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"Gli ultimi fuochi del populismo italiano", di Michele Prospero

Una destra molto malandata per risollevarsi dalla polvere intende riproporre il suo eterno gioco deviante che mescola populismo e leaderismo. Da una parte tocca a Maroni scaldare gli umori del populismo più sfrenato con la proposta di un referendum sull’euro che taglia la testa alla complessità dei problemi e, in prossimità del baratro, riduce il confronto a opzioni lugubri sulla migliore morte da augurarsi. Dall’altra riappare il Berlusconi di sempre che si incarica di ridestare le ormai spente emozioni riposte sul carisma e ha già prenotato la nave crociera per sperimentare la gestazione di nuovi rapimenti misticheggianti.

Il territorio, un tempo occupato con i riti pagani della Lega, e l’immaginario, sollecitato ad arte con la seduzione dei desideri illimitati, si ritrovano di nuovo insieme. Molte volte questa accoppiata di leaderismo (che cuce coinvolgenti emozioni sul corpo sacro del capo) e populismo (che nel radicamento in un angusto spazio assediato difende una finta identità etnica coesa) ha funzionato. Il rude territorio padano che reclama l’esclusione dell’altro e l’immaginario che ricama il desiderio hanno vinto diverse battaglie. Questa antica ricetta è ora però solo una caricatura perché a smontarla in maniera irreparabile ha provveduto la grande crisi. Il territorio si è liberato della Lega infangata dagli scandali e l’immaginario scappa in preda all’incubo del Cavaliere che ritorna dal mare nelle sembianze di un novello Schettino.
Gli illusionismi contorti, le deviazioni semantiche sfornate dalla grande fabbrica dell’immaginario a nulla hanno potuto di fronte alla asprezza della crisi che ha travolto nella vergogna il fantomatico governo del fare. Il principio di realtà riapparso grazie alla scossa della crisi si è vendicato delle costruzioni simboliche che in diretta Tv narravano di esigibili contratti con gli italiani, di ricostruzioni a tempi di record, di ristoranti pieni e di aerei stracolmi.
Il timido principio di realtà ridestato dalla crisi ha indotto un elettore pigro a prestare un po’ più di attenzione per gli spaccati di mondo rimossi dal Candido dell’ottimismo, ovvero dai media al sevizio della privatizzazione del potere. Ma questo ancoraggio al reale non significa che la via della politica sia diventata del tutto trasparente e rassicurante. Maroni e Berlusconi sono soltanto i residui malconci di esperimenti falliti ed è difficile che la loro ridicola sceneggiata possa di nuovo incantare. Però la polveriera della società italiana non è affatto spenta, solo che la cenere rimasta in giro dovrebbe trovare altri interpreti per tornare ad ardere in modo minaccioso. La magia di una nuova semplificazione mitica viene esplicitamente evocata dagli editorialisti del Corriere della Sera che raccomandano la creazione di partiti personali a getto continuo e la imposizione di iniezioni a raffica per rigonfiare i muscoli di un novello capo carismatico da venerare per le sue sovrumane sembianze.
Le infinite vie della semplificazione (intraprese dal comico, dal manager, dall’ex magistrato) reclamano l’eterno incastro di populismo e leaderismo perché, in tempi di crisi, diventa assai più agevole cavalcare il negativo che incombe e coltivare sconce illusioni. Commetterebbe però un madornale errore la sinistra se contrapponesse al dialetto blasfemo dei populismi aggressivi la lingua aulica di una ragione complessa e distaccata che si culla nella sua vantata superiorità. Questa scorciatoia tardoazionista (che, dimenticando la grande lezione di Locke e Hume, mette l’etica contro le passioni, la complessità della ragione contro la semplificazione delle emozioni) porterebbe al naufragio. Molto meglio sarebbe invece per la sinistra attingere dalla antropologia negativa di un grande pensatore della crisi come Machiavelli. Egli rifletteva proprio su come guidare i comportamenti di soggetti incerti e spaesati che in tempi di crisi paiono anzitutto assillati dal «timore di scendere».
La paura di una rapida discesa sociale, la paralizzante percezione di una imminente perdita di status, rendono più agevole, in una contesa politica, il trionfo di una destra irresponsabile che fa leva sulle pulsioni elementari ai danni di una sinistra leggera che si limita a predicare stancamente la superiorità dei valori immacolati del bene pubblico. Fuor di metafora. La sinistra può vincere anche in tempi di crisi purché non scimmiotti l’avversario sul suo terreno minato (leaderismo e populismo) e abbia la forza politica per imporre un altro gioco. Vedere la politica dalla parte delle sue radici, ossia alla luce dei grandi interessi sociali coinvolti, è la leva con la quale la sinistra può tornare a vincere. Muovere dalla rappresentazione della propria parte di società per ridefinire il generale, premere sulle passioni del proprio mondo per ricostruire una ragione: questo è il compito di una sinistra in grado di dare scacco alla destra in agguato che le tenta tutte per mare e per terra.

