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"Alcoa verso la chiusura, riesplode la rabbia", di Giuseppe Vespo

La rabbia degli operai dell’Alcoa, gigante dell’alluminio con una sede a Portovesme in Sardegna, è riesplosa ieri con il blocco del traffico di circa due ore all’ingresso dell’aeroporto di Cagliari. Molti dei cinquecento dipendenti della multinazionale hanno partecipato alla manifestazione, l’ultima di una serie inaugurata ormai due anni fa. Alcoa vuole lasciare la Sardegna, la deadline il termine ultimo è fissata per il 31 agosto, quando l’azienda avvierà la chiusura. Secondo l’ultimo accordo ministeriale, Alcoa si impegnerà a mantenere i livelli occupazionali fino al 31 dicembre e lo stabilimento pronto a ripartire per un anno, nell’ipotesi che arrivi un nuovo investitore. Ieri i sindacati hanno rivolto l’ennesimo appello al governo affinché si faccia carico della questione. La Cgil chiede che non venga permesso «l’avvio del programma di spegnimento almeno fino al prossimo incontro del 5 settembre al ministero dello Sviluppo, e chiediamo al governo di garantire il futuro produttivo». Dice la segretaria Elena Lattuada: «Solo facendo ripartire il motore industriale del Paese è possibile immaginare l’uscita dal tunnel della crisi». La vertenza dell’Alcoa è tornata sulla ribalta all’inizio del mese con il fallimento delle trattative per la cessione dello stabilimento al fondo tedesco Aurelius. La Fiom-Cgil, con Gianni Venturi, responsabile nazionale di settore, chiede alla multinazionale americana di «riaffermare la disponibilità a mantenere attivi gli impianti, pur in un quadro di programmata riduzione dell’attività, fino al 31 dicembre, salvaguardando l’occupazione di tutti i lavoratori». Questo per garantire la possibilità per governo e parti sociali «di valutare eventuali, concrete manifestazioni di interesse». I sindacati parlano di contatti con la svizzera Glencore, già proprietaria della Portovesme srl.

«MANTERREMO GLI IMPEGNI» Alcoa manterrà gli impegni presi al ministero, assicura a l’Unità Alessandro Profili, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo in Europa. Il manager spiega che, fallite le ultime trattative con il fondo Aurelius al momento «non ci sono altre manifestazioni di interesse». Lo stabilimento sardo resterà disponibile e pronto a ripartire per tutto il 2013 e questo richiederà l’impiego di «un presidio» di qualche decina di lavoratori: «Non sappiamo ancora indicare quanti, a Fusina due anni fa ne servirono circa venti. Portovesme ne richiederà di più, ma è un elemento che valuteremo quando discuteremo degli ammortizzatori sociali». Il prezzo dell’alluminio scende, così come la domanda. E alla base della decisione di chiudere lo stabilimento ci sono due problemi: «L’alto costo dell’energia, che per noi rappresenta il 40 per cento dei costi di produzione, e la chisura di Eurallumina», azienda che distava poche centinaia di metri da Alcoa e alla quale forniva la materia prima. «Da allora abbiamo dovuto far arrivare la materia prima con le navi». Mentre per quanto riguarda l’energia, il manager sottolinea come a differenza di altri Paesi, dove pure i costi sono alti, all’Italia mancano fonti alternative a quelle tradizionali. Non sarà che all’Italia manca prima di tutto una politica industriale? «Manca all’Italia e manca all’Europa. Annunci di chiusure sono stati fatti in Germania, Francia, Spagna», dice Profili: «Bruxelles mette i paletti sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato alle aziende, e agli Stati lascia la politica industriale. È una contraddizione». Il 31 dicembre scadrà il decreto del governo Berlusconi che aveva concesso ad Alcoa per due anni un prezzo agevoleto sull’energia. Oltre a Portovesme, in Europa, la multinazionale Usa ha ridotto del 50 per cento due stabilimenti spagnoli. L’obiettivo diminuire del 12 per cento la produzione in tutto il mondo.

"Emilia, il governo risponde all’appello", di Giulia Gentile

«È una buona notizia. Ma la buona notizia vera sarà se, e quando, la proroga dei tributi arriverà. Non possiamo far pagare l’Imu a chi non ha più una casa, o ha perso il capannone della propria azienda». Stefano Draghetti, sindaco di Cavezzo nella “bassa” modenese, ha imparato dai mesi in trincea come primo cittadino di uno dei centri più martoriati dal sisma, a stare con i piedi per terra.
L’appello degli Enti locali colpiti dal terremoto, a iniziare dalla Regione Emi- lia-Romagna, perché vengano prorogate le scadenze tributarie per chi vive nelle zone del sisma di maggio e giugno, ieri è stato accolto dal ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. «È un argomento che verrà portato al Consiglio dei ministri già venerdì», l’annuncio a margine dei Seminari internazionali sulle emergenze planetarie, in corso a Erice, in provincia di Trapani. «Ci sono da una parte le esigenze delle popolazioni» le parole di Cancellieri, che la scorsa settimana in visita a San Felice sul Panaro aveva condiviso la richiesta del presidente della Regione Vasco Errani, a che i versamenti dei tributi venissero posticipati. Dall’altra, però, «ci sono le esigenze del ministero dell’Economia – aggiunge la titolare del Viminale – : è una questione che riguarda innanzitutto loro, vedremo cosa decideranno».

