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"La città delle donne senza volto sfigurate per aver detto di no", di Ettore Mo

Bruciate con l’acido da mariti gelosi o fidanzati respinti Viaggio a Satkhira, il villaggio-ghetto del Bangladesh. Neanche un mese e la sua amorevole zia aveva già pensato di lubrificarlo con qualche goccia di acido solforico e rispedirlo in paradiso. Motivo? La gelosia che la donna nutriva nei confronti della sorella (o cognata) per aver messo al mondo un maschietto, mentre a lei era toccata in sorte soltanto una bambina.
Cose che avvenivano e tuttora avvengono nel Bangladesh, uno dei più popolosi Paesi asiatici (140 milioni di abitanti), dove fin dalla più tenera età la condizione delle donne sembra essere tra le più ardue del mondo: condizione che non si esaurisce nel tumultuoso e affollato «girone» delle prostitute, indagato nel precedente reportage, ma riguarda tutti gli aspetti del vivere quotidiano.
Delitti e regolamenti di conti in questa remota contrada, chiusa fra India e Birmania e affacciata sul Golfo del Bengala, sono per lo più provocati da promesse di matrimonio non mantenute o da dispute su case, terreni e interessi economici di vario genere. Una specie di guerra locale, in cui si fa ricorso ad un’arma estremamente silenziosa ma letale: l’acido, appunto.
Che costa poco ed è abbondante: esso viene infatti usato ogni giorno per la produzione e lavorazione dei gioielli mentre fa inorridire il fatto che lo si sfrutti anche per deturpare il volto di tante donne. Secondo i dati dell’Acid Survivors Foundation, nell’ultimo decennio sarebbero state almeno 450 all’anno le vittime del disgustoso veleno spruzzato in faccia al gentil sesso. Tra queste la signorina Fozila, che anni or sono subì l’aggressione dell’ex fidanzato respinto e ne uscì col volto devastato: «Per cui da allora — ha ammesso senza rimpianti — non ho più osato guardarmi allo specchio».
Prima di intraprendere il nuovo pellegrinaggio nei «distretti — urbani e rurali — del vizio» sono investito dalla parole di una ragazzina che, mettendo a rischio l’integrità della laringe mi grida: «Ho cominciato a prostituirmi a 11 anni e adesso ne ho 17. Tutta colpa di quella zoccola di mia mamma, che non ho mai perdonato, anche se adesso ha smesso di battere. Per me, ormai, non c’è più scampo. Finirò i miei giorni qui dentro. Ma fin che campo, i clienti li voglio giovani». E bocca di rosa si spiega meglio, aggiungendo, senza perfidia: «Per gli anziani come te non c’è posto nel mio letto».
Durante una visita al Dhaka Medical College and Hospital, l’ospedale maggiore della capitale, ci dà il benvenuto una paziente di 21 anni, Helena, sulla cui pelle, dopo un violento alterco col marito, la vampa bollente dell’acido ha lasciato una ragnatela indelebile di lividi e cicatrici. Al fratello che ogni settimana viene a trovarla chiediamo se intende fare denuncia. Neanche per sogno, è la risposta immediata ed è subito chiaro che non ha alcuna intenzione di fornire spiegazioni sul proprio comportamento: che è comunque del tutto simile a quello di migliaia di mariti, autorizzati per tradizione millenaria a infliggere punizioni corporali alle mogli troppo indipendenti e civettuole.
Il machismo, nel Bangladesh, ha connotati suoi propri: ma non sembra esservi dubbio che nel Paese la sottomissione delle donne, il loro status sociale, i doveri e le consuetudini cui devono attenersi per non violare la netta linea di demarcazione fra i due sessi abbiamo finito per trascinarle fatalmente verso il «girone» della schiavitù dove sono confinate a vita le inquiline dei bordelli.
Asma Akhtar aveva 12 anni quando un ragazzo del suo villaggio le chiese di sposarlo: offerta drasticamente respinta dalla famiglia di lei, perché nella scala sociale lui era al di sotto di almeno un paio di gradini. E adesso, grazie alla punizione che ne è seguita, i lineamenti della sua incantevole adolescenza stanno aggrovigliati in una maschera buia, appena rischiarata dalla fioca luce dell’unico occhio rimasto incolume.
Stessa amara sorpresa per Monjla, 19 anni, che pure aveva fatto un «matrimonio d’amore» ma la notte di nozze non ci furono né baci né carezze da parte del marito: il quale invece — deluso dall’inconsistenza della sua dote — versò in faccia alla sposina una buona dose di acido. Era il dicembre dell’anno scorso, il Natale alle porte, Adeste fideles e via scampanando…
Quello degli attacchi al vetriolo continua ad essere un fenomeno allarmante e costituisce una grave minaccia per la popolazione del Bangladesh, anche se gli esperti segnalano un declino nel numero degli incidenti: che secondo un dato non proprio recente avrebbero coinvolto, nel periodo tra il maggio del ’99 e il dicembre 2010, 2.433 persone, in maggioranza donne e bambini.
Ma bastano cinque ore di macchina, da Dacca, in direzione Sud per sbarcare a Satkhira, città che ospita una fitta comunità di gente sconvolta dal vetriolo: dove incontri donne grottescamente sfigurate, alcune completamente cieche che tendono la mano, altre sorde, altre ancora totalmente svanite, creature di un pianeta alieno. Il cui più giovane fantasma si chiama Sonali, anni 10: aveva appena 18 mesi ed era a letto con papà e mamma quando un energumeno le spruzzò l’acido in faccia spegnendole in un colpo tutti e due gli occhi. Ma ancora più cupa è la storia di una signora trentenne, completamente accecata dal marito, che però alla fine torna da lui come una pecorella smarrita, non essendoci alternative, per continuare a vivere, che la fame e l’accattonaggio.
Le donne non hanno tuttavia voce in capitolo e tanto meno osano protestare, temendo altre misure punitive oltre quelle inflitte loro quotidianamente dalle istituzioni. Non deve quindi sorprendere se si arrabbiano quando qualcuno stupidamente insinua che a provocare l’intervento energico delle autorità sia stato il loro stesso comportamento, definito di volta in volta capriccioso, offensivo, se non addirittura indecente.
A chi obietta che si tratta di una vicenda datata, esplosa qualche tempo fa quando da Dacca filtrò la notizia di un gruppo di bambini ricoverati in ospedale con tremende ustioni sul corpo causate dall’acido solforico, rispondo che ha ragione. Ma devo aggiungere a malincuore che altri bambini sono ancora lì, adesso, in quegli stessi ospedali e sulle stesse rigide brandine in attesa della fine della sofferenza. Tra loro è adagiata una ragazza poco più che ventenne, indiana, vittima di un incidente sul lavoro: raccontano che il suo sari abbia preso fuoco e che in un attimo l’abbia avvolta in un sudario incandescente. Il volto è minuto e bianco mentre il petto ha il colore di una corteccia scorticata dal sole. Infermiere e medici danno per scontato che la poveretta non arriverà a domani.
Qualche giornale, riferendosi a Satkhira, l’ha definita «il museo delle sfigurate», ma appena ci metti piede ti rendi conto che la definizione è inadeguata: perché la città non è abitata da statue o mummie imbalsamate, ma da uno stuolo di ragazze cui i pretendenti del posto hanno spesso cambiato i connotati con l’acido. Faccende private in cui raramente interviene la legge. Indisturbati i proprietari delle grandi riserve di acido muriatico e il corollario di collaboratori grandi e piccoli che partecipano all’avventura.
Il dottor Samanta Lal Sen, primario del Dhaka Medical College and Hospital, ricorda che agli inizi della sua carriera nell’ospedale «c’erano solo cinque o sei letti» e che gli interventi su gente afflitta da gravi ustioni «venivano affrontati e superati con grande difficoltà nell’unica sala operatoria». Aggiunge anche d’aver fatto venire dall’Italia e dalla Spagna chirurghi altamente specializzati: «Ma che io sappia — conclude — nessuno è mai riuscito a restituire la fisionomia originale a una donna o a un uomo quando i loro volti avessero subito oltraggi e alterazioni davvero spaventosi oltre che indelebili».
Deve passare un po’ di tempo prima che si attutisca o addirittura scompaia il senso di amarezza e sconforto che colpisce chiunque appena mette piede in questo luogo dove il presente come il passato sono spesso scritti con caratteri funerei. Ma si può anche respirare una boccata d’aria buona quando vedi al lavoro la laboriosa compagnia di Action Aid, da sempre impegnata sullo sconnesso terreno della povertà, della fame e dei problemi sociali in ogni parte del globo, soprattutto nei continenti — come Asia, Africa e America Latina — dove l’affanno del vivere quotidiano è più intenso che altrove.
«Siamo venuti qui — mi spiega Amiruzzaman, vecchio amico ed instancabile globetrotter fin nelle periferie più remote del Bangladesh, attualmente funzionario della grande organizzazione non governativa — per renderci conto, da vicino, delle condizioni delle donne in questo Paese, ritenute fra le più disperate del mondo. E credo tu abbia ragione quando dici che siamo di fronte all’immobilismo di un governo e di istituzioni che non hanno alcuna intenzione di ridimensionare il ruolo del maschio, che qui non ha una moglie ma ha una schiava, così come sono schiave le sue figlie e come lo saranno le sue nipoti e nipotine. Ha torto marcio chi ritiene che di fronte agli sproloqui di certi retori di periferia la situazione possa cambiare».
Non si può ignorare che siano stati apportati dei miglioramenti in un campo che è rimasto immobile per millenni: solo qualche anno fa sembrava impossibile che in queste remote regioni asiatiche una donna potesse accedere all’università o che il suo salario si equiparasse a quello del consorte fino all’ultimo centesimo e che spartisse con lui il potere decisionale. Non deve quindi sorprendere — annotano gli arguti maestri della filosofia spiccia — se la donna, non potendo avere né un lavoro né un impiego che le procurassero un sia pur minimo guadagno, abbia messo in commercio la sola cosa di cui disponeva: il proprio corpo.
Professione da allora altamente onorata dalle sex workers di Faridpur e Daulatdia e dalle cowgirldell’isola di Bani Shanta che si tengono in forma con la pillola della mucca. Il tutto consumato in un grande amplesso umano-animale-rurale che dovrebbe assicurare la pace nel mondo.

