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Monti e il fisco: «Stato di guerra contro chi evade», di Maria Zegarelli

Il vero nemico da abbattere in questa guerra del nuovo Millennio, che è tutta economica, in Italia si chiama evasione fiscale. «Produce un grosso danno nella percezione del Paese all’estero», dice il presidente del Consiglio intervistato da Tempi. «L’Italia si trova in uno stato di difficoltà soprattutto a causa di questo fenomeno e si trova da questo punto di vista in uno “stato di guerra”», spiega il premier, soprattutto perché «la notorietà pubblica del nostro alto tasso di evasione contribuisce molto a indisporre nei confronti dell’Italia quei Paesi ver- so i quali di tanto in tanto potremmo aver bisogno di assistenza finanziaria».

Davanti al persistere della crisi e a una pressione fiscale ormai pesantissima l’evasione resta uno dei maggiori bacini da cui attingere risorse per poter alleggerire il carico che pesa sui soliti noti (richiesta che ormai diventa pres- sante anche dal Pd), quegli «italiani ricchi o medi che sistematicamente non pagano le tasse».

Per questo anche l’uso di «strumenti forti» è giustificato e sarà inevitabile, di conseguenza, vivere momenti «di visibilità che possono essere antipatici», proprio come in guerra.

E ieri il premier, in vacanza a Silvaplana, in Svizzera, ha incontrato il Presidente della Confederazione Elvetiva Eveline Widmer-Schumpf, per uno «scambio di opinioni sulla situazione economica e finanziaria internazionale e sulle sfide che questa pone all’Ue, all’Italia e alla Svizzera», come ha puntualizzato una nota di Palazzo Chigi.

Ed è stata proprio la lotta all’evasione il centro dell’incontro, durante il quale è stato ribadito che l’obiettivo prioritario, «per entrambi i governi» è vincere la battaglia. Dopo un punto sui «lavori in corso e i progressi registrati» nel gruppo di lavoro tra Italia e Svizzera, i due capi di governo hanno confermato la loro intenzione ad affrontare tutte le questioni aperte (soprattutto i depositi italiani nei forzieri svizzeri) «in modo costruttivo» e per le quali sono attese proposte dal gruppo bilaterale di lavoro in autunno.

LE MISURE D’AUTUNNO

Il premier nella lunga intervista annuncia «numerose novità legislative» nel campo della giustizia, dal sovraffollamento delle carceri, alla lentezza dei processi. «Penso – dice – ad esempio, al filtro in appello per le cause civili, all’istituzione di un tribunale per le im- prese, alla riforma del risarcimento danni da eccessiva durata dei processi oppure alla recisione della geografia giudiziaria».

Assicura finanziamenti alla scuola privata, prende le distanze dal federalismo così come inteso dai precedenti governi, «siamo convinti che il federalismo deve essere solidale» e alla domanda se si sente orgoglioso del lavoro svolto risponde: «Orgoglioso di nulla, soddisfatto e grato, della conseguita possibilità di far lavorare per uno scopo convergente forze politiche divergenti». Monti si dice anche convinto di riuscire da qui alle elezioni del 2013 di poter mettere in campo e realizzare tutte «le iniziative in materia di risanamento dei conti pubblici e di contenimento del disavanzo che sono state già decise ma che devono essere attentamente sorvegliate nella loro esecuzione», oltre alla «messa in opera» e «aggiornamento» di alcune riforme strutturali a partire da quella del lavoro.

I prossimi sei mesi, dunque, saranno dedicati ancora alla riduzione del debito, anche attraverso la dismissione di una parte del patrimonio pubblico. «Abbiamo preferito – spiega – nella prima parte di vita del governo concentrarci sulla attività di contenimento del disavanzo e di riforma, mentre adesso che abbiamo compiuto passi che hanno dimostrato all’Europa e al resto del mondo la capacità e la volontà del Paese di operare cambiamenti nel profondo delle sue strutture, è bene accompagnare queste riforme con una riduzione del debito pubblico attraverso la cessione di alcuni attivi».

Escluso un Monti-bis dopo il 2013, «mi rifiuto di pensare che un grande Paese come l’Italia non sia in grado, attraverso libere elezioni, di scegliere una maggioranza di governo efficace e, indirettamente, un leader adeguato a guidarla». Per questo, aggiunge, crede e spera di lasciare Palazzo Chigi a un politico eletto del popolo.

Ma larga parte della lunga intervista il premier la dedica anche ai rapporti con l’Europa, alla necessità di confermare la proposta fatta in sede Ue da Romano Prodi e Quadrio Curzio di trasformare il fondo Salvastati in Fondo Finanziario europeo che emetta eurobond e rilevi così parte dei debiti pubblici nazionali chiedendo agli Stati garanzie. «Questa degli eurobond – dice il premier – è una proposta articolata e intelligente che contiene anche elementi che da tempo il governo italiano ha portato al tavolo europeo. Abbiamo visto tutti che alcuni Paesi (certamente la Germania, ma anche alcuni Paesi nordici) non sono disposti in questo momento a dare il loro consenso agli eurobond. Ciò significa che probabilmente essi verranno ma un po’ più avanti, quando si saranno fatti verso una maggiore messa sotto controllo delle finanze pubbliche dei singoli Paesi da parte delle istituzioni comunitarie».

L’Unità 18.08.12

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Il tesoro da 200 mld sottratto al Paese

Con un’evasione fiscale pari al 18 per cento del Pil (quasi duecento miliardi di euro), a giugno la Corte dei Conti ci dava al secondo posto nella classifica europea dei furbetti delle tasse, secondi solo alla Grecia.

