Latest Posts

"Da quale spirito nasce la grande coalizione", di Piero Ignazi

La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto di tutto per porsi agli occhi dell’opinione pubblica europea come una figura negativa, una testarda, teutonica maestrina dalla penna bruna. Ma non merita le caricature con baffetti hitleriani con cui l’hanno dipinta i contestatori greci. Per certi aspetti è ancora “la ragazza”, nomignolo attribuitole da Helmult Kohl quando era una sua protetta. La sua aria un po’ spaurita non evoca Sturm und Drang o tragedie nibelungiche. Ha più l’aspetto di una Heidi ben pasciuta che di una Brunilde furiosa. E poi il suo interesse primario riguarda la politica interna, con un occhio attentissimo al proprio partito. Dopo aver fatto fuori senza tanti complimenti il suo mentore Kohl, inguaiato da un affaire di finanziamenti occulti, in questi anni ha emarginato tutti i potenziali concorrenti all’interno della Cdu. Inoltre, e soprattutto, la Merkel non è un leader “carismatico”, capace di trascinare le folle verso un “sonderweg”, un destino speciale. In questi tempi di crisi, pur propizi per l’affermarsi di un tale tipo di leadership, la Cancelliera non indica soluzioni originali né si pone alla guida di alcun progetto di portata generale. Anche all’interno non ha fatto altro che raccogliere e gestire le riforme fatte dal governo rosso-verde di Gerhard Schroeder.
Perché averne paura allora? Perché dipingerla come «il nemico »? Rovesciamo la prospettiva e azzardiamo una ipotesi diversa: oggi la Germania può rappresentare quel “vincolo esterno”, un tempo fornito dall’Ue, per consentirci di superare limiti e vizi nazionali. E la Merkel un alleato prezioso.
Uno stimolo per superare la nostra situazione di crisi viene dallo “stile della politica” tedesca. Non parliamo di buone maniere che pur contano e gli insulti quotidiani tra i nostri leader politici in terra germanica non sono nemmeno immaginabili. Lo stile politico tedesco che dovremmo “importare” è quello che consente il superamento delle divisioni con un approccio pragmatico e orientato all’accordo. La Germania è stata definita dal politologo Manfred Schmidt il Paese della grande coalizione. Questa etichetta non deriva dai due momenti di grosse koalition tra Cdu/Csu e Spd sperimentati fin qui (1966-69 e 2005-2009), bensì dalla modalità con la quale si gestiscono i contrasti. Sia a livello sociale che a livello politico ogni conflitto che blocca il processo decisionale viene demandato ad una camera di compensazione. Così come sono presenti le rappresentanze dei sindacati nei comitati di gestione delle grandi fabbriche (una eresia per gli industriali italiani), altrettanto viene attivato un comitato di conciliazione quando le leggi si incagliano nel passaggio tra la Camera bassa (Bundestag) e la Camera alta (Bundesrat). Questo avviene spesso perché la camera alta, che rappresenta i vari Lander, ha spesso maggioranze diverse e variabili nel tempo (le elezioni dei Lander sono sfalsate tra loro e rispetto a quelle nazionali). E allora quando una legge votata dal Bundestag incontra una netta opposizione nel Bundesrat entra in azione un comitato paritario che cerca un compromesso.
E quasi sempre lo trova nei tempi previsti.
In sostanza, lo “spirito” della grande coalizione aleggia in Germania anche in assenza di un governo tra i due grandi partiti.
Al confronto è chiaro che la nostra esperienza dell’Abc ha le gambe corte: perché non nasce da una concezione della politica orientata all’accordo, alla risoluzionen trasparente dei conflitti. Troppo profonde le divisioni che hanno lacerato gli schieramenti in questi vent’anni per passare da un momento all’altro ad un “vero” governo di grande coalizione. Mancano i presupposti politico- culturali. Manca una idea condivisa della politica, ancor più che sulle politiche. Invece di riproporre governi di
grosse koalition senza fondamenta meglio ricercare o fondare quella cultura politica che li rese possibili in Germania, e cioè l’atteggiamento pragmatico e orientato al compromesso, il riconoscimento e la fiducia reciproca tra gli schieramenti. La Germania ci serve oggi come riferimento virtuoso non tanto sul piano economico quanto su quello istituzionale e della cultura politica. Ed anche su un piano etico perché, come ricordava ieri il Presidente del Consiglio Mario Monti, comportamenti illeciti come l’evasione fiscale abbassano il nostro rating nella considerazione delle classi dirigenti internazionali. Mentre chi coniuga laboriosità e impegno con rigore e legalità viene premiato. Visioni che accomunano il nostro Presidente del Consiglio con la Cancelliera tedesca.