Ma anche per non mollare la pressione su Roma, in vista dell’incontro dell’esecutivo di domani, da commissario straordinario per la ricostruzione Errani ribadisce: «Abbiamo fatto una proposta molto seria, equa e semplice: fino a novembre occorre che ci sia il rinvio sul pagamento delle tasse per tutti i cittadini nell’area del terremoto». Invece, «per chi ha le case inagibili, e per chi ha le imprese che non producono e che hanno danni tuttora rilevanti, chiediamo un ulteriore rinvio fino a giugno 2013». Perché è evidente, continua Errani, «che chi non può entrare nella sua casa non può pagare l’Imu, e chi ha un’impresa che non produce non può pagare le tasse di produzione». Un ragionamento condiviso in pieno da Draghetti, che nella sua Cavezzo – il 70% degli immobili finiti in briciole dopo la scossa del 29 maggio – ha ancora circa duemila persone fuori casa, su 7300 abitanti. Possibile, in queste condizioni, smantellare la tendopoli gestita dalla Protezione civile abruzzese entro la fine di settembre, come previsto dalla Regione, e riaprire i battenti delle scuole regolarmente il 17? «Ci stiamo provando, se non sarà per fine settembre sarà per i primi di ottobre».

RINVIARE IL VERSAMENTO

Far slittare il pagamento delle imposte a fine dell’anno è considerato «indispensabile per favorire la ripresa di quei territori in tempi rapidi» anche dal direttore di Unindustria Ferrara, Roberto Bonora. Ma se, per gli industriali ferraresi, sarebbe impensabile versare regolarmente i tributi a soli tre mesi dalle più violente scosse, perché «diverse imprese sono ancora impossibilitate addirittura a riprendere l’attività», non minori sarebbero i problemi per i lavoratori dipendenti. Che dopo aver visto leggermente crescere le loro buste paga, per il blocco delle trattenute Irpef, dal giorno alla notte rischierebbero di trovarsi con gli stipendi dimezzati per restituire al fisco i soldi non versati in precedenza.

«Alcune aziende, dopo aver riaperto i battenti avevano smesso di calcolare le trattenute Irpef per i loro lavoratori – chiarisce Mauro Cavazzini, funzionario Filctem-Cgil di Ferrara -. Prima dell’estate andammo nelle fabbriche a spiegare ai dipendenti che dovevano considerare quei finti aumenti come una specie di prestito. Ma ora, molta gente potrebbe avere anche 400euro in meno ogni mese». Per il sindacalista è quindi fondamentale che «i tempi di rientro siano estremamente dilazionati, come accadde per il sisma de L’Aquila». Perché grossi restano i problemi economici, per chi ha avuto gravi danni alla propria abitazione e vede il proprio lavoro messo in bilico dal combinato crisi-terremoto.

Fra le più colpite dalle scosse, le Ceramiche di Sant’Agostino, nel Ferrarese, dove la notte fra il 19 e il 20 maggio morirono due operai, sono riuscite a riaprire i battenti. E altre ditte riprenderanno «dopo la pausa estiva», dice Cavazzini. Forte però, anche per lui, è il rischio che le ditte più deboli restino schiacciate dalla contingenza. Anche per questo, all’appello degli Enti locali si sono uniti i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, con l’obiettivo di «evitare l’aggravarsi delle già pesanti condizioni di sofferen- za dei lavoratori e delle imprese e di tutte le popolazioni colpite».

L’Unità 23.08.12

Fassina: «L`industria da riconvertire non va lasciata solo al mercato», di Massimo Franchi

«Non è la via maestra, ma è uno strumento che fa parte della cassetta degli attrezzi della politica industriale e va usato nell`ottica di un Green New Deal, un piano europeo di riconversione industriale». Stefano Fassina, responsabile economico del Pd «condivide il sasso lanciato da Susanna Camusso» riguardo all`intervento statale per salvare settori e aziende in crisi e «apprezza» il dibattito aperto da l`Unità sull`intervento dello Stato nell`industria.

Fassina, in molti hanno gridato alla nazionalizzazione. Non la trova una proposta sorpassata?
Da socialismo reale? «Se fino a qualche anno fa il tema dell`intervento statale in economia era, specie in Italia, bandito, negli ultimi tempi abbiamo assistito alla nazionalizzazione delle banche in Inghilterra, patria del liberismo, ad Obama che ha salvato il settore automobilistico. Dunque è un tema attualissimo che è giusto affrontare proprio quando le politiche liberiste stanno dimostrando la loro dannosità e stiamo attraversando una lunga transizione da cui dovremo uscire con un nuovo modello di sviluppo. E la domanda che dobbiamo porre è: quale posizione deve avere l`Italia e l`Europa, ormai un unicum, in questa situazione? La risposta sta in parte nel programma Europa 2020 e, andando oltre, in vero e grande Green New Deal continentale che punti a riconvertire l`industria verso produzioni innovative, tecnologiche e ambientalmente compatibili».

