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"Il tradimento dei liberali", di Francesco Cundari

Esclusi forse soltanto un paio di gruppuscoli nazi-maoisti o anarco-insurrezionalisti, nell’Italia degli ultimi vent’anni non c’è stato partito, rivista, associazione, leader politico o intellettuale che non abbia dichiarato la propria convinta appartenenza alla tradizione liberale. Tra tanti figli inattesi di quell’antica scuola di pensiero, tutti reclamanti la propria diretta discendenza da John Locke e Benedetto Croce, basta citare due nomi per dare un’idea immediatamente comprensibile di quale deformazione abbia subito il concetto nel corso di questi anni: Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro.
Solo se si parte da questo paradosso, alimentato per un ventennio dall’intero circuito del dibattito politico e culturale della Seconda Repubblica, si capisce la ragione dello scontro in atto sulle intercettazioni, che investe oggi persino la presidenza della Repubblica: unica istituzione democratica che in questi vent’anni di sovversivismo istituzionalizzato si era riusciti, seppure faticosamente, a mettere al riparo da quella lotta senza regole e senza principi in cui è precipitato il confronto politico. Il che è peraltro l’esatto contrario di qualunque possibile idea liberale di ordinamento civile, Stato di diritto, equilibrio e divisione dei poteri. Ma per cogliere il senso di questa inesorabile vendetta della storia bisogna prima misurare l’affronto che le è stato fatto.
Ridurre tutto allo scontro tra berlusconismo e dipietrismo sarebbe profondamente ingiusto. Né l’uno né l’altro avrebbero avuto il peso che hanno avuto se con il crollo della Prima Repubblica non fosse venuto meno ogni argine e ogni anticorpo, anzitutto tra gli intellettuali. Negli ultimi due decenni in Italia, e forse non solo in Italia, il vero «tradimento dei chierici» è stato infatti il tradimento dei liberali. Non per niente, i più insigni rappresentanti di quella tradizione, specialmente tra i commentatori, si trovano oggi in enorme imbarazzo.
E giustamente. Al momento del tracollo della Prima Repubblica, prima hanno favorito la brutale torsione in chiave presidenzialistica e personalistica della Costituzione, dei partiti, di ogni norma, principio o struttura intermedia che si frapponesse alla logica della «governabilità» e dello spoils system; travolgendo così ogni idea di mediazione, compromesso, dialettica e reciproco bilanciamento tra poteri. Poi, quando Silvio Berlusconi raccoglieva i frutti di questa semina, se non gli si accodavano, pretendevano di combatterlo con gli stessi metodi e in nome degli stessi principi, non volendo ammettere nemmeno a se stessi che il Cavaliere rappresentasse la più fedele incarnazione del sistema politico da essi teorizzato e legittimato.
Non c’è una sola delle aberrazioni giuridiche e civili ripetute oggi dai sostenitori delle varie teorie del complotto contro il Quirinale e contro la politica tout court di cui il Corriere della Sera non detenga il copyright, dalla campagna contro la «casta» all’uso di verbali di intercettazione penalmente irrilevanti al fine di screditare i propri avversari. La stessa invenzione del genere “articolo di giornale interamente costituito da verbali d’intercettazione” non si deve al Fatto quotidiano, ma al Corriere della sera; in questo, va detto, subito seguito da Repubblica, Stampa e via elencando. La sua data di nascita si può individuare facilmente nell’estate del 2005, quando bersagli della campagna erano il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, l’Unipol di Giovanni Consorte e tutti coloro che avevano avuto l’ardire di minacciare il fragilissimo equilibrio di potere del nostro capitalismo finanziario. Come le successive sentenze hanno dimostrato, in quella virulenta battaglia, nessuna deformazione della realtà, nessuna strumentalizzazione, nessuna forma di manipolazione è stata risparmiata al lettore. In nome della trasparenza e del diritto di cronaca si è affermato persino il diritto di riportare sui giornali gli sms personali della fidanzata di un finanziere impegnato nella scalata al Corriere della sera, per poi farle pure la morale sullo stile e l’ortografia. Simili strumenti sono stati usati e difesi, con ogni evidenza, anche contro Silvio Berlusconi, il quale da parte sua avrebbe ragione di lamentarsene, se non avesse fatto lo stesso con i suoi avversari interni ed esterni, come dimostra la vicenda proprio dell’illegale intercettazione di Piero Fassino al telefono con l’allora capo di Unipol (per non parlare del trattamento riservato a Dino Boffo prima e a Gianfranco Fini poi).
Dopo avere fatto un simile commercio di verbali, riempiendoci anche dieci o quindici pagine al giorno, come si può oggi scandalizzarsi dinanzi a chi vorrebbe far valere anche per il Capo dello Stato gli stessi principi fatti valere finora per manager, parlamentari e presidenti del Consiglio?
L’uso intimidatorio, ricattatorio o semplicemente denigratorio dei verbali d’intercettazione dovrebbe essere condannato sempre, che ci capiti di mezzo una ballerina o un capo di governo. Ma è una vergogna cui siamo purtroppo abituati, perché in questi anni, in Italia, è stato uno degli strumenti più utilizzati nella lotta per il potere. Una lotta che non ha avuto e non ha ancora oggi nulla, ma proprio nulla, di «trasparente».
Rispetto delle isituzioni, senso dello Stato e insieme senso del limite che la stessa autorità dello Stato non può mai valicare, dinanzi all’inviolabilità della persona, della sua sfera più intima, delle sue comunicazioni; rifiuto categorico e persino aristocratico per ogni forma di demagogia e populismo; severa concezione dei diritti e dei doveri di ogni cittadino senza concessioni alle mode o agli interessi contingenti. Non era questa l’essenza della cultura liberale, assai prima e assai più che la fede cieca nel mercato o l’idiosincrasia per i sindacati e ogni forma di intervento pubblico? E non dovrebbero ripartire da qui i tanti liberali di oggi, e prima di tutti coloro che dicono di ispirarsi a De Gasperi e alla tradizione cristiana?

