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Giustizia, la Severino accelera "Anticorruzione inderogabile l´Europa ci chiede norme più dure", di Liana Milella

Le misure anti-corruzione? «Inderogabili e imprescindibili. Sono la chiave di volta per garantire la crescita del Paese. E poi ce le chiede l´Europa, e non possiamo certo fingere indifferenza e attendere ancora». L´ha detto tante volte Paola Severino. E l´ha ripetuto ancora durante il consiglio dei ministri di venerdì. E anche ieri, con chi le chiedeva la sua opinione sulla legge contro i corrotti in attesa ormai dalla primavera 2010, ripeteva la stessa frase. Convinta com´è che «la legge debba essere approvata il prima possibile», con corsia preferenziale su tutto il resto. Con la fiducia com´è già accaduto alla Camera, se è necessario per spezzare una melina che dura ormai da troppo tempo. È un´eredità pesante del governo Berlusconi questo ddl anti-corruzione. Originariamente firmato dall´ex Guardasigilli Angelino Alfano, oggi segretario di quello stesso Pdl che mette di continuo ostacoli al via libera definitivo. L´ultimo, al Senato, è consentire una sola seduta a settimana nelle commissioni.
L´attuale ministro della Giustizia, invece, non ha dubbi. Norme anti-corruzione, misure per una detenzione giusta, strumenti per ridurre l´arretrato civile. Sono i suoi tre poli d´importanza. Eccola dire: «In un consiglio dei ministri dedicato alla crescita del Paese, una volta giunti al capitolo della giustizia, non si poteva che mettere al primo posto la necessità di approvare al più presto la legge anti-corruzione». Un pacchetto che si muove su un doppio binario, quello della prevenzione con le nuove regole in campo amministrativo, e quello penale, con la revisione dei reati di corruzione, che pure hanno suscitato – soprattutto la divisione della concussione che la “figliato” la contestata corruzione per induzione – molte polemiche e messo in seria difficoltà il Pd.
Ma il punto adesso è superare l´empasse politica. Come ha detto il Guardasigilli in consiglio dei ministri, «l´anti-corruzione è un atto dovuto per questo governo, è una legge che non si può non fare, è una mission per cui l´Esecutivo Monti è nato». Chiudere la legislatura, e lasciare ad altri il testimone delle norme contro i corrotti, sarebbe una grave sconfitta per un governo di tecnici che ha fatto della sua sintonia con l´Europa un costante punto di riferimento.
Se fosse stato per Severino il testo sarebbe già stato approvato da tempo. Basti ricordare che, nella sua prima intervista da Guardasigilli che dette proprio a Repubblica a dicembre 2011, il suo annuncio fu: «Introdurrò il reato di corruzione tra privati». È stata di parola, quel reato fa parte del testo di legge che, da metà giugno, è parcheggiato al Senato dopo il sì della Camera con forti polemiche in aula. Il Pdl l´ha votato obtorto collo, numerosi i dissensi, e sin dal primo minuto post voto è partita la perentoria richiesta del capogruppo Pdl Fabrizio Cicchitto di una modifica profonda. Non va il reato di traffico di influenze illecite perché, come ha detto più volte Enrico Costa, il capogruppo berlusconiano in commissione Giustizia, «con quelle norme si dà ai pm un potere troppo forte e indifferenziato per cui chiunque può finire per ritrovarsi indagato». Non va neppure la corruzione tra privati perché non prevede la clausola della «querela di parte». Non vanno gli aumenti delle pene minime perché, dice il Pdl, «così si toglie discrezionalità al giudice». E non va neppure il lieve aumento delle pene massime perché «la prescrizione diventa troppo alta».
In realtà proprio qui sta il punto debole, in una prescrizione che invece resta di fatto invariata, mentre i magistrati hanno sempre chiesto di aumentarla. E non va il reato di corruzione per induzione, una figura giuridica costruita dalla stessa Severino, che fa calare la pena rispetto alla concussione: anziché da 4 a 12, la pena va da 3 a 8 anni, ma sarà punito fino a 3 anni anche il privato co-protagonista del reato. Se approvato, il nuovo articolo 319quater del codice penale può mettere a rischio molti processi, tra cui quello all´ex presidente della Provincia di Milano Penati e il processo Ruby di Berlusconi.
Il Pdl in verità non è neppure contento, chiede di tornare alla vecchia concussione, restringendola però, con l´emendamento Sisto subito ribattezzato salva-Ruby, alla sola promessa di “denaro o altra utilità patrimoniale”.
Al Senato il Pdl annuncia battaglia, il capogruppo Maurizio Gasparri è ormai un nemico giurato di Severino, e gliel´ha detto pure in faccia, dopo il taglio del tribunale di Rossano, preannunciandogli una furibonda campagna d´autunno. L´anti-corruzione non andrà avanti se non camminano anche intercettazioni e responsabilità civile dei giudici. Ma è proprio su questo, già a fine luglio, che il Guardasigilli è stata inamovibile: “Prima l´anti-corruzione, poi il resto”.

