hanno fiducia nella democrazia rappresentativa, che si è tradotta in “democrazia del pubblico”, negli ultimi vent’anni. Favorita dalla mediazione dei media e della televisione, dalla personalizzazione dei partiti e dai partiti personali. Dalla surrogazione e, in parte, dalla sostituzione delle elezioni con i sondaggi. Un plebiscito che si rinnova ogni giorno.
Questi metodi, imposti da Berlusconi con la complicità degli altri attori politici (anche di centrosinistra), hanno logorato la legittimazione dei principali soggetti politici. Fino a disegnare una scena dove campeggiano leader “non eletti”, sfidati da attori (non solo) politici che usano nuovi canali (new media). In nome della democrazia diretta. E in alternativa alla democrazia rappresentativa e ai suoi soggetti.
Per questo sarebbe utile che la nuova legge elettorale venisse discussa e scritta non tanto – non solo – in base agli interessi di partiti e partigiani, preoccupati di riprodurre il proprio potere e la propria rendita di posizione. Ma avendo ben chiaro che è in gioco il fondamento normativo (e di valore) della “democrazia rappresentativa”. Una questione critica e altamente rischiosa per tutti. Perché mai come oggi la democrazia rappresentativa è sembrata parola tanto svuotata di senso. E le sue istituzioni, i suoi attori: tanto svuotati.