L’Unità 17.08.12

"Ai test per i prof domande sbagliate. Passano tutti", di Flavia Amabile

Il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, era armato di ottime intenzioni quando ha deciso di ammettere gli errori commessi durante la realizzazione dei test per la preselezione al Tfa, il Tirocinio formativo attivo. Nel comunicato del 5 agosto, dove si chiedeva scusa per quanto accaduto, c’erano la voglia di trasparenza, il coraggio di non nascondersi, il desiderio di andare oltre e di garantire il funzionamento della macchina messa in moto. Tutto sacrosanto. Anche perché la media complessiva dei quesiti errati è stata del 18,8% e in alcune classi di concorso si arriva a oltre 4 quiz su 10 errati.

È stato più difficile, però, per molti digerire il passo successivo, vale a dire la sanatoria che ha reso corrette le domande che una commissione nominata dal ministero ha considerato errate o, comunque, di ambigua interpretazione. All’improvviso il numero degli ammessi è cresciuto a dismisura, in alcuni casi addirittura decuplicato, facendo andare su tutte le furie chi aveva risposto in modo esatto alle domande.

Il Sussidiario.net ha pubblicato una lettera dai toni molto duri firmata da «Un gruppo di aspiranti insegnanti che hanno superato la prova preliminare del Tfa». «Siamo indignati – scrivono – di fronte a questo trattamento iniquo che mette sullo stesso piano la preparazione e la mancanza di preparazione, il merito e la buona sorte». «Con questa operazione – proseguono – si è squalificato una volta per tutte il valore della prova preliminare». Concludono chiedendo «con forza» le graduatorie precedenti o «l’attribuzione di un bonus aggiuntivo ai candidati così platealmente penalizzati». Altrimenti? Altrimenti un’azione legale collettiva. Lettere simili stanno arrivando a tutti i siti che si occupano di scuola, a indicare che non si tratta di un’iniziativa isolata. E quindi il sogno del ministro di garantire il funzionamento della macchina del Tfa dello scorso anno è piuttosto a rischio. Così come quello di dare un segnale di buona volontà a chi ha partecipato ai test e a chi dovrà partecipare in futuro.

Le polemiche non si sono mai fermate. Nella classe 61 di concorso, quella dei futuri prof di Storia dell’arte, c’è chi ha contestato la correzione della seconda commissione, sostenendo che vi sono nuovi errori. Oppure la classe A111 di Lingua e Civiltà Cinese, dove denunciano «violazioni di regolamento». La confusione è totale mentre un altro fronte è pronto a scoppiare. In molti hanno chiesto di conoscere l’elenco dei responsabili degli errori. Si tratta di una commissione nominata con il Decreto Direttoriale numero 52 del 5 agosto 2011. Ma è inutile provare a cercare il documento sul sito del Miur, è stato secretato. Il ministro Francesco Profumo ha scelto di non dare in pasto a tutti il nome di persone che non ha nominato ma che comunque ritiene non elegante non difendere in un momento come questo. Da viale Trastevere si dicono certi di avere fatto il massimo intervenendo nel modo più tempestivo possibile garantendo la tenuta della selezione e assicurano che le prossime prove saranno svolte in modo molto diverso. Si sta pensando ad una prova unica nazionale mentre le commissioni saranno formate da docenti universitari ed esperti di test in grado di valutare le competenze dei futuri prof.

Ma la spiegazione del Miur non ha convinto del tutto, a girare in rete lo scetticismo è molto. Ci si chiede come sia possibile aver affidato tutto ad un gruppo di persone nominato da un precedente ministro e non aver controllato nemmeno i testi di una classe di concorso in tutti questi mesi. Sul piede di guerra anche i decani della cultura umanistica. Ventisette grandi professori hanno scritto al presidente della Repubblica per denunciare lo scandalo delle prove di accesso al Tfa e per chiedere «modalità di valutazione davvero consone alla professione di insegnante».

La Stampa 17.08.12

“Basta con il 3 in pagella” la battaglia dei voti che divide la scuola, di Maria Novella De Luca