Adesso pare che il sorpasso sugli amici ellenici sia avvenuto. Secondo uno studio commissionato da Contribuenti.it, in fatto di tasse non pagate l’Italia sembra avere una marcia in più: nei primi sei mesi dell’anno, l’evasione sarebbe cresciuta del 14 per cento, spingendo il nostro Paese sulla cima dell’olimpo dei furbi. Ma c’è poco da festeggiare. Vuol dire che l’azione repressiva messa in campo dal governo, con la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate, non ha funto neanche da deterrente. In realtà non è proprio così, perché qualche passo in avanti negli ultimi mesi, e negli ultimi anni, è stato fatto. Secondo l’Agenzie delle Entrate, nel 2011 sono stati recuperate entrate per 11,5 miliardi di euro, mentre dal 2006 all’anno scorso – secondo la giustizia contabile – i miliardi ritornati in cassa sono stati 73. Però non basta.

ZOCCOLO SCALFITO

È sempre la Corte dei Conti, a giugno di quest’anno, a ricordarci che «sul piano della lotta all’evasione e della riscossione coattiva è stato dispiegato uno sforzo straordinario e sono stati conseguiti risultati altrettanto straordinari, ma lo zoccolo duro è stato appena scalfito».

L’Unità 18.08.12

"Metti a Taranto Erin Bronckovich", di Nadia Urbinati

Erin Brockovich, l’eroina della class action immortalata da Julia Roberts, era una segretaria precaria (e madre sola di tre bambini) di un piccolo studio legale quando cominciò a indagare sulla Pacific Gas and Electric Company, il colosso americano produttore di energia che da anni contaminava le falde acquifere di un paesino californiano provocando tumori e gravissime malattie ai residenti, infine inquinando prove e cercando, trovandole, sponde solide tra funzionari pubblici compiacenti. L’azione legale di gruppo che quell’indagine produsse fu memorabile. Per la prima volta l’accusa di malgoverno di un’azienda privata comportò il riconoscimento di responsabilità con un indennizzo miliardario alle vittime (circa settecento persone). Un esito che fece giustizia senza provocare la chiusura dell’impianto, come la direzione aveva paventato. La mole di documenti portati dalla Brockovich davanti al giudice non riuscirono a provare con certezza scientifica l’esistenza di una relazione causale diretta tra inquinamento e malattie. Ma la ricorrenza dei tumori e la sola vista di quel villaggio insalubre (dove i dirigenti della PG&E dissero che non avrebbero mai voluto vivere) furono sufficienti agli occhi del giudice per decretare la responsabilità della compagnia.
Senza aver studiato né filosofia né diritto, Erin Brockovich ebbe subito ben chiaro il quadro, ovvero che due sono gli ostacoli maggiori alla giustizia in questi casi: le connivenze e le coperture colpevoli di cui i potenti godono, e l’ideologia che l’opinione pubblica fa passare secondo cui in questi casi ci si trova di fronte a un conflitto irrisolvibile tra valori fondamentali come la vita e il lavoro, similmente a una tragedia greca dove nessuno è responsabile se non l’umanità stessa, per la sua fallibilità e l’incapacità di vivere in armonia con le leggi della natura. Brockovich era riuscita a smascherare le connivenze e a confutare questa filosofia cercando di dare un senso alla massima secondo la quale «la legge è uguale per tutti». Corruzione e incuria erano stati per anni la pratica perpetrata da parte di coloro che avevano la possibilità e il dovere di intervenire.
L’Ilva non è la Pacific Gas and Electric Company, e il gip di Taranto Patrizia Todisco non è una nostrana Erin Brockovich. L’oggetto del contendere del resto non è il rimborso per i danneggiati dal malambiente dell’Ilva, ma il risanamento dello stabilimento. Tuttavia la dinamica dell’inquinamento, dell’occultamento delle prove, della manipolazione dei dati e del ricatto sul lavoro è pressoché la stessa. I casi di inquinamento sono casi di corruzione e di illegalità a tutti gli effetti. Ora sappiamo che l’inquinamento c’è all’Ilva e c’è stato per anni, fin da quando l’azienda era di proprietà dello Stato. E più i giorni passano più ci avvediamo delle colpevoli responsabilità che coinvolgono l’intera filiera decisionale, a partire dai proprietari dell’azienda fino ai tecnici che dovevano accertare e raccogliere dati veritieri e ai funzionari pubblici. Fumi e fanghi, dentro e fuori l’Ilva.
E poi, incidenti per anni, fino al più recente. Porta la data del febbraio del 2012. Un grosso incendio si sviluppò in un’area dello stabilimento producendo una colonna di fumo visibile a chilometri di distanza e diversi intossicati. Il Sindaco di Taranto, sulla scorta della perizia svolta dagli esperti incaricati dal Giudice Patrizia Todisco, ordinò all’Ilva di eseguire entro trenta giorni lavori volti alla riduzione dell’immissione di fumi e polveri, comminando, in caso di mancato adempimento, la sospensione totale degli impianti. In quell’occasione il Comitato Donne per Taranto diramò il seguente appello: «Se doveste avere problemi respiratori, vomito, bruciori alle mucose, tosse recatevi subito al pronto soccorso.. Il consiglio è tenere finestre e porte ben chiuse e sigillate».
Un lungo ciclo di incurie alla fine del quale è giunta la magistratura. Di fronte al rischio di chiusura della produzione si ricorre, prevedibilmente, al ricatto del lavoro. E si getta un’ombra inquietante sull’intervento della magistratura. Ma non è l’intervento della legge all’origine del conflitto tra lavoro e salute. L’intervento della legge mette semmai a nudo svelandolo all’opinione nazionale uno stato di incuria colpevole che dura da anni. La carenza di cura per l’ambiente di lavoro, per la città, per la natura, ha generato questa situazione d’emergenza. Incuria ed emergenza sono fenomeni tra loro concomitanti, una sequenza alla quale il nostro Paese sembra abituato, non solo nel settore industriale, e che lascia strascichi drammatici e polemiche inutili e dannose (spingendo l’opinione pubblica a schierarsi addirittura pro o contro la legge) invece di favorire soluzioni giuste (che non vuol dire facili e indolori) e in tempi rapidi.
Lasciare che le cose procedano fino al punto in cui la legge non può più tacere – questa è la responsabilità immane che porta ad emergenze come questa. Chi non ha preso le decisioni che doveva prendere, o le ha prese malamente, ha lasciato la patata bollente alla magistratura. Salvo poi accusarla di aver applicato la legge. La quale, come ha giustamente scritto Luciano Gallino su questo giornale, ha tra le sue funzioni essenziali quella di “impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole», chi può danneggiare su chi può solo essere danneggiato. E il più forte è in questo caso chi ha lasciato che le cose procedessero così, con il minor dispendio possibile di risorse. Accusare la legge di generare conflitti insolubili è un assurdo e quanto di più sbagliato si possa fare perché essa interviene proprio perché il conflitto è giunto a un punto tale da non consentire più accomodamenti per vie ordinarie.
L’intervento del magistrato è giunto dopo che le scelte ambientali hanno fallito o sono state lasche o colpevoli. Porta alla luce un problema di incuria che è reale e che gli interessi di chi è più forte cercano di smorzare, magari servendosi del penoso argomento della crisi economica e del rischio all’occupazione, infine del conflitto tragico tra lavoro e vita – come se chi lavora sia per necessità votato a rischiare la vita. Ma se conflitto c’è questo è un conflitto di interessi che ha per protagonisti cittadini molto ineguali in potere e che la legge cerca di riequilibrare nel dovere di non arrecare danno o di riparare ai danni fatti. E come scrive Gallino, niente è più irrazionale che insistere con il ricatto del lavoro anche perché recuperare e ristrutturare l’impianto tarantino è esso stesso un lavoro che può essere meglio svolto da coloro che dall’interno conoscono quell’impianto. Anche perché, c’è da aggiungere, è irrazionale e non nell’interesse nazionale pensare di conquistare le commesse straniere facendo credere al mondo che da noi si può danneggiare ambiente e salute.