Nel dibattito seguente Sapelli ha parlato di modello Eni, De Cecco di rilancio del pubblico. Lei con chi sta?
«Sono entrambi interventi condivisibili. Credo che l`importanza del dibattito che avete ospitato stia però nell`aver rilanciato il tema dell`economia reale, le cui condizioni sono drammatiche, e anche per operare un cambio di paradigma culturale davanti al tramonto della dottrina liberista puntando ad un nuovo modello di intervento pubblico».

Camusso però propone che lo Stato entri direttamente nel capitale delle aziende in crisi. Uliva, ad esempio, non è riconvertibi le…
«Certo, non possiamo fare a meno dell`acciaio, della chimica di base. Si tratta però di capire come la tecnologia possa rendere compatibili le produzioni. E in questo senso non è più tempo di lasciare al solo mercato la soluzione di questi problemi».

È vero però che ci sono interi settori, ad esempio il trasporto pubblico, che stanno sparendo dall`orizzonte industriale italiano. Per salvarli lo Stato deve comprare quote delle aziende in difficoltà?
«Si tratta di fare scelte coraggiose e di investire nella mobilità sostenibile. Per esempio, ha senso che Ansaldo Breda, Ferrovie dello Stato siano aiutate a investire in questo senso, aprendo il progetto anche ad aziende estere però. In un settore come questo l`intervento pubblico può essere utile».

Camusso entra nello specifico: propone che sia la Cassa depositi e prestiti, che già detiene le quote statali delle aziende miste, a comprare quote di aziende in crisi. Per poi rivenderle quando saranno risanate.
«Io credo che questa sia una possibilità, uno strumento nella cassetta degli attrezzi della politica industriale. Ma le singole situazioni vanno valutate nella loro specificità. L`intervento della Cassa depositi e prestiti non può essere generalizzato: vanno analizzati i settori industriali e le prospettive delle singole aziende. Il decreto Sviluppo finanzia un fondo della Cpd per valorizzare quote della aziende pubbliche locali, ma a solo scopo finanziario per ridurre il debito. Invece servirebbe una politica industriale per finanziare e favorire le aggregazioni fra le municipalizzate dei settori dei beni comuni, dall`acqua all`energia agli stessi trasporti. In questo modo le aziende avrebbero dimensioni tali da poter competere su base europea e creare lavoro e ricchezza».

La cassetta degli attrezzi avrà molti strumenti, però ha pochi soldi…
«Proprio per questo vanno fatte scelte precise e lungimiranti. Non si può far tutto, bisogna decidere su cosa puntare e per questo bisogna rilanciare il programma Italia 2015 lanciato da Bersani nel 2007. Lì l`intervento di politica industriale si dipanava in tre direzioni: sostegno alla domanda tramite la detassazione del 55% per ristrutturazioni eco-compatibili, motori elettrici e risparmio energetico; sul lato dell`offerta con il credito d`imposta per finanziare progetti industriali innovativi e interventi per la riqualificazione pubblica,
come quelli messi a punto nei giorni scorsi dal ministro Barca per le scuole. La poca attenzione del governo Monti alla politica industriale poi ci porta a spingere ad un ottica europea nella quale i progetti di questo Green New Deal vanno finanziati con Project bond europei».

Una proposta come quella di Camusso potrebbe essere appoggiata da una futura maggioranza di cui faccia parte l`Udc?
«Non sono in grado di prevederlo. Faccio però notare che la Carta d`intenti presentata da Bersani ha dei riferimenti importanti sull`importanza della politica industriale. Credo che attorno all`obiettivo di mantenere l`Italia come secondo Paese manifatturiero d`Europa si possa costruire una coalizione molto ampia di forze sociali, politiche e imprenditoriali. Si tratta quindi, insisto, più di discutere pragmaticamente rispetto agli obiettivi che rispetto agli strumenti per raggiungerli».

L’Unità 23.08.12

"Non si contratta lo spread con la natura", di Luca Mercalli

Ad aprile è stato inserito nella Costituzione italiana il pareggio di bilancio, ovviamente riferito al denaro. Ma c’è un bilancio estremamente più importante per la nostra vita. Vita che prima di essere soggetta ai capricci dell’economia è ferreamente dominata da flussi di energia e materia: è quello delle valute «fisiche» disponibili sul pianeta Terra. Un dato che, per quanto denso di conseguenze per il futuro dell’Umanità, nessuno considera strategico, né lo si inserisce nelle Costituzioni, salvo forse che in quella dell’Ecuador.

In sostanza, non si possono prelevare dal conto terrestre più risorse di quante i sistemi naturali siano in grado di rigenerare né immettere rifiuti e inquinanti più di quanto la biosfera sia in grado di metabolizzare. L’Overshoot Day di quest’anno, annunciato ieri, definisce la data nella quale il nostro conto corrente con l’ambiente è andato in rosso. Abbiamo speso tutti gli interessi in questi primi 234 giorni dell’anno, e da oggi al 31 dicembre dilapideremo una parte del capitale, con conseguenze talora irreversibili, come il riscaldamento globale o l’estinzione di specie viventi.

Il pareggio di bilancio mondiale è stato rispettato più o meno fino alla metà degli Anni 70, quando l’umanità contava 3,5 miliardi di individui. Oggi siamo 7 miliardi, consumiamo e inquiniamo come non mai e preleviamo l’equivalente di una terra e mezza. La biosfera è un sistema resiliente, e per brevi periodi può sopportare uno stress senza collassare, a patto che si rientri nei limiti imposti dalle leggi universali che governano i cicli biogeochimici, il clima, la riproduzione della fauna ittica, la rigenerazione delle foreste. Ma, come accade a un motore lanciato a folle corsa, quando la lancetta del contagiri entra in zona rossa, per non sbiellare bisogna ridurre la velocità.