La Repubblica 19.08.12

"Lotta al debito e strani rimedi", di Emilio Barucci

Come un fiume carsico, riemerge sistematicamente la tentazione di ricorrere a misure straordinarie per abbattere il debito pubblico. Partiamo da qualche numero. Il debito pubblico è pari al 125% del Prodotto interno lordo e il suo finanziamento costa tra i 5 e i 6 punti di Pil. Questa situazione ovviamente non appare sostenibile: il debito dovrà essere ripagato dalle generazioni future.
Già oggi, per finanziarlo, lo Stato italiano drena ingenti risorse dall’economia. La non comprimibilità di larga parte della spesa pubblica fa sì che lo Stato in queste condizioni non sia in grado di svolgere un ruolo adeguato nel welfare, negli investimenti e nella politica industriale.
Nelle ultime settimane sono fiorite tutta una serie di proposte per abbattere il debito. Quelle avanzate da personalità di grande rilievo appaiono per lo più boutade estive, frutto della pochezza del dibattito politico o dell’acume di qualche commentatore con la verità ‘‘facile’’ in tasca. Un’ancora importante per orientarci è rappresentata dal fatto che le privatizzazioni e tutte le manovre straordinarie dal 1994 a oggi hanno fruttato meno di 250 miliardi di euro. Considerando il fatto che si è partiti dismettendo le cose più facili, appare alquanto improbabile riuscire a privatizzare attività per 400 miliardi come vorrebbero Alfano e Brunetta.
Spararla grossa può far colpo sull’opinione pubblica ma è anche un sintomo di poca serietà. Il secondo elemento che lascia perplessi è il meccanismo messo in campo. Spesso la valutazione degli asset non tiene conto della capacità del mercato di assorbire le operazioni (in momenti di crisi non è facile privatizzare). Per sopperire al problema si disegnano veicoli e incentivi che dovrebbero garantire il successo dell’operazione e si finisce spesso per fare appello allo spirito patriottico dei risparmiatori e delle istituzioni finanziarie che in modo più o meno volontario dovrebbero aderire al progetto.
La proposta più articolata e ricca di spunti è quella di Astrid (detta Amato-Bassanini) che prevede operazioni per 174 miliardi in cinque anni. Seppur gonfiata nell’importo, la proposta ha il merito di partire da una valutazione degli asset realistica e di non trascurare il rischio esecuzione del progetto. Le linee di intervento sono cinque: dismissioni di immobili (72 miliardi), dismissioni di aziende pubbliche (40 miliardi), valorizzazione delle concessioni (30 miliardi), tassazione dei capitali in Svizzera (17 miliardi), gestione del debito (15 miliardi).
Le cifre sono ottimistiche ma alcune linee di intervento appaiono condivisibili e praticabili. Visto l’ingente – e mal utilizzato – patrimonio pubblico immobiliare, puntare sulla sua dismissione appare corretto, gli ostacoli vengono dal fatto che il grosso degli immobili è in possesso degli enti locali e che la loro valorizzazione necessita di un non facile coordinamento con le politiche urbanistiche. Occorre creare i giusti incentivi per gli enti locali. Condivisibile appare anche l’idea di passare tramite fondi immobiliari che alla prova dei fatti si sono dimostrati essere lo strumento più efficace. Interessante appare anche l’idea di cartolarizzare i proventi delle concessioni anche se deve essere chiaro che si anticipano entrate (certe) future. Mentre l’idea di passare tramite vincoli e incentivi sulla gestione del debito per ridurne il costo appare pericoloso e dalla dubbia efficacia, sicuramente praticabile è la proposta di un accordo con la Svizzera simile a quello stipulato da Germania e Inghilterra sui capitali non scudati. Un’ultima considerazione sulla dismissione delle imprese pubbliche: sarà difficile raggiungere 40 miliardi senza cedere Eni e Enel, ciò non toglie si possa dismettere qualche azienda (un pezzo di Poste ad esempio). Anche la privatizzazione delle ex municipalizzate appare complicata senza prima mettere mano a una loro aggregazione. Cassa depositi e prestiti, previa una più precisa definizione della sua missione e della struttura proprietaria, può giocare un ruolo importante. Nessuno ha la ricetta magica ma un piano per dismettere asset per 15 miliardi all’anno nei prossimi 10 anni, come auspicato dal ministro Grilli, è fattibile e il progetto Astrid (diluito nel tempo) rappresenta una buona base di partenza. Visto che un progetto del genere non giungerà a maturazione prima delle elezioni, sarebbe bene che gli aspiranti leader si esercitassero sulla materia sin d’ora evitando le boutade estive.

