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Reggio Emilia – Festa Democratica Nazionale

presso l’Area dibattiti – Pio La Torre, alle ore 18.00 dibattito “Scuola, università e ricerca per la crescita del Paese”. Partecipano: Francesco Profumo ministro dell’Istruzione, università e ricerca, Manuela Ghizzoni presidente Commissione Istruzione della Camera dei Deputati, Francesca Puglisi responsabile nazionale Pd Scuola, Marco Meloni responsabile nazionale Pd università. Coordina Roberta Carlini

"Ambiente e beni comuni le frontiere da esplorare", di Stefano Manzocchi

L’era della Grande Bolla del debito che si è esaurita nel 2007 ci porta in eredità, oltre che la stagnazione delle economie avanzate in conseguenza delle crisi debitorie pubbliche e private e della maggior avversione al rischio degli investitori, un paradosso del lavoro.

Il ciclo di crescita globale alimentato dal debito – a partire dal 1995 – ha contribuito per più di un decennio a sostenere l’occupazione negli Stati Uniti ed in Europa, ma nel contempo ha consolidato la svalutazione in termini sociali del lavoro. Gli studi di Thomas Piketty della Paris School of Economics mostrano come l’eredità ha spesso contato più del merito e dell’impegno nel determinare gli esiti della competizione economica tra individui nel mondo occidentale degli ultimi decenni. Non si tratta di una esperienza inedita: già nel XIX secolo la fine dell’egemonia britannica coincise con la prevalenza di un modello sociale fondato sulla rendita più che sul lavoro (o sull’impresa). Il paradosso consiste nel fatto che lo scoppio della Grande Bolla ci ha rapidamente condotti in una condizione di scarsità di impieghi disponibili, ma ci sta anche illuminando sulle degenerazioni della finanza e dell’arricchimento connesso a speculazioni più o meno fraudolente. Insomma, l’effetto è stato la riaffermazione dell’economia reale su quella di carta (e di mattoni), anche se naturalmente non è tutto marcio in Danimarca e le due sfere (produzione e finanza) sono ben interconnesse.

Quindi rivalutazione sociale del lavoro, ma scarsità degli impieghi: sono 48 milioni i disoccupati stimati dall’Ocse nelle economie avanzate, 15 in più del 2007. E lo scenario a venire prefigura per il nostro Paese un’industria che per tornare forte punterà più sulla produttività e sull’aumento delle ore lavorate che non sull’espansione degli occupati, mentre la Pubblica Amministrazione difficilmente amplierà gli organici nei prossimi anni.
Dove quindi trovare nuovi impieghi che colmino il vuoto che si è aperto? Coniugare lo sviluppo dei “beni comuni” con la ricerca del valore, di mercato e sociale, sembra una strada promettente. Sempre secondo l’Ocse, riducendo il totale delle nuove materie prime immesse nell’economia della Ue del 17%, si potrebbero creare tra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro, mentre il riciclo del 70% dei materiali primari potrebbe creare oltre 560.000 nuovi posti di lavoro entro il 2025. Inoltre, una migliore gestione dei rifiuti potrebbe creare più di 400.000 posti di lavoro entro il 2020.

Per avviare una filiera fondata sul riciclo e la trasformazione dei rifiuti – ad alta intensità di lavoro in alcune delle sua fasi, ad elevata intensità di innovazione in molti dei suoi processi – con forti connotazioni di valorizzazione dei beni comuni basta spesso una decisione amministrativa comunale.
Lo stesso dicasi per altre filiere che certo non soppianteranno la manifattura che regge l’economia del nostro Paese ma si affiancheranno progressivamente all’industria come l’abbiamo finora conosciuta.
Il Decreto-Sviluppo appena convertito in legge compie, da questo punto di vista, un passaggio culturale importante. Preso atto della impossibilità di stimolare o assecondare la crescita con fondi pubblici aggiuntivi, nell’epoca della spending review, guarda invece alla regolamentazione ed agli incentivi fiscali per trasformare i comportamenti sociali, creare nuovi mercati e ambienti per nuove imprese. Gli esempi sono molti, dalla ristrutturazione edilizia al risparmio energetico alla gestione dei rifiuti, appunto.

Altri ambiti dove coniugare i beni comuni e la creazione di valore si potranno aprire in futuro, ad esempio con il maggior ricorso a sistemi mutualistico-assicurativi per la sanità e la riabilitazione fisiatrica.
La rivalutazione sociale dell’economia reale si terrà su basi ancor più solide se innovazione, investimenti e regolamentazione si muoveranno nella duplice direzione di creare nuovi impieghi che allevino la crisi occupazionale, e di generare imprese portatrici di nuovi valori economici e sociali assieme.

da www.ilsole24ore.com

"Veleni e rancori spaccano il centrosinistra", di Federico Geremicca

Amicizie consolidate e antiche che si incrinano. Alleanze che d’improvviso si sfaldano. Partiti-non-partiti che si spaccano a metà come fossero mele e tutt’intorno, mentre le polemiche alimentano i veleni e arroventano i rancori, si ammucchiano le macerie fumanti di uno scontro interno al centrosinistra e del tutto inedito per temi e per protagonisti.

L’intensità autolesionistica ricorda quella che, nella primavera del 2008, portò alle dimissioni di Romano Prodi, lesionando seriamente la credibilità di quell’alleanza di governo. Oggi (e per il momento) non ci sono esecutivi che rischiano la crisi: ma non per questo la vicenda è meno clamorosa.

E la vicenda, naturalmente, è quella che vede contrapposti – a partire dallo scontro in atto tra la Procura di Palermo e il Quirinale – pezzi di sinistra, di magistratura, di intellettualità e perfino di carta stampata. Stare con Napolitano o con i pm che indagano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia? Firmare l’appello de «Il Fatto quotidiano» a sostegno dei magistrati siciliani o schierarsi con il Quirinale, che ha chiesto alla Corte Costituzionale di stabilire il destino di certe discusse intercettazioni (quelle tra il Presidente della Repubblica e l’ex ministro Mancino)?