Stranamente l’economia mondiale appare preoccupatissima del rallentamento dei giri del motore e invoca un’ulteriore accelerazione che secondo i modelli ecologici porterebbe attorno al 2050 alla necessità dell’equivalente di due pianeti, dei quali evidentemente non disponiamo. Ovvero il motore salta e la macchina si ferma di botto con gravi conseguenze per la società e per l’ecosistema. La «spending review» tanto oggi di moda dovrebbe dunque includere anche le risorse fondamentali da cui dipendiamo, suolo, acqua, energia, biomassa, carico inquinante.

Una riduzione dei giri governata con saggezza per riportarci nei limiti concessi dall’unico pianeta che abbiamo è l’unico atteggiamento razionale a cui ricorrere, e sarebbe assurdo non considerarlo proprio ora che la ricerca scientifica ci mette a disposizione tanti dati affidabili su cui costruire gli scenari futuri, scegliendo quelli più favorevoli ed evitando le trappole del sovrasfruttamento. La sfida è enorme, l’uomo deve completamente mutare il proprio paradigma, da un cieco inseguimento della crescita fine a se stessa a un’economia basata su uno stato stazionario, energie rinnovabili e rifiuti riciclabili. È un obiettivo per nulla facile da perseguire, né esistono ricette preconfezionate, tuttavia ciò che la comunità scientifica invoca invano da anni è una disponibilità all’ascolto del mondo economico e politico, alla ricerca di soluzioni nuove e condivise che tengano conto dell’enorme posta in gioco, ovvero la sopravvivenza della specie per un periodo dello stesso ordine di grandezza del nostro cammino evolutivo precedente, diciamo 200 mila anni. Sotto le isteriche oscillazioni dello spread, c’è un debito con la natura che non si potrà contrattare in nessun Parlamento.

La Stampa 23.08.12

"Scuola, il governo studia le assunzioni", di Bianca Di Giovanni

Arriveranno domani sul tavolo del con- siglio dei ministri i decreti presidenziali che autorizzano il ministero della Pubblica istruzione ad assumere dirigenti scolastici e personale docente e non docente. Di recente il ministro Francesco Profumo ha confermato in una conferenza stampa l’assunzione di circa 21.112 docenti, che andranno ad aggiungersi ai 67mila dell’anno scorso. La situazione si complicherà comunque al momento dell’attuazione, perché l’operazione si somma a quella della spending review che prevede dei soprannumerari e degli idonei. Insomma, si aprirà una fase di mobilità interna difficile da governare.

Il consiglio del rientro prevede anche un altro provvedimento che riguarda l’istruzione: cioè l’esame preliminare di uno schema di decreto del Presidente della Repubblica recante un regolamento sul Sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione. In questo caso si tratta di rendere strut- turale e pienamente operativo il sistema di valutazione degli istituti elaborato dall’Invalsi in circa 5 anni di ricerca.

La pratica è stata oggetto di violente polemiche e contestazioni da parte di sindacati e studenti durante la sua applicazione sperimentale. Non si esclude che anche stavolta la mossa del ministero venga accolta con una mitragliata di accuse. Ma da Viale Trastevere insistono: bisogna adeguarsi agli standard internazionali, come chiede l’Ocse.

MENO TASSE PER GLI INVESTIMENTI

Nessun provvedimento specifico, ma un esame collegiale è quello che si prevede per le misure per la crescita. Durante l’estate si sono moltiplicati piani, dall’agenda digitale alle semplificazioni, fino al riassetto della rete aeroportuale. Tutti dossier già aperti da tempo, che attendono l’attuazione. Ultima proposta, in ordine di tempo, partita da Via Veneto è la sterilizzazione dell’Iva per gli investimenti in infrastrutture. Ad annunciarla è stato il viceministro allo Sviluppo Mario Ciaccia, intervenendo al meeting di cl a Rimini. «Stiamo studiando la defiscalizzazione per le nuove infrastrutture per le quali si sia accertato che dal punto di vista tecnico non sono sostenibili per un piano economico-finanziario a causa del peso dell’Iva. Dobbiamo intervenire su questo punto – ha spiegato Ciaccia – Si pensa a una sterilizzazione totale dell’Iva». Secondo il vice- ministro questa operazione avrebbe un impatto positivo sull’economia pari a 5-6 punti di Pil: insomma, sarebbe un’iniezione di oltre 80 miliardi. Per non parlare degli effetti positivi sull’occupazione. «Stiamo studiando un ddl – ha detto ancora Ciaccia – che completi le circa 120 norme emanate in materia di infrastrutture».

