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"L'eredità di Togliatti e il PD", di Michele Prospero

Il 21 agosto di 48 anni fa moriva Palmiro Togliatti. Senza i suoi arnesi anche il comunismo italiano sarebbe stato un movimento marginale,presto sopraffatto da un arido schematismo dogmatico e quindi condannato ad un celere e indolore declino. Fu soprattutto il suo realismo alla Cavour a guidare la metamorfosi di una avanguardia rivoluzionaria, che aveva avuto il battesimo di fuoco nella resistenza armata, in un soggetto popolare così radicato nella società da schivare, con adattamenti e innesti, anche i detriti della catastrofe del comunismo.
Se la sinistra storica non si è spenta completamente malgrado le tante suggestioni coltivate per condurla all’oblio, e se un nucleo parziale ma inconfondibile di essa si rintraccia ancora oggi nell’esperienza del Pd, questo è dovuto proprio alle sorprendenti mille vite di una creatura che nel dopoguerra è divenuta una tradizione, cioè un qualcosa di così profondo e sostanziale nel sentire collettivo che non è possibile trascendere e rimuovere, anche volendolo.
Il senso dell’operazione di Togliatti è stato anzitutto quello di innestare una settaria truppa d’assalto, nata dopo la frattura dell’Ottobre sovietico, nel solco della storia nazionale. Tornato dall’esilio, egli mise subito in chiaro che occorreva un paziente lavoro teorico per definire una autonoma cultura politica perché «non si pone il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia». Non che rinunciasse a sfruttare il mito ancora caldo della presa del Palazzo d’Inverno e a rivendicare le gesta della marcia liberatrice dell’esercito rosso. Ma egli utilizzava il mito di un mondo radicalmente altro come una forma di emozionale coinvolgimento della massa, senza rimanerne prigioniero nel momento della invenzione politica distaccata.
La funzione nazionale del Pc
Consapevole che «la guerra di liberazione è anche stata, lo sappiamo benissimo, guerra tra italiani», Togliatti si adoperò per ricucire le ferite aperte con una attenta trama istituzionale all’insegna della comune appartenenza nazionale. Per imporre il suo disegno egli attuò anche una radicale riforma del lessico politico. Nel consueto vocabolario comunista era bandita la locuzione nazione. Egli parlava invece di «grandezza della patria», di «coscienza nazionale degli italiani». Il riferimento ossessivo, quasi retorico alla funzione nazionale del Pci, era poi alla base di una necessaria sintesi di classe, popolo e Stato («La classe operaia non è mai stata estranea agli interessi della nazione»; «Comprendiamo gli interessi della nazione, e sappiamo noi stessi sacrificare ad essi i nostri particolari»).
Il triennio magico della leadership togliattiana va senza dubbio dal 1944 al 1947 e diede dei frutti politici davvero straordinari: la svolta di Salerno, il partito nuovo, la Costituzione. Tutti e tre questi eventi storici ebbero il loro fondamento in una intuizione che sin dal 1944 Togliatti esplicitò con nettezza: «Non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza o sul dominio di un solo partito». L’opzione democratica e pluralista nel leader del Pci (per quanto concerne poi i quadri e i militanti è un’altra faccenda) fu precoce e priva di reticenze. Senza di essa sarebbe stata persino inconcepibile la forma del partito nuovo e il fecondo laboratorio della Costituente (si rammenti al riguardo il suggestivo discorso con cui il segretario del Pci dialogava con sapienza di dottrina e con feconda ironia con i grandi maestri della scuola giuridica italiana).
Con il partito nuovo Togliatti passò dall’esemplare antico di partito di quadri rivoluzionari («Noi non possiamo più essere una piccola, ristretta associazione») alla nuova forma partito di massa, radicato e aperto («Rivolgiamoci direttamente all’opinione pubblica»). Sulle orme più della Spd di inizio secolo che non di un qualche ammuffito organismo orientale, il Pci definì in occidente il modello di partito per eccellenza. Ne scaturì quella straordinaria e inimitabile comunità di uomini e donne, di intellettuali e semplici, di operai e braccianti, di diseredati e ceto medio che agiva con uno stabile apparato burocratico, con una miriade di circoli e sezioni territoriali, con una membership attiva che si nutriva con una vivida identità culturale. Fu una creatura davvero originale e densa di pathos i cui frutti ancora adesso, come depositi di capitale sociale, sono lucrati politicamente e con profitto a sinistra.
Non a caso, ragionando sulla identità del partito, Togliatti con uno spirito egemonico «rivendicava la tradizione del socialismo italiano» che esisteva prima ancora della comparsa del movimento comunista. Malgrado il profilo inedito della giraffa comunista e la caratura nazionale della sua invenzione organizzativa, il leader del Pci non poté mai rompere il legame con Mosca. Rivendicava anche con ironia l’autonomia del partito («Non sono fra le nostre file uomini che vadano spiando sulle Alpi l’apparir di un amico stendardo») ma l’ottobre restava per lui il mito che faceva da spartiacque, l’evento simbolico del ’900 che coinvolgeva le masse al destino di «un Paese dove sono al governo i lavoratori».
Stretto tra le compatibilità insuperabili e i limiti oggettivi di un mondo diviso in blocchi contrapposti, con meccanismi di condizionamento e con sottili ingerenze che precludevano l’accesso del Pci al governo, l’ultimo Togliatti accentuò il richiamo alla diversità («Noi siamo un organismo politico; siamo però un organismo politico di tipo speciale»). Insisteva, come per resistere più a lungo alle tendenze ostili che potevano rendere marginale una forza esclusa, su «due strumenti che oso chiamare infallibili, perché la storia stessa più recente lo ha dimostrato: i nostri princìpi e la nostra organizzazione».
Ostruita la strada esterna per l’accesso al governo del Paese, non restavano che l’investimento identitario interno, sulla peculiarità di un Pci legato a grandi processi storici mondiali («La nostra devozione illimitata alla causa per cui combattiamo»), e la progettazione organizzativa indispensabile per definire tra i ceti popolari un inattaccabile orgoglio di partito. Celebrando la sintesi di macchina e programma, Togliatti esaltava perciò «quei nostri militanti, e sono oggi migliaia e migliaia, che hanno dedicato alla lotta del nostro partito tutta la loro esistenza». Il Pci fu in fondo proprio questo, l’intensa vicenda umana e ideale di una forza esclusa che lottava per emancipare una parte di società che con l’azione politica definiva i propri simboli, i propri valori, i propri codici, le proprie credenze. Il realista Togliatti recuperava a fini politici, oltre alla disciplina e al rigore di un organismo che voleva coeso ma non monolitico («Io non mi meraviglio che in un grande partito vi possano essere lotte di tendenza. Questa è la legge di un grande partito»), anche «la possibilità di sognare, di valicare con l’entusiasmo il limite della realtà quotidiana».
C’è qualcosa di rilevante che accomuna i due grandi politici di scuola realista, protagonisti del dopoguerra italiano: Togliatti e De Gasperi. Come De Gasperì regalò l’autonomia al partito cristiano al potere con la celebre formula di un partito di centro che guardava a sinistra (che significava per lui una politica «realistica e realizzatrice», nel solco del «nostro spirito riformista» che avvicinava alle curve di un «socialismo moderato»), così Togliatti condusse un partito comunista alla logica complessa della politica pragmatica che si proponeva di conquistare il centro, offrendo su ogni questione delle credibili risposte di governo («Dobbiamo possedere una soluzione di tutti i problemi nazionali»).
Con la curiosità della giraffa, che sebbene relegata all’opposizione operava sempre con una vocazione maggioritaria, il Pci ha costruito a suo modo e a livello di massa un grande senso dello Stato e ha fornito classi dirigenti autorevoli e capaci. «Tutti dicono oggi – rifletteva Togliatti – che noi siamo i migliori politici, i politici puri, e così cercano di spiegare i nostri successi. Orbene, se siamo buoni politici, non lo so; so però che, se lo siamo, è perché abbiamo tenuto e teniamo fede in ogni istante a princìpi che trascendono la politica, perché siamo in ogni istante fedeli a quella vocazione, che spinse e spinge milioni di uomini a vivere e lottare per trasformare e fondare su basi nuove, di giustizia sociale e di libertà la nostra società nazionale e tutta la società umana». L’officina di Togliatti, per quanto fornita di pezzi di rara efficacia, non è stata sufficiente per entrare nella stanza dei bottoni ma ha comunque regalato gli ingranaggi di una macchina esemplare che ha funzionato a lungo come una riserva di democrazia e ha lasciato le sue tracce come una miniera ancora attiva di passione civile. Sbaglierebbe il Pd a rinunciare a questo confronto storico-critico, magari in ossequio a coloro che vorrebbero eliminare il contributo dei comunisti italiani, non solo dal patrimonio culturale dei Democratici di oggi, ma dall’intera storia nazionale.