La Repubblica 26.08.12

"Qual è l’agenda Monti?", di Claudio Sardo

Non mancano buoni propositi nel documento «Obiettivo crescita», sfornato l’altra sera dal consiglio dei ministri, al termine di una lunga seduta apparsa ad alcuni più simile a un seminario di studi che non a un vera riunione deliberativa. Sicuramente il migliore dei propositi è porre in cima alle priorità del Paese il tema del sostegno a un nuovo sviluppo. Quella italiana è drammaticamente l’economia con le prestazioni peggiori dell’ultimo decennio in tutto l’Occidente. Le conseguenze sociali della crisi allargano sempre più l’area della povertà.
E colpiscono i ceti medi, persino alcuni dei settori più dinamici dell’impresa, consumando così opportunità di futuro. Nessuna politica anticiclica è stata fin qui messa in campo nella lunga recessione seguita al tracollo finanziario del 2007.
Occorre dunque agire. Cambiare la rotta. E occorre farlo subito. Nessuna emergenza sul fronte dello spread può ormai legittimare rinvii o politiche dei due tempi: l’emergenza dell’economia reale e quella sociale vanno affrontate con una determinazione che finora è mancata. Altrimenti crolleranno i presupposti per reagire domani a qualunque spread, e forse anche a difendere i capisaldi della democrazia. Nessuno si illuda: non ci sono piani di medio termine capaci di farci sorvolare la necessità oggi di un cambiamento di rotta.
Ma è proprio qui che sorge il problema. E il dubbio sull’agenda del governo Monti. Si parla di riforma del catasto, di agenda digitale, di delega fiscale e di tanti altri progetti da mettere in cantiere. Tuttavia manca la definizione di strumenti concreti per affrontare l’emergenza e per creare lavoro. Se l’introduzione del documento mostra la consapevolezza di una sofferenza sociale che ha raggiunto il limite di guardia («non si può certo sperare di aumentare la crescita comprimendo i salari e competendo sul prezzo con economie emergenti a basso costo di lavoro e minore tutela di diritti sociali»), nei capitoli successivi non ci sono però interventi per aggredire davvero, e in tempi rapidi, l’attuale inerzia. O meglio, la lista degli interventi auspicabili è persino troppo lunga, e perciò dispersiva. Restano indefinite le priorità operative. Le scelte su cui puntare davvero e caratterizzare i prossimi mesi, gli ultimi della legislatura. Mancano gli interventi capaci di spezzare la spirale perversa di manovre restrittive e recessione.
Il documento del governo insiste molto sul fatto che le politiche di stimolo alla crescita non debbono essere alimentate da nuova spesa pubblica, ma piuttosto da concorrenza, liberalizzazioni, apertura dei mercati. Nessuno nega le valide ragioni di questo assunto in un Paese che ha ancora molto da fare per accrescere la mobilità sociale, per ridurre il peso delle corporazioni, per contrastare l’illegalità. Ma è un’illusione, o peggio un riflesso ideologico, pensare che la crescita oggi sia tutta in funzione della libertà dei mercati. Non è mai stato vero in assoluto. Tanto meno lo è nel mezzo di una crisi così profonda.
Lo Stato e il pubblico hanno una grande responsabilità. E un grande compito. Innanzitutto di ridefinire se stessi in termini di maggiore efficienza, trasparenza, competitività. Ma le politiche pubbliche non possono eludere interventi diretti. Si può assistere all’aumento della benzina senza che il governo trovi una modalità per calmierarne il prezzo? Si può negare che tocchi al pubblico – Stato nazionale, Europa – trovare le risorse per la ricerca e gli investimenti strategici e di rete, quando il mercato non è in grado di fornirli? Si può evitare di porre al centro delle politiche economiche una fiscalità premiale per il lavoro nei settori a più alto contenuto di innovazione, oppure per chi investe in formazione e ricerca? Si può negare al settore dell’edilizia un valore anticiclico, magari indirizzando da subito gli sgravi fiscali sulle ristrutturazioni in funzione antisismica e di risparmio energetico?
Da un governo nato per l’emergenza ci si attende che voglia anzitutto affrontare l’emergenza. È la sua missione. È questa l’agenda Monti di cui avremmo bisogno oggi: l’agenda di una svolta sociale, pur limitata, e inserita nel contesto della strategia di recupero di credibilità dell’Italia nell’area euro. Se invece per agenda Monti si intende il piano del futuro, l’ipoteca politico-economica sulla prossima legislatura, allora sarebbe bene dichiararlo in modo aperto, magari in Parlamento. Su questa strada però il governo cambierebbe natura e aprirebbe una frattura nella sua maggioranza. Ricondurre la democrazia italiana alla normalità di un’alternanza politica è infatti obiettivo di questa transizione. Obiettivo inscindibile da una idea di ricostruzione.
Non ci sfugge che molti si aggrappano a Monti per impedire questo approdo e riprodurre, in ogni modo, una grande coalizione anche dopo le elezioni. Di Monti abbiamo fin qui apprezzato la serietà e la coerenza, anche quando non ci siamo trovati d’accordo con alcune scelte: a quel che sappiamo, Monti non ha mai opposto la minima resistenza all’ipotesi di elezioni anticipate, qualora questa fosse la comune determinazione del Capo dello Stato e della maggioranza. È un’altra prova di lealtà istituzionale. Tuttavia il passaggio di questi giorni è cruciale. Innanzitutto il Paese ha bisogno di interventi concreti, efficaci per l’emergenza sociale e del lavoro. Se il governo non fosse capace di farli, le conseguenze sarebbero pesantissime. In secondo luogo, è bene che le scelte di medio-lungo periodo siano affidate al confronto elettorale. È un valore democratico, forse anche una migliore garanzia di efficacia dei programmi. Dietro un’agenda Monti più ideologica che concreta, più proiettata sul domani che sull’oggi, si nascondono i soliti che cercano di tenere sotto tutela la democrazia italiana.