Il Corriere della Sera 26.08.12

"Più stato nel mercato? A condizioni diverse dal passato", di Emilio Barucci

Serve «più Stato nel mercato» per uscire dalla crisi economica come titolava l’Unità qualche giorno fa? Proviamo ad affrontare la questione in modo concreto senza cadere nell’indeterminatezza. Altrimenti si rischia di trasformare un punto programmatico qualificante di una sinistra di governo in un auspicio che è buono solo per la campagna elettorale. Dopo anni in cui si è sostenuto che un dimagrimento del pubblico sarebbe stato un bene di per sé, sarebbe assurdo non riconoscere che si esce dalla crisi anche ridiscutendo il confine tra Stato e mercato. Andiamo per ordine. In primo luogo, siamo davvero sicuri che la crisi segni la fine del liberismo? Ammesso che si possa parlare di pensiero unico liberista, è difficile credere che la parte meno ideologica del suo messaggio non sia più attuale. La crisi porterà a ripensare la regolazione del sistema finanziario ma non si tornerà indietro dalla liberalizzazione dei mercati e dalla concorrenza come cardine del funzionamento dell’economia, anche l’intervento del pubblico alle stesse condizioni del privato non sembra essere in discussione. Sulle privatizzazioni in Italia, occorre fare un po’ di chiarezza. È fastidioso il ritornello secondo cui si sarebbe svenduta l’industria di Stato sotto la pressione di una lobby finanziaria. Nel ’92 le aziende di Stato non stavano in piedi e sono state vendute a valori che rispecchiavano la gestione dell’epoca. Il privato ha fatto di meglio e oggi valgono di più, questo non ci autorizza a dire che le abbiamo svendute. Ci si scorda poi che le privatizzazioni hanno permesso il risanamento delle aziende. Due sono gli elementi critici di questa esperienza. Gli imprenditori privati hanno sfruttato le imprese (e le loro rendite) senza fare adeguati investimenti; le privatizzazioni non hanno permesso il consolidamento del sistema finanziario privato: né salotti buoni, né azionariato popolare. I campioni nazionali sorti dalle privatizzazioni si contano sulle dita di una mano e molte imprese sono finite in mani straniere. Questo fa sorgere il dubbio che la classe imprenditoriale non sia stata all’altezza del compito e ciò potrebbe spingerci a riabbracciare lo Stato imprenditore. Ma sarebbe una scelta felice? No, dobbiamo piuttosto far funzionare meglio il sistema finanziario, far crescere la cultura imprenditoriale nel Paese e ripensare il ruolo del pubblico laddove il privato non arriva. Quanto hanno contribuito le privatizzazioni e le liberalizzazioni al declino dell’Italia negli ultimi venti anni? Sicuramente più in positivo che in negativo, si pensi solo allo sviluppo di due settori come le telecomunicazioni e l’energia. Le difficoltà derivano piuttosto dal fatto che il privato non ha agito su alcuni ingranaggi chiave per lo sviluppo dell’economia (ricerca, formazione capitale umano, infrastrutture, finanza) e non è entrato in alcuni settori a rapida crescita (nuove tecnologie, energie rinnovabili). Cosa può fare il pubblico per porvi rimedio? Molto, tramite una pluralità di strumenti. Ecco alcune possibilità: 1. Creare, come si sta facendo, una holding pubblica delle infrastrutture incentrata su Cassa depositi e prestiti. 2. Favorire lo sviluppo di una finanza per l’economia reale, mettere ordine nel sistema di garanzie pubbliche alle imprese, far funzionare i fondi di private equity promossi dal pubblico. 3. C’è spazio per una politica industriale? Sì, ma occorre essere cauti, non basta definire dei meccanismi di incentivo per raggiungere l’obiettivo. L’efficacia delle forme di incentivo deve essere attentamente valutata altrimenti si rischia di pagare con soldi pubblici investimenti sbagliati o che il privato già intenderebbe fare. 4. Può il pubblico entrare nel manifatturiero? Sì, ma non può essere un modo per salvare le aziende in crisi. Se lo Stato vuole essere imprenditore, deve seguire il modello Eni ed Enel: società quotate che rispondono al mercato. Siamo sicuri che di fronte alla crisi della siderurgia, un intervento dello Stato sotto questa forma potrebbe funzionare? 5. Deve infine fare qualcosa di molto semplice: il suo mestiere. Non è solo questione di burocrazia da ridurre, negli ultimi venti anni si è indebolita in modo significativo la capacità di governo del pubblico. A differenza di quanto pensano molti economisti che ragionano secondo categorie ben lontane dalla realtà, ci sarà sempre spazio per lo Stato nell’economia. Si tratta però di uno spazio che va costruito con cura ricordando anche che oggi i vincoli (bilancio, normativa Ue, mercati finanziari) sono ben più stringenti di quelli dell’epoca che ha visto la nascita dell’Iri.