L’Unità 22.08.12

"L'attrazione di CL per il potere politico", di Chiara Saraceno

Da anni, ormai, l’appuntamento del meeting di Rimini è l’occasione per aggiornare l’organigramma del potere politico in corso. Ha ragione l’editorialista di Famiglia Cristiana a segnalare che tutti i governanti in carica sono passati da Rimini, ogni volta generosamente applauditi dai militanti ciellini e soprattutto dai loro leader. Certo, per poter continuare a dichiararsi al di fuori dei partiti, e per non trascurare nessuna possibilità di alleanza con chi conta, i ciellini di volta in volta invitano anche qualche selezionato esponente dell’opposizione. Ma ciò che impressiona, in un movimento che si legittima come ispirato innanzitutto da motivazioni religiose, che vuole mettere al servizio anche di un progetto di società, è la forte attrazione, passione direi, per il potere politico e per chi lo detiene. È una passione che viene da lontano. Se ne possono trovare tracce già negli approcci che don Giussani faceva ancora negli anni Sessanta con alcune correnti democristiane, in particolare quella di Flaminio Piccoli, in un gioco tutto interno all’allora inaffondabile partito di governo. La commistione religione politica è già nelle origini del movimento di don Giussani. Con la nascita di Cl, movimento ormai non più solo di studenti, ma di un pezzo di società civile ed economica, e la fine della Democrazia cristiana, la ricerca delle alleanze e le reciproche richieste/offerte di legittimazione si sono sviluppate a tutto campo e con maggiore spregiudicatezza. Da Giulio Andreotti, grande e mai ripudiato patron fin dalle origini dei Meeting, a Pier Luigi Bersani, da Romano Prodi a Silvio Berlusconi fino a Mario Monti e Corrado Passera, tutti sono passati da Rimini, ricevendone consensi e applausi. Ad ogni giro di walzer, ad ogni cambio di cavaliere politico, Cl e i suoi leader si buttano alle spalle quello immediatamente precedente. Felicemente immemori, espungono da sé ogni sospetto di corresponsabilità per progetti e alleati pure entusiasticamente abbracciati e lodati l’anno prima. È con questa assoluta mancanza di autocritica che oggi viene data per esaurita la Seconda repubblica e vengono parzialmente (ma non troppo, perché non si sa mai) offuscati i suoi leader, che fino allo scorso anno occupavano il centro della scena. Che Cl abbia fornito legittimazione a molti leader della Seconda repubblica e ai governi di Berlusconi, traendone non pochi vantaggi sul piano economico e della diffusione delle proprie aziende, scuole, iniziative varie, non è neppure menzionato, tanto meno fatto oggetto di riflessione critica in pubblico. Anzi, c’è, appunto, la corsa a cercare nuove alleanze per proseguire come prima, sotto la parola chiave di sussidiarietà. L’unica presenza che imbarazza un po’, ma neppure troppo, è quella di Roberto Formigoni che rischia di diventare il capro espiatorio e l’agnello sacrificale con cui Cl si libera – provvisoriamente – da vicinanze diventate scomode.
Va detto che al cinismo di Cl corrisponde quello dei politici “amici” di turno. Nessuno si sottrae. Non lo ha fatto l’anno scorso neppure Giorgio Napolitano, anche se ragioni di garanzia istituzionale e di universalismo avrebbero potuto sconsigliare un tale forte atto di riconoscimento e legittimazione a quello che è un movimento (anche) politico di parte, per quanto ondivago. Tutti vanno in passerella per strappare l’applauso e cercare consenso. E pazienza se questo è, come si è visto, effimero e sempre revocabile sulla base degli interessi molto materiali e poco spirituali dei leader del movimento, senza che la base, apparentemente, si faccia venire qualche dubbio su giri di walzer spesso molto vorticosi.
Monti e Passera non sono diversi da chi li ha preceduti su quella passerella. Anche se, da chi ha fatto della propria “tecnicità” legittimata dalla competenza una specie di mantra, talvolta anche un po’ arrogante nei confronti sia della politica che dei cittadini, ci si sarebbe aspettati un po’ più di sobrietà e di concretezza e meno fumo. Sentirsi dire che c’è la luce in fondo al tunnel suona un po’ come una presa in giro ai milioni di italiani e alle loro famiglie alle prese con la crescita esponenziale della cassa integrazione, alla difficoltà dei giovani di trovare un lavoro e un salario decente, alla difficoltà di molte donne non solo a tenere un lavoro, ma a conciliarlo con la presenza di responsabilità di cura in città costrette a tagliare servizi (e posti di lavoro) che erano già insufficienti. Sono espressioni da campagna elettorale, non da tecnici-politici responsabili e non attratti dalle sirene di un consenso tanto facile, quanto effimero.