Lo scontro è senza quartiere. E ieri, mentre il centrodestra stava ancora fregandosi le mani, ecco l’ultimo capitolo: in campo, infatti, è sceso anche Valerio Onida – ex presidente della Corte Costituzionale e membro del Consiglio di presidenza di «Libertà e giustizia» – per contestare le tesi sostenute qualche giorno prima da Gustavo Zagrebelsky, suo predecessore alla guida della Corte e presidente onorario di «Libertà e Giustizia». Onida si è schierato decisamente con il Quirinale (a differenza di Zagrebelsky). Di più: è arrivato a sostenere l’illegittimità dell’indagine dei giudici di Palermo: «Mi sembra – ha spiegato a “l’Unità” – che sia di competenza del Tribunale dei ministri, non della Procura. E non lo dico io, lo dice la Costituzione».

E’ l’ultima clamorosa spaccatura: «Ma noi non siamo un partito: ci si confronta liberamente, e che la si pensi in maniera diversa non mi pare onestamente un caso», dice Sandra Bonsanti, presidente di «Libertà e Giustizia». Nemmeno «la Repubblica» è un partito – nonostante lo si definisca da sempre giornale-partito (e conti di certo assai più di un partito) – ma anche lì sono volati gli stracci, con Eugenio Scalfari accorso in difesa di Napolitano pesantemente criticato, due giorni prima e proprio su «la Repubblica», da Gustavo Zagrebelsky. Nemmeno il partito dei giudici è un partito: eppure anche tra le toghe divampa uno scontro furioso che contrappone correnti interne, personalità e magistrati di primissimo piano.

E’ un intero mondo – fino a ieri legato da un comune sentire – a liquefarsi nell’afa di un agosto terribile. Sconcerta che il campo di battaglia sia la giustizia, e sorprendono le accuse che rimbalzano tra i due fronti: presunti «giustizialisti» contro ipotetici «affossatori della verità». E cosa ci sia dietro – cosa potrebbe esserci dietro – alla fine lo ha denunciato senza mezzi termini Luciano Violante (pure considerato tra i padri fondatori del partito dei giudici: paradosso dei paradossi). «Vedo in corso un attacco politico al ruolo del Quirinale e al governo… C’è un blocco che fa capo a “Il Fatto”, a Grillo e a Di Pietro che sta reindirizzando il reinsorgente populismo italiano… Il “populismo giuridico” utilizza le Procure come clava politica».

Vera o traballante che sia la tesi dell’ex presidente della Camera (ed ex magistrato), il livello del punto cui è precipitato lo scontro lo si coglie bene nella replica che arriva dall’Italia dei valori: «Violante continua a farneticare di un progetto comune tra magistratura, politica e informazione per abbattere Napolitano e Monti. In realtà, lui è un uomo al servizio dei poteri forti e solleva polveroni… Con le sue dichiarazioni dimostra un’imbarazzante sintonia con Cicchitto… sono fatti l’uno per l’altro».

Chi fosse stato lontano dall’Italia nelle ultime settimane, non potrebbe che rimanere strabiliato di fronte a tutto questo. Quando aveva lasciato il Paese, «giustizialista» era l’accusa tradizionale che la destra rivolgeva al centrosinistra: e non la spada impugnata da un pezzo di sinistra contro un altro pezzo fino a ieri alleato; Di Pietro e Bersani apparivano ancora sorridenti nella foto di Vasto; «Libertà e Giustizia» non si divideva, il partito di «Repubblica» non si spaccava e, soprattutto, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di contestare al Capo dello Stato l’intenzione di occultare la verità sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.

E’ vero, la politica italiana (ed i rapporti tra la politica e la magistratura…) regala di sovente sorprese: ma ad un terremoto di tali dimensioni – e su un simile terreno – forse nessuno era preparato. L’origine, naturalmente, sarebbe tutta politica: e cioè la nuova collocazione di Antonio Di Pietro fuori dal centrosinistra, in aperta concorrenza col Pd e in gara con Beppe Grillo e la Lega per la conquista di consensi «radicali» e di voti da recuperare nell’enorme bacino dell’astensione e dell’antipolitica. Da qui, secondo molti, la decisione di tracciare una riga: immaginaria, certo, ma invalicabile e insidiosa. O di qua o di là: di qua dovrebbe voler dire stare con i magistrati di Palermo, di là con Napolitano, Monti e i partiti che lo sostengono.

Sullo sfondo – sia detto senza retorica – si stagliano i problemi del Paese: quasi sfocati rispetto alla questione in primo piano, che è di nuovo – e come sempre da vent’anni a questa parte – la giustizia. La novità è che, fino a ieri, oggetto degli strali «giustizialisti» era Silvio Berlusconi, non Napolitano… Così, il Cavaliere tira un sospiro di sollievo e ringrazia: e si gode, soprattutto, quella che i suoi definiscono una «rivincita postuma». In fondo, il suo cavallo di battaglia è sempre stato lo stesso: in Italia la giustizia non funziona. Sentirlo dire oggi alla sinistra, è musica fantastica per le sue orecchie…