da L’Unità

"Quell'Italia inquinata da bonificare", di Roberto Giovannini

Una ricerca ha analizzato i decessi nelle zone dei poli industriali: sono migliaia più della media

Migliaia di morti, causati dall’inquinamento industriale diretto o indiretto, tra il 1995 e il 2002. Parliamo di tumori polmonari e malattie respiratorie a Gela e Porto Torres. Tumori della Pleura a Casal Monferrato e nelle zone dove si lavorava l’amianto. Insufficienze renali dovute all’esposizione a metalli pesanti, a Massa Carrara, Piombino, Orbetello, nel basso bacino del fiume Chienti e nel Sulcis-Iglesiente-Guspinese, in Sardegna. Malattie neurologiche a Trento nord, causate da piombo, mercurio e solventi organo-alogenati. Linfomi dovuti all’esposizione a Pcb (policlorobifenili) a Brescia, nell’area Caffaro. Malformazioni congenite a Massa Carrara, Falconara, Milazzo e Porto Torres. E naturalmente, Taranto: tumori al polmone, malattie respiratorie acute, dell’apparato digerente, ischemie.

A seconda delle tecniche statistiche adoperate, si può parlare di una forchetta tra i 3508 e i 9969 decessi «aggiuntivi», plausibilmente correlati proprio all’inquinamento diretto (emissioni industriali) o indiretto (discariche, aree durevolmente contaminate, depositi di materiale nocivo). Un bollettino di guerra. Che arriva da fonti autorevoli e ufficialissime: il rapporto «SENTIERI» (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento) coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità sotto l’egida del ministero della Salute.
Lo studio epidemiologico, diffuso nel novembre del 2011, è frutto di una ricerca durata quattro anni. L’idea è calcolare con sofisticate tecniche statistiche i casi di «mortalità in eccesso» nell’arco considerato, ovvero i decessi aggiuntivi a quelli che si sarebbe verificata in assenza di inquinamento. I territori esaminati, 44 (quelli più importanti) dei 57 «siti di interesse nazionale».

È questo il termine eufemistico con cui vengono definite le aree ad alto rischio ambientale, quelle dove sono concentrate le industrie più inquinanti del Paese, 298 comuni in cui vivono quasi 6 milioni di persone, il 2% del territorio nazionale. Aree in cui l’inquinamento di aria, suolo, sottosuolo, acque superficiali e sotterranee è talmente grave da costituire un pericolo per la salute pubblica. Zone industriali, dismesse e non, porti, lagune, cave, discariche abusive e miniere, che sulla base della legge dovrebbero essere bonificate con un contributo pubblico. E soldi, anche, di chi ha inquinato. Si tratta di 21 siti al Nord (di cui cinque in Piemonte, tra cui Casale Monferrato e Cengio), 8 al Centro, 15 al Sud. Per ogni sito sono stati stimati gli effetti separati e «congiunti» dei vari agenti inquinanti sulla popolazione. Complessivamente in queste 44 aree sono stati individuati, nel periodo 1995-2002, 3508 decessi dovuti con evidenza a priori all’esposizione ad agenti ambientali nocivi. Considerando le morti anche senza evidenza a priori, si arriva a 9969 morti. Correttamente, i ricercatori spiegano anche che in molti casi (aree urbane, presenza di diverse tipologie industrie) i dati vanno interpretati con qualche cautela.