L’Unità 26.08.12

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“CRESCITA: ECCO COSA MANCA AL PIANO DEL GOVERNO”, di Bianca Di Giovanni

«Con Grilli abbiamo sempre trovato le soluzioni. Non c’è nessuna possibilità di crescita senza il consolidamento dei conti pubblici». Così Corrado Passera all’uscita da Palazzo Chigi commenta il consiglio dei ministri di ieri: quasi nove ore dedicate alla crescita. Nessun litigio – ripetono all’unisono tutti i membri del governo – ma solo un aperto confronto sullo stato dell’arte dell’agenda di governo. Le decisioni già prese e quelle che dovranno seguire di qui a fine anno, ultimo tempo utile prima che si entri nella fase pre-elettorale.

«Obiettivo crescita: mobilitato l’intero governo», annuncia il comunicato finale, accompagnato da un allegato di 17 cartelle con l’elenco delle azioni fatte e quelle da completare. Eppure dalle parole del titolare dello Sviluppo appare chiaro che al primo punto resta il consolidamento dei conti. Sul come e quando saranno varati i provvedimenti per la crescita, la risposta è stata: «Vedremo. Ci saranno le occasioni per farlo. Stiamo parlando di provvedimenti sul completamento di provvedimenti sull’ agenda digitale del Paese, sulle start up e di come attirare investimenti dall’estero».

LE INCOGNITE
Passera non si sbilancia oltre. Manca una scossa, mancano ancora le scelte strategiche necessarie per innescare la svolta. Passera sa che il momento è delicato. Nel mese di agosto sulla stampa si sono rincorse le ipotesi più diverse su futuribili sgravi fiscali, che hanno fatto innervosire l’Economia, ancora in cerca di risorse per evitare l’aumento dell’Iva. E già questo ha messo Mario Monti in difficoltà. Tanto che anche nel comunicato di ieri si sottolinea che «tutte le azioni dovranno svolgersi nel rispetto delle compatibilità finanziarie e dei vincoli europei, come è stato illustrato da Vittorio Grilli e Enzo Moavero». Per non parlare dei numeri dell’economia reale, che restano quelli di una crisi nerissima: una recessione che non si vedeva da quasi mezzo secolo. «Fornero ha parlato di abbassamento del cuneo? E se all’Ilva arriva la cassa integrazione, chi la paga?», è la battuta che filtra dagli uffici di Via Venti Settembre. Tant’è che il cuneo fiscale, il calo dell’Iva sugli investimenti o ipotetici sgravi Irpef non compaiono nei comunicati finali, né sarebbero stati proposti al tavolo.

A questo si aggiunge la situazione internazionale, in cui la Germania non deflette dalle sue posizioni rigide sulle condizioni da imporre a chi chiedesse l’intervento del futuro fondo salva-spread. A settembre si chiarirà come la Bce potrà intervenire, ma le avvisaglia non sembrano favorire il piano Monti. Insomma, sulla rotta del premier si incrociano diverse partite ad alto rischio. Di questo Monti ha parlato con il governatore Ignazio Visco, incontrato in mattinata. Per Bankitalia le prospettive restano poco rassicuranti: se l’Italia non si muove subito potrebbe perdere l’occasione della ripresa nel 2013. A preoccupare poi è la reazione dei mercati in settembre, quando riprenderanno le aste di titoli pubblici. Per questo il premier ha voluto assolutamente questo appuntamento di fine estate: essenziale per lui offrire l’immagine di una squadra compatta, che lavora per la crescita.

Il Consiglio ha deliberato la sospensione dei versamenti fiscali e contributivi fino al 30 novembre nelle zone terremotate. Inoltre ha varato quattro decreti su scuola e Università. Il primo decreto riguarda l’istituzione e la disciplina del Sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione delle istituzioni scolastiche e formative, comprese le scuole paritarie, definendone finalità, struttura e modalità di funzionamento. Inoltre si concede al ministero dell’istruzione l’autorizzazione ad effettuare assunzioni di dirigenti scolastici, docenti e personale educativo; docenti per le Accademie e i Conservatori di Musica; personale tecnico-amministrativo e tre unità di direttore amministrativo. Queste azioni, si legge in una nota, rientrano nella più ampia e complessiva azione del Miur a favore dell’istruzione e della formazione.

Un’azione che si articola anche in procedure per l’abilitazione nazionale dei docenti universitari, un piano straordinario per l’assunzione di professori universitari associati, reclutamento di docenti della scuola tramite concorso. Naturalmente la parte più importante delle 8 ore e mezzo trascorse nel salone verde di Palazzo Chigi riguarda l’agenda futura, quella che seguirà gli 84 provvedimenti già approvati finora. Durante il consiglio, ha spiegato Passera, «sono stati raccolti contributi di grande interesse da tutti i ministri, che si sentono mobilitati per far uscire il Paese il più velocemente possibile dalla recessione ». Una raffica di provvedimenti da attuare nel giro di pochi mesi. Gran parte saranno inclusi nella legge di Stabilità.

Il cammino è inestricabilmente legato alle nuove norme sul semestre europeo. Tra gli obiettivi, il governo conferma quello di aggredire lo stock di debito pubblico, «in particolare mettendo in atto – si legge sull’allegato – gli strumenti creati per procedere alla valorizzazione e successiva dismissione del patrimonio dello Stato, sia degli immobili che delle partecipazioni pubbliche. Una particolare attenzione sarà dedicata ad affrontare gli effetti sociali della crisi e gestire il processo di ristrutturazioni industriali in atto».