La Repubblica 22.08.12

"Le ragazze di Tunisi", di Vanna Vannucci

Le donne che affollavano il palazzo dei Congressi, lunedì scorso, dopo la cena del ramadan, non smettevano di gridare entusiaste mentre il regista Raja Farhat leggeva il Codice dello statuto personale che nel 1956 aveva fissato i diritti della donna tunisina. In migliaia sono sfilate poi sulla via Bourghiba. Donne a capo scoperto, donne velate, bambine con cartelli con su scritto “Gannouchi non toccare i diritti della mamma”, ragazze con il foulard rosso come la bandiera nazionale. Rosso è il colore della rivoluzione che diciotto mesi fa divampò in Tunisia e questa, diciotto mesi dopo, era la più grande manifestazione da allora. Le donne in Tunisia hanno più diritti che in ogni altro paese arabo.

Il fondatore della Repubblica Bourghiba, che certo non era un liberale e — come accadeva spesso in quegli anni negli Stati postcoloniali — creò una dittatura, riconobbe però alle donne la parità, convinto che questo fosse un passaggio obbligato per fare della Tunisia un paese moderno. Da allora le tunisine possono chiedere il divorzio senza aspettare anni come succede in Egitto, non possono essere ripudiate, possono dare il proprio nome al figlio se sono nubili, e possono abortire; la poligamia è proibita, e i matrimoni di ragazze adolescenti si sono ridotti nel tempo al 2 per cento. Si è formata così in Tunisia una classe urbana di donne scolarizzate, professionalizzate, che anche per i despoti come Ben Ali erano un fiore all’occhiello da mostrare all’occidente e far credere di essere progressisti.
Una parola, “complementa-rietà”, ha portato in piazza queste migliaia di donne, e anche molti uomini, nel giorno in cui in Tunisia si celebra la Giornata della Donna: quel 13 agosto del 1956 che vide l’entrata in vigore del Codice di Statuto Personale (quest’anno il governo aveva passato ufficialmente sotto silenzio questa data, ma è stata la società civile a organizzare la manifestazione) . Proprio alla vigilia della Giornata della Donna, infatti, la commissione costituente aveva presentato un progetto per l’articolo 28 della futura costituzione, in cui al posto della parola parità se ne legge un’altra:
complementarietà.
Tradotto in chiaro: la donna viene definita solo in rapporto al maschio. Da sola non esiste più. «Lo Stato garantisce la protezione dei diritti della donna e delle sue conquiste — nella famiglia secondo il principio della complementarietà con l’uomo, e nello sviluppo del Paese al suo fianco»: questo il testo della proposta.
«Ancora è solo uno schizzo, un pre-progetto», si difende Mahrzya Laabadi, deputata di Ennahda e vicepresidente dell’Assemblea costituente, «che va letto nel contesto di altri articoli,
come il 22, che dichiara uomini e donne uguali davanti alla legge». Mahrzya accusa gli altri partiti di fomentare la paura dell’estremismo. Ma le donne tunisine hanno buone ragioni per sospettare che qualcuno voglia limitare i loro diritti.
«Perché la commissione non ha lasciato inalterato il testo com’era stato formulato nel Codice di Statuto Personale?», chiede Noura Borsali, autrice di “La sfida ugualitaria” e membro della Commissione di transizione che aveva lavorato fino all’entrata in vigore dell’attuale governo. Noura arriva trafelata a tarda notte in un caffè sulla via Bourghiba dopo una giornata trascorsa in visite a parenti vicini e lontani, come è costume nel giorno dell’Eid el Fitr, la fine del ramadan. Non voleva rinunciare a far sentire anche all’estero la voce delle donne tunisine, dice, cercando frescura in una limonata ghiacciata. «La parola parità deve entrare nella costituzione, il CSP non va toccato. Qui non si tratta solo di passare dalla dittatura alla democrazia: si tratta di decidere quale società vogliamo avere, e quale posto vi avranno le donne. Siamo state in prima fila nella rivoluzione, e certo non per perdere i diritti di cui avevamo goduto perfino durante la dittatura».
Questi diritti sono ora in pericolo perché il partito islamico moderato Ennahda, che da ottobre guida il governo, è in un dilemma. Da una parte ha bisogno, alle future elezioni previste per la primavera, dei voti del centro, dell’élite urbana che in ottobre ha votato per Gannouchi fidando nelle sue promesse che i diritti acquisiti delle donne o dei laici non sarebbero stati compromessi. Dall’altra ha una parte della propria base elettorale sempre più attratta dalla predicazione radicale dei salafiti. Il primo agosto Ennahda ha presentato alla costituente una proposta di legge sulla blasfemia, che definisce blasfemi e punibili con multe e mesi di prigione qualsiasi parola o gesto che possano «ferire i sentimenti religiosi». Intanto in tutto il paese cresce lo scontento perché il governo perde tempo prezioso nei tentativi di bilanciare democrazia e religione invece di affrontare i drammatici problemi economici del paese. Alle elezioni di ottobre i partiti radicali non erano stati ammessi, ma negli ultimi mesi i salafiti hanno già avuto il permesso di fondarne due.