È un’istantanea impietosa di una guerra silenziosa condotta contro gli italiani da chi produce inquinando, o chi lo ha fatto in passato creando vaste aree pericolose. Una fotografia che però raffigura solo la punta di un iceberg ben più vasto: a parte i circa 1250 decessi l’anno ragionevolmente collegati all’inquinamento industriale diretto e indiretto, bisogna considerare anche le persone che sono colpite da queste patologie in forma non letale. E quelle che, purtroppo, moriranno tra diversi anni.

La mappa è impressionante. Nei poli petrolchimici si contano 643 morti in eccesso per tumore polmonare, 135 per malattie non tumorali dell’apparato respiratorio. Nelle aree con impianti chimici, 184 casi di morte per tumore del fegato. L’amianto, con il letale mesotelioma pleurico, il killer della Eternit, nei dodici siti contaminati (il Nordovest e il Piemonte sono ovviamente particolarmente colpito, con Balangero, Casale Monferrato, Broni, Emarese in Val d’Aosta) ha prodotto 416 decessi aggiuntivi. Gli incrementi della mortalità per tumore polmonare e malattie respiratorie a Gela e Porto Torres si legano alle emissioni di raffinerie e poli petrolchimici. A Taranto e nel Sulcis-Iglesiente-Guspinese pesano le emissioni degli stabilimenti siderurgici e metallurgici. Le morti in età neo e perinatale per malformazioni congenite e condizioni morbose si legano all’inquinamento registrato a Massa Carrara, Falconara, Milazzo e Porto Torres.

Insufficienze renali causate da metalli pesanti, IPA e composti alogenati si registrano a Massa Carrara, Piombino, Orbetello, nel Basso Bacino del fiume Chienti e nel Sulcis-Iglesiente-Guspinese. Incrementi di malattie neurologiche per i quali i sospettati sono piombo, mercurio e solventi organoalogenati si osservano a Trento Nord, Grado e Marano e nel Basso Chienti., nelle Marche.
Nella lista c’è tutto il (cosiddetto) Belpaese. C’è il Sud con le discariche di rifiuti pericolosi – del tutto incontrollate, e spesso gestite dalla camorra o altre mafie – della campagna vicino Aversa, in Campania, o sulla costa domizio-flegrea a nord di Napoli. Ma c’è anche quella di Pitelli, in provincia di La Spezia, la discarica di rifiuti industriali più grande d’Italia sequestrata nel 1996. C’è la valle del Sacco nel Lazio del Sud, con Colleferro, per anni centro di fabbriche di armi ed esplosivi. Ci sono i petrolchimici di Gela e Porto Marghera, a Venezia. E c’è Taranto.

da www.lastampa.it

“Agenda digitale. L’ombra del conflitto di interessi”, di Marco Ventimiglia

Il varo è atteso già a settembre, ma la sfida per modernizzare il Paese deve affrontare ostacoli palesi e nascosti. Telecom e il nodo della proprietà della Rete ancora irrisolto