Incoraggiano. Scoraggiano. Servono. Non servono. Sopra il 4, sotto il 4, a volte c’è anche il “meno-meno”, in mezzo ci sono gli studenti frastornati, le famiglie ancora di più, e un sistema di valutazione, quello italiano, più contraddittorio che mai. Voti alti, voti bassi: la discussione dura esattamente da 35 anni. Da quando nel 1977 i “numeri” della pagella scolastica vennero sostituiti dai giudizi, per riapparire però pochi anni dopo, riveduti, corretti e accompagnati da asterischi e postille, in una contabilità di meriti e demeriti ancora più complicata. E se negli anni la battaglia ha riguardato prima il sei politico e poi il diciotto garantito, oggi al centro del contendere c’è il quattro. E molto di più, come ha raccontato su
Repubblica la scrittrice (e insegnante) Maria Pia Veladiano, spiegando perché è inutile, anzi controproducente, mettere agli studenti voti troppo bassi, sotto il quattro appunto, sotto quell’asticella simbolica che spesso i ragazzi traducono con «io non valgo, io non sono». Trasformando a volte un’interrogazione fallita in un disagio esistenziale.
Ed è da qui infatti che è ripartita la discussione sui voti scolastici. A cominciare dalla propostaprovocazione del preside del liceo Berchet di Milano, Innocente Pessina, che nella primavera scorsa aveva proposto al consiglio dei docenti di non scendere più, nella valutazione degli studenti, sotto il quattro. Evitando appunto quel frazionamento (umiliante) dei tre meno-meno, due e mezzo, e così scendendo e spezzettando. Un’idea che è già realtà in Trentino, dove non esistono voti fino alla terza media, e alle superiori il voto più basso, è appunto, il quattro… Giusto, sbagliato? Le posizioni sono diverse e diversificate, anche se non ci sono più le fazioni pro-voto, e quelle anti-voto. Caduta infatti la contrapposizione ideologica, ciò che resta, sottolinea Benedetto Vertecchi, docente di Pedagogia Sperimentale all’università di Roma Tre, è la constatazione dell’assenza in Italia, «di un meccanismo di valutazione chiaro, basti guardare il fallimento dei test Invalsi».
Perché ciò che manca, dice Vertecchi, «è un sistema di valori solido in cui inserire il voto o il giudizio, un rapporto studente-allievo di fiducia, non un numero puro e semplice e tutto finisce con quel quattro, qualunque sia il contesto, qualunque sia la condizione globale di quel ragazzo». Insomma il voto è un simbolo, non negativo in sé, ma spesso del tutto insufficiente a rappresentare la realtà di uno studente. «Dunque è inutile — aggiunge Vertecchi — essere tanto severi, se poi quel 4 in pagella non serve ad un cambiamento». Favorevoli invece a mantenere i voti così come sono, i genitori del Moige, preoccupati dell’avanzare di una scuola troppo facile e permissiva.
«Ai ragazzi non servono sconti, la scuola deve educare alla durezza della vita — ha commentato Antonio Affinita — e deve essere chiara. Il rischio vero è quello di creare un ambiente talmente ovattato e protetto per i nostri ragazzi da spingerli verso comportamenti non propri. E se uno studente ha preso un 2, un motivo ci sarà…».

La Repubblica 17.08.12

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“Un due scoraggia i ragazzi e incrina il rapporto con il prof”

Professor Pessina, al liceo Berchet avete abolito i voti al di sotto del 4?
«Aboliti no, ma sono molto diminuiti. Un successo. Ma non è stato facile».
Perché? Lei alcuni mesi fa aveva chiesto ai prof del suo liceo di non mettere più voti al di sotto del quattro.
«Infatti. Ho fatto quella proposta per due motivi: ho visto che i voti inutilmente bassi scoraggiano gli studenti, e perché al Berchet non c’era una equità valutativa ».
Cioè professori più “avari” di voti e altri più “generosi”?
«Proprio così. Per quattro anni ho raccolto i dati degli scrutini, li ho elaborati al computer, e poi ho dimostrato che di fronte a due studenti con la stessa preparazione, uno aveva magari la sufficienza, l’altro un voto più basso».
La reazione dei prof?
«Pessima, all’inizio. Perché ho dimostrato loro che bisogna essere credibili, e i voti troppo bassi non servono. Di fronte ad un 2 gli studenti non migliorano. Si sentono offesi. E questo perché quel 2 gliel’ha dato un professore che non ha alcuna relazione educativa loro. E allora bisogna ritrovare questa relazione, altrimenti la fuga dalla scuola continuerà».
(m. n. d. l)

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“Non rinunciamo al nostro ruolo la delusione diventa riscatto”

Paola Mastrocola, lei è insegnante e scrittrice. Che voti mette ai suoi studenti? Anche qualche 2 o 3? O sotto il 4 non si scende?
«Non sono mai contenta di mettere un voto basso, ma se il tema di un ragazzo merita 3, io lo valuto 3. Però poi sono lì ad ascoltarlo, a mostrargli, se vuole, la strada per recuperare».
Non crede che gli studenti di fronte ad una critica così netta possano demotivarsi?
«Ma noi non possiamo avere paura del nostro ruolo, non possiamo non sgridare un bambino che tira le pietre sugli altri per paura che pianga. Questa è una educazione della dismissione. E credo che gran parte dei problemi dei ragazzi derivino dalla paura degli adulti di educarli».
E come reagiscono i suoi studenti ai brutti voti?
«Male, come tutti i ragazzi. Spesso però questa delusione si trasforma in una voglia di riscatto. Ma il rapporto con l’insegnante è fondamentale. Trovo assurdo invece bocciare».
Lei manderebbe tutti avanti?
«Le bocciature non sono mai utili, sono anni perduti. Piuttosto utilizzerei i livelli come nella scuola americana. Tutti arrivano in fondo, anche se con votazioni e punteggi differenti».
(m.n.d.l)