Il sole picchia implacabile sulla strada polverosa davanti all’ufficio postale di Sidi Bouzid, dove un monumento ricorda il gesto disperato di Mohammed Bouazizi, il giovane che vendeva frutta per mantenere la madre e tre sorelle e che si dette fuoco nel dicembre del 2010 per protestare contro le angherie delle autorità e l’impossibilità di guadagnarsi da vivere. La città è vuota, non un ristorante aperto, e non solo perché è il giorno dell’Eid ma perché l’economia è ferma, ci dicono. Il monumento rappresenta un carretto da venditore ambulante intorno a cui ci sono delle sedie rovesciate, simbolo della caduta del regime di Ben Ali. È il luogo simbolo della primavera araba. Il gesto di Bouazizi è il fanale che sta all’inizio del movimento rivoluzionario che di paese in paese si è poi propagato in tutto il mondo
arabo. La settimana scorsa i sindacati hanno indetto qui uno sciopero generale. Nelle cosiddette “zone sfavorite” della Tunisia profonda, non raggiunte dal turismo e dalle attività economiche costiere,
la disoccupazione ha raggiunto ormai il 70 per cento. Ma anche sulla costa, che l’estate scorsa aveva beneficiato dell’esodo dei ricchi libici e dove era appena ricominciato anche il turismo occidentale, la situazione economica è disastrosa. I disordini provocati dai salafiti negli ultimi mesi hanno impaurito i turisti e gli investitori stranieri. E le prospettive economiche dei giovani, studenti e diplomati, che erano stati il perno della rivoluzione, sono ulteriormente peggiorate.
«Sidi Bouzid ha un problema in più rispetto ad allora, tutta la Tunisia ce l’ha», dice uno studente d’ingegneria che vive a Tunisi ed è tornato a visitare la famiglia per la festa dell’Eid. Accenna al banchetto di un gruppo di salafiti installato a una decina di metri dal monumento. Da quando un partito islamico è al governo i salafiti hanno aumentato il loro peso anche in Tunisia. In queste zone sono gli unici ad avere soldi, che arrivano, dicono tutti, dall’Arabia Saudita. Di l� arrivano anche i nuovi imam che con la forza buttano fuori dalle moschee i vecchi imam che c’erano prima e prendono il loro posto. Non solo in provincia, perfino nella capitale. Con i soldi sauditi i salafiti creano soprattutto asili e nidi d’infanzia, dove i bambini fin da piccolissimi vengono separati per genere. Si tratta di scuole coraniche sottratte a qualsiasi controllo dello Stato. «Anche questo deve cambiare presto», mi dirà, di ritorno a Tunisi, Maya Jeribi, presidente del partito repubblicano. «I salafiti hanno una strategia di lungo periodo. Cominciano dai ragazzini».

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“La lotta alla modernità un’ossessione islamista”, di TAHAR BEN JELLOUN

In Tunisia il partito islamista vincitore delle elezioni, Ennahda, per essere coerente con la sua ideologia non può accettare le libertà di cui gode la donna. È normale quindi che cerchi, se non di abrogare il vecchio codice, quanto meno di modificarlo a gusto proprio, e così rimpiazza la parola «uguaglianza», all’articolo 27, con la parola «complementarietà ». È a seguito di questo primo attacco al testo del 1956 che migliaia di donne sono scese in piazza, il 13 agosto scorso, sventolando cartelli dov’era scritto: «Senza la donna la Tunisia non ha futuro»; sui muri è comparsa questa scritta: «La donna tunisina è libera».
Quando la giovane atleta tunisina Habiba Gribi ha vinto una medaglia a Londra la stampa islamista, invece di rallegrarsene, l’ha criticata perché portava i pantaloncini! Che rapporto c’è fra una vittoria che dovrebbe fare piacere ai tunisini e questo commento idiota sull’abbigliamento dell’atleta? C’è da dire che alcuni Paesi hanno imposto alle loro sportive di portare il velo, e l’organizzazione dei Giochi ha accettato.
Quello che succede in Tunisia è importante, perché Ennahda, in difficoltà sul piano politico e sotto attacco per l’incompetenza dimostrata nel dirigere il Paese e l’incapacità di restituire fiducia alla gente, si sente quasi in obbligo di intervenire sulla condizione della donna. L’islamismo che si sta insediando nella maggior parte dei Paesi arabi punta il primo luogo ad affermare un certo tipo di moralità, di cui la donna rappresenta il perno. Le prediche nelle moschee, gli articoli su certi giornali respingono violentemente qualsiasi concetto di libertà e uguaglianza per la donna. È una vecchia storia, che è cominciata molto prima del 622, l’anno di nascita dell’islam in Arabia. All’epoca i beduini sotterravano vive le neonate: fu l’arrivo dell’islam a mettere al bando queste pratiche barbare.
Oggi la modernità tunisina viene rimessa in discussione e la cosa peggiore è che fra questi islamisti nemici della libertà della donna si trovano anche donne velate convinte che essere musulmane voglia dire sottomettersi al dominio dell’uomo.
La lotta è cominciata. Le tunisine si battono, manifestano, scrivano, filmano e sono decise a non lasciarsi sopraffare. Nel frattempo il governo non riesce a impedire che squadracce isteriche prendano di mira per la strada e nei parchi pubblici giovani coppie di innamorati, così come prendono mira le opere d’arte e i ristoranti e i caffè sospettati di servire alcol ai clienti. Lo Stato è assente. Vedremo alle prossime elezioni presidenziali e legislative quale volto avrà la Tunisia del prossimo futuro. Per il momento la lotta tra la modernità messa in moto dal compianto Bourguiba e la regressione rappresentata da Ennahda è in pieno svolgimento.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 21.08.12