da www.lastampa.it

Sisma e tasse, una proroga «limitata», di Lorenzo Salvia

Una proroga sì, ma «selettiva». Nel senso che il nuovo rinvio per il pagamento di tasse e contributi non riguarderà tutte le persone che vivono nei comuni colpiti dal terremoto, come previsto finora. Ma solo chi ha ancora la casa inagibile o l’azienda danneggiata dopo le scosse di tre mesi fa. La questione sarà discussa nel Consiglio dei ministri di venerdì, il primo dopo la pausa estiva. E, se alcuni nodi devono essere ancora sciolti, il governo sta studiando il modo di accogliere le richieste che arrivano dalle zone terremotate di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Proprio ieri i tre governatori hanno scritto al presidente Mario Monti per chiedergli di rivedere le decisioni prese nei primi giorni dell’emergenza.
Con due decreti il governo aveva sospeso tutti i pagamenti fiscali e previdenziali: non solo l’Imu, che viene annullata per tutto il periodo dell’inagibilità dell’immobile, ma anche l’Irpef, l’imposta sulle persone fisiche, l’Ires e l’Iva, che riguardano le imprese, oltre alle rate dei mutui e dei finanziamenti. Alcune di queste scadenze erano state spostate al 30 settembre, altre al 30 novembre, sempre del 2012. I tre presidenti di Regione chiedono di rinviarle tutte al 30 giugno dell’anno prossimo ma solo per «coloro che a causa dell’inagi bilità della casa di abitazione o dello studio professionale o delle difficoltà connesse con il riavvio delle attività produttive (…) risultino particolarmente esposti a problemi di liquidità e di equilibrio finanziario».
La richiesta di una proroga girava già da qualche settimana. Ma a gelare le attese era arrivata, il 16 agosto, una nota dell’Agenzie delle Entrate che confermava le scadenze già previste. Non poteva essere diversamente, visto che l’agenzia non può certo cambiare di sua iniziativa quanto è stato deciso con un decreto legge. Eppure è stato proprio quel comunicato di poche righe a far salire la protesta nelle zone terremotate.
Sabato scorso il presidente dell’Emilia Romagna Vasco Errani ha ripetuto il suo appello incassando l’appoggio («Sottoscrivo ogni sua parola») del ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, che quelle terre le conosce bene essendo stata commissario prefettizio sia a Bologna che a Parma. È stata proprio la Cancellieri a portare la questione all’attenzione del governo, contando sull’appoggio di un altro ministro, Piero Gnudi, bolognese non d’adozione ma di nascita.
Adesso il dossier è nelle mani del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, e del ministro dell’Economia, Vittorio Grilli. L’intenzione di fare un passo c’è tutta ma il problema è sempre il solito: trovare i soldi. Il rinvio dei pagamenti deciso ai primi di giugno è costato alle casse dello Stato due miliardi e mezzo di euro. La proroga peserebbe meno proprio perché riguarderebbe solo chi ha ancora danni seri e non tutti i residenti. Ma fare i conti non è semplice.
Le famiglie ancora senza casa sono 13 mila, le aziende danneggiate più di 3 mila. Bisogna capire che volume di tasse muovono e soprattutto decidere di quanto far slittare i termini. Non è detto che la proposta del 30 giugno venga accolta: la proroga potrebbe essere più corta. Il presidente Errani, però, è ottimista: «La nostra è una richiesta seria e motivata, non parliamo di cose inique ma eque. Quindi confido che il governo risponderà positivamente». E annuncia che la prossima settimana firmerà una nuova ordinanza per accelerare il ritorno alla normalità di chi ha perso la casa: «In parte nei prefabbricati in parte attraverso accordi con le associazioni di proprietari per prendere in affitto gli appartamenti vuoti». L’emergenza numero uno, però, resta quella delle tasse. E in questa partita c’è un’altra carta da giocare. Erano altri tempi, non c’era la crisi ma dopo il terremoto in Umbria e Marche del 1997 i pagamenti vennero sospesi per due anni e mezzo. In Emilia la terra ha tremato appena tre mesi fa.

Il Corriere della Sera 22.08.12

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«Così ci sentiamo presi in giro dallo Stato Lavoriamo per rialzarci non per arricchirci», di Elvira Serra

Meglio non farsi ingannare dallo sguardo mite e dalla voce dolce. Nicoletta Razzaboni ci va giù pesante. «Come si può essere così ciechi da non voler parlare di allungamento dei termini per tutti? Mi chiedo come sia normale pensare che noi il 30 settembre saremo in grado di pagare le tasse». Poi l’affondo. «Questa mancanza di solidarietà da parte dello Stato è inaccettabile. È un suo preciso dovere morale aiutarci».
È quasi scandalizzato l’amministratore delegato di Cima spa, dispositivi per la gestione del denaro («I nostri clienti sono le banche e la grande distribuzione»), 81 dipendenti in sede a Mirandola più altrettanti di indotto, fatturato annuo di 22 milioni di euro («Già depotenziato da due anni di crisi»). Non può credere che davvero, dal primo ottobre, sarà scaduto il termine di sospensione degli adempimenti e dei versamenti tributari. E che, se di proroga si parlerà, sarà solo per chi ha ancora la casa inagibile o l’azienda danneggiata. «È vergognoso, una presa in giro enorme. È come se il governo non si rendesse conto che in questi tre mesi ci siamo impegnati moltissimo non per produrre ricchezza, ma per salvare quanto abbiamo perso. Noi, e le altre aziende, abbiamo speso un sacco di soldi per sistemare, ricostruire, ricominciare. Abbiamo dovuto pagare le quote all’ordine, altrimenti non trovavi le squadre che venivano a lavorare. Non abbiamo fatto altro che sborsare, senza introiti».
Nicoletta Razzaboni non parla soltanto per sé. Il tema «adempimenti tributari, fiscali, contributivi e amministrativi» riguarda tutte le seicento aziende industriali del Modenese, dodicimila dipendenti, versamenti al Fisco pari a 6-7 miliardi e un fatturato Iva di 400 milioni: un bacino che costituisce l’1% del Pil nazionale, il 10% di quello emiliano. Ma la scadenza di Imu & co. interferirà inevitabilmente nella vita delle persone comuni, non solo in quella di piccoli o grandi imprenditori. «C’è chi ha dovuto noleggiare un camper, chi ha comprato una tenda, chi ha pagato un nuovo affitto e sull’altra casa ora incombe il mutuo».
Neppure i danni alla Cima spa sono stati pochi. «Il terremoto del 20 maggio aveva spostato di otto centimetri i pannelli del nostro magazzino di 1.200 metri quadrati: avevamo cominciato a svuotarlo e contemporaneamente, nel terreno accanto, avevamo iniziato a costruire le fondamenta di un nuovo magazzino, con strutture copri-scopri. Il sisma del 29 ci ha sorpresi lì. Dopo, è stato necessario demolire completamente il primo. I miei dipendenti sono rimasti in cassa integrazione per tre settimane. Il 12 giugno abbiamo ripreso, e gli stipendi li abbiamo pagati non certo per produrre». Le spese vive ruotano intorno al milione e mezzo di euro, le ferie sono state centellinate. «È prioritario darsi da fare».
Quello di cui Nicoletta Razzaboni non si capacita è la «mancanza di sensibilità». «Siamo preoccupati. Noi abbiamo molta voglia di venirne fuori. Ma i tempi sono lunghissimi. Saremo costretti per anni a vivere in un territorio disagevole, triste, in rovina. Mio figlio, che ha sedici anni, continuerà a studiare in un prefabbricato. È necessario che lo Stato accetti per una volta di dare e non di pretendere. Avevamo chiesto la detassazione mica per arricchirci. È che i soldi vengono spesi nella ricostruzione».