La Repubblica 17.08.12

"La doppia linea d'ombra", di Massimo Giannini

LA “linea d’ombra” tedesca, come la chiamava Tommaso Padoa-Schioppa, torna a offuscare l’orizzonte d’Europa. È già successo, nella parabola a tratti tragica del Novecento. Succederà ancora, in quella pacifica del Terzo Millennio. L’identità fragile di una moneta rischia di alimentare un’alterità irriducibile tra i popoli. Quello che colpisce di più, nella nuova ondata revanchista partita dalla Germania, è la trasversalità del fronte politico schierato contro i vituperati Paesi del Club Med. Paesi che prosperano irresponsabili a spese delle finanze tedesche, contro la Bce dell’“italiano” Mario Draghi che gli regge il gioco, e alla fine contro l’euro che finisce per mettere in comune i vizi dei “latini” e
le virtù dei “teutoni”.
Il voto del prossimo anno non pesa solo a Roma. C’è un elettore anche a Berlino. Ma finora, almeno da quelle parti, non si era mai visto un fuoco incrociato che vede convergere i partiti della maggioranza, la Cdu e l’Fdp, e quelli dell’opposizione, la Spd, su una stessa linea non più solo rigorista, ma al dunque anche potenzialmente anti-europeista. Una linea populista e difensiva, quella emersa a sinistra con Schneider, che dà voce al contribuente tedesco stanco di pagare il costo dell’integrazione europea e del salvataggio dei Paesi periferici dell’eurozona: non i 310 miliardi di cui parla la Merkel, ma quasi 1.000 se si sommano gli aiuti, i crediti e le garanzie prestate finora dalla Bundesrepublik. Una linea sciovinista e quasi eversiva, quella rilanciata a destra da Willsch e Schaeffler, che dà corda all’ortodossia monetarista della Bundesbank stanca di soccombere nel board di una Bce ormai trasformata in una “bad Bank” finanziatrice di Stati-canaglia: dunque, si cambi “la regolamentazione del peso dei voti nelle sedi decisionali” dell’Eurotower.
Poco importa se la prima tesi sia falsa: la Germania, in rapporto al Pil, contribuisce al fondo salva-Stati meno di molti altri Paesi (compresi quelli del Sud). E poco importa se la seconda ipotesi sia assurda: introdurre nel Sistema delle Banche Centrali un criterio che fu caro a Enrico Cuccia, in base al quale «i voti non si contano, ma si pesano», oltre a implicare una revisione dello Statuto e quindi del Trattato, comporterebbe una violazione del principio democratico. “Una testa, un voto”, è una regola che vale e deve valere ovunque, in Occidente. Nel Bundestag come nel board della Bce. Ma il problema della “linea d’ombra” tedesca, a questo punto, è un altro. L’insofferenza contro i vincoli di questa Europa ineguale e irrisolta non è più solo questione di “falchi”, come finora ci siamo comodamente abituati a pensare. Questa sorta di sindrome di Weimar, che ritorna sotto altre spoglie e attanaglia a Berlino l’intero arco costituzionale, riflette con tutta evidenza un malessere sempre più radicato e diffuso nell’opinione pubblica tedesca.
Questa evidenza ha due implicazioni. La prima implicazione riguarda il destino stesso della moneta unica, e in questo ambito il ruolo della Banca Centrale Europea. Com’è chiaro a tutti, la partita inaugurata nel Vertice Ue il 28-29 giugno e poi nel Consiglio direttivo dell’Eurotower, il 2 agosto, non è affatto conclusa, ma semmai è appena cominciata. E Draghi non l’ha certo vinta, quella partita, ma deve ancora giocarla, riempiendo di fatti concreti gli annunci formulati in conferenza stampa. Una missione delicatissima, vista la risoluta e ostinata opposizione tedesca all’acquisto diretto di bond dei Paesi a rischio spread, come la Spagna e l’Italia. Se il programma di rifinanziamento non parte a settembre, qualunque sia la formula scelta (un nuovo Ltro o una riattivazione dell’Smp), la tregua agostana concessa dai mercati finirà, e per la moneta unica suonerà forse la campana dell’ultimo giro.
La seconda implicazione riguarda proprio l’Italia. L’irredentismo tedesco va confutato e arginato. Ma va innanzitutto capito. Il “superiority complex” della Germania non nasce solo dalla spocchiosa arroganza, inaccettabile in un Popolo che non finirà mai di farsi perdonare abbastanza per le carneficine novecentesche che ha generato. Origina anche dalla consapevolezza di un Sistema-Paese fondamentalmente sano, e di una società sufficientemente evoluta. Dove le riforme strutturali sono state compiute e dove la crescita non è solo il risultato di un’economia “sociale”, ma anche un derivato della filosofia morale: il giusto premio, cioè, alla scelte eticopolitiche condivise dalla nazione.
In un’Europa che si vuole federale e solidale, la pretesa che anche gli altri contraenti del patto comunitario facciano altrettanto non solo non è irricevibile, ma va raccolta perché è profondamente giusta. Questo, in Italia, sembra averlo capito solo Monti. E solo Monti sembra aver capito che, in un momento così difficile, per paradosso il nostro alleato più prezioso è proprio la Cancelliera di Ferro. Non è un caso se proprio la Merkel, in Europa, continua a difendere Draghi. E non è un caso se proprio la Merkel, in Germania, subisce per la prima volta un assedio bipartisan. Oggi noi abbiamo bisogno della Zarina di Berlino. E dunque fa bene il presidente del Consiglio a coltivare con lei un rapporto politico e personale che finora, a parte qualche momento critico, non ha conosciuto appannamenti.
Ma la Zarina di Berlino ha anche bisogno di noi. Per evitare che in casa sua si punti inevitabilmente il dito contro quelle che tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre qualcuno chiama «le solite cavallette italiane», l’Italia non deve cedere un millimetro sul fronte della tenuta dei conti pubblici e sul rispetto dell’impegno al pareggio di bilancio strutturale. Come ricordano da giorni il premier e il ministro del Tesoro Grilli, «l’emergenza è tutt’altro che finita». Al di là delle formule, questo significa che la nostra, purtroppo, resta e deve restare ancora a lungo una politica economica «emergenziale». Margini per tornare a spendere, o per allargare in altro modo i cordoni della borsa, non ce ne sono ancora. E questo vale per il governo in carica, ma anche per i governi che verranno. Cedimenti propagandistici, su questo fronte, producono solo danni: illusioni tradite all’interno, ritorsioni adirate all’estero. Qui si apre un drammatico deficit di consapevolezza, nei partiti che si preparano a una campagna elettorale lunga ed estenuante. È la “linea d’ombra” italiana. E non è meno pericolosa di quella tedesca.