l’Unità 21.08.12

"Imprenditori: la tentazione della fuga", di Michele Brambilla

Si parla spesso della fuga dei nostri cervelli all’estero: professori, scienziati, ricercatori. Ma si parla pochissimo di un’altra fuga che in tempi rapidi potrebbe drammaticamente diventare un esodo di massa: quella dei nostri imprenditori. In fondo tra le due fughe c’è una strettissima parentela: anche gli imprenditori italiani sono «cervelli». In mancanza di grandi materie prime, di una moneta forte e di una politica all’avanguardia, per decenni le nostre imprese si sono distinte nel mondo proprio per questa caratteristica che tutti ci riconoscono: un particolare ingegno.

Nell’ultimo mese e mezzo ho fatto, per «La Stampa», un giro in provincia. È un territorio spesso trascurato dai grandi organi d’informazione, che leggono la realtà italiana quasi esclusivamente in un’ottica romana (la politica), o milanese (Piazza Affari), o comunque delle grandi metropoli. Girando per la provincia si ha invece un’impressione del Paese molto diversa da quella che emerge dalla lettura delle prime pagine o da quei tragici bollettini di guerra che sono le scalette dei gr e dei tg. Girando per la provincia si ha l’impressione di un Paese molto più vitale di quell’Italia in stato precomatoso – o meglio, prefallimentare – in cui ci hanno convinti di vivere.

Nel Nord-Est, in Emilia, nella Bergamasca, nel Bresciano ho trovato imprese non solo sane, ma anche in grado di sapersi adattare alla crisi. Abbiamo aziende che producono ingranaggi che la mitica industria meccanica tedesca non è in grado di realizzare; in Romagna c’è un’azienda che ai tedeschi vende le macchine per spillare la birra; il nostro agroalimentare è ancora il migliore del mondo. «Nessuno», mi diceva Riccardo Illy, «è superiore agli italiani nell’industria del gusto, nella moda e nel tessile, nel lusso, nel design, nella meccanica», e potremmo aggiungere molte altre cose.

Eppure, siamo uno dei Paesi più considerati «a rischio». Ma perché? «Se fosse per noi non avremmo problemi», mi diceva il presidente degli industriali di Parma, dove nei primi sei mesi di quest’anno l’export è cresciuto del dodici per cento e perfino l’occupazione ha fatto registrare un segno più. Anche in Veneto, o a Bergamo, o a Brescia, ti dicono così: «Se fosse per noi».

Ma non dipende solo da loro. C’è certamente il contesto internazionale: l’euro, lo spread, gli imprevedibili e indecifrabili «mercati». Ma c’è soprattutto la politica di Roma: le mancate riforme, la perenne incertezza. È questa che gli imprenditori vedono, ormai, come principale nemica.