«Un primo intervento, del valore di 3 miliardi di euro, volto a migliorare drasticamente l’infrastruttura digitale italiana. Ma sarà solo il primo passo perché a seguire verranno lanciati altri progetti di portata persino superiore». Il ministro Corrado Passera, è ormai acclarato, ama mettere la faccia su qualche cosa di importante. Lo ha fatto con il decreto Sviluppo, rischiando di perderla fino alla sofferta approvazione, e adesso è pronto a ripetersi per un altro provvedimento, l’Agenda Digitale, il cui varo è previsto già a settembre. A dispetto del nome, che non ha il pregio dell’immediata comprensione popolare, stiamo parlando di qualcosa di essenziale per il futuro del nostro Paese, ma che non per questo è scontato diventi una priorità della politica, ed anzi, ammesso che il varo avvenga effettivamente all’inizio dell’autunno, potrebbe incontrare ostacoli palesi e nascosti nella sua attuazione.
COMPLESSOD’INTERVENTI
Che cos’è l’Agenda Digitale? In estrema sintesi, si può definire come quel complesso di interventi volti a mettere l’Italia al passo con le gradi economie del pianeta in fatto di banda larga, infrastrutture digitali, e-commerce, e-government…
In sintesi ancor più estrema, permettere a tutti i cittadini di beneficiare delle enormi agevolazioni nella vita quotidiana permesse dalla diffusione capillare di Internet.
Non a caso lo stesso Passera ha più volte affermato che a godere dei frutti dell’Agenda Digitale non sarà soltanto l’economia italiana nel suo complesso, a partire dalle aziende e dall’apparato dello Stato, ma anche e soprattutto i cittadini che potranno beneficiare di un accesso più veloce ed efficace ai servizi pubblici, al sistema sanitario ed alla pubblica amministrazione.
Fin qui tutto bello e più che condivisibile, anche da parte di coloro che sono rimasti fin qui estranei alla rivoluzione digitale. Ma analizzando più nel dettaglio gli ambiti operativi dell’Agenda Digitale ci si rende conto dei potenziali e non trascurabili ostacoli. In una recente intervista radiofonica il ministro Passera ha identificato una prima serie di obiettivi da raggiungere: sviluppo della banda larga su tutto il territorio nazionale, conseguente riduzione del cosiddetto “digital divide”, diffusione del “cloud computing” con lo spostamento direttamente dentro la Rete di una serie di dati e attività che prima risiedevano all’interno di server e computer, creazione di città intelligenti (smart cities). Obiettivi molto ambiziosi, se nonché il loro efficace conseguimento passa inevitabilmente dalla primaria realizzazione del primo, ovvero la diffusione della banda larga. Senza la creazione di autostrade digitali dove far passare dati, immagini, suoni e filmati, per portarli dentro le case, gli uffici, i luoghi di svago, non si va lontano. Al riguardo, già entro il 2013 il governo conta di raggiungere con collegamenti veloci di Rete tutte quelle aree che ne sono rimaste fin qui escluse, il tutto attraverso fondi già stanziati sia per il Settentrione che per il Centro e il Meridione, quest’ultimo in condizioni d’arretratezza anche sotto il profilo digitale.
Ai problemi che tutto ciò comporta in fatto di investimenti e complessi lavori infrastrutturali, in Italia se ne somma uno peculiare e da lungo tempo irrisolto. Si tratta della rete fisica di telecomunicazione che tuttora fa capo all’ex monopolista Telecom nonostante si parli da anni della necessità di uno scorporo. Il perché è abbastanza evidente: a parte l’anomalia di affidare ad un’azienda privata un compito di enorme rilevanza pubblica come la diffusione della banda larga, Telecom non dispone delle risorse economiche per svolgere un’attività del genere, anche a causa dell’enorme debito interno accumulato negli anni Novanta in seguito alle battaglie per assicurarsi il suo controllo. Ma mentre cercherà di superare lo scoglio della Rete, il governo rischia di andare a sbattere contro un altro ostacolo, meno evidente ma altrettanto pericoloso: il conflitto d’interesse.
Banda larga significa, fra le altre cose, poter fruire con velocità e qualità di servizi d’intrattenimento che prima viaggiavano fuori da Internet, in primis la tv. Una grande opportunità per i cittadini, sicuramente una minaccia per chi ha costruito un impero sulla fruizione televisiva tradizionale, quella Mediaset che già sta scontando non pochi problemi per il passaggio dall’analogico al digitale terrestre. Gran brutta storia, se la convenienza di pochi dovesse ancora una volta prevalere sull’interesse di tutti.