L’Unità 26.08.12

Bersani: «Noi siamo zombie? Sfidiamo i fascisti del web», di Simone Collini

Bersani apre la Festa nazionale di Reggio Emilia e sfida Grillo: «Ci dicono zombie? È un linguaggio fascista. Invece di offenderci sul web vengano qui a dirlo». Sul piano Monti per la crescita il leader Pd sostiene che vanno bene gli impegni ma «ora serve più concretezza». E sulla legge elettorale: cambiare il Porcellum è possibile. Verso il 2013 c’è bisogno di una «scossa civica» perché il Paese ha bisogno dei riformisti per battere la destra. «In un momento difficile come questo bisogna che tra le persone ci sia un po’ di fiducia. Ma la fiducia viene dalla concretezza». Pier Luigi Bersani arriva a Reggio Emilia all’indomani del Consiglio dei ministri dedicato alla crescita.

Sorride, il leader del Pd, mentre sotto un sole che non concede tregua taglia il nastro tricolore e dà il via alla Festa nazionale del suo partito. Ma, scattati i flash delle macchine fotografiche, il ragionamento che svolge presenta più ombre che luci. Dice che la riunione di venerdì a Palazzo Chigi è stata «più di intenzioni che di decisioni». Alcune anche molto buone, certo, ma che come tali non permettono di affrontare l’emergenza in atto. «Io mi permetto di raccomandare molta concretezza», è il messaggio che Bersani invia al governo dalla Festa, che il leader democratico chiuderà il 9 settembre annunciando pubblicamente la sua candidatura per la premiership.

A chi gli domanda cosa dovrebbe fare allora il governo di concreto, cosa farebbe in un momento come questo se fosse lui a Palazzo Chigi, Bersani risponde con un lungo elenco: «Bisogna allestire il tavolo delle crisi industriali, bisogna dare un’occhiata ai pagamenti per le piccole imprese, se stanno avvenendo o no, bisogna guardare al sistema delle tariffe, ai prezzi, come quello della benzina, bisogna verificare se le banche dati che andavano allestite per la lotta all’evasione fiscale e per la tracciabilità siano state veramente allestite, bisogna vedere con le forze sociali e le Regioni e con gli enti locali come si fa davvero una spending review». Come a dire: materiale su cui lavorare non manca, per uscire dalle buone intenzioni. Ed è su questi temi che il governo, secondo Bersani, dovrebbe costruire l’agenda per un autunno che si annuncia tutt’altro che semplice. Di altre questioni, di quale sia la prospettiva, delle «riforme di più ampio respiro» si può anche ragionare, secondo il leader del Pd, ma dopo aver messo mano ai problemi dell’immediato.

Bersani sa che in un momento di crisi come questo si corrono molti rischi, sul piano economico, sociale, ma anche sul piano della tenuta democratica, e che se sta al governo attualmente in carica occuparsi dei primi, sta anche alle forze politiche che si candidano a governare domani tenere alta l’attenzione sui secondi. Quelli che Bersani definisce «populismi in cerca d’autore» preoccupano più di un centrodestra allo sbando, ed è a questi che il leader del Pd lancia una sfida. Inaugurando la Festa del Pd, ringraziando i tanti volontari che hanno reso possibile l’allestimento dello spazio di Campovolo e che fino al 9 settembre garantiranno lo svolgimento della kermesse, Bersani invita gli «osservatori e i commentatori» che «mettono tutti i partiti nello stesso mucchio come se fossero cadaveri ambulanti» a venire qui a Reggio Emilia a vedere di quali risorse e di quale energia disponga il Pd. Ma soprattutto sfida chi ha avuto l’idea di evocare gli zombie (il più noto è il video messo sul sito dell’Idv un mesetto fa, ma il pensiero va soprattutto a Grillo) a venire qui a ripetere il concetto.
«Vedo correre sulla rete frasi come “siete cadaveri ambulanti”, “siete zombi”, “vi seppelliremo” – dice Bersani inaugurando la sala dibattiti principale della Festa, intitolata a Pio La Torre – sono linguaggi fascisti. E non ci impressionano. Vengano via dalla rete, vengano qui a dircele certe cose». I primi visitatori della Festa e i volontari che per qualche minuto abbandonano le loro occupazioni per venire a salutare Bersani applaudono convinti. I giornalisti avvicinano il segretario per chiedere di tornare sull’argomento. Bersani non vuole andare oltre, però confessa di essere preoccupato perché «nella crisi ci può sempre essere la tentazione di chi abbaia più forte», e ribadisce che «si sta creando un linguaggio» già sperimentato: «Consiglio a chi sottovaluta questi dati di linguaggio, di andarsi a rileggere un po’ di storia, e in particolare i fatti del 1919…».
Evitare che certi fenomeni prendano il sopravvento sta alle forze politiche, cambiando una legge elettorale odiosa come il Porcellum («Non è tardi, vedo la possibilità che si faccia, anche se non c’è un automatismo tra questo e il voto anticipato») e dimostrandosi in grado di portare a quella «riscossa civica e morale» necessaria al Paese.

«Sta ai riformisti cambiare le cose al concreto, non possiamo tirarci indietro nel momento più difficile dal dopoguerra. I riformisti si prendano le loro responsabilità davanti all’Italia con i loro valori e le loro idee». Un messaggio indirizzato anche a chi discute di alleanze senza tenere a mente la vera posta in gioco.