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L’Unità 26.08.12

"L´Europa federale tra il sogno e la realtà", di Eugenio Scalfari

Mario Monti sarà ancora operativo fino a gennaio, poi la campagna elettorale inevitabilmente lo congelerà. Quattro o cinque mesi, ma ricchi di eventi e di decisioni che possono avere effetti notevoli su quanto ne seguirà nella prossima legislatura.
La prima decisione da prendere riguarda il rapporto tra il governo, il mercato e la Banca centrale europea. Finora Monti ha battuto e ribattuto sul tasto che l´Italia ce la farà da sola a rimettersi in piedi, restando fedele al programma di rigore già in atto, procedendo con le riforme soprattutto per quanto riguarda la rapidità dei tempi della giustizia civile, la riqualificazione della spesa, l´evasione e infine il rifinanziamento, per quel che è possibile, dell´economia reale.
Questo orgoglio nazionale è stato un buon “incipit” per avviare il negoziato con la Bce e ottenere il suo intervento sul mercato dei titoli. Parliamoci chiaro: quell´intervento è indispensabile per difendere la moneta unica e garantire l´efficacia della politica monetaria, ma Draghi non darà mai inizio all´operazione da lui battezzata “non convenzionale” senza il via libera del fondo “salva Stati”, cioè della Ue e del governo tedesco.
Si tratta dunque d´un passaggio obbligato. Il disegno di Monti sembra questo: formulare lui le condizioni del “memorandum” e sottoporlo al “salva Stati” per l´approvazione. Monti conosce benissimo quale sia la condizionalità che la Ue e la Bce ci chiedono in aggiunta a quanto già fatto. on si tratta di ulteriori dosi di rigore ma di ulteriori riforme che stabilizzino il quadro finanziario e consentano perfino un inizio di ripresa produttiva (di cui nel “seminario” del Consiglio dei ministri di venerdì).
La partita è assai complicata e i giocatori al tavolo sono a dir poco quattro: Monti, Draghi, la Bundesbank, la cancelliera Merkel. Ciascuno di loro ha una sua strategia e le alleanze nel corso della partita saranno variabili. Se il risultato sarà positivo ci sarà un alleggerimento degli spread di Italia e Spagna, un costo minore dei rispettivi debiti sovrani e soprattutto un vincolo che il governo Monti trasmetterà ai governi che verranno dopo le elezioni; questo vincolo risulterà di altissimo valore per i mercati e di rafforzamento sia di Draghi sia della Merkel nella complessa partita che essi stanno giocando con i falchi della Bundesbank e con le forze politiche che li appoggiano.
Il 6 settembre il Consiglio direttivo della Bce prenderà le sue decisioni. Monti dal canto suo dovrà uscire allo scoperto nei giorni successivi. Entro settembre questo problema dovrà dunque essere definitivamente risolto.

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Ma ce n´è un altro, di problema, ancora più grosso ed è quello dello sfondo politico e istituzionale in cui l´intervento “non convenzionale” della Bce si colloca: l´eventuale passaggio dalla confederazione dei governi europei alla nascita d´una Europa federata. Si chiama, con parole concrete, “cessione di sovranità” dei governi nazionali agli organi federali dell´Unione europea, sia quelli già esistenti che andrebbero comunque riformati, sia organi nuovi da creare se necessario a completamento delle strutture della Ue.
Ne abbiamo già parlato qualche settimana fa. Allora sembrava che la Merkel avesse puntato sulla nascita dell´Unione federale tutte le sue carte. Non era ancora chiara la posizione di Hollande ma si sperava che anche la Francia alla fine riconoscesse la necessità di questa soluzione in un mondo ormai globalizzato.
Ne riparliamo oggi perché nel frattempo si è verificato un fatto nuovo: il tema dell´Europa federale è uscito di scena, la Merkel non ne parla più, la questione della cessione di sovranità si limita ormai al fiscal compact e si attende la sentenza imminente della Corte costituzionale tedesca sui fondi “salva Stati”, si dubita perfino della fattibilità di un´Unione bancaria e d´una vigilanza unica affidata non più alle Banche centrali nazionali ma alla Bce.
Insomma una ritirata vera e propria da un progetto certamente assai complesso da realizzare in un continente diviso da lingue diverse e da secoli di guerre e di diverse etnie e tradizioni, ma assolutamente necessario per non far precipitare l´Europa in una totale irrilevanza politica. Come si spiega questa ritirata? E che cosa si può fare per rimettere in moto quel progetto?