Soprattutto al Nord, sta montando un sentimento anti-statale che non ha nulla a che fare con il leghismo di vent’anni fa: è una sfiducia nelle istituzioni, è un percepire lo Stato come un bastone fra le ruote. Di questo sentimento a Roma evidentemente non si sono accorti: si sta lì ancora discettare su chi sarà il leader del centrosinistra, sul ritorno di Berlusconi, su dove andrà l’Udc, su cosa farà Fini senza trascurare le mosse della corrente di Briguglio.

Ieri Passera ha detto che in Italia la tassazione è troppo alta: giusto, ma gli imprenditori non aspettano altro che si passi dalle parole ai fatti. Mi diceva un imprenditore bergamasco – settore riscaldamento, trentasei milioni di fatturato all’anno – che la Turchia gli ha offerto otto anni di costo del lavoro quasi a zero se si trasferisce là. Nel Modenese, dove l’economia è ancora ferma per il terremoto ma anche per i mancati interventi dello Stato, ci sono emissari di Austria, Croazia e Slovenia che fanno ponti d’oro alle imprese danneggiate dal sisma affinché emigrino da loro. Quanti sapranno resistere?

E attenzione. Sbaglierebbe chi pensasse che, a tentare gli imprenditori, sia solo il miraggio di un costo del lavoro più basso e di meno tasse. Per gli imprenditori il cancro vero è l’incertezza normativa. O, paradossalmente, la certezza che le norme cambieranno di continuo: a ogni cambio di governo o anche di ministro o di sottosegretario. Ci sono aziende che si spostano in Svizzera, dove il costo del lavoro è elevato e i controlli dello Stato rigorosi, pur di avere la possibilità di pianificare un futuro.

Questa è oggi la vera emergenza italiana: trattenere la nostra imprenditoria. È un’imprenditoria ricca di talenti, a volte disposta – soprattutto in provincia – a mettere a rischio anche la casa di famiglia. Certamente è anche un imprenditoria che fa i propri interessi. Ma mai come in questo momento i loro interessi sono quelli di tutti. Se i nostri imprenditori scappano, non ci sarà governo tecnico o banche centrali europee a poterci salvare. Sta alla politica evitare un simile disastro.

La Stampa 21.08.12

"Atenei, il quiz è un affare trionfa il numero chiuso", di Salvo Intravaia

Non saranno soltanto aspiranti camici bianchi, insegnanti e architetti a dovere fare i conti col quizzone ministeriale per accedere all’università. A settembre, uno studente su due dovrà cimentarsi con un lungo elenco di domande se vorrà frequentare la facoltà desiderata: in pratica, oltre 200 mila neodiplomati, per un “giro d’affari” per gli atenei pari a 10 milioni. Oltre ai corsi di laurea a numero programmato (chiuso) a livello nazionale — Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Professioni sanitarie e Architettura — sono in aumento i corsi universitari che prevedono lo sbarramento del test. Prendendo in considerazione le sole università statali, a settembre più di metà dei corsi sarà a numero chiuso: il 27 per cento a programmazione nazionale e il 27,2 per cento con programmazione locale degli accessi. Per affrontare il test si pagano da 50 a 100 euro “non rimborsabili” e i maligni ritengono che questo sia un modo anche per fare cassa. Una settimana fa, il rettore dell’università di Palermo, Roberto Lagalla, ha annunciato che nel capoluogo siciliano da quest’anno tutti i corsi universitari saranno a numero chiuso. «Sono almeno due i motivi che ci hanno spinto a programmare l’accesso a tutti i corsi di studio per il prossimo anno», spiega Lagalla. «Il primo — continua — riguarda i nuovi criteri di accreditamento dei corsi che prevedono un certo rapporto tra docenti e studenti. In sostanza, se vogliamo mantenere un certo standard di qualità, siamo obbligati a programmare gli accessi. Il secondo motivo è dettato da un credibile rapporto tra numero di laureati e potenzialità occupazionali ».
Una spiegazione che convince poco gli studenti. «L’Italia è il paese d’Europa con il minor numero di laureati ogni 100 abitanti e l’Ue ci chiede di raddoppiare questi i numeri in pochi anni — spiega Michele Orezzi, portavoce dell’Unione degli universitari — ma gli ultimi governi non hanno fatto altro
che aumentare gli ostacoli all’accesso universitario. E, approfittando della riforma Gelmini, i corsi a numero chiuso si sono moltiplicati, con università che hanno fatto proliferare i test d’ingresso per incassare soldi dagli studenti». «La cosa paradossale — continua Orezzi — è che questi sbarramenti coinvolgono anche corsi che formano figure, come i laureati in Farmacia, di cui il nostro paese ha assolutamente necessità».
In effetti, l’accesso a Farmacia è ormai a numero programmato in tutti gli atenei italiani. Nelle regioni settentrionali i corsi a numero chiuso decretati localmente sono 27 su cento mentre al Centro “appena” il 16,9 per cento. È nelle aree meridionali che il tasso schizza al 35,5 per cento: il doppio che nelle regioni dell’Italia centrale. Su un totale di 2.274 corsi di primo livello e a ciclo unico funzionanti nelle università statali, quelli a numero chiuso sono 1.231: il 54,2 per cento. Per coloro che intendono iscriversi a Scienze matematiche o informatiche, a settembre, la strada è abbastanza pianeggiante: solo il 13 per cento dei corsi è a numero chiuso. Ma appena si passa a Scienze chimiche i corsi a numero chiuso aumentano: il 55 per cento. Per toccare quasi il 90 per cento per coloro che si voglio iscrivere a Farmacia, Biotecnologie, Scienze biologiche e Biologia. L’accesso alla facoltà di ingegneria è abbastanza agevole — due terzi dei corsi sono ad accesso libero — e si registrano corsi a numero chiuso anche in Lettere — nel 20 per cento dei casi — e Filosofia: nel 30 per cento dei casi. I più facilitati sono coloro che invece desiderano vestire la toga: solo il 7 per cento degli accessi a Giurisprudenza è a numero chiuso.