"Chi ha ucciso la mediazione", di Michele Ciliberto

È interessante la relazione di Stefano Zamagni pubblicata su l’Unità, nella quale si sottolinea come la «mediazione» di De Gasperi sia stata alla base del grande sviluppo del Paese. Tanto più colpisce se si pensa alla situazione attuale dell’Italia. Basta guardare alla virulenza con cui è riesplosa in questi giorni la polemica tra politica e magistratura in seguito al conflitto di attribuzione sollevato di fronte alla Corte Costituzionale dal Presidente della Repubblica contro la Procura di Palermo. A Est e a Ovest, ogni parola una fucilata. Non voglio, però, entrare nel merito di questa grave questione ma porre un problema.
Se si volesse individuare un elemento importante della crisi attuale della democrazia italiana si dovrebbe, infatti, parlare anche della decadenza della «mediazione». E quando uso questo termine non mi riferisco a una tecnica della discussione o a uno strumento di tipo strettamente politico, ma a una concezione generale, a un modo di considerare la realtà – compresa la politica – e di intervenire in essa. In modo esplicito o implicito, diretto o indiretto, la mediazione è stata uno dei principi fondamentali che hanno presieduto alla vita della prima Repubblica; mentre nella seconda, soprattuto nella fase della sua decomposizione, sono prevalsi in genere atteggiamenti – e un lessico- che in senso generale si possono definire di tipo «estremistico». Ora, la domanda principale da porsi è questa: perché è tramontata la cultura della mediazione e perché nella seconda Repubblica si è affermata una ideologia «estremistica», fino a trionfare nella fase della sua decomposizione?
In prima approssimazione si può dire che essa è tramontata con la crisi delle culture dell’antifascismo e la fine della politica di massa e dei partiti che hanno strutturato la vita della prima Repubblica. A questi partiti era infatti organico il principio della mediazione per una serie di motivi: erano interclassisti con una forte consapevolezza dell’«intero», ma con una altrettanto vigorosa attenzione per le «parti» e per la loro specifica autonomia. In questo senso erano partiti naturaliter statali, attenti alla complessità e alle dinamiche della società civile (e questo riguardava,sia pure in forme diverse, sia quelli di matrice cattolica che quelli di matrice marxista). Erano poi partiti imperniati nella tradizione dell’antifascismo, e quindi con una forte considerazione per il bene comune, per l’interesse generale e anche per l’etica pubblica. In questo contesto la mediazione operava in due sensi: come strumento di articolazione dell’«intero» e come condizione della sua apertura verso orizzonti più larghi e condivisi.
Naturalmente sto parlando dell’epoca aurea di questi partiti, prima dei processi di corruzione e disgregazione che portarono alla seconda Repubblica, quando questo impianto saltò completamente ed il principio della mediazione venne prima contestato in modo frontale, poi ridotto a una caricatura di se stesso. Non intendo però soffermarmi né sulle ragioni di questa degenerazione né sulla fenomenologia, ben nota, di questo ribaltamento. Mi interessa guardare al futuro, non al passato. Quelle che, nel periodo berlusconiano, entrano in profonda crisi insieme al principio della mediazione, sono le forme della rappresentanza e della partecipazione democratica, a tutti i livelli. Il Parlamento viene ridotto a una cassa di risonanza del potere esecutivo, mentre il potere giudiziario, sottoposto a una delegittimazione quotidiana, si difende con tutte la sue forze ingaggiando una dura battaglia. I partiti diventano strumenti in mano ai singoli leader, con l’eccezione del Pd che si sforza di ristabilire un rapporto con il proprio elettorato attraverso lo strumento delle primarie, ricorrendo cioè alla democrazia diretta. Risorsa importante, certo, ma non tale, almeno a mio giudizio, da riuscire da sola a contrastare la crisi della nostra democrazia che oggi è drammatica.
Quello che oggi abbiamo di fronte è infatti un terreno pieno di macerie, nel quale la rappresentanza democratica appare, per molti aspetti, disgregata e frantumata. È questo il punto che mi interessa mettere a fuoco: si tratta, infatti, di un fenomeno assai vasto che si è manifestato, in tutta la sua portata, nella fase terminale della seconda Repubblica attraverso un processo di «feudalizzazione» del potere in molti gangli della società italiana. Mentre i partiti e la politica attraversavano una fase di profonda difficoltà – resa poi evidente dall’avvento del governo tecnico (del tutto estraneo, sia detto tra parentesi, alla cultura della mediazione) – nel Paese si è formata una serie di nuovi centri di potere grandi e piccoli che, muovendosi nelle macerie della rappresentanza democratica, procedono in modo autonomo seguendo proprie logiche e propri obiettivi ed usando comportamenti e lessici coerenti e funzionali alle loro strategie.
In questa situazione di crisi e di decadenza risaltano con evidenza i compiti che le forze democratiche hanno oggi di fronte, dopo l’incendio appiccato da Berlusconi e alimentato dai suoi vari «epigoni»: ristabilire le fondamenta della democrazia rappresentativa, ridare credibilità e legittimità al Parlamento anche come luogo di formazione delle élite, ricostituire l’equilibrio dei poteri, dar vita a un governo politico chiudendo la stagione dei tecnici e ripensare, anche, in una nuova prospettiva i rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Nel nostro Paese, bisogna prenderne atto, si è riaperto in forme drammatiche il problema della «sovranità», e nel pieno di una crisi internazionale che mette in questione la stessa esistenza dell’Europa, di cui l’Italia è stata, e deve essere, un perno costitutivo. Lo ribadisco perché questo è il problema di fondo da risolvere se si vuole uscire dalla crisi e evitare la decadenza: un compito immenso.
Ma accanto a questi, se si vuole sconfiggere l’ideologia «estremistica», occorre lavorare per ristabilire un altro principio anch’esso travolto dal berlusconismo, a prima vista meno significativo ma decisivo invece se si vuole avviare una nuova fase della Repubblica: il reciproco riconoscimento degli interlocutori, delle loro posizioni, anche dei loro «principi» (quando ci siano, naturalmente, il che non è scontato). Ed è in questo quadro che torna a risaltare la funzione, e il significato, della mediazione. Intendiamoci: mediazione non come rispecchiamento della situazione, né come acquiescenza allo stato di fatto. Ma come capacità di stabilire un punto di equilibrio dinamico tra esigenze e posizioni contrastanti, a volte in modo radicale, producendo una nuova situazione nella quale esse possano essere riconosciute e anche potenziate nella loro specificità e, al tempo stesso, configurarsi come momento di un nuovo più avanzato e condiviso punto di vista. Mediazione, in breve, come strumento per mettere in relazione «opposti» che sembrano irriducibili e incompatibili. E a questo proposito conviene sgombrare il campo da un equivoco concernente il bipolarismo: come non c’è rapporto tra estremismo e bipolarismo, così non c’è contrasto fra mediazione e bipolarismo. Ne abbiamo una verifica precisa sotto gli occhi: il bipolarismo della seconda Repubblica è stato, in effetti, una forma di trasformismo; mentre la mediazione è il contrario del trasformismo perché presuppone il riconoscimento dell’altro nella sua determinazione e specificità per potersi realizzare. Mediazione, dunque, in senso classico: del resto, a che servono i classici se non a farci mettere meglio a fuoco le strutture profonde del nostro tempo e i compiti che abbiamo di fronte?