La proposta del viceministro ha ricevuto molti consensi, da Confindustria all’Ance e ad Autostrade, fino alla Cassa depositi e prestiti, anche se dal governo sottolineano quanto siano stretti i margini di un’operazione di questo tipo. «Puntare in modo deciso sull’utilizzo della fiscalità – commenta Giorgio Squinzi – come leva per favorire gli investimenti in infrastrutture è una scelta che Confindustria condivide pienamente». La proposta lanciata dal viceministro «è molto interessante» e dimostra che il governo ha compreso che i project bond e le semplificazioni «non bastano a rilanciare la crescita», ma serve anche «la leva fiscale come vediamo sta accadendo negli Stati Uniti». La pensa così il presidente di Cdp Franco Bassanini, il quale ricorda come la proposta «riprende e sviluppa quella di Astrid, Italia decide e Respublica» e «non ha oneri per i conti pubblici».Per Bassanini questa misura dovrebbe interessare anche le reti tlc di nuova generazione, che sono «un fattore decisivo di competitività». La proposta «verrà accolta bene dal mercato e renderà finanziabili opere che ora non lo sono», afferma, sempre dal Meeting di Rimini, Giovanni Castellucci, ad di Autostrade per l’Italia. Per l’Ance la misura allo studio «è un’ottima soluzione per liberare risorse per interventi che servono al Paese».

L’Unità 23.08.12

"Se cade l'euro, Unione europea al collasso", di Nouriel Roubini*, Nicolas Berggruen*, Mohamad A. El-Erian*

In teoria, i più concordano che il progetto d’integrazione della zona euro valga la pena di essere salvaguardato. Eppure, negli ultimi due anni in occasione di ogni decisione importante durante l’euro-crisi l’impegno dei politici è apparso troppo parziale e troppo condizionato. Più a lungo la zona euro rimane in una terra di nessuno con la periferia che accumula ulteriore debito a tassi di interesse elevati solo per guadagnare tempo, più costosi e dolorosi saranno i futuri aggiustamenti e maggiori i rischi di crollo. Questo è ormai così evidente che alcune voci rispettabili all’interno dell’opinione maggioritaria stanno ormai giungendo alla conclusione che, già ora, la zona euro potrebbe non essere più sostenibile e, quindi, sarebbe meglio dividersi adesso invece che più tardi, quando i costi potrebbero essere molto più alti. Ma questo punto di vista si spinge troppo oltre.

Cerchiamo di non lasciare dubbi: se la zona euro va a pezzi cade anche l’Europa e possono crollare anche il mercato unico e l’Unione europea. Quindi, se si crede nella sostenibilità della zona euro, non c’è assolutamente più tempo da perdere. Per i leader europei l’unica alternativa alla disfatta dell’euro nei prossimi mesi sta nel trovare la volontà politica per passare rapidamente a una maggiore integrazione – a partire da una tabella di marcia molto più chiara e perseguibile verso l’unione bancaria e fiscale che fermi e inverta la balcanizzazione delle banche e dei mercati del debito pubblico; un’unione economica che ripristini la crescita e la competitività, e un’unione politica che dia legittimità democratica al trasferimento di grandi parti della sovranità fiscale, bancaria ed economica al centro dell’Ue. E tutto questo può essere possibile – anzi auspicabile – solo se preceduto da un rinnovamento dell’appartenenza alla zona euro in modo che sia più in linea con le realtà attuali e con le verosimili prospettive.

La frammentazione dell’eurozona – che definiamo come il ritorno alle monete nazionali di una parte significativa degli attuali 17 membri della zona euro, e in particolare di uno o più dei quattro grandi (Germania, Francia, Italia e Spagna) – sarebbe così destabilizzante e caotica che l’Europa si troverebbe ad affrontare un decennio perduto. Oltre a distruggere la zona euro, la più grande, ovvero i 27 membri dell’Unione europea, sarebbe messa a dura prova. Nel breve periodo, per l’Europa la frammentazione sarebbe l’equivalente economico e finanziario di un arresto cardiaco. I flussi transfrontalieri di merci, servizi e capitali si interromperebbero perché le preoccupazioni per la definizione della valuta sopraffarebbero il normale calcolo di valutazione. Grandi disallineamenti valutari alimenterebbero lo stress finanziario delle aziende e darebbero luogo a molteplici inadempimenti. La disoccupazione s’impennerebbe. E la prestazione di servizi finanziari di base, dal settore bancario alle assicurazioni, sarebbe ridotta con un’alta probabilità di corse agli sportelli nei Paesi membri più vulnerabili della zona euro.

Proliferebbero i controlli – dal momento che le economie deboli cercherebbero di limitare l’aumento dei deflussi di capitali e le economie forti resisterebbero ad afflussi eccessivi. Nel processo sarebbe compromesso il funzionamento stesso del mercato comune che è alla base del progetto d’integrazione europea. La balcanizzazione delle banche, dei mercati finanziari e dei mercati del debito pubblico che è già in corso sarebbe seguita dalla balcanizzazione degli scambi di beni, servizi, lavoro e capitale, e da un ritorno al protezionismo commerciale e finanziario. I Paesi provati ormai da diversi anni dalla gestione delle crisi hanno pochi o anche nessun ammortizzatore in grado di assorbire nuovi colpi. Di conseguenza, gli sconvolgimenti economici e finanziari probabilmente alimenterebbero tensioni sociali e disfunzioni politiche – minando ulteriormente il sostegno nazionale per l’integrazione europea. Ma se il peso della catastrofe sarebbe sentito principalmente dalle economie deboli (già periferiche), anche i Paesi più forti (quelli che erano il nucleo) subirebbero un notevole contraccolpo.