Così Bersani continuerà a lavorare per dar vita a un «centrosinistra di governo», ma al tempo stesso continuerà a lanciare all’Udc un appello per fare la sua parte nella prossima legislatura, che dovrà essere «di ricostruzione» (e che dovrà seguire una regolare tappa elettorale, perché «non è che se Moody’s ha qualche problema aboliamo le elezioni»).

L’Unità 26.08.12

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Maggioranza delusa dall´agenda Monti Bersani: “Ora serve più concretezza”, di MARCO MAROZZI

Più intenzioni che decisioni. Serve concretezza. Pierluigi Bersani misura le parole, ma non nasconde le preoccupazioni per come si muove il governo Monti. «Raccomando molta concretezza» dice, ponendosi a guida dei «riformisti» e attaccando il «linguaggio fascista» di chi, come Di Pietro e anche Grillo, parla di «zombie» da «seppellire vivi». «Vengano qui a dircelo in faccia».
Dopo l´intervista a Repubblica, il segretario del Pd rinnova le «raccomandazioni» al «tecnico» Monti aprendo la Festa nazionale del suo partito. Proseguendo la marcia verso la guida del futuro esecutivo «politico». «Da Reggio Emilia deve partire la proposta chiara dei riformisti. Non possiamo tirarci indietro nel momento più grave dal dopoguerra. Faremo la nostra parte». Rivolto al suo popolo e a Palazzo Chigi, elenca: «Ci vogliono tavoli per le crisi industriali, i pagamenti pubblici alle piccole imprese, le tariffe, il costo della benzina, la lotta all´evasione fiscale, vedere con le Regioni, gli enti locali e le forze sociali come davvero fare una spending review».
Perplessità passano attraverso tutte le forze che appoggiano il governo. Se Bersani parla di «un consiglio dei ministri più di intenzioni, alcune anche molto buone, che di decisioni», lo stesso azionista più vicino a Monti, l´Udc, commenta con Lorenzo Cesa: «Adesso passiamo dalle parole ai fatti. Chiediamo segnali concreti per giovani e famiglie».
Molto duro il Pdl. «Il governo Monti parla di crescita nei giorni festivi e poi nei giorni lavorativi fa solo marginali operazioni di restyling» accusa Fabrizio Cicchitto. «Il consiglio dei ministri dedicato alla crescita è stato in realtà dominato dai richiami del ministro Grilli al rigore economico». Maurizio Gasparri spara a zero: «I ministri sparaballe, dalla Fornero a Passera a un tal Caccia, ora chiedano scusa: tecnici celebrati si dimostrano capaci di seminare bugie come i più scadenti politici old style. La crisi c´è ancora».
«Senza l´accordo con le parti sociali e gli enti locali – afferma Raffaele Bonanni della Cisl, il sindacato meno critico con Monti – mi chiedo quale efficacia possano avere tutte queste misure». In questa situazione, Bersani rivendica per il centrosinistra la capacità di «sapere governare il Paese». E ripete a quanti in Europa e in Italia temono il ritorno al caos: «Farebbero bene a preoccuparsi se vince Berlusconi. Per noi che siamo gente che sa governare, non c´è bisogno di essere preoccupati».
La porta si chiude durissima anche per Antonio Di Pietro. «Vedo sulla rete internet che sono rivolti al nostro partito frasi tipo “siete degli zombie, dei cadaveri, vi seppelliremo vivi”. Sono linguaggi fascisti. Non ci impressionano. Vengano qui a dircelo, vengano via dalla rete. Vengano qui». Alcune settimane fa sul blog di Di Pietro era apparso un video che ritraeva lo stesso Bersani, Casini e Monti come degli zombie. Era stato tolto dopo alcune ore. Ma è Beppe Grillo che apostrofa abitualmente come morti viventi gli altri politici.
Di Pietro ieri sera ha reagito al leader pd dicendo che «è come il bue che dà del cornuto all´asino, si nasconde dietro a un dito invece dio indicare responsabilmente con chi vuol governare».
«Il Paese ha bisogno di una riscossa civica e morale – segna ancora la differenza il segretario Pd -. Senza questo carburante non andiamo da nessuna parte. Senza che la gente per bene non si alza in piedi non andiamo da nessuna parte». Bersani davanti ha il governatore Errani, il sindaco Del Rio, i segretari Bonaccini e Ferrari, accanto il figlio di Pio La Torre. È loro che indica parlando di «politica buona per una politica buona in Italia».

La Repubblica 26.08.12

"Il deficit di democrazia fa danni come il debito", di Guido Rossi

Il debito pubblico, in questo momento storico, coinvolge in tutti i Paesi occidentali il problema della “democrazia”. Ai cittadini sconcertati e impauriti dalle continue e contraddittorie dichiarazioni e decisioni sul debito pubblico, sull’influenza che quello degli altri Paesi può avere sul nostro, sui comportamenti altalenanti dei mercati, si pone drammaticamente ora un problema ancor più grave e finora sottovalutato. Ovvero se debbano essere ridiscussi completamente la democrazia come sistema e i diritti dei cittadini, le loro disuguaglianze, le caratteristiche della società in cui sono destinati a vivere. Il debito pubblico è invece un problema che riguarda soprattutto i suoi creditori, i cui interessi molto spesso, e in questo frangente quasi mai, non coincidono con quelli dei cittadini. L’equilibrio tra debito e democrazia è peraltro assai difficilmente raggiungibile. Ed è per questa ragione che quando il mercato del debito diventa despota quell’equilibrio viene infranto, a tutto danno della stragrande maggioranza dei cittadini, ed a vantaggio di quell’uno o poco più per cento che “si mangia” quasi tutta la ricchezza nazionale.
Il sistema democratico non è quasi mai riuscito a imporsi poiché si è sempre scontrato con l’ostacolo del potere economico, potere che anche nell’antica Roma, maestra del diritto, era quello smisurato di un’aristocrazia latifondista, la quale vedeva nella democrazia un nemico frontale. Il mercato oggi più che mai condiziona i governi ed è lo strumento dell’unico vero potere, che fa sì che il sistema democratico assomigli sempre più ad un governo dei ricchi.
Tutto questo spiega non solo la corruzione delle élite, ma le angosce e le inquietudini del resto dei cittadini, storditi da dichiarazioni sempre più contraddittorie che riguardano la crisi, la quasi fine della crisi stessa, ma un futuro sempre più incerto dove dominano ricette di crescita arbitrarie e che paiono a legittimazione di coloro che detengono il potere, più che vere soluzioni.