La Repubblica 27.08.12

"La scuola, il merito e gli errori da evitare", di Miguel Gotor

Il Governo ha deciso di reintrodurre il concorso per scegliere i nuovi insegnanti. Una buona notizia che giunge tredici anni dopo l’ultimo esame di Stato, celebrato nel 1999. In tale lasso di tempo si è consumata una triste stagione per la scuola italiana, in cui si sono avvicendate una serie contraddittoria di modalità di selezione, dalle Ssis, alle lauree abilitanti, al Tfa, rivelatesi insufficienti e parziali. Una vera e propria ipertrofia formativa, su cui si è sadicamente esercitato il pedagogismo più deteriore, che ha caricato l’università italiana di compiti professionalizzanti difficilmente sostenibili.
In questi anni si sono nevroticamente attivati due dispositivi retorici. Il primo ha riguardato l’abuso di nobili concetti come riforma e riformismo, i quali hanno perduto il loro valore positivo perché sono serviti in realtà a ridurre le opportunità di lavoro, che si è sempre più precarizzato e dequalificato, e a tagliare le risorse in favore della scuola pubblica, già storicamente inferiori alla media europea.
Il secondo ha interessato l’ideologia del merito che accompagna da sempre la propaganda di ogni processo di selezione dai tempi del ministro Falcucci in poi e sulla quale troppo indulgono anche gli attuali governanti, che pure dovrebbero essere esenti dalle smanie del facile consenso. Purtroppo la demagogia sui «professori fannulloni» sta al politico populista di brunettiana memoria come quella sulla meritocrazia rischia di stare al tecnocrate di oggidì: sembrano l’opposto, ma sono le due facce della stessa medaglia.
Sarebbe già sufficiente che la scelta di ritornare al concorso non portasse a ripetere gli stessi errori del passato, quelli che hanno caratterizzato il famoso “concorsone” del 1999, a cui ho avuto l’avventura di partecipare. Ricordo quell’esperienza come una tra le più frustranti della mia vita: il numero abnorme di candidati (oltre un milione e mezzo) che trasformò un esame di Stato in una lotteria strapaesana, la presenza di commissioni giudicanti per lo più demotivate, un senso generale di arbitrarietà e di squallore. Per rendere rigorosa questa nuova selezione bisognerebbe prendere piccoli, ma concreti accorgimenti che un governo di professori come questo dovrebbe conoscere bene.
Il primo, quello del test di ingresso per scremare la pletora di partecipanti e verificare la conoscenza di alcune nozioni di base, è già stato scelto ed è molto importante.
Il secondo dovrebbe indurre a formare commissioni il più possibile qualificate. Uno dei modi per farlo è decidere di retribuire i singoli membri in modo dignitoso e di prevedere il distacco, almeno del preside della commissione, per i mesi in cui è impegnato nell’attività di concorso. Ciò non avvenne nel 1999 a detrimento del livello complessivo dei collegi giudicanti.
Il terzo potrebbe favorire l’accesso in ruolo di quei candidati che abbiano già conseguito il titolo di dottore di ricerca. Essi sono stati giudicati, sia all’ingresso che all’uscita, da commissioni di professori universitari scelte a livello nazionale. Sono figure di studiosi su cui si è investito del denaro pubblico che vengono all’improvviso abbandonate a se stesse e sono costrette a emigrare all’estero. Là si fanno strada, a riprova che il sistema formativo italiano non deve essere proprio malaccio come si dice, ma difetta di risorse e di opportunità.
Bisognerà, infine, trovare il modo per tutelare quei docenti precari, inseriti nelle graduatorie, i quali in questo decennio di far west normativo hanno accumulato esperienze didattiche preziose e ora rischiano di essere scavalcati dai vincitori del nuovo concorso, che produrrà nuove graduatorie perpetuando un meccanismo che deve essere bloccato.
In realtà, chi conosce la scuola italiana sa che in questi anni è stato uno straordinario bacino di resistenza silenziosa. Nonostante la perdita di prestigio sociale degli insegnanti, gli stipendi troppo modesti e l’iper-burocratizzazione della professione, il sistema didattico ha dovuto supplire a tante carenze civili, politiche e culturali, fra tutte, la crisi di ruolo dell’istituto famigliare. Dopo la selezione di questi nuovi ingressi, il mondo della scuola meriterebbe un periodo di serietà, di investimenti straordinari e di stabilità nei processi decisionali, anche perché già da tempo è coinvolto in una battaglia decisiva per il nostro futuro, quella che riguarda l’integrazione dei nuovi italiani.
Le lamentele contro la nostra scuola sono nate con essa. È sufficiente leggere La scuola e la questione sociale di Pasquale Villari del 1872 per vederle tutte riassunte, fra cui il sempiterno dibattito tra l’efficienza dell’educazione tecnica e l’astrattezza dei saperi umanistici, come se leggessimo una polemica di oggi. Sorprende un argomento fra tutti: il nostro limite è quello di una nazione che “vuol riformare prima di riflettere, e vuol legiferare a vapore […] e ci pare di aver già progredito, quando copiamo sulla carta le leggi dei popoli che sono più innanzi di noi, e di avere le scuole tedesche, quando ne abbiamo adottato i programmi”.
Centoquarant’anni dopo sarebbe bene non continuare a ripetere gli stessi errori. Più modestamente, ma anche con maggiore concretezza, sarebbe già un successo “tecnico” evitare di celebrare l’ennesimo “concorsone” e riuscire a garantire un esame serio, con procedure credibili ed esaminatori motivati, nella consapevolezza che dal destino della scuola dipende la qualità del futuro di una nazione.

La repubblica 27.08.12

"Boccata d'aria con il concorso. Ma la scuola resta senza soldi", di Marina Boscaino