Vediamo caso per caso. Nel tornare alle loro monete nazionali, le economie più deboli della zona euro riprenderebbero il controllo di una serie più ampia di strumenti politici. Avrebbero così maggiori mezzi per perseguire i vantaggi competitivi che sono essenziali per il ripristino delle dinamiche di crescita e la creazione di posti di lavoro. Ma farlo in modo efficace richiederebbe la gestione sapiente di una svalutazione delle principali valute. Essi si troverebbero anche a contrastare forti pressioni inflazionistiche e costi più elevati delle importazioni, canali di trasmissione monetaria e bancaria interrotti, e maggiori premi di rischio. E con tutta l’Europa disconnessa, scoprirebbero che i vantaggi nei prezzi ottenuti tramite la svalutazione rischiano di essere erosi da un crollo della domanda regionale. Inoltre, dati i disallineamenti valutari, un ritorno su vasta scala alle monete nazionali comporterebbe una serie d’inadempienze. Insieme ad alcune ristrutturazioni coercitive e a una conversione forzata di posizioni in euro nelle nuove e deprezzate monete nazionali.

I temi della domanda regionale e del default sono importanti anche per le economie più forti. Nonostante i progressi fatti nella diversificazione del commercio, tra cui un maggiore riorientamento verso i Paesi emergenti, quantità significative delle loro esportazioni sono ancora vendute in Europa. Questo crollo del mercato arriverebbe al colmo delle perdite a causa della rapida erosione dei crediti finanziari verso le economie più deboli insolventi per i loro debiti in euro, sia direttamente sia tramite la probabile necessità di ricapitalizzare le istituzioni regionali. La ristrutturazione del debitore, e il default certo, potrebbero compromettere i bilanci delle istituzioni creditrici, aumentando il loro proprio debito (perché avranno le stesse attività, ma una maggiore passività) e il costo del capitale. E sarebbe a rischio anche il rating AAA della Germania e di altri membri fondanti della zona euro. Vi è poi il resto del mondo. L’Europa è ancora la più grande area economica del globo, e la più interconnessa da un punto di vista finanziario. Come tale, il suo crollo sarebbe inevitabilmente trasmesso al resto del mondo. E con gli Stati Uniti che stanno già lottando per mantenere una crescita economica significativa e creare posti di lavoro, potrebbe concretizzarsi una recessione globale.

Tutto questo spiega, naturalmente, il motivo per cui le narrazioni politiche hanno ripetutamente cercato di escludere una frammentazione della zona euro; e anche perché i leader di altri Paesi hanno messo sotto pressione i loro omologhi europei per affrontare la crisi regionale in modo più deciso e olistico. Ma le parole e le moral suasion sono gravemente insufficienti per fermare le forze di frammentazione liberate da gravi difetti di progettazione e alimentate da anni di risposte politiche tattiche piuttosto che strategiche, sequenziali e non simultanee, e parziali e non complete. Solo comprendendo l’enormità dei rischi che corrono, i leader europei hanno una possibilità di superare le persistenti tensioni interne e convergere su una risposta che possa mutare le regole del gioco.

E solo allora sarebbero in grado di convincere una cittadinanza scettica della necessità di adottare misure realmente senza precedenti – innanzitutto riformare la zona euro in un’unione più coerente, più piccola, meno imperfetta e strutturata e gestita in modo più saldo; in secondo luogo garantire che questa Eurozona riformulata possa andare avanti nel creare crescita e posti di lavoro; e, terzo, salvaguardare il funzionamento più ampio dell’Unione europea. Dopo troppi anni di battibecchi e litigi, i leader europei non hanno più a disposizione una soluzione chiara, relativamente gratuita e altamente certa per la crisi regionale.

Quello che hanno è un po’ di tempo – anche se non molto – per tentare di difendere l’integrità del progetto d’integrazione regionale, adottando subito misure coraggiose, a partire da un’unione economica, fiscale e bancaria, fino all’unione politica. Sì, il risultato è tutt’altro garantito e, inevitabilmente, ci sarebbero immediate defezioni. Ma tutto questo impallidisce in confronto alla catastrofe che l’Europa e il mondo subirebbero se si continua con un approccio che rimane troppo limitato e troppo a corto raggio.

La Germania e i Paesi chiave devono decidere con coraggio se credono che la zona euro possa sopravvivere e in quale formato. Se la risposta è sì, allora la ricerca di un’unione meno imperfetta dovrebbe essere corredata di massicci finanziamenti ufficiali, sia fiscali sia dalla Bce, alla periferia per lenire il doloroso adattamento attraverso l’austerità, le riforme e la svalutazione interna. Se, invece, si dovesse decidere che la zona euro non è vitale, come invece è e che un’unione più piccola non è realizzabile, i costi di un crollo futuro e disordinato sarebbero molto più alti di una rottura immediata. Quello che non dovrebbe ad alcun costo accadere è che la zona euro rimanga com’è ora nel mezzo del guado.