La Repubblica 17.08.12

"Legge elettorale: ecco chi vuole il Porcellum", di Andrea Carugati

Aggrappati al Porcellum. O meglio: ostili a qualunque modifica dell’attuale legge elettorale. O ancora: favoriti dall’inerzia delle cose, speranzosi che l’intesa (ancora virtuale) su una nuova legge possa naufragare (cosa del tutto possibile). Uno schieramento trasversalissimo, composto da leader e partiti tra loro anche lontanissimi. Ma accomunati da questo non trascurabile elemento.
1) BEPPE GRILLO
Il leader del Movimento 5 stelle da alcuni giorni tuona contro l’ennesima truffa dell’odiata «casta», la possibile intesa su un sistema proporzionale con sbarramento al 5% e premio al primo partito. Grillo ha definito la bozza «Napoletellum», con buona dose di sarcasmo verso l’inquilino del Colle che da tempo si batte per cambiare la legge elettorale. «Abolendo il premio di coalizione vogliono scongiurare che il M5S diventi maggioranza in caso di successo. Rimarrebbe solo la grande ammucchiata in nome della governabilità». La prima affermazione non pare suffragata dai fatti. Avendo infatti i grillini negato qualunque forma di alleanza con altri partiti, non avrebbero alcun vantaggio particolare dalla permanenza del Porcellum. Pur arrivando (ottimisticamente per loro) al 20% si classificherebbero ragionevolmente dopo l’asse Pd-Sel, e dovrebbero dividersi i seggi spettanti alle opposizioni con Pdl, Lega e Idv. Con il nuovo sistema, invece, la lista grillina potrebbe concorrere al primato per il primo partito. E, in caso di mancata vittoria, non ci sarebbe per loro alcuna particolare penalizzazione: avrebbero una rappresentanza parlamentare proporzionale ai consensi ottenuti. Perché allora Grillo tuona contro la bozza? Perché ha tutto da guadagnare dal fallimento delle altre forze politiche. E tornare a votare con il Porcellum sarebbe la prova che questo Parlamento non è in grado di riformare nemmeno la legge elettorale.

2) DI PIETRO
Il leader Idv non può essere accusato di non aver fatto nulla per cambiare questa legge elettorale. Ha partecipato, insieme a Sel e parte del Pd, alla raccolta di oltre un milione di firme per il referendum (poi bocciato dalla Consulta) che proponeva il ritorno al Mattarellum. E tuttavia, tramontata l’ipotesi di un ritorno alla legge del 1993, ora all’Idv conviene che la legge non cambi. E infatti Tonino spara ogni giorno contro ogni possibile accordo. La permanenza del Porcellum sarebbe l’unica chance per far sentire il suo peso elettorale e trattare un rientro nel centrosinistra. Oppure per convincere Grillo dell’utilità di un’alleanza prima del voto. Nel caso in cui la legge cambi, invece, la corsa solitaria di Idv potrebbe essere molto pericolosa. Con la concorrenza su un lato dei grillini e sull’altro dell’asse Pd-Sel, l’ex pm rischia di non raggiungere lo sbarramento del 5%. Di qui la segreta speranza che nulla cambi.

3) GLI EX AN
Affezionati al bipolarismo rissoso della Seconda Repubblica, di cui sono stati tra i più brillanti interpreti, faticano a immaginare uno scenario politico diverso da quello nato nel 1994, e che li ha sdoganati dopo quattro decenni di emarginazione. Sempre più a disagio dentro il Pdl, gli ex colonnelli di Fini rimasti col Cavaliere temono un cambiamento del sistema politico indotto da una nuova legge elettorale. E, ancor più, si oppongono a qualunque ipotesi di impegno o responsabilità nazionale venga affacciata dall’ala dialogante del partito. Per questo insistono nell’opera di sabotaggio di qualsiasi accordo: dalle riforme costituzionali alla legge elettorale. Prima con il feticcio del presidenzialismo, poi con il diktat sulle preferenze, sono tra i più fedeli alleati del Berlusconi che straccia gli accordi raggiunti dai suoi sherpa poche ore prima.