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La Merkel deve aver capito due cose che forse qualche mese fa aveva trascurato o sottovalutato. La prima: il grosso dell´opinione pubblica del suo Paese non vede affatto di buon occhio un´egemonia politica tedesca su un´Europa cui tutti gli Stati nazionali, Germania compresa, abbiano ceduto quote rilevanti di sovranità. I tedeschi preferiscono fare buoni affari e conservare una supremazia industriale e finanziaria sull´Europa, ma rifiutano di esercitare un´egemonia politica. Che implicherebbe notevoli responsabilità e cessioni di indipendenza nazionale.
La seconda questione è la resistenza al progetto federativo da parte di molti altri Paesi a cominciare dalla Francia e dai Paesi del Nord e dell´Est. Soprattutto quelli che sono fuori dall´Eurozona, Gran Bretagna e Polonia in testa.
Perciò, per dirla tutta, quel progetto sembra rientrato salvo alcune cessioni di sovranità che riguardano il bilancio europeo, la politica fiscale, la difesa della moneta comune. La quale tuttavia, se quello sfondo politico verrà a mancare, non avrà mai la forza d´una moneta di riserva.
Il venir meno di questo progetto allarga tuttavia probabili spazi di negoziato e consente iniziative altrimenti impensabili. Per esempio consentirebbe a Paesi interessati ad un´Europa federata di federarsi tra loro. Il “chi ci sta ci sta”, minacciato tempo fa dalla Germania quando si parlava di due velocità monetarie, potrebbe essere ora capovolto parlando di cessioni di sovranità politiche.
Se l´Italia, la Spagna, il Portogallo, l´Irlanda, l´Austria, ma anche soltanto i primi tre, fondassero anzi rilanciassero un Club mediterraneo con proprie regole e istituzioni comuni che mantenesse la sua presenza nell´Unione europea e nell´Eurozona non più come singoli Stati ma come Club, il contraccolpo sarebbe forte se non addirittura fortissimo.
Proseguo nell´esempio. Se i Paesi del Club stabilissero rapporti di consultazione e amicizia economica e politica con altri Paesi mediterranei, Algeria, Marocco, Libia Egitto, Israele, Turchia, rapporti che già esistono ma che cambierebbero titolare: non più i singoli Paesi ma il Club in quanto tale?
Se analoghi accordi fossero stipulati con tutta l´area di lingua latina nel Centro e Sud America, e principalmente con Argentina, Brasile, Uruguay, Messico? Argentina e Brasile hanno già dichiarato di essere molto propensi a studiare e concordare rapporti di questo genere. Un Club mediterraneo non potrebbe prendere un´iniziativa in tale direzione?
Se gli interessi e la fantasia suggeriscono nuovi orizzonti, non è affatto escluso che la stessa Europa federale possa rimettersi in moto. A volte bisogna saper sognare per affrontare le più dure realtà.

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C´è un ultimo aspetto del quale voglio far cenno a proposito di Europa federale. Qualora prima o poi ci si arrivasse sarebbero necessarie alcune importanti modifiche istituzionali e cioè:
1. Il Parlamento europeo dovrebbe essere eletto su basi europee e non nazionali.
2. I referendum su questioni pertinenti l´Europa dovrebbero anch´essi esser votati dal popolo europeo e non dai popoli dei singoli Stati.
3. La struttura internazionale dell´Unione federale dovrebbe avere carattere presidenzialista del tipo degli Stati Uniti d´America: un presidente eletto che nomina il governo federale; un Parlamento che controlla l´operato del governo, la nomina dei funzionari di importanza federale, le leggi che incidono sul bilancio, le spese, le entrate. Una Corte costituzionale a tutela della costituzione federale.
Quando lo Stato ha le dimensioni di un continente e per di più in un mondo ormai globale, la democrazia deve assicurare al tempo stesso rapidità di decisioni, visualizzazione del leader che rappresenta quel continente e partecipazione dei cittadini. Il fondamento di queste strutture poggia sulla divisione dei poteri.
Si tratta, con tutta evidenza, di obiettivi lontani, ma spetta alla pubblica opinione averli presenti, dibatterli preparandone il possibile avvento.

Post scriptum. L´articolo di venerdì scorso del nostro direttore Ezio Mauro sul conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica tratta un tema che è stato ampiamente e liberamente esaminato con ricchezza di argomenti. Aderisco a quanto scritto da Mauro. Del resto lo ha detto lui stesso e lo ringrazio per questo: noi ci siamo scelti reciprocamente diciassette anni fa ed è stata una scelta della vita che quotidianamente si rinnova. Sul tema in questione null´altro c´è da dire salvo le notizie di cronaca e il verdetto di merito della Corte che commenteremo con libertà e rispetto verso quell´istituzione che garantisce la costituzionalità delle leggi e dei comportamenti.