L’Unità 21.08.12

"Clima, gli scettici hanno torto", di Richard A. Muller

Posso definirmi uno scettico convertito. Tre anni fa, esaminando gli studi esistenti sul cambiamento climatico vi ho rilevato elementi discutibili, tali da farmi mettere in dubbio l’esistenza stessa del riscaldamento globale. Lo scorso anno, al termine di una ricerca che ha coinvolto una dozzina di scienziati, sono giunto alla conclusione che il riscaldamento globale è una realtà e che le stime sul tasso di riscaldamento erano effettivamente corrette. Oggi vado ancora oltre e affermo che la responsabilità del riscaldamento globale va attribuita quasi in toto agli esseri umani. Devo il mio repentino voltafaccia all’analisi attenta ed obiettiva realizzata dal progetto Berkeley Earth Surface Temperature. Dai dati raccolti emerge che la temperatura media del suolo terrestre è cresciuta di 2,5 gradi Fahrenheit nel corso di 250 anni, con un aumento di 1,5 gradi negli ultimi cinquanta. Cosa ha provocato il graduale sistematico aumento di due gradi e mezzo? Fino a che punto si può attribuire con certezza la responsabilità del riscaldamento globale agli uomini? La Commissione intergovernativa Onu (IPCC), deputata a fare il punto sull’opinione generale in campo scientifico e diplomatico relativamente al cambiamento climatico nel suo rapporto 2007 si era limitata a concludere che il riscaldamento dei 50 anni precedenti poteva essere attribuito in massima parte alle attività umane, mentre prima del 1956 la causa poteva essere identificata nelle variazioni dell’attività solare. Il riscaldamento aveva quindi in parte significativa origine naturale. Il programma Berkeley Earth ha utilizzato sofisticasti metodi statistici che ci hanno consentito di stabilire la temperature del suolo terrestre in tempi assi più remoti. Abbiamo analizzato con attenzione le obiezioni sollevate dagli scettici riguardanti il riscaldamento urbano (abbiamo ottenuto gli stessi risultati usando esclusivamente dati riferiti alle aree rurali) la selezione dei dati (ricerche precedenti avevano selezionato solo il 20% delle stazioni di rilevamento della temperatura, noi in pratica il 100%), la scarsa affidabilità delle stazioni (noi abbiamo analizzato separatamente le stazioni valide e quelle meno valide) l’intervento umano e l’adattamento dei dati (l’elaborazione dei dati nella nostra ricerca segue procedure totalmente automatizzate che non prevedono l’intervento umano).
La curva della CO2 costituisce la miglior corrispondenza tra quelle esplorate. È congrua rispetto all’effetto serra calcolato — ulteriore riscaldamento dovuto alle radiazioni del calore intrappolato dai gas serra. Questi dati non costituiscono prova di nesso causale e non dovrebbero eliminare lo scetticismo, ma, metaforicamente, alzano l’asticella: per essere considerata seria una spiegazione alternativa deve come minimo basarsi su una corrispondenza valida quanto quella della curva della CO2. Inserendo nell’analisi anche il metano, un altro gas serra, i risultati non cambiano. Inoltre la nostra analisi non si affida a grandi e complessi modelli climatici, a programmi computerizzati notoriamente basati su premesse occulte e parametri modificabili. I nostri risultati nascono semplicemente dalla stretta concordanza tra l’andamento dell’aumento di temperatura osservato e l’incremento registrato delle emissioni di gas serra. Una buona dose di scetticismo rientra tra i doveri dello scienziato. Tuttora a mio parere gran parte, se non la prevalenza, degli effetti attribuiti al cambiamento climatico sono ipotetici, esagerati, o semplicemente falsi.
Ho analizzato alcune delle tesi più allarmistiche e resto scettico a riguardo. Non si può attribuire al riscaldamento globale un evento come l’uragano Katrina. Il numero degli uragani che hanno colpito gli Usa è diminuito, non aumentato e lo stesso vale per i tornado di forte intensità. Gli orsi polari non muoiono per via della regressione dei ghiacciai e i ghiacciai himalayani non sono destinati a sciogliersi entro il 2035. È ben possibile che le temperature di oggi non siano diverse da quelle di un migliaio di anni fa, durante il “periodo caldo medioevale” o “ottimo medioevale”, una fase climatica nota da dati storici e da prove indirette come gli anelli di crescita degli alberi.
Per quanto riguarda il futuro, la temperatura dovrebbe continuare a salire con l’aumento delle emissioni di CO2. Prevedo che il tasso di riscaldamento si mantenga costante nei prossimi 50 anni, pari a circa 1,5 gradi al suolo, qualcosa di meno se si includono gli oceani. Ma se l’economia cinese continuerà a crescere rapidamente (il 10 per cento l’anno in media nell’ultimo ventennio) con l’attuale ampio utilizzo di carbone (in genere il consumo aumenta di un gigawatt al mese) si potrebbe registrare lo stesso riscaldamento in meno di vent’anni.
La scienza è un ambito di conoscenze limitate universalmente accettate in principio. Il difficile verrà dopo, quando si tratterà di trovare un accordo politico e diplomatico sulle possibili iniziative da intraprendere.
© 2012 The New York Times Traduzione di Emilia Benghi