Mentre i cittadini in un frastornante processo kafkiano si sentono colpevoli, non è chiaro di quale misfatto e restano in ansia, in attesa di un verdetto, senza conoscere né le regole né i giudici che pronunceranno la sentenza.
Mi bastan tre esempi. Il primo concerne l’andamento altalenante dello spread e delle borse, condizionato dalle valutazioni delle non meglio qualificate opache agenzie di rating, tra cui Moody’s che nel giro di poco tempo è passata dal declassare l’Italia all’esaltarne il Governo, anche se in quei pochi giorni nulla era cambiato.
Il secondo ha come oggetto il governatore della Bce nei suoi tentativi di arginare la speculazione, che non pare peraltro la priorità di nessun governo europeo. Mario Draghi è stato accusato brutalmente dall’autorevole economista tedesco Manfred Neumann di perseguire un’arrogante politica che mette in pericolo l’esplosione di un’inflazione, pari a quella di cui soffrì la Repubblica di Weimar e di confondere quindi la politica con l’esclusiva funzione monetaria della Bce.
che dire infine della recente uscita di Mitt Romney, che propone di legare il dollaro al Gold standard, cioè a quel sistema che giustamente John Maynard Keynes bollava come una “reliquia barbara”?
Insomma, il problema che assilla l’umanità in questo momento è solo uno e si chiama: denaro. Il denaro che ha i suoi riflessi non solo sul debito pubblico, ma sulla vita decente dei cittadini, vittime sempre più della disoccupazione, della sottovalutazione dei loro diritti, mentre cercano di avere speranze di vita migliore, e sono invece colpiti e commissariati da una speculazione che, aiutata anche nella tecnologia, gioca solo sul brevissimo termine. E così produce ricchezza il più velocemente possibile e impone ad altri quelle procedure di austerità che finora hanno giovato, con l’aiuto dei governi, solo alle banche e alle grandi istituzioni finanziarie.
L’asserzione ripetuta dovunque è che non vi è alternativa all’austerity e con l’aiuto quasi indiscriminato dei media quelle asserzioni sono riuscite a trasformare la crisi delle banche, che avevano temerariamente giocato sulla speculazione, nella crisi del “welfare state”, dando così ai governi la chance di rimodificarlo a uso e consumo del capitale finanziario. Ma il potere del denaro ha provocato, oltre che uno scoraggiante e devastante decadimento delle élite, un assopimento totale della legalità. Il disastro che è avvenuto con le falsità dei dati forniti nel Libor avrebbe in altri tempi provocato uno sgomento. Ora questo sembra solo uno dei modi di operare del sistema, tant’è che le reazioni dei banchieri colpevoli, che hanno fornito i dati falsi, è che tutto ciò non sarebbe né illegale né criminale. Identica assuefazione ha declassato l’avidità, che pur secondo San Paolo era “radice di tutti i mali”, a male minore dell’attuale società. Infatti la reazione morale del pubblico americano agli enormi bonus dei manager di Wall Street (ma non solo) non è stata, secondo Micael Sandel, filosofo di Harvard, l’indignata ribellione alla esagerata avida remunerazione del manager, quanto invece il compenso per il fallimento delle imprese da loro gestite. È così che anche la morale ha preso l’aspetto di “morale del denaro”.
Ma questa insofferenza per la legalità si riscontra in quel che sta ora avvenendo negli Stati Uniti d’America. Dopo le pesanti recenti ammende inflitte dalla giustizia federale americana a Ing, a Standard Chartered e a Deutsche Bank, si è appreso mercoledì scorso che anche la Bank of Scotland è indagata per sostegno al terrorismo, per illegalità internazionali e per riciclaggio. Né fa più scandalo che anche grandi istituzioni finanziarie siano nel recentissimo passato state condannate a pesanti ammende, quali la Barclays, il Credit Suisse, i Lloyd’s e Jp Morgan.
Il denaro (nelle sue varie vesti di speculazione, di debito pubblico, e di austerità) è ora purtroppo protagonista delle scadenze elettorali di varie democrazie, o di fine dei mandati dei governi tecnici. Queste scadenze inducono all’instabilità delle dichiarazioni, alle promesse e alle decisioni sovente contraddittorie, che hanno due esempi piuttosto clamorosi. Il primo è l’ondivago e contraddittorio atteggiamento europeista della Cancelliera Angela Merkel, sia per quel che riguarda la Grecia, sia sulla tenuta dell’euro, e il suo futuro. Le strutture interne della democrazia tedesca dalla Corte Costituzionale al Parlamento, così come l’opinione pubblica, sono spaccate, e l’unico denominatore comune rimane il mito dell’austerity, soprattutto per gli altri, e ciò spiega l’atteggiamento della Merkel.
Il secondo clamoroso esempio è costituito dalle elezioni americane del prossimo novembre. Un lungo articolo sull’ultimo numero del New Yorker entra negli sconvolgenti dettagli dell’influenza che i contributi in denaro ai due candidati avranno sull’elezione del prossimo presidente, soprattutto dopo che, con la sentenza Citizen United del 2010, la Corte Suprema ha dato il via libera, senza limitazioni, ai contributi elettorali da parte delle grandi Corporation. La conclusione del lungo articolo, che riporta una dichiarazione di Bill Burton è: “una volta che il big business si rende conto che può comprare la Casa Bianca, voi dovete domandarvi quale sia il limite”.
Non posso al termine che dichiarare che, a parer mio, non è urgente soltanto la lotta alla speculazione dei mercati finanziari, ma diventa urgentissima per la classe politica e le istituzioni una seria ridiscussione dei principi basilari della democrazia, dei rapporti fra i poteri dello Stato, dell’influenza diretta e indiretta delle lobby economiche. Altrimenti dovunque le prossime elezioni saranno inutili. Ma questa volta la discussione dovrà essere portata avanti anche dai cittadini nelle loro varie e diverse formazioni, perché è solo dalla loro volontà, e non da quella imposta dall’interno o dall’esterno, che si giocherà il destino della democrazia in Italia, in Europa e negli altri Paesi.