4) LA LEGA
L’alleanza col Pdl, rinnegata da tutti i nuovi maggiorenti del Carroccio, resta sempre sul tavolo. E per pesare davvero nella trattativa col Cavaliere i leghisti hanno bisogno che il Porcellum resti in vigore, col suo ampio premio di maggioranza. In caso contrario, la Lega punta a un sistema iper proporzionale, che non premi nessuno. La loro proposta di legge (con un premio solo alla coalizione che superi il 45%) ne è la conferma. Quanto alla tattica, il Carroccio dirà no a qualunque ipotesi di intesa tra le forze che sostengono Monti. Troppo imbarazzante stringere patti, anche se solo sulle regole, con le forze che sostengono l’odiato governo tecnico. Molto più comodo restare alla finestra e sparare contro ogni possibile intesa, per mantenere un profilo da oppositori “duri e puri”.

5) BERLUSCONI
In fondo dietro le mancate intese di questi ultimi mesi sulle riforme c’è sempre il Cavaliere. Mosso esclusivamente da interessi personali, del tutto disinteressato a dare alle istituzioni un assetto più moderno ed efficiente, il leader del Pdl, fin dai tempi della Bicamerale (passando per il dialogo con Veltroni del 2007 sulla legge elettorale) è stato abilissimo nell’aprire trattative con i leader progressisti per poi affondarle. Anche in queste settimane la vera incognita per qualunque intesa è lui. Apparentemente, una riforma del Porcellum potrebbe convenirgli (visto che se il premio di coalizione al 55% alla Camera andasse a Pd, Sel e Udc lui resterebbe a spartirsi con Grillo e Idv i circa 280 seggi delle opposizioni). E tuttavia Berlusconi prende tempo. Coerente con la sua inaffidabilità.

L’Unità 15.08.12

"Terremoto: in arrivo deroghe ai Prg per salvare l’agricoltura", di F.D.

Troppo costoso ricostruire gigantesche strutture coloniche, saranno più piccole I danni nel mondo rurale salgono a 3 miliardi ma arrivano gli anticipi della Pac. L’agricoltura resta un tasto dolente nel programma regionale. I danni del terremoto ammontano ad oltre 3 miliardi, la siccità sta facendo il resto e poi c’è il problema della ricostruzione con casolari giganti, costruiti per ospitare famiglie patriarcali e ora abitati da nuclei ristretti. Proprio su questo punto è in corso un’accesa discussione che passa anche attraverso le modifiche ai Prg comunali: saranno necessarie delle pesanti deroghe all’eventuale ricostruzione delle abitazioni rurali e dei fienili crollati. Se, invece, si deciderà di restare vincolati alle attuali cubature – ipotesi comunque in antitesi con quello che si sta studiando in Regione – allora ci si troverà con una campagna abbandonata, fatta di ruderi. «La dotazione del programma di Sviluppo Rurale a favore dell’Emilia-Romagna – ha spiegato l’assessore Muzzarelli, che ha relazionato l’assemblea dopo un lavoro di sintesi con i colleghi Tiberio Rabboni, vicario dell’agricoltura e Alfredo Peri, delegato alle infrastrutture – è stata potenziata di circa 135 milioni euro grazie alla solidarietà delle altre Regioni. Con queste risorse saranno indennizzate le imprese agricole ed agroalimentari per i danni riguardanti le macchine, le attrezzature, gli impianti e le scorte vive e morte. Il bando verrà pubblicato a settembre. La parte dei danni riguardante gli edifici produttivi agricoli verrà invece indennizzata con il fondo dei 6 miliardi di euro. Successivamente, sempre a favore delle stesse aziende, saranno resi disponibili interventi specifici per la ripresa della competitività. Per quanto riguarda la perdita di valore dei prodotti agricoli il loro indennizzo sarà a carico del fondo per la ricostruzione. Infine un importante sostegno finanziario agli agricoltori dei territori colpiti dai terremoti di maggio, è stato ottenuto con il pagamento dell’anticipo della Pac 2012 effettuato da Agrea – Agenzia regionale per le erogazioni in agricoltura dell’Emilia-Romagna. Da ultimo, sono stati adottati provvedimenti regionali di differimento di termini per la realizzazione di investimenti da parte di aziende agricole e agroindustriali, tali da consentire tempi adeguati al raggiungimento degli obiettivi. Per non perdere terreno sul versante dell’innovazione e della competitività, il decreto legge 83 ha previsto un credito d’imposta per l’assunzione di figure professionali di alto profilo e il decreto legge 74 ha istituito un fondo di 50 milioni di euro per la ricerca, per le filiere produttive dell’area colpita dal sisma». Critiche indirette sono arrivate dal consigliere del Pdl Filippi che, agganciandosi alle polemiche sulla coop “Terremerse”, ha accusato Errani di favorire le cooperative, continuando a finanziare i progetti di filiera che mettono in grossa difficoltà gli agricoltori. «Perché i contadini non sono degli stupidi – ha detto, venendo ripreso dal presidente dell’assemblea, Matteo Richetti, per l’utilizzo di un termine più colorito – Dobbiamo difenderli, sono loro a faticare, ad avere problemi, a non riuscire neppure ad arrivare a fine mese».