La Repubblica 18.08.12

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“Il rischio di non uscire dal passato”, di FEDERICO GEREMICCA

Adesso, naturalmente, molti dicono che non poteva che finire così, che il destino era segnato e che il bivio sarebbe stato necessariamente quello – micidiale – materializzatosi nelle ultime settimane.

Scegliere se morire di fame oppure di un qualche tumore. Lo dicono in molti: a partire, naturalmente, da quelli che nel corso di decenni hanno trasformato il Mezzogiorno d’Italia in una nauseabonda pattumiera e adesso – non avendo più tappeti sotto i quali nascondere veleni e scorie inquinanti – scrollano le spalle e puntano l’indice contro giudici «che così portano il Sud alla rovina e alla fame».

Già, il Sud: per vaste aree, lande ormai de-industrializzate, grondanti disoccupazione e rifiuti venefici, malavita capace di trasformare in oro anche le scorie tossiche, e panorami di archeologia industriale. Perché l’Ilva di Taranto è solo l’ultimo gigante ferito di una politica cosiddetta industriale che, oltre che fallimentare, oggi va rivelandosi in tutta la sua incosciente pericolosità.

Naufragato prima il polo chimico e poi quello minerario del Sulcis, la Sardegna è ormai – produttivamente – quasi un deserto; la Puglia difende il poco che ha: e senza l’Ilva quel poco diventa praticamente niente; la Calabria sperava nel mitico Ponte – la Grande Opera, buona a raccattare voti ad ogni elezione – così come aveva sperato in Gioia Tauro, il leggendario porto sospeso nel nulla; la Sicilia boccheggia sotto il peso della crisi della chimica, e della Campania e di Napoli – città che ha precorso i tempi di questo inarrestabile disastro – è quasi meglio non parlare.

Quel che c’era da dire – soprattutto sull’ex Italsider di Bagnoli, anch’essa poi Ilva – è stato infatti magnificamente detto da Ermanno Rea, in un libro terribile andato in stampa giusto dieci anni fa. È la storia commovente della fine della gigantesca acciaieria (due milioni di metri quadri, cinque milioni e mezzo di metri cubi fatti di altoforni, ciminiere, colate e capannoni) smontata pezzo a pezzo da operai con gli occhi a mandorla e ricostruita a Meishan, nel cuore della Cina (Paese ancora così poco attento all’ambiente da portarsi faticosamente a casa una vera e propria bomba ecologica). Fu la fine del sogno industriale della capitale del Mezzogiorno: con una morte effettivamente più spettacolare di quella toccata – un po’ in sordina – alle raffinerie, ai cantieri navali e alle piccole industrie che vivevano di indotto.

Uno sviluppo, se vogliamo chiamarlo così, le cui macerie fumanti sono oggi sotto gli occhi di tutti. Classi dirigenti – locali e nazionali – dedite alla rapina e alla raccolta di voti: raccolta che, mentre i pochi presidi industriali franavano miseramente, continuava producendo disastrosi rigonfiamenti del debito e delle amministrazioni pubbliche. Dalle fabbriche alle Regioni, alle Province e ai Comuni: e ora, naturalmente e inevitabilmente, via anche da lì. Quasi nessuno degli avventurieri travestiti da imprenditori ha pagato per il saccheggio di danaro pubblico e lo scempio del territorio perpetrato nel Sud d’Italia. E alla magistratura, infatti, andrebbero contestati non gli interventi di oggi, ma i mancati interventi di ieri…

Perché nulla è stato fatto in questi anni? Perché in Germania (e non è per dire la solita Germania: accade anche in Francia) l’acciaio è una produzione «pulita» e da noi una fabbrica di veleni e di morti? Per quanti anni si è ripetuto che senza lo sviluppo al Sud non ci sarebbe stato sviluppo per l’Italia? Intere scuole di meridionalismo – liberale, cattolico, comunista – si sono spese per tentare di convincere il «ricco Nord» che, per quanto amara, questa era la verità. Fatica sprecata. E una dopo l’altra, intanto, le cattedrali nel deserto essiccavano al sole. Crollavano vittime della loro stessa improduttività. Oppure mettevano operai e cittadini di fronte al drammatico bivio che oggi angoscia gli abitanti di Taranto: morire di fame o di un qualche tumore. Nel cuore dell’Europa, all’alba del terzo millennio. Da non credere, davvero.