La Repubblica 26.08.12

“L’intervento dello Stato per il bene comune” di Laura Pennacchi

Il rilancio della riflessione su un nuovo intervento pubblico in economia è di portata enorme: Esso va collocato dentro quella «strong battle» tra settore pubblico e privato riproposta dalla crisi globale, lungo il cui asse torna a scorrere una forte discriminante destra-sinistra. Chi aveva sostenuto che stato-mercato fosse divenuto un dilemma irrilevante ha materia per ricredersi. Il paradosso da spiegare, semmai, è un altro: l’intervento pubblico è stato invocato quando si trattava di salvare banche e intermediari finanziari (trasformando immensi debiti privati in immensi debiti pubblici) e ora che bisognerebbe sostenere i redditi dei lavoratori, rilanciare la «piena e buona occupazione», dare vita a un nuovo modello di sviluppo, se ne pratica un drastico ridimensionamento sotto forma di tagli vertiginosi alla spesa pubblica. L’austerità ha anche questa faccia: ripropone il motto «meno regole, meno Stato, più mercato» con cui il trentennio neoliberista ha incubato la crisi economico-finanziaria più grave dopo il 1929 e alimentato la pulsione verso lo «starving the beast» («affamare la bestia», e la bestia sono gli Stati e i governi). Eppure la crisi disvela l’importanza del ruolo dello Stato, del resto incisivamente praticato anche in era di neoliberismo conclamato: negli anni di Reagan e dei Bush in Usa si è dato vita a qualcosa che alcuni studiosi hanno definito «Stato sviluppista nascosto». Il punto è: il ricorso allo Stato del neoliberismo dà vita a una sorta di «keynesismo privatizzato» al servizio degli interessi delle corporations e dei poteri forti, il quale implica da una parte l’erosione delle funzioni più nobili e trasparenti della «statualità », dall’altra l’abbattimento dei benefici pubblici per ceti medi e lavoratori. Si tratta di rovesciare questa tendenza e di dare vita a un intervento pubblico trasparente, orientato al bene comune, facendo leva su due fatti strategici: 1) la recessione, la flessione degli investimenti privati, la caduta della produzione, la disoccupazione per essere contrastate richiedono un «big push» fornibile solo da un motore pubblico, a partire da un Piano straordinario per il lavoro di giovani e donne, prendendo atto che le ricette con incentivi indiretti, occupabilità, flessibilità, cuneo fiscale stanno facendo fallimento; 2) la strutturalità delle cause della crisi ci dice che essa è deflagrazione di un intero modello di sviluppo e che l’attivazione di un nuovo modello ha vitale bisogno di un volano pubblico. Occorrono sia politiche della domanda che politiche dell’offerta. Keynes e Schumpeter vanno strategicamente ripensati insieme. La drammatica situazione che stiamo vivendo riattualizza tutte le categorie di Keynes: insufficienza della domanda aggregata, disoccupazione involontaria ed equilibrio di sottoccupazione, utilizzo della spesa pubblica e moltiplicatore, «trappola» che fa sì che all’aumentare della liquidità non aumentino gli investimenti per la decrescente efficienza marginale del capitale. D’altro canto, la crisi economico-finanziaria ha attizzato il fuoco sotto problematiche con un potenziale esplosivo, dalla crescita delle diseguaglianze agli squilibri territoriali, al depauperamento del capitale sociale e dei patrimoni infrastrutturali, alla dequalificazione dei sistemi educativi e delle strutture di welfare, alle questioni ambientali. Trattare queste problematiche implica tornare a un incisivo intervento pubblico, che non si limiti e a regolare e a liberalizzare, ma che da una parte si esprima nella presenza diretta in economia sulle frontiere dell’innovazione (anche con una mobilitazione, valorizzazione, alienazione del patrimonio), dall’altra ridia cittadinanza a un’altra parola a lungo negletta: programmazione. Giddens, il teorico della terza via semiliberista di Blair, dice addirittura «pianificazione». La programmazione e la politica industriale assumono questioni che il mercato non può risolvere: quanto investire nell’aggregato, la direzione che le nuove tecnologie debbono prendere, quanta urgenza dare ai problemi ambientali, il ruolo da assegnare alla scuola, alla conoscenza scientifica, alla cultura. Ogni crisi forza il ritmo del cambiamento strutturale e ciò richiede uno sforzo di pensiero e di categorie per porre al centro di un nuovo modello di sviluppo green economy, beni comuni, beni sociali.