Il Sole 24 Ore 26.08.12

"La corsa con regole ingiuste per diventare professori", di Eugenio Mazzarella

Sono uscite le mediane per l’accesso alle abilitazioni nazionali a professore universitario per i settori umanistici, non bibliometrici, come si dice, dopo che a Ferragosto erano uscite quelle per i settori «scientifici», bibliometrici per definizione secondo Miur e Anvur. Fosse vivo,T.S. Eliot oggi scriverebbe che non è aprile il più crudele dei mesi, ma per i professori universitari agosto, con i suoi colpi di sole. Se le mediane per i settori non umanistici, bibliometrici, già evidenziavano l’irragionevolezza del criterio delle mediane per accedere all’abilitazione, sia per entrare nelle liste degli aspiranti commissari, sia per presentarsi come candidati, con le mediane per gli umanisti siamo al paradosso. Ne emerge la seguente situazione di fondo. I valori mediani di produttività negli ultimi dieci anni risultano del tutto disparati tra settori concorsuali: per le monografie da 0 a 4, per articoli su riviste e capitoli di libri da 9 a 28, per i famigerati articoli su riviste di fascia A, di eccellenza per così dire (eccellenza la cui determinazione è del tutto opinabile e in alcuni casi veramente incomprensibile) la mediana generalmente è 1, in pochi casi 2, spesso 0. Ma su quest’ultima mediana tornerò. La stessa disparatezza delle mediane, una disparatezza di produttività quantitativa, fa capire che le produttività medie, al di là di quello che c’è scritto nei prodotti, non misurano niente di rilevante da un punto di vista statistico, se per essere valutato come professore di X ho bisogno di 4 monografie e come professore di Y di zero. Almeno per il settore a zero vorrebbe dire o che la mediana è incongrua o che bisogna «chiudere» la disciplina. Probabilmente è semplicemente «misurata» male. Ma vado subito ad un effetto abnorme. Prendo ad esempio il settore di filosofia teoretica, 11/c1. Sono richieste in alternativa, ne basta una di mediana, per candidarsi a commissario o a abilitando, nei dieci anni o 4 monografie, o 20 articoli su rivista e capitoli di libro, o 1 articolo in rivista di fascia A. Mi limito ad un’osservazione banale. Se la terza mediana è «uno», vuol dire che è del tutto insignificante: sulle riviste di fascia A scrivono solo i gruppi che vi partecipano per affiliazione accademica, cioè ad esempio 5 colleghi scrivono 5 articoli sulle «loro» riviste e su un settore di 25 colleghi, fa uno. La mediana non dice nulla di significativo sulla comunità scientifica, ma consente solo ad un pupillo della scuola che fa una rivista di fascia A di potersi presentare, mentre magari un non pupillo con dieci articoli e due monografie guarda con il naso all’insù il giovane dottorato con estratto di tesi su fascia A già valutabile. O un valente studioso cinquantenne con tre monografie e 19 tra articoli di riviste standard e capitoli di libri non può presentarsi. Così come potrà fare il commissario un ordinario che ha scritto un solo articolo in rivista di fascia A e null’altro, e non un collega che abbia le succitate tre monografie e 19 articoli e capitoli. Due notazioni di fondo, ancora. Se sono uno studioso cinquantenne in tal modo medianizzato, o mobbizzato, come si è sentito dire fosse necessario, nel caso su richiamato, mi può pure capitare di aver scritto una monografia che è stata un punto di riferimento per la disciplina 11 anni fa, ma non posso farmi valutare. E più in generale i candidati all’abilitazione che hanno superato le mediane sono per definizione, dal punto di vista assunto dall’Anvur, già migliori, quanto meno perché più produttivi delle migliaia di ordinari di ruolo che non potranno candidarsi a commissario, non avendo raggiunto le soglie delle mediane. il peso dei titoli Allora perché dovrebbero anche essere giudicati in un concorso per diventare di fatto semplici abilitati a un ruolo che altri da decenni coprono con titoli inferiori ai loro? Andrebbero promossi nel ruolo per il quale superano la mediana ipso facto, a rigor di logica e di giustizia, fatto salvo il dottorando di buona e potente scuola accademica con articoletto in rivista di fascia A. Ma ovviamente l’università italiana non è, pure con i suoi difetti, quella che emerge da queste mediane: un covo di inattivi, che in percentuali significative ma non alte certo ci sono, ma che non si scovano con questi mezzi, ma magari con una più incisiva normativa sul tempo pieno e sul tempo definito, su cui però Miur ed Anvur non si sono dimostrati fin qui particolarmente sensibili. Vorrei chiudere questa sconsolata nota d’agosto ricordando che in nessun posto del mondo si pre-giudica, con test di ammissione al giudizio, qualcuno a questo modo, per farlo diventare professore universitario. Dimenticavo: per tutti i settori giuridici, che hanno giustamente impugnato al Tar le mediane, e soprattutto la cosiddetta fascia A delle riviste, questa mediana è «abbonata», non è neanche zero, è abolita (magari poi ci spiegheranno la differenza tra mediana zero e mediana abolita): insomma quanto a mediazioni mediane siamo in Italia, bellezza! Onestamente sono senza parole. L’inconsapevolezza di tutta la criteriologia porta alla più piena irragionevolezza. Forse sarebbe il caso di chiedere scusa, come per i test del Tfa, e correre ai ripari.

L’Unità 26.08.12

"Concorso riservato agli abilitati. La procedura sarà gestita con la legge del 1998: è rimasta inattuata la delega di riordino", di Claudio Tucci

Un concorso che avverrà con le regole pre-Fioroni e sarà sicuramente riservato agli abilitati (sia i circa 165mila iscritti nelle graduatorie a esaurimento, sia gli altri 20 mila docenti abilitati ma non inseriti nelle Gae, graduatorie a esaurimento). Anche se non è escluso che nelle prossime ore arrivino alcune “eccezioni”. Fortemente richieste dai partiti. Il Pdl, ha spiegato la responsabile scuola Elena Centemero, punta a ottenere la possibilità di far partecipare “con riserva” al concorso per 1L892 cattedre, annunciato ieri dal ministero dell’Istruzione (Miur), anche i 2omila laureati che saranno ammessi a frequentare i Tfa, i Tirocini annuali abilitanti all’insegnamento a medie e superiori, che ora hanno terminato, tra le polemiche, le prove pre-selettive. C’è poi la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi, che ha invitato il Miur a chiarire subito le procedure del concorso ed evitare scelte che potrebbero creare solo nuovo precariato. Mentre si attende ancora solo il parere del Cun per conoscere la sorte dei docenti (non abilitati) con 36 mesi di servizio per i quali è allo studio un canale abilitativo “ad hoc” che li ammetterà direttamente alla frequenza del tirocinio formativo attivo (e con la possibilità quindi, se il Miur deciderà di aprire il cordone sugli ammessi ai Tfa, di partecipare anche loro “con riserva” al nuovo concorso). Una serie di questioni che sono allo studio in queste ore dei tecnici di Viale Trastevere, alle prese con la stesura del bando che uscirà il prossimo 24 settembre, e che, di fatto, sbloccherà i concorsi nella scuola fermi ormai da 13 anni (l’ultimo corsoconcorso risale infatti al 1999). Ma non mancano le pressioni (anche sindacali: Massimo Di Menna, della Uil Scuola, ha chiesto un incontro urgente al ministro Profumo), e soprattutto si dovrà gestire l’intera procedura concorsuale con una legge datata1998 (in attesa del riordino delle procedure di reclutamento attraverso la delega Fioroni, finora mai esercitata). Molta attenzione si sta dando, soprattutto, all’individuazione dei requisiti di accesso al concorso, per evitare di dover poi gestire un vero e proprio esercito di aspiranti candidati (e di potenziali ricorsi). Il nuovo concorso sarà comunque una “fase due” rispetto ai 21.112 docenti precari che saranno stabilizzati il prossimo i` settembre. Infatti, riguarderà la programmazione del fabbisogno di insegnanti per l’anno scolastico 2013/204, rispettando, cioè, il piano triennale di assunzioni varato dal precedente Governo (Gelmini-Tremonti) nel 2011. Al 2013/2014, secondo le stime del Miur, si libereranno circa 24mila posti di professori che, viste le regole attuali, saranno coperti per metà dal concorso (gli 11.892 posti, appunto), e per l’altra metà attingendo dalle graduatorie. A differenza delle 21.112 stabilizzazioni autorizzate dal Cdm di venerdì, che stanno avvenendo in questi giorni e prevalentemente pescando dalle Gae (e in casi limitati dalle graduatorie non esaurite del concorso del 1999) visto che non si indicevano (fino adesso) più procedure concorsuali. Con l’arrivo del nuovo concorso quindi (che punta a svecchiare l’età media dei docenti nella scuola, oscillante intorno ai 5o anni) i precari iscritti alle graduatorie ne trarranno un doppio vantaggio, ha ricordato Francesco Scrima (C isl Scuola): «Potranno cioè partecipare al concorso e poi sperare di essere pescati dal contingente di stabilizzazioni che saranno fatte attingendo dalle Gae». Esaurito poi questo piano triennale di assunzioni (con l’espletamento del nuovo concorso) e decollato il sistema di formazione dei docenti tramite il Tfa, toccherà poi a un concorso successivo che sarà bandito entro maggio 2013 e al nuovo sistema di reclutamento (su cui sta lavorando il Miur) programmare le future assunzioni di docenti nella scuola. Immaginando, a regime, una programmazione biennale del fabbisogno di docenti e una cadenza biennale delle assunzioni da fare tramite concorsi. Il concorso che partirà a fine ottobre con la prova selettiva (interamente “telematizzata”, si veda l’altro servizio in pagina) verrà fatto utilizzando, molto probabilmente, le vecchie classi di concorso. A gennaio si svolgerà la prova scritta (di verifica delle competenze disciplinari) e poi l’orale, dove sarà inserita anche la simulazione di una lezione per verificare l’abilità didattica del candidato. Si punta ad assumere i vincitori entro il 1° settembre 2013. Docenti a parte, resta ancora in piedi il nodo Ata, il personale amministrativo (a settembre dovevano scattare 7mila assunzioni, per ora bloccate per effetto della spending review). Domani ci sarà un incontro al Miur e «chiederemo numeri e certezze», ha detto Domenico Pantaleo (Flc-Cgil).