La Stampa 18.08.12

Il vero “spread” tra noi e la Germania, di Roberto Bertoni

“M’inchino di fronte alle vittime di Sant’Anna. È per loro che abbiamo la responsabilità di costruire l’Europa e di proteggerla dalla speculazione che fa soffrire i popoli e nutre i nazionalismi”. Lo ha detto Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, lo scorso 12 agosto, recandosi a rendere omaggio alle cinquecentosessanta vittime dell’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema. E ha aggiunto: “La lingua che io parlo è la stessa degli uomini che hanno compiuto questo eccidio. Non lo dimentico. Sono qui come tedesco e come europeo. L’Europa è la via migliore per non ripetere crimini come questo”.
I soliti cinici da strapazzo avranno già commentato che si tratta solo di belle parole e, dunque, non bisogna dar loro né ascolto né, tanto meno, credito. Pazienza, ormai abbiamo imparato a conoscerli e a relegare nell’oblio che merita la loro gratuita crudeltà, forse addirittura più grave e feroce di quella degli esecutori materiali della strage, in quanto artefice e complice della perdita di memoria e della scomparsa di curiosità delle giovani generazioni in merito a fatti storici di tale portata.
È anche e soprattutto colpa loro, infatti, se a qualche centinaio di chilometri di distanza da Sant’Anna un sindaco, precisamente il primo cittadino di Affile (in provincia di Roma), ha potuto inaugurare un “sacrario” dedicato al fascista Rodolfo Graziani (collocato dalla “United Nations War Crime Commission” al primo posto nella lista dei criminali di guerra italiani), senza destare eccessivo scandalo né suscitare la reazione forte e indignata che un evento così grave avrebbe meritato.
Sappiamo bene chi era Rodolfo Graziani, ciò che ha rappresentato storicamente e ciò che ha compiuto in Etiopia nel corso della colonizzazione italiana, perseguitando la popolazione civile, sterminando migliaia di persone coi gas (l’iprite, il peggiore) e rendendosi reo di barbarie d’ogni genere, a cominciare dalla quasi distruzione di Addis Abeba e dal massacro della comunità copta, vescovo compreso.
E il suo “curriculum” prosegue: dopo l’occupazione nazista, Graziani si pose al fianco degli occupanti tedeschi, sotto la guida di un altro tremendo protagonista della storia come il generale Albert Kesselring, comandante sul fronte italiano e protagonista di un altro celebre eccidio, quello delle Fosse Ardeatine, che scaturì come rappresaglia all’attentato di via Rasella, causando la morte di trecentotrentacinque italiani, inclusi ebrei e passanti catturati a caso per le vie di Roma.
Processato nel 1948 e condannato a diciannove anni di reclusione, ne scontò appena due, grazie alle amnistie e ai condoni che furono varati in quegli anni per evitare vendette e ulteriori spargimenti di sangue. Aderì poi al Movimento Sociale Italiano di cui divenne presidente onorario.
Questo è stato Rodolfo Graziani: un personaggio che ha seminato ovunque odio e distruzione, un fascista irriducibile che ha sempre rivendicato la propria fedeltà a quelli che secondo lui erano valori e princìpi da difendere ad ogni costo. Non a caso, sopra il “sacrario” campeggiano due parole: Patria e onore; due parole intense, importanti, significative, se non fosse che il soggetto in questione ha disonorato la Patria, trascinandola nel baratro di un conflitto che ha causato in tutto il mondo decine di milioni di morti e sfregiandola con vergogne come le Leggi razziali e la già menzionata conquista dell’Etiopia.

da articolo21.org

"La sfida dell’Emilia al terremoto", di Giulia Gentile

Siamo subito scappati in strada, ma per fortuna questa volta non abbiam fatto in tempo ad uscire di casa che era già tutto finito. Ogni volta si torna a pensare a quello che è successo, ma ormai guardiamo avanti. E ci ripetiamo che è solo qualche scossetta di assestamento». Mario, capelli bianchi e canottiera d’ordinanza per ammazzare i quaranta gradi della “bassa” sanfeliciana, sorride a chi gli chiede se ha avuto ancora paura. Alle 7.42 di ieri mattina, una scossa di terremoto di magnitudo 2.8 e con profondità di 7.2 chilometri, epicentro tra Poggio Rusco e San Giovanni del Dosso, nel Mantovano, e Cavezzo, Medolla, Mirandola, e San Felice sul Panaro, nel Modenese, l’ha fatto scattare in piedi con la stessa velocità di quel drammatico 20 maggio.

A quasi tre mesi dal primo sisma che, fra Bologna, Ferrara e Modena, ha seminato morte e distruzione, la terra non smette di ballare. E se, complice la calura ferragostana, «la voglia di ricominciare non manca», come sottolinea il sindaco di Finale Emilia (Mo) Fernando Ferioli, resta difficile guardare con un sorriso alla leggerezza dell’estate, mentre gran parte dei centri storici porta visibili le ferite delle scosse, e 4300 persone sfidano ancora l’afa in 27 tendopoli. Martedì, l’assessore regionale alla Protezione civile Paola Gazzolo ha annunciato che la giunta del presidente e commissario straordinario Vasco Errani chiuderà i campi entro la fine di settembre, sistemando chi è rimasto senza un tetto in appartamenti sfitti o in container e casette in legno. E a dare forza alle popolazioni colpite dal terremoto oggi arriverà il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, che in Prefettura a Bologna presenterà il Gruppo interforze ricostruzione Emilia-Romagna (Girer) contro le infiltrazioni mafiose, prima di partire per un incontro con i sindaci del cratere, e i rappresentanti delle province e delle forze economiche e sociali dell’Emilia-Romagna, fissato per le 15.30 al distaccamento dei Vigili del fuoco di San Felice.