* Nouriel Roubini, economista, professore alla Stern School della New York University
* Nicolas Berggruen è presidente del Consiglio sul futuro dell’Europa
* Mohamed A. El-Erian è Ceo di Pimco, la società globale di gestione degli investimenti

La Stampa 23.08.12

"Il crollo di Alemanno sotto il muro del Pincio", di Francesco Merlo

Più ancora degli stupri che devastano Roma e che tutti insieme, a partire dall’irresponsabile numero uno Gianni Alemanno, per pietas dovremmo sottrarre alle speculazioni politiche, è il crollo del muro del Pincio, segno di incuria ordinaria e di vandalismo amministrativo, ad anticipare il previsto, inesorabile conto alla rovescia per il sindaco di Roma. IL MURO del Pincio è infatti il muro della modernità, non le rovine e le vestigia delle mura aureliane che continuano a sgretolarsi, sasso su sasso, dopo il disastro del 2007, ma i mattoni dell’architetto Valadier, pietre lavorate e disegno, i confini belli normali e solidi della città viva, il simbolo dell’eleganza e del garbo dei romani, la scenamdella bella époque italiana, dei primi baci, delle fughe adolescenziali, delle poesie di Pascarella e degli struggimenti di D’annunzio: «L’autunno moriva dolcemente».
Ebbene, il sindaco Alemanno e il sovrintendente Broccoli dicono che «la colpa del crollo del Pincio è della neve, della pioggia e del caldo secco», e nessuno ormai ride di loro perché nella città più scettica e più sgamata del mondo anche la comicitàmsi è esaurita, e non funziona più l’antico sberleffo che sembrava eterno: «Facce ride’».
Sino a un mese fa proprio in quel tratto del paesaggio segnato dal nomos di Valadier era aperto un grande cantiere di restauro per il decoro della fontana e di alcuni dei busti che arredano come un Pantheon civile il bellissimo giardino. Vi si aggiravano, ben pagati, geometri e geologi, ingegneri, urbanisti, architetti, muratori e ovviamente i soliti professori responsabili della Sovrintendenza. Come mai nessuno si è accorto che quel muro stava per cedere? Eppure tutti mettevano i piedi su una pietra, che secondo il sindaco e il suo fidato Broccoli, era malata di meteoropatia più che di meteorologia.
Dare la colpa al tempo è il più facile dei luoghi comuni. E tutti sappiamo che Alemanno è diventato bersaglio di frizzi e lazzi di ogni genere perché ha imprecato e inveito contro la pioggia, la neve, il caldo. Una volta ha definito gli acquazzoni «un terremoto », poi si è battuto contro la neve andando in giro con una pala per domandare altro danaro al governo. Insomma Alemanno ha fatto del cattivo tempo il capro espiatorio di ogni cosa, dalla morte degli alberi ai crolli dei monumenti, alle buche nella strada… Il sindaco denunzia, sia in estate sia inverno, un’indomabile emergenza clima, una leopardiana natura matrigna. Ma a Roma, per rispondere alle emergenze, ci sono commissari per tutto, in qualche caso da oltre 15 anni. È commissariata la Sanità: il commissario è il presidente della Regione. È commissariata la mobilità: il commissario è il sindaco sin dal 1999, con rinnovi annuali. È commissariata la gestione dei rifiuti: prima fu affidata al presidente della regione, poi a vari politici, quindi ai prefetti e ora al prefetto Sottile. È commissariato il bilancio del comune: per la gestione dei debiti accumulati fino al 2008 il commissario, che prima era il sindaco, oggi è un dirigente del ministero del tesoro. Bisogna dunque commissariare anche la meteorologia con compartimenti specifici, uno per la pioggia e uno per la grandine, un assessore al vento e uno alla nebbia, e un sovrintendente per il cielo coperto e le nuvole a pecorelle.
E però il crollo del Pincio non contiene solo lo spauracchio del cattivo tempo ma, come una matrioska, nasconde e rivela anche il disastro del bilancio, che è filosofia politica prima ancora che cattiva amministrazione. Alemanno applica infatti la logica e la matematica delle professionalità speciali, delle squadre speciali, delle attenzioni sempre più speciali ad ogni evento, sia pioggia sia crollo. E si tratti di accumulo dei rifiuti o di risse nel centro storico, di aumento della criminalità e persino di stupri, Alemanno chiede finanziamenti sempre più speciali. E Roma, come il sud dei piagnistei, diventa l’ospizio di tutti gli eccessi, cresce la criminalità e la capitale si fa mafiosa. Alemanno chiede soldi del governo anche contro l’abuso di quella cartellonistica che è nelle mani di una cosca che controlla e vende gli spazi illegali alla pubblicità, tappezza clandestinamente di orrori le vie consolari e l’intera città come nessuna altra metropoli civile. E la cartellonistica invade, anche legalmente, il centro storico, al punto che in via Veneto non c’è palo della luce e orologio pubblico che non abbiano il suo piccolo obbrobrio pubblicitario. Il Comune, che guadagna sugli spazi legali, combatte solo a parole l’illegalità dei cartellonari, vere e proprie famiglie, piccole aziende potentissime, di cui io evito qui di fare i nomi.