La Repubblica 21.08.12

"Fuoricorso: le tasse più alte colpiscono gli studenti lavoratori", di Andrea Cammelli*

Il recente provvedimento del Governo sulle tasse più alte per i fuoricorso, in base al reddito, fa molto discutere. Così come si moltiplicano gli interventi degli atenei a favore di chi è bravo. Ma per affrontare questi temi, occorre prima leggere la realtà attraverso i numeri: secondo i dati AlmaLaurea tra i laureati 2011 i fuoricorso sono il 62% nei percorsi triennali, il 52,8% in quelli biennali e il 65% nelle lauree a ciclo unico. Tutti uguali? Non è così, come vedremo.
Senza dimenticare che nel 2000, prima dell’avvio della riforma, fuori corso erano 90 laureati su 100.
Undici anni dopo, distinguendo fra chi studia e lavora (magari per mantenersi agli studi) e chi studia soltanto, emerge che fra i laureati di primo livello del 2011 a dedicarsi esclusivamente allo studio, sono soltanto 27 su cento.
Degli altri, quasi il 10% conclude gli studi avendo lavorato continuativamente, a tempo pieno, per almeno la metà del percorso universitario; altri 64 su cento hanno avuto esperienze lavorative durante gli anni di studio.

Il ragionamento sarebbe diverso se le università avessero introdotto quelle «apposite modalità organizzative delle attività formative per studenti non impegnati a tempo pieno» previste fin dal 1999 dalla riforma universitaria (decreto ministeriale 509).
La documentazione del Miur ci restituisce, per l’anno 2010-11, un quadro assai poco confortante: il complesso degli iscritti a tempo non pieno supera di poco il 2 per cento.
Con poche eccezioni: cira il 20% al Politecnico di Torino e all’Università di Macerata, il 16% al Politecnico di Milano e il 16% a Cassino.
Circoscrivendo l’approfondimento ai soli laureati che si sono dedicati esclusivamente agli studi, differenziandoli per tipo di studi e appartenenza sociale della famiglia, si evidenziano diversità consistenti.
A risultare fuori corso fra i laureati triennali è poco meno del 13 per cento.
E tra questi prevalgono gli studenti di classe media (31%) e medio alta (20%).
Profonde sono le differenze per gruppi disciplinari: “allunga” negli studi il 20% dei laureati in ingegneria e del percorso geo-biologico, e circa il 9-10% dei laureati nel gruppo politico-sociale e in quello insegnamento.
Tutti i valori si riducono poi significativamente se l’approfondimento riguarda i soli laureati fuori corso da almeno due anni: la popolazione dei fuori corso si riduce a meno del 6%, ancora una volta con consistenti differenze fra gruppi disciplinari (attorno al 10% fra i laureati del percorso geo-biologico, ingegneristico e giuridico, e meno del 4% fra quelli delle professioni sanitarie e di educazione fisica).
Fra i laureati magistrali i fuori corso si riducono all’11% (e scendono al 3% escludendo i fuori corso di un anno); anche in questo caso con notevoli differenze fra i percorsi di studio: sfiorano il 20% i laureati in ingegneria e legge, non arrivano al 2% i pochi laureati delle professioni sanitarie e in educazione fisica.
Fra i laureati magistrali a ciclo unico la consistenza dei fuori corso riguarda 20 laureati su cento (il 12% senza i ritardatari di un solo anno) senza particolari differenziazioni.
Il 40% dei giovani fuori corso sono provenienti da classi medio alte.