A Cancellieri, l’esecutivo di Errani e i primi cittadini metteranno «fretta per ottenere al più presto ulteriori risorse fondamentali», annuncia l’assessore regionale alle Attività produttive, Gian Carlo Muzzarelli. Ferma a 11.5 miliardi la stima dei danni subìti. Ergo: se 8 sono già stati promessi, «ne servono almeno altri tre e mezzo, per la ricostruzione completa». Inutile dire che, per i primi cittadini, il punto dolente resta sempre quello dei soldi che non ci sono. «Il lavoro di Errani è ottimo – alza le braccia Alberto Silvestri, sindaco di San Felice, ancora ospite con gli uffici del Comune di una tenda nel cortile della Municipale -, ma la preoccupazione è forte e la crisi generale non ci aiuta». Così, «chi da Roma deve “sganciare” i fondi ci penserà su non due volte, ma tre».
Ad oggi, la torre più grande della trecentesca Rocca estense è stata messa in sicurezza, e una parte della zona rossa del centro storico è stata restituita ai cittadini. Ma tante sono ancora le macerie da raccogliere, e su «7 milioni» già sborsati dal Comune per le prime 48 ore di emergenza successive alle scosse più violente, e per i primi lavori di ripristino, da Roma via Regione sono arrivati solo 830mila euro. Come fare? «Purtroppo pagheremo quando ci arriveranno i soldi – sospira Silvestri – non abbiamo alternative». Intanto, per venire incontro alle esigenze di privati e aziende, la Regione ha siglato un accordo con le banche, che anticiperanno a chi ne faccia richiesta (e con un tasso di interessi del 2%) a prima di gennaio i risarcimenti pari all’80% dei danni subiti, garantiti dal governo per gennaio. Nel paese della “bassa” modenese sono rimasti 600 gli ospiti forzati dei tre campi ancora aperti. Mentre a Crevalcore, il comune del Bolognese più colpito dalle scosse, le ultime tende saranno smantellate all’inizio della prossima settimana. «Un lavorone – sottolinea il sindaco Claudio Broglia – considerato che, due mesi fa, le persone senza un tetto erano ben 11150».

Ma se il fronte “casa” avanza a grandi falcate, grazie anche alle tre nuove ordinanze firmate martedì da Errani, incerta resta la regolare riaperture delle scuole il 17 settembre. Ovunque i cantieri per il ripristino degli istituti inagibili sono stati aperti. Ma «penso che sarà molto difficile un avvio regolare dell’anno scolastico – riflette Maria Antonella Rolfini, assessore alla Scuola di Cento (Fe) -: anzi, sarebbe bene ragionare ad una proroga per tutti i paesi del cratere». Intanto, «quello che possiamo aprire lo apriremo, anche per venire incontro alle esigenze delle famiglie». E poi c’è la partita lavoro: molte aziende, compresi i grossi gruppi del Biomedicale intorno a Mirandola (Mo), sono riusciti a fermarsi poco più di un paio di settimane, per poi riprendere la produzione in tensostrutture o in capannoni lontani dall’epicentro, nel cuore l’angoscia di perdere i pochi clienti rimasti in tempo di crisi. Ma per Barbara Antonelli, dipendente della Cps Color di San Felice sul Panaro ed Rsu della Fiom-Cgil, «oltre il 70% delle aziende della zona è ancora fermo, per i lavori di ristrutturazione, le difficoltà della burocrazia, e la mancanza dei fondi» con cui pagare i lavori.

Restano le eccezioni, come la sua azienda, multinazionale scandinava che all’inizio di giugno era già ripartita. E che per recuperare in pieno la produzione persa nelle due settimane di chiusura causa sisma ha assunto tramite agenzia interinale una ventina di operai. «A luglio abbiamo fatturato 700mila euro – sottolinea Antonelli, che causa terremoto vive ancora in un container a Massa finalese (Mo) -: ora ci aspettiamo che la proprietà ci riconosca questo impegno, con delle garanzie a lungo termine sulla volontà di non delocalizzare».

L’Unità 17.08.12

"La strada stretta del governo", di Stefano Lepri

Già, sarebbe bello ridurre le tasse. Nel caso si potesse, dovremmo stare attenti a quali. Di gran lunga più vantaggioso sarebbe abbassare il carico sulla parte più vitale della nostra economia, ossia sul lavoro dipendente, specie ai livelli bassi che più soffrono, e sulle imprese, specie per quanto concerne l’impiego di lavoro; come consigliato in più di una occasione dalla Banca d’Italia. Come principio generale, inoltre, sarebbe bene lasciar come sono le imposte più difficili da evadere, e intervenire al ribasso su quelle dove la frode è più facile. Si tratterebbe di decisioni da prendere a mente fredda, senza subito dar ragione a chi strilla più forte contro questo o quel tributo ritenuto particolarmente odioso o vessatorio.

Ma si può? Sappiamo tutti quanto la situazione dell’Italia sia difficile, e quanto ossessivamente venga tenuta d’occhio giorno per giorno dai mercati finanziari, pronti a ingigantire gli effetti di ogni passo falso. Sarà molto se si riuscirà ad evitare quel nuovo aumento dell’Iva, oltre l’attuale 21%, scritto nei piani che hanno guadagnato al nostro Paese l’appoggio delle istituzioni europee.

Per sostenere che si può, alcuni offrono una ricetta semplice. Basta tagliare sul serio le spese dello Stato, senza riguardi per nessuno – dicono – e si potranno calare le tasse senza accrescere il deficit pubblico che è il principale indicatore sul quale veniamo giudicati. Oggi l’attrattiva di questa idea si nutre del malessere diffuso contro i costi della politica e contro i visibili sprechi di denaro dei contribuenti.