La Repubblica 21.08.12

"Sotto le Due Torri in 17mila rischiano di perdere il posto", di Giulia Gentile

Oltre 17mila dipendenti di diversi comparti, dal tessile al metalmeccanico, al commercio, fino all’agroalimentare e alla comunicazione, tartassati sotto le due Torri da una situazione di grave incertezza lavorativa, perché impiegati in aziende in cassa integrazione ordinaria o straordinaria, in mobilità, o che hanno ridotto i propri orari di produzione. E decine e decine di imprese che, se a settembre, riusciranno a riaprire i battenti dopo la pausa estiva, si troveranno comunque nella condizione di non essersi ancora rialzati dalla crisi, ma di non poter più accedere agli ammortizzatori sociali perché già utilizzati al massimo. Per il segretario cittadino della Cgil Danilo Gruppi è ancora «sconfortantissimo» il quadro del lavoro bolognese, all’indomani del decesso a Roma di Angelo Di Carlo, forlivese d’adozione che dopo settimane senza un impiego si era dato fuoco davanti a Montecitorio, la notte fra l’11 e il 12 agosto. Il 5 settembre, alla Camera del lavoro di via Marconi arriverà il segretario Susanna Camusso. E all’assemblea dei delegati di tutte le categorie, la Cgil deciderà «le strategie di lotta per l’autunno». Siamo «al quinto anno di crisi – ricorda Gruppi -, e la cifra media è quella di una contrazione fortissima» dei bilanci d’azienda e di «una forte ripresa delle richieste di cassa integrazione e di messa in mobilità. Se le politiche del governo Monti resteranno le stesse, non ci resterà che proclamare lo sciopero generale per tutte le categorie, come già annunciato dal settore pubblico». LA RETE D’ASCOLTO DEL COMUNE Intanto però, anche il Comune si mette in moto per mettere una pezza ad un welfare pressoché smantellato dalle ultime manovre finanziarie di Roma, e dal decreto governativo sulla spending review, il contenimento della spesa pubblica. In arrivo da Palazzo d’Accursio, un progetto ad hoc di messa in rete di varie realtà dell’economia e dell’associazionismo cittadino, dalla Camera di commercio ad Unindustria, passando per Cna, per offrire ai cittadini riferimenti e punti d’ascolto per consulenze finanziarie e legali: una sorta di “salvagente” anticrisi per cercare di sventare casi drammatici come quello di Giuseppe Campaniello, artigiano di Ozzano Emilia che a fine marzo si diede fuoco davanti agli uffici delle commissioni tributarie, perseguitato dalle cartelle esattoriali. «Ogni associazione che ha dato la propria disponibilità ha detto che “pezzo” di progetto potrà fare – conferma l’assessore comunale al Welfare, Amelia Frascaroli -, e in particolare se ne occuperà il settore lavoro-attività produttive del Comune». Un modo per venire incontro anche ai tanti lavoratori che, con un posto di lavoro in bilico e lo stipendio che non sempre arriva, si vedono mettere in discussione anche la casa. Mentre, per il primo anno, anche Palazzo d’Accursio ha dovuto rinunciare al suo bando per i contributi pubblici antisfratto, visti i tagli ai trasferimenti da Roma agli Enti locali. «Anche sull’affitto e contro gli sfratti stiamo cercando di mettere a punto delle cose – dice ancora Frascaroli – ma preferisco parlarne quando saremo pronti». I DATI deLLA CRISI Stando ai dati aggiornati, dalla Cgil di Bologna, a prima dell’estate, sono 642 le aziende del territorio che usufruiscono di cassa integrazione ordinaria o straordinaria, “normale” o in deroga. Il comparto più colpito dalla crisi è il metalmeccanico, con quasi 12mila dipendenti colpiti da mobilità, cassa o riduzione dell’orario di lavoro. A seguire, il settore del commercio e dei servizi, che vede ad esempio 1090 dipendenti in cassa ordinaria e straordinaria in deroga. «E molte imprese – sottolinea Gruppi – si troveranno davanti ad un punto di non ritorno: avranno finito gli ammortizzatori sociali, me la congiuntura economica sarà ancora molto grave».