Una nota appena sul merito.
Continua ad essere poco conosciuta la differenza nelle votazioni di laurea; che può raggiungere anche 12 punti su 110 non solo fra facoltà differenti, ma anche fra laureati del medesimo corso di laurea di due diversi atenei.
I laureati di primo livello in corso con voto di laurea massimo (110 su 110) sono nel complesso l’11 percento.
Ma si va da un massimo del 23% per i percorsi delle professioni sanitarie a un minimo di appena l’1,3% per giurisprudenza.

Ancora, i laureati da 110 sono il 15% nell’area letteraria e scientifica, il 6% nel gruppo psicologico, l’8% a ingegneria.
Una variabilità che fa dire: davvero il voto di laurea, se unico criterio di valutazione degli studenti migliori, è conquistato da tutti con la stessa fatica, o c’è chi merita più di altri considerando le differenze di valutazione per percorsi disciplinari?

*direttore di AlmaLaurea

Il Sole 24 Ore 20.08.12

"L'allarme sociale non deve frenare le riforme penali", di Giovanni Negri

Il rischio adesso è che l’aumento dei reati, in controtendenza rispetto ai dati dell’ultimo triennio, rappresenti un ostacolo sulla via delle riforme. Che in parte sono già delineate e, di certo, non possono ancora slittare. Se l’allarme sociale, che è reazione giusta oltre che comprensibile, sfocia in allarmismo oltranzista, il pericolo di un impasse alla ripresa dei lavori parlamentari è assai concreto.

Anche perché tra qualche settimana saremo all’inizio della volata elettorale che si concluderà in primavera e si sarebbe troppo facili profeti nel ritenere che le forze politiche (tutte) avranno poca o nessuna voglia di spendersi su temi a elevata sensibilità come quelli della criminalità e delle carceri.
Si tratterebbe però di un errore grave. Perché un Governo che ha avuto la temerarietà di condurre in porto riforme scomode come quella sulla geografia giudiziaria, ha senz’altro le carte in regola per fare approvare anche misure altrettanto serie come quelle in agenda sulla depenalizzazione e le misure alternative al carcere. Provando in questo modo a coniugare obiettivi di civiltà (le condizioni delle nostre carceri da tempo oltre il limite massimo di tollerabilità) e risultati di efficienza con una migliore distribuzione e sfruttamento delle (scarse) risorse a disposizione dell’amministrazione della giustizia.

Naturalmente, sulla giustizia penale costruire maggioranze robuste è manovra più impervia che sul processo civile o l’organizzazione giudiziaria. E a fare da cartina al tornasole c’è il disegno di legge sull’anticorruzione, oggetto prima di una difficilissima sintesi e ora bloccato al Senato.
Una sorte che andrebbe evitata alle misure che tagliano una buona parte dei reati oggi sanzionati con una pena pecuniaria per trasformarli in illeciti amministrativi. Il disegno di legge esclude alcune materie come l’ambiente, la sicurezza sul lavoro, l’immigrazione, ma senza dubbio va nella direzione auspicata sia dai magistrati sia dagli avvocati: restringere l’area del penalmente rilevante per concentrare l’attenzione, anche a livello di repressione, sulle condotte di maggior allarme sociale.