Mettiamo per un momento da parte il fatto che in Italia questa ricetta è stata più volte e con gran clamore scritta in programmi elettorali, mai applicata dopo il voto. Meglio guardare quanto davvero sia stata applicata altrove e se abbia funzionato. Tra gli economisti resta aperto un dibattito talvolta aspro. Però due punti fermi si possono trovare. Il primo è che non fu così che Ronald Reagan trent’anni fa riuscì a rilanciare l’economia americana: ridusse le tasse, sì, le spese no. Il secondo è che tagliare le spese per tagliare le tasse ha funzionato senza controindicazioni in Paesi piccoli non circondati da un’area tutta in difficoltà.

Anche se si è convinti che in prospettiva è meglio avere «meno Stato», ossia meno tributi e minor impiego di denaro pubblico, non ci si può nascondere che nell’immediato anche i tagli alle spese aggravano la recessione economica. L’esempio ci viene oggi dalla Gran Bretagna. Per un certo tempo George Osborne, responsabile del Tesoro con l’antico nome di Cancelliere dello Scacchiere, si è vantato di aver adottato una politica economica «da manuale». Per risanare il bilancio pubblico stremato dal soccorso alle banche, il governo conservatore-liberale di Londra ha soprattutto tagliato le spese. La pressione fiscale è stata lasciata nel complesso stabile riducendo però le aliquote sulle imprese e sui redditi più alti, nella speranza di incentivare la voglia di intraprendere e di guadagnare. Il risultato è che il Regno Unito si trova in una recessione di gravità analoga a quella italiana; incrementi di produttività non se ne sono visti.

Stato ed enti locali italiani forse svolgono anche compiti che sarebbe meglio lasciare ai privati; di sicuro forniscono in maniera poco efficiente servizi ovunque considerati di natura pubblica. Rivedere a fondo tutto questo, e il funzionamento stesso di tutta l’amministrazione, dovrà essere un compito centrale dell’attività politica dei prossimi anni. Bisogna pretendere che avvenga. Non ci si può illudere che si tratti di una ricetta magica per uscire dalla recessione subito.

Scuola, in rivolta 27 'decani' della cultura umanistica: ''Abolire i quiz per i prof''

I decani della cultura umanistica sono in rivolta. Ventisette professori, da Guido Baldassarri, presidente dell’Associazione degli Italianisti (Adi) a Gabriele Burzacchini, presidente della Consulta Universitaria del Greco (Cug) fino a Rita Librandi, presidente dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana (Asli), sono scesi in campo contro le prove di accesso al Tirocinio Formativo Attivo che si sono concluse il 31 luglio.
Sono tutti d’accordo: i quiz proposti ai futuri insegnati sono un insulto alla cultura. I rappresentanti delle Consulte universitarie e delle Società scientifiche delle aree umanistiche hanno inviato una lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di cui l’Adnkronos pubblica in esclusiva il testo, sottolineando la necessità ”di prevedere modalità di valutazione davvero consone alla professione di insegnante”.

La battaglia dei decani delle discipline umanistiche è iniziata con una lettera inviata al ministro dell’Istruzione Francesco Profumo all’indomani delle prove per accedera al Tfa. Nella lettera si sottolineava come le prove dimostrassero ”un generale depauperamento della nozione di cultura”, in primis ”nella scelta dei quesiti: spesso ambigui, errati, catalogabili più come dati di enigmistica che come dimostrazioni di saperi”.

Ora i presidenti delle Consulte si rivolgono al capo dello Stato. ”Signor presidente – si legge nella lettera – nella nostra qualità di rappresentanti di Consulte e di Società scientifiche delle aree umanistiche abbiamo seguito con vivissima preoccupazione quanto avveniva a livello nazionale nelle prove di accesso al Tirocinio Formativo Attivo (Tfa), che si sono appena svolte, e lo abbiamo segnalato in un documento ufficiale inviato al ministro, alla Crui, al Cun e ai giornali”.

Nelle ultime settimane i professori riferiscono di essere stati testimoni dello ”sconcerto dei candidati”, delle ”proteste anche pubbliche di studiosi ed esperti ai risultati via via pubblicati delle prove: ingiustamente punitivi a causa della qualità dei quesiti, e non della qualità dei candidati”. ”Il comunicato del 5 agosto del ministero non è stato sufficiente, secondo le intenzioni, a ‘restituire certezza e serenità alla comunità dei candidati’ – spiegano – Non si tratta tanto, come pur si è fatto, di ‘sterilizzare’ quesiti erronei o mal posti, quanto di prendere atto della necessità diprevedere modalità di valutazione davvero consone alla professione di insegnante”.

”L’agenda delle cose fatte e da fare che il ministro Profumo ha consegnato il 10 agosto al messaggio di ‘buone vacanze’ che fa bella mostra di sé nella pagina d’apertura del sito ministeriale – scrivono – risulterebbe tanto più meritoria e credibile se mettesse al primo posto una riflessione approfondita e urgente su una questione che investe le ragioni stesse del nostro insegnamento universitario, l’accesso pur arduo al mondo del lavoro dei nostri laureati e di una parte cospicua dei nostri dottori di ricerca, la qualità e le modalità della formazione e dell’insegnamento nelle scuole: componenti, tutte, essenziali della cultura di questo Paese”.

La lettera inviata al presidente della Repubblica è stata firmata da Guido Baldassarri (Adi), Cinzia Bearzot (Cusgr), Gabriele Burzacchini (Cug), Mario Capasso (Aicc), Lilla Maria Crisafulli (Aia), Fulvio Ferrari (Aifg), Massimo Fusillo (Compalit), Antonella Gargano (Aig), Antonio Labate (Cubn), Rita Librandi (Asli), Mariagrazia Margarito (Susllf), Andrea Mariani (Aisna), Bruno Mazzoni (Air), Ileana Pagani (Comul), Emilia Perassi (Aisi), Franco Perrelli (Cut), Francesca Petrocchi, presidente della Consulta di Critica letteraria e Letterature comparate, Antonio Pioletti (Sifr), Franco Piperno (Aduim), Gilberto Pizzamiglio (Aislli), Angela Pontrandolfo, presidente della Consulta Universitaria di Archeologia classica, Angelo R. Pupino (Mod), Antonella Riem, presidente della Conferenza di Lingue e Letterature Straniere, Pietro Taravacci (Aispi), Beatrice Tottossy (Cisueco), Valeria Viparelli (Cusl), Giuliano Volpe (Sami).