L’Unità 25.08.12

"Il sorriso del male", di Adriano Sofri

Era quello che la Norvegia si augurava. È vero, tuttavia mi dispiace che si dica così. Mi dispiace che si insinui un dubbio sul tribunale norvegese. Il dubbio, cioè, che i giudici abbiano fatto prevalere l’intenzione di andare incontro al desiderio di un popolo. Anche in quel popolo del resto il dubbio era stato lacerante via via che le perizie di psichiatri e medici e psicologi ed esperti di ogni genere si dividevano sulla mente di quel loro inspiegabile ripugnante concittadino. La prima reazione era inevitabile. Non solo perché si vuole scongiurare un male troppo grande, allontanarlo da sé, consegnarlo all’altro mondo della pazzia e dell’irresponsabilità. Ma anche perché la ragione rilutta ad ammettere un’enormità inimmaginata: che cosa considereremo pazzia, se non è pazzia la strage fredda e compiaciuta di decine e decine di persone inermi, di ragazze e ragazzi, e il rimpianto ripetuto, proclamato — ancora ieri, e quel sorriso — per non averne uccisi molti di più. Per non averli uccisi tutti.
Che cosa è pazzia, se non questo? Poi, piano ma tenacemente, si è fatto strada un altro pensiero. Non è vero che il male troppo grande debba per forza essere irresponsabile. Non è vero che sia demoniaco, e caso mai demoniaco non vuol dire invasato e innocente. Il male e il bene si scelgono. C’è una pazzia — la chiamiamo così, gli esperti hanno una nomenclatura scrupolosa e vasta, i norvegesi le si sono addestrati lungo tutto un anno — che fa uscire gli umani da sé e fa compier loro atti che li lasceranno, una volta tornati in sé, attoniti e stremati. È una gran conquista quella che esonera dal giudizio penale chi sia stato sequestrato a se stesso dalla propria ossessione. Ma Breivik ha inteso e voluto fare esattamente quello che ha fatto, con quella riserva, che avrebbe voluto farlo di più.
L’ha voluto per i lunghi anni della preparazione meticolosa, per le brevi interminabili ore della sua caccia all’uomo e ai ragazzi, per tutto il tempo che è venuto dopo, comprese le giornate trascorse col sorriso di sfida e di vanità sul banco degli imputati, l’ultima volta ieri. La pazzia più oscena — Breivik è stato un campione dell’infamia che si può realizzare da soli e in tempo di pace: dategli altre circostanze, e le decine di sterminati possono diventare milioni — può andare assieme alla responsabilità. La Corte l’ha riconosciuto padrone di sé, e l’ha fatto, pare, all’unanimità, dopo un processo in cui uno spazio senza precedenti era stato dato all’esplorazione di quella mente e della sua biografia: miele per la sua vanità sfrenata. C’era in realtà un ricatto opposto che pesava sulla Corte e voleva indurla a decidere altrimenti. Era la rivendicazione dello stesso Breivik, cui si erano piegati i suoi difensori, di essere dichiarato lucido di mente e colpevole. Esigeva così di essere riconosciuto come l’antesignano intrepido e strenuo di una crociata a venire, che si sarebbe riconosciuta in lui e l’avrebbe celebrato come il proprio eroe. Ho dubitato della sincerità di questa pretesa, che gli serviva a tenersi in piedi da combattente con la stessa premura con cui si annoda le orrende
cravatte, e che magari gli faceva augurare una sentenza opposta, che ne facesse una persona da curare. Però sui giudici pesava quel ricatto: riconoscerlo come uno del loro mondo e del loro paese, uno come gli altri, che può arrivare a quel punto. I giudici sono stati coraggiosi, come si dice, ma soprattutto giusti. La loro sentenza vuol dire che la Norvegia non è più la stessa, e non vuole far finta d’essere la stessa. Che quello che le era inimmaginabile, unica attenuante a un’inettitudine terribile della risposta nelle ore della strage sulla quale anche, nei giorni scorsi, si è detta una parola finale, ora non lo è più. Che è potuto succedere, che potrebbe di nuovo. E che non sarà questione di sola prevenzione sociale e solidale, né di sola polizia. La lezione dell’enormità del suo crimine è che si può scegliere il male, si può perpetrarlo all’ingrosso, ma il male, anche il più sfrenato, non ha grandezza. Settantasette morti, innumerevoli feriti, un paese offeso, e l’autore: un miserabile. Ce l’ha fatta, si è detto amaramente, è diventato qualcuno. Non è vero.
Fuori dalla Norvegia, in particolare in Italia, dove le pene massime si sciolgono in bocca a legislatori e giudici come caramelle, una condanna massima a 21 anni sembra irrisoria. Avrà 54 anni, allora, Breivik. Forse non uscirà nemmeno allora, se avrà dato motivo di ritenerlo ancora pericoloso. Ventun anni sono lunghi, del resto. Lo tratteranno bene: anche questo da noi sembrerà oltraggioso. Non lo è. Si deve rimpiangere che non l’abbiano ammazzato mentre compiva la sua opera, un assassinato al minuto, in ognuno di quei minuti, fino all’ultimo che ha freddamente assassinato, quando già aveva chiamato più volte la polizia per avvertire che voleva consegnarsi. Dopo quel momento, si poteva solo desiderare di non vederne più la posa e il sorriso, di non sentirne più i proclami. È quello che desiderano i norvegesi, gente civile.

La repubblica 25.08.12

"Un cavallo di Troia per far saltare il sistema statale", di Vittorio Emiliani

Nasce di soppiatto, malgrado il nome ambizioso, la Fondazione di diritto privato Grande Brera, e nasce male, senza quel serio, informato dibattito preventivo che un’operazione di questa portata esige. Nasce con un articolo infilato, all’ultima ora, nella balena del decretone per lo sviluppo, lasciando fuori dal «concerto» interministeriale il ministro per i beni culturali. Roba da matti. Ma Ornaghi è felice, la sostiene e porta alcuni esempi. A partire dal Museo Egizio di Torino, che sin qui ha suscitato più polemiche che altro: non tutte le collezioni sono state devolute alla Fondazione con una perdita di valore fondamentale; il personale tecnico-scientifico ha preferito rimanere con lo Stato e quindi alla Fondazione è mancato un apporto unico, in compenso il CdA ha nominato direttrice (caso unico) una non egittologa… Questo il luminoso precedente? Ornaghi cita Venaria Reale che nulla ha che fare con la complessità della Pinacoteca di Brera nata nel primo ‘800 da una razzia «politica» di migliaia di opere soprattutto umbre, marchigiane, emiliano-romagnole ad opera del figliastro di Napoleone e dalla successiva stratificazione di donazioni. Pinacoteca, fra l’altro, venuta dopo l’Accademia di Belle Arti e altre istituzioni culturali importanti, espressione del miglior illuminismo lombardo. Con problemi, certo, che non risolverà la privatizzazione e quindi la sua scissione da quel contesto storico. Nella Fondazione entreranno il Comune (soldi pochi), la Regione (idem), la Camera di Commercio e i privati. Questi ultimi vorranno dei benefici, dei ritorni, magari dei profitti, specie con l’Expo 2015.
Ma nessun museo europeo o americano – non il Grand Louvre, non il Metropolitan Museum – è autosufficiente o «rende». Ha invece bisogno, di puntuali iniezioni di denaro pubblico, federale, locale, nazionale. Lo stesso ex soprintendente di Brera Carlo Bertelli è prudente, suggerisce una indagine ministeriale sul reale funzionamento delle Fondazioni italiane. Perplessa pure Patrizia Asproni (cultura di Confindustria), che pure ad un convegno romano sbottò: «Io il Ministero dei Beni culturali lo butterei e darei tutto all’Economia». Inaspettatamente negativo Mario Resca fresco ex commissario di Brera, che caldeggia, con buon senso, una seria politica di detassazioni per i privati. Questo ci si aspettava da un governo di tecnici per rilanciare cultura e ricerca, motori di una nuova economia, e invece…. C’è chi propone un Polo Museale Brera-Cenacolo autonomo per tenersi a Milano gli incassi. Attenti perché il Polo Museale romano ha speso 3,5 milioni (di cui 700.000 per l’allestimento) per la solita solfa caravaggesca, stroncata dai più, lasciando i propri musei al verde. Ci vuole una politica nazionale per i beni culturali. Ci vogliono progetti seri e fondati da proporre ai privati. Non un ambiguo e macchinoso cavallo di Troia destinato a far saltare il sistema museale statale.