La Gazzetta di Modena 15.08.12

"Terremoto: niente case sequestrate ma gli sfollati in affitto", di Francesco Dondi

Tendopoli chiuse entro l’autunno. Lo aveva già annunciato l’assessore Paola Gazzolo a Mirandola, ma solo a patto che fosse pronto in tempi rapidi il “Piano Casa”. E ieri è stata emanata un’ordinanza, firmata dal presidente Errani, che inizia a fare chiarezza sulle modalità di ospitalità degli sfollati. La tanto temuta requisizione sembra scongiurata, ma soltanto se tra disponibilità di alloggi sfitti e moduli temporanei sarà possibile soddisfare le richieste di tutti i nuclei familiari. Per prima cosa il Comune emanerà un bando per capire quanti effettivamente necessitano di una casa in affitto. Non potranno farne richiesta coloro che sceglieranno di richiedere il contributo di autonoma sistemazione. Avranno la priorità chi ha l’abitazione crollata o completamente inagibile e a seguire si terrà conto del numero dei componenti della famiglia, della presenza di disabili, di anziani e minorenni e di persone con patologie croniche gravi. Il sindaco, comunque, avrà un minimo di flessibilità nell’individuare le priorità e stilare una lista. La durata massima dell’affitto è di 18 mesi e andrà interrotto appena la propria abitazione tornerà agibile anche dopo i lavori di ristrutturazione. L’affitto – quantificabile in base ai canoni Acer e per cui è previsto uno stanziamento regionale di 25 milioni per reperire circa 2mila alloggi – sarà pagato dalla Regione mentre l’assicurazione per eventuali danni arrecati sarà a carico dell’affittuario. Il risarcimento non potrà superare i 3500 euro, ma se il danno sarà superiore saranno il Comune o l’Acer a rimborsare il proprietario, rivalendosi poi sull’assegnatario. Ma se la famiglia in affitto non dovesse uscire di casa? Il proprietario sarà indennizzato dell’affitto più un ulteriore 20% mentre l’assegnatario pagherà 30 euro al giorno a Comune/Acer. Saranno a carico della famiglia ospitata anche le spese condominiali mentre saranno loro riconosciuti, come contributi una tantum, un massimo di 1000 euro per il trasloco e ulteriori 2mila per l’arredamento nel caso la “nuova” casa dovesse essere priva di mobilio. Gli oneri per mettere in pratica l’ordinanza ammontano a circa 6 milioni di euro che, come ormai vuole la consuetudine, saranno presi dal fondo per la ricostruzione. Le stime parlano di un provvedimento che riguarderà circa 550 nuclei familiari attualmente sfollati. A ciò andranno aggiunti circa 500 moduli temporanei e rimovibili da destinare a chi abita nelle zone rurali e che ha la necessità di restare vicino alla propria azienda. Il censimento è in corso insieme alle associazioni di categoria. Ma è ormai certo che diversi paesi dovranno installare i moduli abitativi – le famose casette temporanee – riservati a chi non ha trovato una casa in affitto oppure attraverso l’autonoma sistemazione. I moduli, per evitare le new town, andranno posizionati in aree vicine al centro, preferibilmente già urbanizzate. Errani, per reperire sul mercato le nuove casette, sta sondando il mercato alla ricerca di strutture di 30, 40 o al massimo 60 metri quadrati. «Ma nel contratto d’affitto per i moduli – precisa il presidente – inseriremo anche lo smontaggio per evitare situazioni di abbandono riscontrate altrove».

La Gazzetta di Modena 15.08.12

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Salgono a 900 euro i contributi per il Cas