L’Unità/Bologna 21.08.12

"La resa dei conti in Germania", di Andrea Bonanni

C’è una doppia partita che si sta giocando sul futuro dell’euro in vista di un settembre che si preannuncia caldissimo. La prima riguarda la Grecia e la possibilità che Atene resti nella moneta unica. La seconda, molto più importante, riguarda il ruolo e il margine di azione della Bce, dopo che Draghi ha annunciato che la Banca centrale interverrà «con tutti i mezzi» a difesa della moneta unica e per contenere la speculazione sugli spread. Attorno a queste due questioni si stanno mobilitando le cancellerie europee con un calendario di colloqui e di incontri molto intenso. Giovedì ci sarà un vertice Merkel-Hollande. Venerdì un incontro della Cancelliera con il premier greco. Poi a fine mese la visita di Monti a Berlino. I ministeri dell’economia dei diciassette membri della zona euro sono in contatto quotidiano, e così pure i ministeri degli esteri. Peccato però che, nonostante la grande fibrillazione nelle capitali europee, le due partite si giochino di fatto tutte in territorio tedesco. E che i falchi d’Oltralpe schierati nell’ultima battaglia contro l’euro stiano usando la questione greca per mettere in difficoltà la Merkel e impedirle di mantenere la strada spianata sul cammino di Draghi e della Bce.
Ormai, dopo oltre due anni di crisi, il percorso per salvare la moneta unica, così come è stato tracciato da Mario Draghi, è abbastanza chiaro. La Banca centrale europea si tiene pronta a intervenire per contenere gli spread a tre condizioni. La prima è che i Paesi sotto attacco mantengano tutti gli impegni di risanamento sottoscritti. La seconda è che chiedano l’intervento del Fondo salva Stati sottoponendosi così alla sorveglianza europea. La terza è che i diciassette membri dell’eurozona si impegnino ad un percorso di progressiva integrazione. Le tappe di questo percorso saranno definite tra ottobre e dicembre, ma comunque prevedono, nell’ordine, una Unione bancaria, una Unione di bilancio e, a più lunga scadenza, una Unione politica. In parallelo con questo processo l’Europa procederà ad una progressiva federalizzazione del debito pubblico accumulato dai governi nazionali.
Il problema è che in Germania ci sono forze rilevanti, nel sistema finanziario e in quello politico, che si oppongono a questo disegno. Non vogliono che la Bce acquisti titoli di stato dei Paesi più deboli. Non vogliono una Unione bancaria che metta in comune la copertura dei rischi dei vari sistemi di credito nazionali e che affidi la supervisione delle banche nazionali alla Banca centrale. E soprattutto non vogliono sentir parlare di federalizzazione del debito e di euro-bond. Ieri il bollettino mensile della Bundesbank, la banca di stato tedesca, è stato esemplare: l’acquisto di bond da parte della Bce «aumenterebbe i rischi sistemici», e anche una Unione bancaria che metta in comune la copertura dei rischi del sistema finanziario europeo è considerata un anatema inaccettabile.
In teoria, queste posizioni sono minoritarie, non solo in Europa ma anche in Germania. Ai primi di agosto la Bundesbank si è trovata completamente isolata nell’opporsi al programma di Draghi in seno al Consiglio della Bce. E la stessa Cancelliera difende il programma del presidente della Banca centrale europea dalle critiche della Banca centrale tedesca. In Germania il mondo politico e l’opinione pubblica sono divisi tra chi vorrebbe tutelare l’ortodossia monetaria e i vantaggi che essa garantisce alle finanze tedesche, e chi, come gli industriali, si rende conto che un tracollo dell’euro costerebbe troppo caro anche all’economia di Berlino. In questo quadro la Merkel, ad un anno dalle elezioni politiche, sta cercando una difficile mediazione, che non la isoli troppo in Europa, che consenta di salvare l’euro ma che al contempo offra sufficienti garanzie di buon governo dei conti pubblici a livello europeo.
Per cercare di fermare la Cancelliera, i falchi non hanno trovato di meglio che gettarle tra i piedi la mina greca. E si tratta di una mina potente, perché la Grecia, con i suoi ripetuti fallimenti nel mantenere gli impegni presi, è diventata la vera bestia nera dei tedeschi. Perfino le sinistre, in Germania, si sono dette contrarie a nuove concessioni ad Atene. Ora la Grecia, se vuole evitare la bancarotta e restare nella moneta unica, ha bisogno di una proroga di almeno due anni rispetto al programma di risanamento che le era stato imposto, e quindi di un allungamento dei prestiti che le sono stati concessi. Ma in Germania nessuno è più disposto a sborsare un solo euro per salvare Atene.
Si tratta di un problema la cui dimensione finanziaria è tutto sommato irrisoria, ma le cui implicazioni emotive, e dunque politiche, sono enormi. E di fronte al quale la Merkel si trova con le spalle al muro. Se accettasse di aiutare ancora una volta Atene, perderebbe tutto il consenso di cui gode, e metterebbe a rischio la propria rielezione. Ma se sacrificasse la Grecia sull’altare della propria opinione pubblica interna, sottoporrebbe l’euro a un nuovo durissimo colpo, che potrebbe mettere in pericolo il programma di salvataggio disegnato da Draghi.
Almeno per ora, la soluzione a questo dilemma non è in vista. Ma la giostra frenetica di incontri politici che la Cancelliera ha in programma nei prossimi giorni non servirà tanto a districare la questione greca o la battaglia sulla Bce, ma piuttosto a delimitare il perimetro della resa dei conti interna che si sta profilando in Germania. E che appare ormai inevitabile.

La Repubblica 21.08.12