l’Unità 25.08.12

"La nube mediatica sul disastro dell'Ilva", di Giovanni Valentini

La violazione delle norme antinquinamento, l’utilizzo senza regole di ogni risorsa, hanno fatto parte, come i bassi salari dei lavoratori, di una sorta di dumping ecologico con cui i capitalisti si son fatti competizione sleale a danno di tutti. (da “Elogio della radicalità” di Piero Bevilacqua – Laterza, 2012 – pag. 39). Ora che il “caso Ilva” sembra avviato finalmente a una soluzione ragionevole e proficua, in modo da conciliare il fondamentale diritto alla salute con quello al lavoro, si può provare a riflettere sulla nube mediatica, cioè sulla doppia mistificazione messa in atto intorno al disastro ambientale e sanitario che ha investito la città di Taranto. Magari per trarne anche qualche utile lezione per il futuro.
Se non fosse stato per il decisivo intervento della magistratura, impropriamente definito «esagerato», «sproporzionato» o addirittura «abnorme» da una pericolosa assuefazione all’illegalità e alla corruzione, questo scandalo non sarebbe mai esploso a livello nazionale. E se non fosse stato per la radicalità di un certo impegno civile, ispirato da un ambientalismo rigoroso e coerente, forse non sarebbe neppure diventato un caso giudiziario.
Dalle carte dell’inchiesta, emerge infatti una verità sconcertante: il disastro è stato prodotto nel corso degli anni, oltre che dall’irresponsabilità e dall’incuria di un’industrializzazione distorta, anche da una costante opera di disinformazione, occultamento delle prove e depistaggio, realizzata dai vertici dell’azienda. È perciò che a fine luglio il gip di Taranto ha mandato agli arresti domiciliari il vecchio patron Emilio Riva e suo figlio Nicola. Ed è per questo che tredici persone, tra ex dirigenti dell’Ilva, politici e funzionari pubblici, sono indagate per corruzione e concussione.
Ma, al di là dell’ambito strettamente giudiziario, l’opera di mistificazione è proseguita anche nel dibattito pubblico. Prendiamo, per esempio, il tanto invocato articolo 41 della Costituzione, brandito come un dogma di fede con la pretesa di mettere sullo stesso piano il diritto alla salute e il diritto al lavoro. Dopo aver sancito solennemente al primo comma che «l’iniziativa economica privata è libera», la stessa norma stabilisce testualmente che questa iniziativa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Punto.
Sulla base di una documentata e inquietante relazione dei periti, l’inchiesta giudiziaria rivela invece che la produzione dell’Ilva di Taranto ha danneggiato non solo i lavoratori dello stabilimento, ma anche la comunità locale, provocando morti, tumori e leucemie a danno di uomini, donne e bambini. E continua a minacciare tuttora la salute collettiva. Ecco perché, come qui abbiamo sostenuto dal primo momento, la magistratura non poteva agire diversamente, disponendo il sequestro dell’impianto per impedire la prosecuzione del disastro: né più né meno di come si fa in caso di incidente in una centrale nucleare oppure di un edificio pericolante, bloccando i reattori o sgomberando il palazzo.
Con una buona dose di disinvoltura, il ministro Clini è arrivato a sostenere che si tratta di fatti pregressi, come se la situazione fosse definitivamente risolta e superata. Ma chiaramente non è così se la stessa azienda decide di stanziare un obolo di 56 milioni di euro, in aggiunta ai 90 già previsti, per gli interventi di bonifica e adeguamento ambientale, sebbene il medesimo ministro e i sindacati ritengano questi importi largamente insufficienti. E se la presidenza del Consiglio, dopo aver sfidato imprudentemente la magistratura con l’annuncio di un ricorso alla Consulta per un presunto conflitto di competenze, poi ha scelto più opportunamente la strada del confronto e della collaborazione, come avevamo già auspicato su questo giornale sollecitando il governo dei tecnici a evitare il rischio di complicità retrospettive.
Al di fuori dunque di ipotesi e proposte più o meno suggestive, di diktat o leggi speciali, in realtà c’è una sola via per superare il sequestro giudiziario, in modo da coniugare il diritto prioritario alla salute con il sacrosanto diritto al lavoro. Ed è quello di realizzare al più presto possibile le prescrizioni della magistratura, avviando subito il risanamento dell’impianto e concludendolo quanto prima: magari con l’impiego degli stessi operai dell’Ilva a cui va garantita la continuità salariale fino alla completa ripresa dell’attività produttiva. E in ogni caso, sotto il controllo di un custode giudiziario che evidentemente non può essere il presidente della medesima azienda sotto inchiesta. Quando sono in gioco valori indisponibili come la vita e la dignità umana, anche la radicalità – di cui lo storico Piero Bevilacqua tesse l’elogio nello stimolante saggio citato all’inizio di questa rubrica – s’impone come un obbligo morale e civile.

La Repubblica 25.08.12