Dunque Alemanno coglie anche l’occasione del crollo del Pincio per chiedere una proroga al patto di stabilità, vale a dire altro danaro. Come dicevamo prima, applica a Roma la scienza dell’emergenza che è tipica del Meridione. Invece di mettere a frutto le proprie capacità e i propri mezzi, come avviene per esempio nell’Emilia terremotata, Alemanno come i Cuffaro e come i Lombardo, sceglie la strada del pianto, del circo dell’emergenza che assale come le mosche l’animale ferito e pretende risorse, e non perché vuole rubare ma perché questa è politica, è macchina elettorale.
Ma il Comune, che non ha soldi per la manutenzione del Pincio, ne ha tanti per organizzare, nientemeno, una festa celebrativa della battaglia di ponte Milvio e dell’imperatore Costantino contrapposto al pagano Massenzio: la croce in cielo,min hoc signo vinces, contro l’aquila di Roma. Alla festa, che costerebbe un’ira di dio, Alemanno vorrebbe la presenza del Papa: preferisce la manutenzione elettorale alla manutenzione dei muri e delle strade di Roma.
E però il bilancio 2012 del Comune che, grazie ad un rinvio, sarà presentato addirittura ad ottobre, è già in deficit da buco nero, nonostante le mille deroghe e i mille rivoli finanziari per Roma capitale ottenuti in un profluvio di nuovi simboli, di inaugurazioni, di tagli di nastri e di chiamate in scena dei semi-vip. L’ultima “vittoria di civiltà” di questa spuma sociale è il trasferimento da Cortina nella capitale degli incontri mondani da cinepanettone intellettuale dei coniugi Cisnetto, sacerdoti e guru del generone romano e specialissimi consiglieri politici del sindaco.
Ma il crollo del Pincio rimanda anche al decoro complessivo che Alemanno dice non potere garantire senza altri soldi: «Scriverò al ministro Ornaghimper chiedere di intervenire sul governo perché si possa avere una deroga per gli interventi più urgenti». E mette le mani avanti: «Senza lavori continuativi c’è il rischio di altri crolli». Ogni giorno, per la verità, le cronache raccontano di crepe e di ferite, e nel giugno scorso addirittura alcuni frammenti di cornicione si staccarono dalla Fontana di Trevi. Anche allora il sindaco disse: «La colpa è della neve». E anche allora si rivolse al ministero: «Abbiamo pochi soldi e poco personale».
Ma al ministero, quando sentono la parola “personale”, mi fanno notare riservatamente che «non c’è nella storia dei comuni italiani un esempio di scandalo nepotista così grande come quello dell’azienda dei trasporti di Roma, l’Atac» dove sono state assunte sorelle, figli, nuore, segretarie, mogli, nipoti e fidanzate di assessori, di senatori e di deputati del Pdl, di sindacalisti della stessa Atac e di dirigenti di un’azienda che ha ora 120 milioni di
debiti ed è molto vicina alla bancarotta.
Ecco dunque che dal crollo del Pincio si arriva anche all’Atac, vale a dire all’emergenza trasporti, alla viabilità e al traffico che spinge Roma sempre più a Sud, sempre più simile a Palermo e a Napoli. Secondo i dati forniti dall’associazione “Roma si muove” «il 67 per cento dei romani si sposta con mezzi privati, auto e moto, e solo il 27 per cento con i trasporti pubblici che, per appena un terzo, sono su ferro (treno, metrò, tram)». Le conseguenze sono che la Roma di Alemanno ha il primato negativo per morti e feriti sulla strada e per emissioni di anidride carbonica. L’associazione “Roma si muove”, lanciata dall’ex assessore alla Cultura Umberto Croppi, dal segretario radicale Staderini e dal segretario dei verdi Bonelli sta raccogliendo le firme per nove referendum propositivi, uno strumento previsto ma mai attuato dal Comune. Dai trasporti all’uso delle spiagge, dal testamento biologico alle famiglie di fatto, dalla lotta all’abusivismo edilizio alla spazzatura (“zero rifiuti” è lo slogan) questi referendum, se mai si facessero, libererebbero Roma da Alemanno perché esprimono finalmente una politica, condivisibile o meno, nel senso della polis, della città come luogo veramente abitato, luogo della convivenza.
E vedremo se i referendum arriveranno a liberare Roma prima che l’emergenza rifiuti la faccia affogare insieme al suo sindaco. I dirigenti dell’Ama sostengono che, senza la nuova discarica, basterebbe un blocco di 48 ore e le 4000 tonnellate di rifiuti che i romani producono ogni giorno sommergerebbero la città. Non è dunque catastrofismo immaginare un autunno di tanfi e fetori che costringerebbero la gente ad indossare anche a Roma, persino a Roma, la mascherina per strada e a fare slalom tra dossi e cunette in fermentazione.
Un muro che crolla non è mai soltanto calcinaccio e polvere. Ogni muro, infatti, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, crolla due volte. Lo sgretolamento del muro del Pincio sgretola anche Alemanno e scopre una Roma a rischio Sudamerica, piccola capitale con tutti vizi della megalopoli, dalle favelas alla violenza quotidiana, alle mafie ai debiti quarantennali con le banche per costosissime metropolitane che non si faranno mai: la linea D è stata definitivamente cancellata, la C rischia di fermarsi a San Giovanni, la B1 degrada la B… Ecco perché quel muro che crolla ci avverte che probabilmente non basta più discaricare Alemanno. Persino Ciarrapico, che comprò la Casina Valadier, ne aveva un rispetto così grande che voleva a tutti i costi portarci gli uomini migliori, come Carlo Caracciolo per esempio: «Ce devi veni’, per far vedere alla gente che qui non ce vengono soltanto i burini come me».

La Repubblica 23.08.12