Valutazione e reclutamento. Da anni due temi centrali per la scuola, che il Consiglio dei Ministri ha affrontato in 9 ore nel piano di fine legislatura. “Rivoluzione nella scuola. Concorso e 30 mila assunti”, titola oggi la pagina web di Repubblica. E sulle pagine di quel giornale si parla anche di un ulteriore “traguardo storico: l’approvazione del regolamento che rende operativo il Sistema Nazionale di Valutazione, a 11 anni dalla sua ideazione”. Su quest’ultimo tema Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil, è stato chiaro, denunciando “zero confronto e zero risorse”. Ma torniamo al concorso e alle cifre dichiarate: è innegabile che la notizia di un provvedimento per il reclutamento dei docenti, dal momento che non ne veniva bandito uno dal ’ 99, rappresenti una novità positiva per il Paese e per la scuola. Ma cosa configura davvero l’annuncio del governo (perché di questo si tratta, fino alla verifica da parte del Mef dell’effettiva disponibilità economica)? Ogni anno vengono assunti insegnanti: si tratta del necessario e fisiologico turn over determinato dalle tante condizioni che possono portare al pensionamento o alla vacanza di una cattedra. A QUESTO scopo la legge 124 / 99 ha istituito le graduatorie permanenti, evoluzione normativa del vecchio “doppio canale”: il 50 % delle assunzioni a tempo indeterminato deve avvenire da tali graduatorie e l’altro 50 % da quelle dei concorsi ordinari (siamo ancora in attesa di “smaltire” i vincitori della tornata del ‘ 90). Da un certo momento in poi non si è dato corso con regolarità all’assunzione dei docenti e, nel 2008 è infine inter-venuta la legge 133, che ha previsto il taglio di circa 80 mila cattedre. E così il precariato è cresciuto. I 30 mila assunti sono la somma delle assunzioni prevedibili fisiologicamente per quest’anno e di quelle previste per il prossimo, più i vincitori di concorso per il ruolo di dirigente scolastico, già celebrato: a prescindere dall’andamento dell’organico questa volta si “mette a concorso” il turn over. È quasi come se, nel condivisibile “largo ai giovani” che rappresenta una delle parole d’ordine di questo progetto ed uno dei leitmotiv del governo Monti, si stia facendo largo l’implicita convinzione che le assunzioni precedenti, avvenute sulla base delle graduatorie non abbiano dignità. Ovviamente non è così. Perché gli “ex giovani” (circa 250 mila) che affollano le graduatorie permanenti hanno, nel corso del tempo, acquisito titoli ed esperienza, maturato professionalità e diritti non scritti in leggi e regolamenti, ma concreti e legittimi, e costruito aspettative evidentemente non riconosciute dal governo. Oltre a 11. 892 docenti si prevede l’assunzione di 1. 213 dirigenti scolastici. Il bando del luglio 2011 – che diede il via al concorso per diventare presidi, foriero di molte polemiche, considerando le anomalie del percorso concorsuale in varie regioni d’Italia – annunciava 2. 386 posti, quasi dimezzati nella previsione attuale dal dimensionamento scolastico. Infine una notazione sulla procedura concorsuale in senso stretto: considerato l’elevato numero di candidati potenziali, ci sarà una prova preselettiva da svolgere entro la fine di ottobre su una batteria di test uguale per tutte le classi di concorso. Poi, prove scritte ed orali. Non sono evidentemente servite da monito le recenti vicende dei numerosissimi errori prima nella prova preselettiva del concorso per dirigenti scolastici e poi nei test per il Tirocinio Formativo Attivo, con i nomi dei compilatori secretati, così come l’ammontare degli emolumenti percepiti per realizzare un flop così clamoroso. IL PD SI SCHIERA con i precari e critica il governo che sostiene: “L’annuncio di un concorsone per i giovani meritevoli di insegnare a scuola, richiede un immediato chiarimento da parte del Miur. Si intende ridare vita ad un concorso che poi vedra’ rinascere ulteriori graduatorie che resteranno in vita all’infinito?” chiede la responsabile scuola, Francesca Puglisi. Inatteso invece il plauso del Pdl. Per Fabrizio Cicchitto “Profumo taglia il nastro della riforma Gelmini”. Vito Meloni, responsabile scuola della Federazione della Sinistra, osserva: “La procedura concorsuale non garantisce nessuno, se non ne sono state preventivamente discusse modalità ed attendibilità scientifica. In secondo luogo, si sta partendo dalla coda: invece di provvedere ad un’analisi delle condizioni che hanno condotto i giovani a star fuori dalla scuola, si crea una potenziale occasione di entrata, senza interrogarsi sulle cause che hanno determinato la situazione. Il problema è, insomma, non come si assume, ma quanti insegnanti preparati servono perché la scuola possa assolvere il proprio mandato costituzionale. Infine: non occuparsi di chi è stato costretto ad invecchiare, lavorando spesso con grande capacità, in graduatorie che non accennano ad essere esaurite è una grave omissione per uno Stato democratico”. Insomma. Apprezziamo la novità. Ma, prima di gridare al miracolo, guardiamo con attenzione cosa c’è dietro gli annunci.

Il Fatto Quotidiano 26.08.12