I test per accedere al Tirocinio Formativo Attivo (Tfa), corso annuale che permette di ottenere l’abilitazione per l’insegnamento nella scuola secondaria di primo e di secondo grado, finiti al centro delle polemiche per i numerosi errori nelle domande, sono stati elaborati da commissioni nominate dal ministro il 5 agosto 2011, cioè quando al dicastero di viale Trastevere c’era il ministro Maria Stella Gelmini.

I test erano stati secretati per ragioni di sicurezza. Per accedere al corso, di cui quest’anno parte la prima edizione, creato per sostituire la Siss, è stata indetta una selezione nazionale, uguale in tutto il territorio italiano.

In totale hanno partecipato alle selezioni oltre 176.000 candidati, per 4.275 posti per l’insegnamento nella scuola secondaria di primo grado, 15.792 per l’insegnamento nella scuola secondaria di secondo grado. Il test di selezione si è svolto dal 6 al 31 luglio ed è stato composto da 60 domande con risposte a scelta multipla.

-Dopo la conclusione delle prove sono stati individuati errori nelle domande. Il ministero, il 5 agosto scorso, ha riunito un’apposita commissione per la valutazione delle segnalazioni degli errori. Il 10 agosto scorso si sono conclusi i lavori della Commissione di docenti universitari, nominata dal ministro per verificare la correttezza scientifica dei test delle prove nazionali di preselezione ai Corsi di Tfa. Ciascun docente ha rivisto le domande della disciplina di sua competenza e ha riportato i risultati del suo lavoro su un format in cui figura il numero delle domande riconosciute non corrette, l’esposizione dell’errore contenuto nella domanda e/o nelle risposte, la matrice corretta ove possibile.

IL PROF NUCCIO ORDINE: ”IN QUIZ TFA NOZIONISMO DI BASSA LEGA, SONO AVVILENTI”

Sono ”avvilenti, improponibili e inopportune”. Domande da ”rischiatutto” dove prevalgono un ”nozionismo di bassa lega e un uso del sapere mnemonico avvilente”. Nuccio Ordine, ordinario di Letteratura italiana all’Università della Calabria, non usa mezzi termini per definire i quiz. Sì a ”prove rigorose”, sottolinea Ordine all’Adnkronos, ma che ”diano al candidato la possibilità di esprimere i suoi meriti”. Sarebbe il caso, aggiunge, che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo convocasse una commissione di ”saggi” per trovare un’alternativa. Oltre alle polemiche sollevate dai candidati al tfa sui social network, che in molti casi hanno definito le domande ”impossibili”, a infuocare gli animi definitivamente è stata la scoperta degli errori nei quesiti e nelle risposte proposte. Imperdonabili errori a parte, la questione centrale resta l’inadeguatezza di questo tipo di quiz. ”Noi abbiamo sottolineato che il problema non sta solo negli errori dei quiz- riferisce il prof. Ordine – Sterilizzare gli errori non risolve la questione generale: la struttura di questi quiz è sbagliata alla radice. Non si possono ridurre le discipline umanistiche a domande da rischiatutto dove prevalgono un nozionismo di bassa lega e soprattutto un uso di un sapere mnemonico avvilente. Ad esempio sono tantissimi i quiz dove si chiedono le date”. A rivelare che nei test ”c’è un difetto di fondo”, secondo il professore, sono stati anche ”i risultati negativi sul piano nazionale delle ammissioni”. ”Il dato più importante su cui noi abbiamo insistito è che la gran parte delle domande, pur non essendo errate, risultano improponibili e inopportune, perché troppo specialistiche – spiega – Citare una quartina di un sonetto di Tasso, che ha scritto oltre 1.800 poesie, e pensare che uno possa riconoscerla è folle, non sarebbe facile neanche per uno specialista”. ”Anche le domande che sono state poste su alcuni testi offerti agli studenti nei test sono un’occasione perduta: non fanno altro che riprendere l’idea che una pagina di un critico sia più importante della pagina di Pirandello stesso – prosegue Nuccio Ordine – La tendenza è quella di emarginare i classici e di mettere al centro la parola del critico: una tendenza spaventosa, che sta rovinando anche l’insegnamento delle discipline umanistiche e che vediamo anche nell’editoria scolastica. Mentre si moltiplicano in maniera esponenziale i manuali di letteratura, i classici spariscono: ce ne sono alcuni che non vengono nemmeno più ristampati”. ”Nella sostanza a rileggere tutti i quiz si ha un’impressione di avvilimento delle discipline umanistiche, ridotte a dati mnemonici e a nozionismo degradato – aggiunge – Il ministero dovrebbe ripensare una prova di questo tipo, che è un concorso nazionale. Va tenuto presente che ci rivolgiamo a dei futuri insegnanti”. ”Sono d’accordo con il parametro nazionale su cui misurare tutti i candidati e che le prove debbano essere rigorose – sottolinea – ma devono essere prove che si fondano sui contenuti e che diano al candidato la possibilità di esprimere i suoi meriti e il suo valore”. Il ministro Profumo dovrebbe ”convocare una commissione di saggi” per trovare una valida alternativa.