Il Corriere della Sera 22.08.12

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“Errani: Il fisco non strangoli l’Emilia”

Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, le tre Regioni colpite dal terremoto del 20 e 29 maggio scorso, vanno in pressing sul governo affinché conceda la proroga dei pagamenti di tasse, imposte e tributi fino al 30 giugno del prossimo anno per i cittadini e le imprese che hanno subito i danni del sisma.

A guidare l’iniziativa è il governatore emiliano-romagnolo, Vasco Errani, che è anche presidente della Conferenza dei presidenti delle Regioni. Ieri pomeriggio Errani ha sottoscritto assieme a Roberto Formigoni (Lombardia) e Luca Zaia (Veneto) una lettera inviata al premier, Mario Monti, e al ministro dell’Economia, Vittorio Grilli. Le richieste sono due: allineare al 30 novembre prossimo il rinvio degli adempimenti fiscali, tributari, contributivi e amministrativi per tutti i residenti e gli imprenditori nelle zone del cratere, indipendentemente dal fatto che abbiano avuto o no danni alle loro case o alle loro imprese. Questo perché, al momento, il rinvio è differenziato.

Alcune voci, come ad esempio le rate dei mutui, le imposte sul reddito e l’Imu, sono sospese fino al 30 settembre. Altre, soprattutto quelle sociali e amministrative, fino al 30 novembre. La seconda richiesta è invece quella di rinviare al 30 giugno 2013 tutti gli adempimenti tributari, fiscali, contributivi e amministrativi per chi ancora continua ad avere problemi abitativi o produttivi in conseguenza del terremoto. In sostanza per chi ha ancora la casa inagibile e per le aziende che sono ancora ferme o sono a produzione limitata perchè devono ricostruire, ristrutturare i capannoni o aggiustare i macchinari lesionati dalle scosse. La sospensione per chi è alle prese con la ricostruzione dovrebbe riguardare tutte le tasse sul reddito e di impresa (Irpef, Irpeg, Irap), quelle sulla casa (Imu, rate mutuo, bollette), i contributi che le aziende pagano per i lavoratori come sostituto d’imposta, i contributi previdenziali, i bolli auto.

Sarebbe un modo per lasciare un po’ più di liquidità in tasca a chi deve sopportare i costi ingenti della rinascita. Nella lettera a Monti e Grilli, i tre presidenti di Regione rilevano che il disallineamento delle sospensioni delle scadenze per i termini di pagamento di oneri e contributo sta creando «disorientamento dei contribuenti». Da qui la richiesta di prorogare al 30 novembre la sospensione degli adempimenti per tutti i residenti. Dopo di che, dicono i governatori, la particolare situazione di difficoltà che interessa le zone colpite dal sisma, strettamente legata al tema della ricostruzione, rende necessario un ulteriore «slittamento dei termini di versamento fino al 30 giugno 2013» per tutti coloro che «a causa della inagibilità della casa di abitazione o dello studio professionale o delle difficoltà connesse con il riavvio delle attività produttive per la messa a norma dei locali o per la loro ricostruzione, risultino particolarmente esposti a problemi di liquidità e di equilibrio finanziario». Il pressing sul Governo è cominciato dopo che, il 17 agosto scorso, l’Agenzia delle entrate aveva comunicato che non ci sarebbero state ulteriori proroghe dei pagamenti. «Torneremo alla carica, è una questione di giustizia ed equità», aveva detto Errani, trovando l’appoggio del ministro degli Interni, Cancellieri. La sua iniziativa ha poi trovato il pieno sostegno dei sindaci delle zone colpite, tutti schierati a favore di una proroga che molti vorrebbero durasse fino al termine del 2013.

Sindaci sul piede di guerra ma senza demagogia, con grande senso dello Stato. «Condivido appieno la proposta di Errani e degli altri governatori di sospendere i pagamenti dopo il 30 novembre solo per chi ha la casa inagibile o l’attività economica preclusa – dice ad esempio il primo cittadino di Crevalcore, Claudio Broglia -. È giusto agevolare chi deve ricostruire, lasciandogli un po’ di respiro in più. Ma è giusto anche che chi non ha avuto danni debba ricominciare a pagare le tasse, da cui lo Stato ricava i fondi per la ricostruzione». La prima data utile per discutere di l’eventuale proroga è il Consiglio dei ministri di venerdì. Il modo equilibrato in cui è stata formulata la proposta dei governatori, e il precedente del decreto sulla spending review , con Errani che è riuscito a convincere Monti sulla necessità di stanziare altri 6 miliardi per la ricostruzione, fa ben sperare. «Ce ne sarebbe proprio bisogno – dice il sindaco di Cento, Piero Lodi – soprattutto per le imprese. La proroga sarebbe un segnale importante. Perché non servono buone intenzioni, ma fatti concreti per favorire la ripresa». «Non chiediamo le elemosina – aggiunge Luisa Turci, sindaca di Novi – e nemmeno favori. Vogliamo solo che ci siano messi a disposizioni i giusti mezzi per accelerare il ritorno alla normalità».