Il Sole 24 Ore 26.08.12

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Rivoluzione scuola, Profumo ai precari «Il concorso di settembre è solo l’inizio», di B. Rug.

«IN QUESTO momento di difficoltà il fatto di procedere a un numero così elevato di assunzioni è un buon segnale per la scuola e per il Paese». Il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, in un’intervista radiofonica, ieri è tornato sui provvedimenti varati dal governo nella «maratona» di venerdì. Per quanto riguarda il pacchetto-scuola (oltre all’ipotizzato varo per decreto di un nuovo Sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione), il maggiore impatto sul mercato del lavoro viene dall’annuncio che il 24 settembre verrà pubblicato un bando di concorso per coprire circa 12.000 cattedre nelle scuole statali di ogni ordine e grado (11.892 posti vacanti). E QUASI altrettanti posti saranno messi a disposizione dal ministero di viale Trastevere attingendo alle attuali graduatorie (per un totale di 21.112 contratti a tempo indeterminato). Il ministro ha poi sottolineato che ci sarà un ulteriore passo. «E’ previsto un concorso che sarà bandito a settembre. E’ il primo dal 1999 e per alcune classi di concorso addirittura il primo dal 1990. Un altro ci sarà l’anno prossimo in primavera e poi con regolarità ogni tre anni. In questo modo rinormalizziamo il sistema di ingresso nella scuola». Intanto l’esercito dei prof precari è sul piede di guerra. Per ora gli insorti’ si scatenano sul web. Un nuovo concorso come non se ne vedeva da 13 anni? Sì, ma ricordano su Facebook i vecchi concorsi nel frattempo sono stati sostituiti, di fatto, dalle graduatorie ad esaurimento stracariche di prof (oltre 200mila) che ancora aspettano un posto, pur lavorando da anni con contratti a termine. Insegnanti che adesso, dopo abilitazioni, corsi per salire in graduatoria, anni di contratti a termine, si dicono preoccupati dall’idea di doversi rimettere in gioco per partecipare a un’ulteriore selezione». Osserva Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: «E’ importante l’assunzione dei 12mila docenti e di oltre 1200 dirigenti scolastici. Ma se la platea (del prossimo concorso, ndr) riguardasse soltanto gli abilitati, già avremmo 240-250mila potenziali concorrenti; se poi la si allarga ai giovani laureati, potrebbero diventare magari 300-350mila e tutto ciò a fronte di 12mila posti. Così si rischia il cannibalismo». PER MARIA Stella Gelmini, ex ministro dell’Istruzione, «è positiva la scelta di Profumo di procedere con un concorso, che però non deve penalizzare i giovani né creare false aspettative, perché i numeri della scuola restano quelli decisi con i tagli: la selezione deve avvenire con procedure meritocratiche che premino i più bravi». Secondo Giuseppe Fioroni, anche lui ex ministro dell’Istruzione, ma nel governo Prodi, invece «il concorso ha ancora vecchie regole che non fanno della scuola italiana una scuola normale. Questa avrebbe bisogno di far esaurire le graduatorie permanenti che sono raddoppiate aumentando i precari».