Stesso discorso per quanto riguarda il carcere dove, dopo che tutto sommato lo “svuota-carceri” per chi aveva ancora una pena ridotta da scontare ha dato buona prova con bassissimi tassi di recidiva, l’emergenza non si è certo attenuata.
Tanto più cruciali allora diventano le misure, contenute nel medesimo provvedimento sulla depenalizzazione, che sterzano in maniera decisa sul versante della “messa alla prova” e delle sanzioni alternative al carcere.
La prima consiste nella concessione della sospensione del processo, quando si procede per reati puniti al massimo con quattro anni di carcere, per destinare l’imputato a servizi di pubblica utilità, sulla falsariga di quanto avviene da tempo nel processo ai minori; le altre nell’introduzione di due nuove pene detentive non carcerarie: la reclusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora.
Queste nuove modalità sono destinate a sostituire la detenzione in carcere in caso di condanne per reati puniti con pene non superiori a 4 anni. Tutte misure che permetterebbero di destinare uomini e mezzi alle situazioni più critiche.

Anche a quella criminalità “da strada”, il cui aumento è segnalato dai dati pubblicati alle pagine 2 e 3. Senza peraltro pensare subito a interventi più draconiani come l’obbligo di custodia in carcere per i colpevoli di questi reati o l’inasprimento delle pena.
Una risposta di questo tenore, quasi pavolviano, non farebbe, al minimo, tesoro di quanto avvenuto in questi ultimi anni. A succedersi sono state infatti le misure di più “pacchetti sicurezza” (con il primo esordì in questa legislatura l’allora Governo Berlusconi): che non hanno però influenzato più di tanto l’andamento della criminalità, quando invece le presunzioni più severe di pericolosità sociale sono state, nel corso dei mesi, bocciate dalla Corte costituzionale.
A testimonianza ulteriore che la scia dell’emotività è facile da seguire, ma non sempre è quella che produce, anche nel breve, i migliori risultati.

Il Sole 24 Ore 20.08.12

"Ancora caldo africano: ecco Achim. Si scioglie anche la vetta del Bianco", di Luca Mercalli

Il caldo africano dell’anticiclone Achim non concede tregua almeno fino a metà settimana, con massime fino a 37-39 gradi sulla pianura padana e sulle zone interne di Sardegna e regioni tirreniche, ma diffusamente intorno ai 34-36 gradi altrove. Le giornate si mantengono ovunque soleggiate, con lieve rischio di isolati temporali di calore sulle Alpi, oggi sui settori di confine con Francia e Svizzera, domani anche sulle vallate di Alto Adige e Veneto. Da metà settimana il caldo più intenso si sposterà al CentroSud, mentre al Nord le temperature caleranno di qualche grado, mantenendosi comunque sempre pienamente estive; sulle Alpi ci sarà qualche rovescio o temporale in più nelle ore pomeridiane, che localmente potrà sconfinare sulle alte pianure con rischio di forti acquazzoni e grandinate. Si tratterà comunque di fenomeni puntiformi.

Da domenica è possibile un cambiamento, per l’ingresso di una perturbazione con aria più fresca che potrebbe portare temporali più diffusi tra Alpi e pianura padana seguiti da un sensibile calo termico. Una temporanea attenuazione del caldo intenso si è avuta attorno a Ferragosto, per via di un flusso d’aria occidentale che lunedì 13 ha causato un forte temporale pomeridiano tra Bracciano e Roma-Nord, con apporti fino a 55 millimetri di pioggia, grandine e allagamenti di strade: sono le prime precipitazioni significative dalla fine di maggio su una zona particolarmente penalizzata dalla siccità.

L’aria africana è tornata a farsi sentire giovedì 16 dalla Sardegna: Decimomannu, nel Cagliaritano, ha rilevato 40,4 gradi. Ma l’ondata di caldo in corso, piuttosto tardiva, è certamente una delle più intense mai osservate nella seconda metà di agosto soprattutto al Nord-Ovest, maggiormente interessato – a differenza delle precedenti fasi – dall’anticiclone subtropicale in risalita da Spagna e Francia del Sud.

Ieri si misuravano temperature massime di 39 gradi a Firenze Peretola, 38 ad Acqui Terme e Villanova Solaro, nella piana cuneese, e ancora nel viterbese. Ma è ad alta quota che la calura è stata impressionante: alla stazione Arpa Piemonte installata ai 4.560 metri della Capanna Margherita, sul Monte Rosa, per due giorni consecutivi la temperatura ha raggiunto i 4 gradi e non c’è quasi stato gelo notturno, condizioni che hanno portato qualche ora di disgelo fin sulla vetta del Monte Bianco, con zero termico sul filo dei 5 mila metri.