E il sindaco di Finale Emilia, Fernando Ferioli, afferma: «Sono il primo a pensare che chi non ha problemi con la casa o l’azienda è giusto che paghi. Ma questa è un’emergenza. Oltretutto, ci si chiede di pagare quando ancora non si è visto un euro dei soldi che sono stati stanziati per la ricostruzione». Soldi che dovrebbero essere disponibili dal primo gennaio 2013, ma che Errani sta provando a far anticipare dalle banche a tassi agevolati per anticipare l’apertura dei cantieri. Banche che però hanno addebitato ai terremotati gli interessi maturati sulle rate sospese dei mutui, sollevando un mare di proteste. Da segnalare, infine, che anche i parlamentari emiliani del Pdl Isabella Bartolini e Fabio Garagnani ieri si sono detti favorevoli alla proroga dei pagamenti. Se ciò non avvenisse, si è spinto a dire Garagnani, potrebbe essere giustificato uno «sciopero fiscale» nelle zone terremotate.

L’Unità 22.08.12

"Decrescita, un'illusione romantica", di Irene Tinagli

Molti governi europei oggi cercano ricette per stimolare la crescita: ma è davvero necessario tornare a crescere? Secondo alcuni no. Le teorie anti-crescita, che affondano le loro radici nei movimenti anti-industriali dell’Ottocento e che sono state riportate in auge dall’economista francese Serge Latouche, stanno ispirando molte persone ad invocare una sana decrescita. I sostenitori di queste tesi affermano che ripensando il nostro sistema dei consumi sia possibile vivere felici senza che aumenti il Pil. Quello che dovremmo fare, come ci ricorda anche Guido Ceronetti nel suo articolo su La Stampa di domenica scorsa, è separare i bisogni essenziali da quelli che non lo sono e i beni prodotti per soddisfare bisogni reali da quelli fatti solo per generare profitto, ovvero i «commerci». Se le persone, per esempio, anziché produrre beni inutili volti al commercio e al profitto fine a se stesso, producessero semplicemente quello che serve loro per sostentarsi, sarebbero meno dipendenti dai cicli economici, dai debiti e dall’ansia di accumulare ricchezza. E i Paesi starebbero in piedi senza bisogno di far crescere il Pil a tutti i costi.

Questa prospettiva è molto affascinante e per certi versi romantica, se non fosse che la distinzione tra beni volti alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali non è così netta come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è). A meno di ridurre i beni essenziali al mero consumo alimentare, molti bisogni fondamentali non si soddisfano solo con l’autosussistenza. Se per beni essenziali si considerano infatti anche l’istruzione, le scuole e la sanità pubblica, i vaccini e le medicine, i trasporti e così via, allora tutto cambia.

Perché tutti questi beni e servizi non si mantengono con l’economia di sussistenza, soprattutto in Paesi, come l’Italia, che non hanno materie prime da esportare. Si costruiscono invece con i proventi delle attività commerciali e industriali e le relative entrate fiscali; risorse che consentono, appunto, di finanziare servizi pubblici e di supportare ricerca scientifica, innovazione e progresso. Deve essere chiaro, quindi, che decrescere non significa solo diminuire le ricchezze individuali e fare a meno di qualche accessorio come il cellulare o l’iPad, ma significa allo stesso tempo diminuire le risorse che lo Stato ha a disposizione per tutte le azioni di redistribuzione, assistenza e investimento per il futuro.

E’ chiaro: la decrescita non danneggia tutti nello stesso modo e quindi non spaventa tutti nello stesso modo. La scarsa crescita non è mai stata un gran danno per l’aristocrazia terriera o quelle classi che possono contare su rendite fisse e sostituire i servizi pubblici con servizi privati, ma è un disastro per gli operai, i commercianti e la classe media, che più delle altre hanno bisogno di servizi pubblici. Certo: possiamo dire a tutte queste persone che tornino a coltivare la terra e a badare da soli ai propri figli, insegnandogli a leggere a casa e curando le loro malattie con le erbe del giardino. In fondo era così fino a non molto tempo fa, prima dell’industrializzazione e delle rivoluzioni tecnologiche dell’ultimo secolo e mezzo. Ma erano altri tempi, difficilmente invidiabili: tempi in cui davvero c’era poco altro a cui ambire al di là della sussistenza, in cui il bisogno di crescere, studiare e viaggiare era privilegio di pochi, e in cui i progressi della medicina e della scienza erano scarsi e lenti.

Basta pensare che l’aspettativa di vita è rimasta quasi invariata dai tempi dei Romani fino agli inizi del Novecento. E’ stato con l’aumento dei commerci, dei grandi progressi economici, industriali e scientifici dell’ultimo secolo, che si è più che raddoppiata. Anche la storia recente ci offre numerosi esempi del ruolo della crescita. E’ stato grazie all’apertura e alla crescita economica che la Cina ha potuto, nei soli vent’anni tra il 1981 e il 2001, dimezzare la povertà nel Paese. E’ stato con la crescita economica che il Brasile si è potuto permettere programmi sociali che hanno strappato all’emarginazione milioni di famiglie. E persino nel miracolo cubano degli Anni Sessanta l’alfabetizzazione e le infrastrutture sanitarie furono sostenute da alti tassi di crescita. Una crescita fittizia, pompata dagli aiuti della Russia, e che infatti crollò miseramente alla fine degli Anni Ottanta. Tra il 1989 e il 1993 il Pil subì una contrazione del 35%. Ma la decrescita non fu affatto felice. La crisi di fame e povertà che colpì la popolazione cubana fu atroce. Solo con l’apertura al turismo, ai capitali esteri e ad alcune forme di commercio e di piccole iniziative imprenditoriali (e con una forte repressione del dissenso che nel frattempo andava aumentando), Cuba è riuscita a resistere finché non è arrivata la cooperazione con il Venezuela di Chavez e poi con la Cina.