Il Resto del Carlino 26.08.12

"Levi, il maestro dei premi Nobel" di Pietro Greco

Il 13 agosto 1912, cento anni fa, a Torino nasceva Salvatore Luria. Per le sue ricerche sui virus vincerà il premio Nobel per la medicina nel 1969. Primo dei «tre torinesi» che in meno di 15 anni saranno laureati a Stoccolma. Luria precede, infatti, Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina nel 1975 per le sue ricerche sui virus oncogeni, e Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina nel 1986 per la scoperta del fattori di crescita (Ngf) del sistema nervoso. Salvatore Luria condivide con Renato Dulbecco e con Rita Levi Montalcini tre elementi che molto spesso caratterizzano la scienza italiana.
Il primo è la ricerca di punta – la ricerca da Nobel – realizzata all’estero: elemento che caratterizza tutti i Nobel italiani nel dopoguerra. I «tre torinesi» effettuano i loro studi da Nobel tutti negli Stati Uniti. Ma realizzano all’estero le ricerche per cui saranno premiati anche i fisici Emilio Segré (Nobel nel 1959), Carlo Rubbia (1984), Riccardo Giacconi (2002); l’economista Franco Modigliani (Nobel nel 1985) e il genetista Mario Capecchi (Nobel 2007). Nel dopoguerra l’unico italiano a essere premiato per ricerche condotte in Italia è Giulio Natta (Nobel nel 1963). Una nota a parte merita Daniel Bovet (Nobel nel 1957), che ha realizzato le ricerche premiate a Roma, presso l’Istituto Superiore di Sanità diretto da Domenico Marotta. Ma Bovet è uno svizzero e, dunque, per mera coerenza di discorso lo escludiamo dalla lista.
Il secondo elemento è la formazione di base effettuata in Italia. In particolare Luria, Dulbecco e Levi Montalcini hanno studiato e si sono laureati presso la medesima università, quella di Torino. Si sono anche conosciuti da studenti e frequentati, da buoni amici, da ricercatori. Anche tutti gli altri Nobel italiani si sono formati in Italia. Il che dimostra – smentendo i più triti luoghi comuni – che l’università italiana produce eccellenza. I Nobel citati, infatti, sono solo la punta di quell’immenso iceberg composto dai «cervelli in fuga» dall’Italia che, nelle materie scientifiche, continua a essere per quantità e forse anche per qualità il più grande d’Europa.
C’è un terzo elemento che accomuna solo e unicamente Salvatore Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini: il maestro. Giuseppe Levi. L’unico docente in Italia e, probabilmente, in tutto il mondo che possa vantare tra i suoi allievi tre premi Nobel. Ed è di Giuseppe Levi che vogliamo parlarvi, perché espressione di due capacità del nostro paese: quella di produrre buoni maestri e quella di non saperli riconoscere. Giuseppe Levi, infatti, è poco conosciuto. Di lui non si parla molto, malgrado la sua figura sia tratteggiata in Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Che, sia detto per inciso, è sua figlia. A dimostrazione che le capacità maieutiche di Giuseppe Levi, far esprimere in tutte le loro potenzialità la creatività dei giovani, non si esauriva nelle aule e nei laboratori dell’università.
Giuseppe Levi è nato a Triste nel 1872, in una ricca famiglia ebrea che si occupa di finanza. Studia e si laurea in medicina a Firenze. Diventa assistente presso una clinica psichiatrica e poi si reca a Berlino, per lavorare all’Istituto di anatomia diretto da Oscar Hertwig. Torna a Firenze poi è a Napoli presso la Stazione Zoologica di Anton Dohrn. È qui che affina le sue capacità di istologo dei tessuti nervosi. Si guadagna una cattedra prima a Sassari e poi Palermo. Infine, nel 1919, è a Torino per assumere la direzione dell’Istituto di anatomia umana.
Dimostrando di essere un grandissimo maestro. Le sue capacità sono descritte sia da Salvatore (che in America si è fatto ribattezzare Salvador Edward) Luria: «Ciò che imparai da Levi, e di cui feci buon uso in seguito, fu un atteggiamento di rigorosa professionalità, vale a dire imparai come impostare seriamente un esperimento e portarlo a conclusione. Appresi l’importanza di comunicare i risultati: il maestro soleva dire che, non appena una serie di dati apparisse significativa, bisognava pubblicarne il resoconto. E quando il manoscritto era pronto, Levi lo riscriveva da cima a fondo senza pietà. Un’altra lezione che ho appreso da lui, applicandola poi durante tutta la mia vita accademica, è quella di non mettere mai il mio nome sulle pubblicazioni dei miei allievi, a meno di aver contribuito direttamente e sostanzialmente al loro lavoro».
L’ETICA IN PRIMO PIANO
Un maestro, dunque, che mette in primo piano l’etica della sua professione, come testimonia anche Rita Levi Montalcini: «Aveva per la ricerca un rispetto morale, che mi auspico di trovare anche negli scienziati di oggi». E per questo era amato dai suoi studenti, malgrado il carattere non sempre morbido, come ricorda Renato Dulbecco: «Capiva gli studenti e ne perdonava le stramberie, ma non tollerava cose che riteneva improprie: allora inveiva, sprizzando saliva a destra e a sinistra. Le sue lezioni erano le più frequentate della facoltà, non perché vi si imparasse molto. L’anatomia si imparava studiando sui libri o facendo le dissezioni sui freddi tavoli di marmo bianco o le esercitazioni di anatomia microscopica nel vasto laboratorio al pianterreno. Gli studenti andavano a sentir Levi perché lo rispettavano, lo amavano. Era inoltre un simbolo di resistenza al fascismo, anche se si conteneva entro limiti che il regime poteva tollerare».
Giuseppe Levi tuttavia non era solo un maestro che brilla della luce riflessa proveniente dai suoi allievi. Era anche un ottimo ricercatore. Anzi «il più autorevole biologo italiano attivo tra le due guerre», come sostengono Lucio Russo ed Emanuale Santoni in Ingegni minuti. Una storia della scienza italiana.
A Giuseppe Levi hanno dedicato di recente un ampio saggio due giovani storici, Andrea Grignolio e Fabio de Sio, che mettono a fuoco i due aspetti salienti di Giuseppe Levi: quello del biologo che accelera lo sviluppo della biologia sperimentale in Italia e in Europa (è il primo in Italia e tra i primi nel continente a utilizzare la tecnica della coltura in vitro delle cellule) e quello dell’intellettuale antifascista.
Come ricercatore Giuseppe Levi ottiene importanti risultati. Uno dei quali nell’ambito dell’anatomia comparata è oggi noto come legge di Levi: il numero di cellule nervose è analogo in tutti i mammiferi, mentre è la loro dimensione a variare in relazione diretta con la grandezza dell’animale.
Come intellettuale Giuseppe Levi è fortemente impegnato in politica. È un socialista che frequenta Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Carlo Rosselli e prende posizione pubblica contro il fascismo. Pagandone le conseguenze. Conosce la prigione, le leggi razziali, la fuga rocambolesca inseguito dai nazifascisti. Lavora in un laboratorio clandestino approntato alla meglio dalla sua allieva (ebrea) Rita Levi Montalcini.
Nessuno dei suoi tre allievi più famosi farà ricerche e sarà premiato per aver continuato gli studi di Giuseppe Levi. La sua dimensione di maestro – l’unica veramente possibile per un autentico maestro – non è prescrittiva, ma è appunto maieutica. Come dimostrano Grignolio e de Sio, Giuseppe Levi catalizza la costruzione intorno a sé di un ambiente culturale complessivo adatto allo sviluppo della creatività scientifica, intriso di rigore morale.
Per questo è, ancora oggi, una figura «quasi leggendaria», secondo la definizione di Claudio Pogliano. Per questo è un modello. Un maestro dei maestri. Per questo nella nostra Italia, benché sia stato insegnante di tre premi Nobel, padre della scrittrice Natalia e suocero dello scrittore Leone Ginzburg, risulta, come scrivono Grignolio e de Sio nella loro monografia scientifica, «an illustrious unknown»: un illustre sconosciuto. Giuseppe Levi muore a Torino nel 1965.
(L’articolo di Pietro Greco sul fisico Bruno Pontecorvo è uscito domenica 19 agosto)

L’Unità 26.08.12