La Stampa 20.08.12

"Il conto salato della crisi. Trentamila attività chiuse", di Felicia Masocco

Dalla A di Adelchi alla X di Xerox: in mezzo c’è l’elenco di 86 aziende, l’ordine alfabetico della crisi. Del loro futuro si discute al ministero dello Sviluppo, si cerca una soluzione perché non chiudano, ma i tavoli sono totalmente aperti, e c’è molto (se non tutto) da fare. C’è poi un’altra lista che va dall’A. Merloni alla Yara: 53 tavoli di vecchia data, questi, per i quali è più facile confidare in qualche esito. In tutto 141 imprese che cercano di non sparire e più di 168mila lavoratori che sperano di non diventare esuberi. Va detto che è una parte soltanto del conto pagato alla recessione dal sistema produttivo italiano. Ci sono tutti i settori, nessuno escluso e tutte le regioni sono interessate: dal 2009 ben 30mila imprese hanno chiuso i cancelli. I mali dell’industria sono tornati sul proscenio nelle ultime settimane, il dramma dell’Ilva e di Taranto ha restituito il carattere dell’urgenza alla politica industriale, grande assente degli ultimi anni. Ottimismo e omissioni Il laissez-faire del governo Berlusconi, quell’ottimismo a ogni costo mentre tutti gli indicatori suggerivano allerta, ha portato alla situazione attuale. Vertenze come quelle di Vinyls, di Alcoa, di Eurallumina, Videocon sono vecchie di anni, con un maggior dinamismo dei predecessori di Corrado Passera forse sarebbero state risolte. E non c’è, purtroppo, solo l’industria. Sul sito del Mise (che sta per ministero dello Sviluppo economico) l’ultimo comunicato che racconta l’Italia della recessione è su Wind Jet, compagnia aerea low cost arrivata al capolinea: «Ha comunicato di voler ricercare una soluzione per la continuità aziendale», recita la nota. Mercoledì sapremo se ce la farà o se prenderà altre strade. Data di pubblicazione, 14 agosto. Una settimana prima si era discusso del polo tessile di Airola, Campania: si pensa a reindustrializzare, con il contributo degli enti locali. La Confindustria di Benevento farà arrivare il suo progetto dettagliato di investimenti. Se ne riparlerà prima della metà di ottobre. Il 31 luglio a sedersi intorno al tavolo sono stati i protagonisti di un’altra vertenza, quella della Memc Electronic, la sede è a Saint Louis, negli Usa, ma la produzione di silicio iperpuro, monocristallino per l’elettronica e di policristallino per il fotovoltaico è qui. In Europa sono solo due gli stabilimenti di questo tipo, l’altro è in Germania. Si parla molto e si punta sulla green economy, di questi tempi, ma la multinazionale statunitense sembra voler tornare indietro. Gli addetti che rischiano di andare a casa hanno una professionalità altissima: su 550, 300 sono in cassa integrazione, di cui 200 a zero ore. L’indotto conta un altro centinaio di posti, c’è poi un altro stabilimento a Novara, un altro nel reatino. Finiti gli incentivi per il fotovoltaico e con il dumping cinese, produrre a Merano non è più conveniente. Questo in rozza sintesi. Solsonica, Richard Ginori, Valtur, Termini Imerese, Alpitour, Parmalat, Indesit, Italcementi, Alcatel: un comunicato dopo l’altro, un aggiornamento di tavolo dopo l’altro. Soluzioni, purtroppo, poche. Se ne riparla a settembre, intanto le statistiche non perdonano: nel secondo trimestre di quest’anno il calo del prodotto interno lordo (Pil) è stato dello 0,7% rispetto al periodo gennaio-marzo 2012 ed è ormai un intero anno che l’economia del Paese arretra. Confermata dunque la recessione. Su base annua il calo del Pil è stato invece del 2,5%, il peggiore dato dalla fine del 2009. Non si salva nessun settore. Dall’industria arriva anche il dato choc della produzione che in un anno ha lasciato sul terreno l’8,2%. Sono dati Istat, che calcola in sei mesi una perdita dell’1,6% del prodotto interno lordo. Le previsioni non sono buone, il 2012 rischia di chiudersi con un Pil a -1,9%. Colpa della crisi internazionale, d’accordo: però, sempre considerando il secondo trimestre dell’anno, nel Regno Unito che pure non sta benissimo il calo annuo è dello 0,8% mentre negli Usa il Pil aumenta del 2,2%.

L’Unità 20.08.12