Nuove sovvenzioni per le sistemazioni autonome: nella prima fase, ancora da saldare, spesi 39 milioni. E chi non volesse andare in affitto sfruttando il canale istituzionale? Ecco la seconda soluzione per coloro che hanno la casa inagibile e si apprestano ad affrontare l’autunno. La Regione, nell’ordinanza 24, determina un sostanzioso aumento del contributo per l’autonoma sistemazione (Cas) che passa da un massimo di 600 a 900 euro. In dettaglio: sarà riconosciuto un contributo di 200 euro per ogni componente del nucleo familiare a cui si potranno eventualmente aggiungere 100 euro mensili per persone portatrici di handicap o disabili con invalidità superiore al 67%; altri 100 euro per ogni anziano over 65 e ulteriori 100 euro per ogni under 14. L’importo del contributo non varia se un componente del nucleo familiare risponde a più stati. Nel caso di single il contributo sarà di 350 euro mensili contro i 200 previsti nel provvedimento precedente. Per le sistemazioni di durata inferiore al mese il contributo è determinato dividendo il contributo massimale spettante per i giorni del mese, moltiplicato per i giorni di mancata fruibilità dell’abitazione. Ancora incerta la stima di spesa per la Regione anche se si parla di cifra da capogiro. Per le 40mila persone, corrispondenti a circa 15300 nuclei familiari, che avevano fatto domanda di Cas entro il 7 luglio sono stati messi a budget 39 milioni e 200mila euro. Soldi che ancora non sono stati erogati anche se, a Bologna, si dice che arriveranno entro la fine del mese. L’impegno per il nuovo Cas è ulteriormente esoso e ricadrà, come sempre, sul budget per la ricostruzione. Ecco perché, dicono i maligni, molte abitazioni, ad una seconda verifica, sono state declassate da inagibili a parzialmente inagibili o addirittura ad agibili con prescrizioni. Per ottenere il nuovo contributo sarà necessario recarsi di nuovo presso il proprio Comune e stipulare la nuova domanda. Potranno richiedere il contributo anche coloro che, seppur sfollati, avevano soprasseduto nella prima tranche. Non potranno ottenere il beneficio i proprietari di seconde case agibili in cui sceglieranno di vivere in attesa della sistemazione della propria abitazione principale. Spetterà invece ai Comuni comunicare a coloro che usufruivano del vecchio Cas, ma che nel frattempo sono tornati agibili, l’inammissibilità al nuovo regime. (f.d.)

La Gazzetta di Modena 15.08.12

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“Ecco le procedure per riparare le case con inagibilità lievi”, di Alberto Setti

Contributi dell’80% su 120 metri quadri, parametri elastici E in alcuni casi il limite di sicurezza sismica scende al 60%. L’ordinanza numero 24, una delle tre firmate ieri dal presidente Errani, prova a fare un po’ più di chiarezza sulle procedure e sui limiti nella sistemazione delle abitazioni colpite da inagibilità di tipo B, C ed E lieve. Due paginette che lasciano comunque spazio ai dubbi, di natura procedurale e tecnica. Vediamo. Edifici con abitazioni principali inagibili ma recuperabili con pronti interventi o parzialmente inagibili. Qui non si tratterà di rendere antisismica tutta la casa, ma solo di risolvere i problemi in parti singole. «Gli interventi – spiega l’ordinanza – consistono nella riparazione o sostituzione di singoli elementi strutturali (travi, architravi, pilastri, pannelli murari…) o parti di essi, senza cambiare il comportamento globale della struttura e della resistenza sismica». In questi casi «non è richiesta l’analisi sismica dell’intero edificio, ma la sola valutazione dell’incremento di sicurezza delle parti strutturali in cui si interviene». La documentazione da presentare è semplificata: domanda, relazione sul nesso di causalità tra sisma e i danni, perizia, progetto degli interventi strutturali. «Dovrà essere indicata anche l’impresa esecutrice dei lavori», precisa l’ordinanza. Dalla domanda (che vale anche come “denuncia di inizio attività”) il Comune ha 60 giorni per verificare la pratica e mettere il famoso timbro che autorizza il contributo. E qui viene il bello, perché tra prezziari, 80% della spesa, metratura e formulette “magiche” la questione per i profani si burocratizza. «Il contributo – dice l’ordinanza – è concesso nella misura massima dell’80% della minore somma tra importo dei lavori ammissibili e riconosciuti e quello ottenuto moltiplicando la superficie complessiva dell’unità immobiliare per un costo parametrico». Diciamo pure che si poteva scrivere in modo più semplice. Comunque «il costo parametrico (che l’ordinanza non specifica) è incrementato in relazione alla dimensione degli alloggi, alle caratteristiche tipologiche, localizzative e alla presenza di vincoli». L’ordinanza richiede per lo più interventi strutturali e ammette che, se fatti con coerenza, possano essere rimborsati anche gli interventi già eseguiti. Edifici totalmente inagibili ma con livelli di danno e vulnerabilità inferiori ad una soglia determinata. Per questi (inagibilità di tipo E lieve) è richiesto invece che i lavori portino almeno al 60% del livello di sicurezza antisismica stabilito dalla normativa del 2008. E in questo caso sono previsti interventi strutturali minimi inderogabili e una verifica sismica dell’intero edificio, prima e dopo l’intervento. Anche in questo caso si passa dal Comune, per ottenere il via libera al contributo. La cui entità (altra frase “speciale”) «è commisurato alla dimensione delle unità immobiliari, all’importo dei lavori strutturali, e di finiture connesse e al costo parametrico massimo fissato per unità immobiliari fino a 120 metri quadrati». Spuntano qui i famosi 120 metri e anche qui il costo parametrico è incrementato in relazione alla dimensione degli alloggi e ad altri fattori. E anche qui il contributo «non potrà superare l’80% del minore importo tra spesa effettiva e costo parametrico».

La Gazzetta di Modena 15.08.12