Perché pure i Paesi d’ispirazione socialista, forse anche più degli altri, si sono accorti dell’importanza della crescita economica. Come disse Deng Xiaoping: «La povertà non è socialismo». Quello su cui molti Paesi dovrebbero riflettere oggi, e la vera sfida che hanno davanti, non è tanto come eliminare o ridurre la crescita, ma su quali basi costruirla e con quali criteri utilizzarla e ridistribuirla. Perché non tutte le crescite sono egualmente sostenibili nel tempo, e non tutte sono gestite e distribuite nello stesso modo. Questo è il vero nodo attorno al quale si gioca il nostro futuro.

La Stampa 22.08.12

"I meriti del Presidente", di Giuseppe Maria Berruti

Caro direttore, ilpresidente della Repubblica ha sottolineato il disagio costituzionale tra la necessaria efficacia dell’indagine penale e l’autorevolezza del capo dello Stato, che è un bene giuridico esso stesso, non un privilegio. Il Presidente, nel nostro sistema, opera oltre che con atti formali, espressamente previsti, anche con la moral suasion, cioè con la vigilanza sulla armonia del governo del Paese. L’efficacia di quest’azione riposa sull’intangibilità dei suoi percorsi. Un sindacato giudiziario, anche il più rispettoso, sui comportamenti che il capo dello Stato deve poter porre in essere liberamente e quando occorre, frantuma questa autorevolezza. E mina la funzione costituzionale.
Il nodo delle intercettazioni, cioè se esse fossero da mantenere o da distruggere subito, ha reso inevitabile, e soprattutto utile, il conflitto. C’è una grande opinabilità tecnica sul punto. È difficile applicare direttamente la norma costituzionale dell’articolo 90 ad un caso non previsto. Vi sono peraltro argomenti anche per escludere la distruzione immediata. E al momento mi pare difficile che il giudice possa disporla. Da tutto ciò il disagio costituzionale.
In questa vicenda in troppi hanno gridato allo scontro mettendo insieme vicende e compatibilità giuridiche diverse. Dimenticando che il conflitto di attribuzioni è un rimedio, certo non frequente, ma fisiologico a una dialettica tra grandi istituzioni, e che il tema più generale delle intercettazioni come strumento di indagine è, in parte, diverso. Il Presidente ha compiuto un gesto importante, ma non drammatico. E tutti, soprattutto quanti hanno, anche nella magistratura, autorevolezza, dovrebbero ricordare che la dialettica non è lotta.
Se si ragiona considerando solo gli atti formali del capi dello Stato come protetti dall’immunità e si dimentica la complessità della sua posizione e del momento politico, si può pure pensare, a mio avviso sbagliando, che non vi sono dubbi sul potere del pm di acquisire le conversazioni del Presidente captate per caso. Io ritengo invece che nessun tipo di valutazione possa essere compiuta sui suoi atti, ancorché casualmente conosciuti, da un pm. L’immunità costituzionale non esenta il Presidente dalla legge penale. Ma protegge la funzione costituzionale nel concreto di fronte a valutazioni comunque rilevanti sul piano giudiziario, che non siano assunte dal suo giudice naturale. Che è la Corte costituzionale.
È sbagliato affermare che la Corte può, in questa vicenda, dare torto o ragione ai magistrati di Palermo. La Corte, piuttosto, è chiamata a dire in che modo l’articolo 90 della Costituzione deve trovare applicazione in un caso che il legislatore storico non ha previsto. Ed in che modo la complessiva funzione del Presidente può essere messa al riparo anche dalla casualità giudiziaria. Il comune cittadino, terzo estraneo, è protetto dall’udienza davanti al gip. La funzione politica del Presidente, io credo, non lo è affatto.
Non è indispensabile una nuova legge sulle intercettazioni. La giurisprudenza della Cassazione ha chiarito i limiti e le garanzie verso l’indagato che il pubblico ministero deve osservare. Occorre applicare seriamente questi criteri che la Suprema Corte, si badi, non certo un passante per caso, ha delineato. E occorre che i capi degli uffici si facciano carico del problema. L’intervento della legge sarebbe il segno della difficoltà della magistratura di comprendere il momento storico, e per la autonomia del suo governo sarebbe un brutto segnale.
L’indagine penale non è un tè con le amiche. È una vicenda necessariamente invasiva. La legge che reprime, adopera la forza. Dunque non ci si può illudere di inventare un meccanismo che renda tutti felici. A meno di non immaginare un potere di intercettare assolutamente inerte. Per questo, o meglio anche per questo, la vicenda Quirinale-Mancino è stata compresa male. Essa, ripeto, non riguarda il tema delle intercettazioni, ma la funzione costituzionale del capo dello Stato che non ammette opinabilità.
Sono anni che a Napolitano spetta di dire cose difficili. Per esempio, che il rispetto delle grandi linee del sistema costituzionale è la precondizione di ogni altro livello di legalità.
L’autore è giudice della Corte di Cassazione

La Repubblica 22.08.12

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“LE PAROLE INCAUTE DEL COLLE”, di FRANCO CORDERO