IL PROF LUCIANO CANFORA: ”QUIZ TFA DEGRADANTI, BUONI PER I CRETINI”

”Non si possono degradare così la scuola e l’università”. I quiz delle selezioni per accedere al Tirocinio formativo attivo per il professor Luciano Canfora, docente di Filologia Classica all’università ‘Aldo Moro’ di Bari sono ”antieducativi”. ”Ho detto dal primo momento che non si possono degradare la scuola, e un domani l’università, con questi quiz – sottolinea Canfora all’Adnkronos – La cosa è quasi banale: la stramberia consiste nel non sottoporre a prove autenticamente culturali e scientifiche: come una composizione di italiano, una traduzione dal greco o dal latino. In tutto il mondo civile si fa così. Per vedere la maturità di una persona è necessario che componga un testo di senso compiuto, non che faccia queste prove irrilevanti dove un cretino che ha una buona memoria supera i quiz e una persona di cultura che non ricorda un dettaglio viene esclusa. E’ antieducativo”. ”Il tipo di prova che ho evocato è stato per secoli in vigore”, dice Canfora, ”poi sono arrivate queste americanate di terzordine o di accatto, frutto di qualche fremito esterofilo di persone che non sanno quel che fanno. Chi le ha scelte sicuramente non è un genio”. ”Il vero problema sono i tagli agghiaccianti alla scuola fatti dal governo precedente – sottolinea Canfora – ora con questi corsi strapieni di pedagogia si cerca di contenere la massa degli aspiranti docenti. Una prova ben pensata di vero vaglio culturale rende inutili questi quiz”. ”Se in Parlamento ci fossero persone competenti in questo ramo queste brutture non accadrebbero. Da quando si decise di abrogare la forma normale, il concorso, si è fatto di tutto pur di non fare esami sensati, tali da determinare una scelta vera”, aggiunge il prof. Quanto alle diverse modalità di accesso all’insegnamento, dalla Siss in poi, Canfora aggiunge: ”Tutto questo insieme di corsi a pagamento, i cosiddetti titoli ‘seduti’ che si conseguono cioè per il solo fatto di stare seduti ad ascoltare una persona, partono dal presupposto che l’università è inutile. E’ una follia malsana: comprarsi il corso per poi avere un pezzo di carta. Questi corsi partono dal presupposto che l’università è inutile e gli studenti-laureati non affrontano mai una vera prova”.

Da Agenzia Adakronos

"Ferragosto non fermerà un'estate da record", di Luca Mercalli

Una nuova pulsazione dell’alta pressione africana si sta espandendo sull’Europa centro-meridionale. Questa volta l’apice del caldo non sarà raggiunto al Sud Italia, bensì tra Spagna e Midi francese, e interesserà dunque maggiormente le regioni alpine, fino ad ora rimaste escluse dai calori più intensi delle scorse settimane. Nei prossimi giorni e fino a martedì 21 agosto lo zero termico si porterà a 4500 metri sulle Alpi occidentali, divorando i ghiacciai, e i termometri indicheranno fino a 38-40 gradi dalle pianure dell’Alessandrino alla Romagna e nella Toscana interna, e valori attorno ai 30-35 gradi sulle regioni centro-meridionali.

Ormai dalle prime anticipazioni statistiche, che saranno definitive a fine mese, si può comunque assegnare all’estate 2012 la seconda posizione dopo quella epocale del 2003, che ancora per durata e intensità mantiene un primato poco invidiabile. Caratteristica di questa stagione estiva 2012, più che il raggiungimento di picchi di caldo estremo, è stata la perdurante continuità: sia giugno sia luglio sono stati mesi termicamente ben al di sopra della media, che ora si avviano a essere completati da un agosto analogo. Eppure si diceva un tempo «Agosto inizio d’inverno». Ed era vero che in genere dopo Ferragosto l’estate italiana manifestava i primi segni di cedimento soprattutto su Alpi e settentrione: temporali frequenti, prime imbiancate di neve sulle vette e notti più fresche e rugiadose.

Da una decina d’anni tuttavia non è più così, l’estate tende infatti ad attardarsi fino ad autunno inoltrato e agosto, da mese subordinato a luglio, è diventato gran protagonista dell’estate meteorologica mediterranea. E’ stata infatti la prima decade dell’agosto 2003 la parentesi più rovente della storia italiana degli ultimi secoli, con la simbolica soglia dei quaranta gradi toccata anche nelle aree urbane di Torino, Milano e Bologna, ma pure nel 2009 l’incursione d’aria africana si rinnovò tardivamente, e nei giorni 20-21 agosto si toccarono 40 gradi a Firenze-Peretola, 37 a Verona e 38 a Bologna. E per chi ha la memoria corta pure il 21 agosto 2011 stabiliva un primato di caldo a Firenze, con 40,8 gradi, e quasi 39 nell’Alessandrino.

Pertanto l’episodio attuale si inserisce pienamente nella tendenza recente verso estati più lunghe e più calde, peraltro previste da decenni dai modelli di simulazione numerica del clima come sintomo inequivocabile del riscaldamento globale. In queste condizioni la siccità giorno dopo giorno conquista posizioni: i temporali hanno interessato negli scorsi mesi in modo rilevante solo le Alpi, mentre a sud del Po il deficit di pioggia si fa sentire e il caldo prolungato non fa che aumentare l’evaporazione e le esigenze idriche agricole e civili. Nei prossimi giorni è probabile che di caldo, di carenza d’acqua e di cambiamenti climatici si parlerà molto, poi dalla prossima settimana, con il ritorno di temporali, aria più fresca, e la chiusura delle vacanze tutto verrà presto dimenticato, come accade di solito per le alluvioni, che si presenteranno poi all’appuntamento autunnale.

Eppure la ricerca scientifica internazionale sta apportando elementi sempre più rigorosi e affidabili agli scenari climatici che ci attendono, di cui questi episodi anomali rappresentano per ora casi relativamente gestibili e isolati destinati a infittirsi. Cosa aspettiamo dunque a intraprendere una seria politica di mitigazione e di adattamento? La crisi economica non è una buona scusa per ignorare la severissima sfida ambientale che abbiamo di fronte e che ha bisogno di un grande sforzo di pianificazione a lungo termine per essere efficace.

La Stampa 17.08.12