Continua la fioritura d’una favola compendiabile nei seguenti termini: il presidente della Repubblica, vertice dello Stato, installa i governi, scioglie le Camere, comanda le forze armate, presiede il Csm, ecc., investito d’amplissimi poteri, quindi «inviolabile»; ed è sacrilegio eversivo ascoltare quel che gli esce dalla bocca in telefonate incaute con persone sottoposte a legittimo controllo; l’empio materiale sia subito incenerito. Su questa teologia politica m’ero permessa una similitudine; è come dire: «piove, quindi abbiamo un governo ladro». Formule vaniloque, perciò non confutabili, e sarebbe tempo perso tentarlo. Siamo nella semiotica dei gesti: pugni sul tavolo, piedi battuti, bandiere al vento, grancassa, fanfara, sottinteso minatorio («ci pensi due volte chi vuol contraddire»); non è scenario confortevole in piena crisi istituzionale ed economica, tanto più che gli aspetti oscuri stanno dalla parte dominante. Gli arcana imperii ostruiscono un’inerme legalità laica. Nell’ultima versione l’argomento pseudogiuridico suona così: i vari uffici del Presidente richiedono canali sicuri; qualora siano sciaguratamente violati (Dio non voglia), le relative cognizioni svaniscono, qualunque fatto risultasse. Non è privilegio, beninteso: l’art. 15 Cost. tutela tutti i comunicanti; ad ogni buon conto sta sul telaio una legge ad hoc, come sub divo Berluscone, il cui stile rifiorisce. Vedi puntuali azioni disciplinari. Mancano solo gl’ispettori inquirenti. In compenso ecco un assai poco tecnico ukase da Palazzo Chigi, 8-17 agosto: confessandosi a Tempi, organo Cl, l’economista chiamato a salvare la patria condanna gli ascolti de quibus, «particolarmente gravi»; il governo interverrà contro gli abusi; e assicura sostegni alla scuola privata.
Veniamo alle ipotesi giuridiche. Primus spedisce una lettera a Secundus; Tertius l’asporta dalla cassetta: il contenuto è dirompente, niente meno che i piani d’una offensiva terroristica o narcomercato planetario o simili imprese. Davvero tale missiva conta zero in sede istruttoria? L’art. 15 Cost. tutela i segreti epistolari ma se la lettera galeotta sia prova acquisibile, lo dicono regole processuali; e l’art. 253 c. p. p. parla chiaro (cadono sotto sequestro corpi del reato e cose pertinenti allo stesso). Passiamo alle intercettazioni. Magnolia e Orchidea sono famiglie mafiose concorrenti: Orchidea aveva delle talpe nella rivale; e perquisendo i suoi santuari gl’indaganti scovano mirabilia culminanti nel film sonoro dei segretissimi comitati d’affari. Erano riprese abusive, però valgono oro contro Magnolia. Dovendolo negare, arrossirebbe persino qualche avvocato berlusconiano. Esiste poi una norma sulla quale i “prerogativisti” chiudono gli occhi volando nei cieli della Carta integrata da Ramo d’oro e Re taumaturghi: l’art. 271, comma 3, ultima frase, vieta la distruzione dei nastri, dischi, verbali, testi trascritti, ogniqualvolta costituiscano corpo del reato. Infine, importa poco, anzi niente che l’articolo 7, comma 3, l. 5 giugno 1989 n. 219 ammetta perquisizioni, intercettazioni, provvedimenti cautelari «nei confronti del Presidente» solo se la Corte l’avesse sospeso dalla carica: nessuno gli aveva inflitto tali misure; la Voce corre su una linea sottoposta a legittimo controllo; caso previsto dall’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140, applicabile in via analogica. Il resto è enfasi declamatoria: ripetuto mille volte, da tante ugole con vario accompagnamento, l’assunto insostenibile tale rimane; lo rimarrebbe anche ratificato da consessi a cento teste ubbidienti. Il bello dell’armatura sintattica è che non sia falsificabile: i discorsi stanno in piedi o no; e nessuna pantomima politicante converte i soprusi in opera virtuosa. Nel Mysterium Collis colpisce il quadro impetuosamente alogico. Nel coro bipartisan il giuspatologo raccoglie larga messe: ad esempio, l’idea d’un jeu de main
dove spariscano possibili prove, inaudita altera parte, come se il contraddittorio non fosse requisito assoluto (art. 111 Cost.); il tutto sulla base d’una cabalistica «inviolabilità », in barba all’etica democratica. L’impeachment anglosassone appartiene all’altra faccia della luna. Da noi tiene banco Giovanni Botero (1544-1617), mezzo gesuita, teorico d’una controriformista Ragion di Stato, la cui categoria fondamentale è l’arte dei prudenti ossia machiavellismi a mosse quatte. Vent’anni fa uomini del re negoziavano con la mafia accreditandola quale potere concorrente: consta da res iudicatae;
vale o no la pena sapere cos’avvenisse tra le quinte? Vi ostano potenti interessi. Cerimonie ipocrite velano collusioni organiche. Ricapitoliamo i fatti: voci del Quirinale conversano solidalmente con l’ex ministro in cerca d’aiuto contro la procura intenta alle indagini (in particolare temeva il confronto con due ex ministri); colloqui editi svelano gl’interna corporis; l’effetto è deprimente e vari gesti l’aggravano. L’uomo al vertice afferma d’avere solo adempiuto dei doveri: esorta gl’italiani a stare tranquilli, perché terrà d’occhio le macchine giudiziarie; in materia d’intercettazioni aspetta novità delle quali abbiamo gran bisogno (restrittive, ovviamente, nel testo berlusconiano su cui voterà Montecitorio, e l’attuale premier manda segnali). Ancora parole incaute, sia concesso dirlo col rispetto che la persona merita: vanta consensi da tutti gl’intenditori interloquenti nell’affare e «il più largo riconoscimento»; lancia accuse d’ascolto abusivo; esige la distruzione dei materiali, mentre sarebbe bello esporre al pubblico i due dialoghi occulti; rovescia le bilance sollevando un clamoroso conflitto davanti alla Consulta. Spettatori equanimi guardano esterrefatti. In una circostanza dolorosa (è morto il consigliere compromesso) quirinalisti volontari gridano l’«assassinio mediatico ». Nell’Italia postfascista non s’era mai visto tanto plumbeo mimetismo, sebbene siano motivo ricorrente le partite ad armi impari.

La Repubblica 22.08.12

"Eco-allarme dalla Groenlandia", di Pietro Greco

Il processo stagionale di fusione dei ghiacci in Groenlandia ha superato ogni altro record lo scorso 8 agosto, ben quattro settimane prima che l’estate si chiuda. L’annuncio è stato dato da un italiano, Marco Tedesco, professore di scienza della Terra e dell’atmosfera presso il City College di New York.
Utilizzando dati da satellite, il ricercatore ha calcolato il cosiddetto cumulative melting index, una sorta di media dei giorni in cui l’acqua resta alla stato fuso. Il calcolo non è semplice, perché deve tener conto della durata della fusione in svariate zone dell’isola che ospita la più grande quantità di acqua dolce ghiacciata del pianeta dopo l’Antartide.
Ogni estate quest’acqua, almeno in superficie, fonde. Ma non dappertutto e non dappertutto nella medesima quantità e non dappertutto per il medesimo tempo. Nel mese di luglio, per esempio, la Nasa aveva annunciato che la fusione aveva interessato il 97% della superficie ghiacciata dell’enorme isola. Ma quello misurato dalla Nasa era un fenomeno di picco, del tutto passeggero. Quasi immediatamente il ghiaccio si è riformato e il fenomeno non ha avuto grandi conseguenze. Il processo di fusione misurato da Marco Tedesco è invece una media che si estende per diverse settimane: la stagione estiva in Groenlandia, nel corso della quale si verifica la fusione parziale dei ghiacci più superficiali, dura da giugno ad agosto. È in questa stagione che si formano laghi e fiumiciattoli. Quest’anno il cumulative melt index ha superato ogni record precedente già l’8 agosto. Possiamo dire, almeno in prima approssimazione, che mai tanto ghiaccio si era fuso nel corso dell’estate della Groenlandia. Vero è che la gran parte di questa acqua liquida con l’arrivo della stagione più fredda torna rapidamente a solidificarsi. Tuttavia, proprio perché il processo dura nel tempo ha due effetti di lungo periodo: porta direttamente più acqua nel mare e, in qualche modo, rendo più scivolosa la superficie di contatto tra il ghiaccio e la terraferma, facilitando la formazione di valanghe e di iceberg. Cosa ci dice il dato reso noto da Marco Tedesco e dai suoi collaboratori del City College di New York? Beh, in primo luogo conferma che questa è stata un’estate particolarmente calda, anche alle alte latitudini. Inoltre conferma che c’è una marcata tendenza all’aumento della temperatura media in quelle zone. Non c’è solo il fatto che il cumulative melt index del 2012 (già a inizio agosto) ha battuto il record del 2010. Ma c’è anche il fatto che nell’arco degli ultimi venti o trent’anni la fusione estiva dei ghiacci ha una netta tendenza all’aumento. Tutti i modelli di previsione dei cambiamenti del clima prevedono un simile fenomeno. Il problema è verificare quanto intenso esso sia. E negli ultimi anni sembra particolarmente intenso.
La particolare intensità contribuisce a modificare la struttura dei ghiacci in Groenlandia. Nulla di male – non a scala globale, almeno – se d’inverno nevicasse abbastanza sulla Groenlandia da riportare sulla sua superficie sotto forma di neve, che poi diventa ghiaccio, l’acqua perduta d’estate. In questo caso avremmo un ciclo più accelerato, ma con un bilancio nullo sul livello dei mari. L’inverno porterebbe via dagli oceani sotto forma di neve scaricata sulla Groenlandia tanta acqua quanto d’estate l’isola vi ha immesso. E né il livello dei mari né la quantità di ghiaccio in Groenlandia muterebbero.
Invece sembra che il bilancio non sia affatto zero. Che in questi ultimi decenni la Groenlandia ceda ai mari sotto forma di acqua liquida più di quanto riceve come neve. Col risultato di contribuire ad aumentare il livello medio dei mari. Si calcola che se i ghiacci della Groenlandia si sciogliessero per intero (e non solo per l’intera superficie, come avvenuto a luglio) e l’acqua finisse tutta nell’oceano, il livello dei mari a scala planetaria aumenterebbe di circa 7 metri, con conseguenze disastrose per quasi tutte le coste del mondo.
In questi ultimi anni sembra che il ritmo di scioglimento netto dei ghiacci dell’isola sia più elevato di quanto previsto nei modelli degli studiosi del clima. Ma niente paura. Anche a questi ritmi, occorrerebbero secoli prima che tutti i ghiacci di Groenlandia si fondano e l’isola diventi completamente verde come vuole il suo nome.
Tuttavia il segnale registrato dal gruppo di Marco Tedesco è un ennesimo campanello d’allarme. Il clima del pianeta sta cambiando. Con effetti quasi mai desiderabili. E poiché l’umanità ha sia molte responsabilità in questo cambiamento sia molte opportunità d’intervento, occorre che i governi si sveglino. Non è giusto – non è saggio – che il conto della nostra pigrizia lo paghino i nostri figli o i nostri nipoti. In ogni caso nessuno potrà dire di non essere stato avvertito. Di campanelli d’allarme come quello suonato dal ricercatore italiano se ne sentono da tempo a decine. Scherzando, ma non troppo, si potrebbe dire che il “cumulative ring index”, l’indice cumulativo dei campanelli, produce un suono che ormai è diventato assordante.

L’Unità 22.08.12