da L’Unità

"Nessun ateneo italiano tra i primi cento", di Valentina Santarpia

Sono le Università di Pisa e La Sapienza di Roma i migliori atenei italiani: a sostenerlo è l’Academic ranking of world universities (Arwu), una classifica elaborata dalla Jiao Tong University di Shanghai, tra le più accreditate a livello internazionale insieme a quelle elaborate annualmente da Times higher education e QS World university rankings. La decima edizione della ricerca di Shanghai, che assegna ad Harvard il primo premio, elenca le 500 migliori università nel mondo: tra queste compaiono 20 istituzioni accademiche italiane, contro le 22 dello scorso anno, ponendo l’Italia all’ottavo posto tra le nazioni, insieme alla Francia.
Tra le novità più importanti, la «scomparsa» dalla classifica delle Università di Siena e Pavia, e il cambiamento di posizione di due atenei: Palermo, che è andata peggiorando, spostandosi dal gruppo collocato tra il 301° posto e il 400° a quello tra il 401° e il 500°, e la Scuola Normale di Pisa, che invece ha migliorato le sue performance, passando dal gruppo 301-400 al gruppo 201-300. I due atenei di Roma e di Pisa (nel blocco 101-150) precedono invece come l’anno scorso Milano e Padova, tra il 151° e il 200° posto, e quelli di Bologna, Firenze, Torino, del Politecnico di Milano e della Scuola Normale, che si situano tutti tra il 201° e il 300° posto. Nella parte bassa della graduatoria, si piazzano Genova, Napoli (Federico II), Roma Tor Vergata, tutte tra il 301° e il 400° posto, per chiudere con il gruppo più corposo, quello degli atenei collocati tra il 401° e il 500° posto, dove troviamo la Cattolica, il Politecnico di Torino, l’università di Bari, Ferrara, Palermo, Parma, Perugia e la Bicocca di Milano.
Sono tutti punteggi che a prima vista non appaiono così lusinghieri. Ma «se si considera che l’Arwu valuta circa 5.000 università in tutto il mondo, che essere fra il 100° e il 150° posto significa essere nel 3% delle università migliori al mondo», come fa notare il prorettore della Sapienza Giancarlo Ruocco, «il risultato è di tutto rispetto». Allora perché gli atenei italiani ancora non riescono a entrare nel gruppo dorato delle prime cento, occupato per lo più da inglesi e americani? «Quello che ci manca è la capacità di organizzare il reperimento di fondi progettuali — spiega ancora Ruocco —. Soprattutto le università generaliste, non riescono a creare dei progetti validi che attirino risorse economiche e che ci permettano di crescere, anche a livello internazionale. E infatti uno dei compiti che ci siamo dati — conclude Ruocco — è quello di creare esperti del settore, professionalità specifiche in grado di mettere a punto i progetti di ricerca».
In effetti la classifica Arwu dà grande importanza alla qualità delle performance, sia accademiche che di ricerca, considerando elementi come il numero di riconoscimenti internazionali ottenuti dallo staff accademico, il numero delle pubblicazioni e delle citazioni, i risultati conseguiti in relazione alle dimensioni dell’istituzione. Rischia di non essere obiettiva, come ipotizza la ministra francese all’Istruzione Geneviève Fioraso, secondo cui l’Arwu «non tiene conto della qualità dell’insegnamento e ignora in gran parte le scienze umane e sociali»? «Tutte le classifiche sono parziali, indicative, perché fanno riferimento solo ad alcuni indicatori — risponde il presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) Enrico Decleva —. E comunque in Italia o si assume un atteggiamento più responsabile, e cioè ci si rende conto che bisogna investire in alta formazione, oppure le università nostrane non potranno mai essere ai primi posti della classifica».
Un esempio su tutti? «Il rapporto docente/studente sta precipitando nel nostro Paese — sottolinea Decleva —. E questo va corretto: l’internazionalizzazione ha bisogno di risorse, umane ed economiche». «Non a caso i primi sono sempre gli inglesi e gli americani — incalza il rettore del Politecnico di Milano, Giovanni Azzone —. In quei Paesi ci sono alcuni poli universitari che attraggono la maggior parte delle risorse e che così diventano eccellenza in settori specifici. In Italia questo non succede, è tutto molto frammentato». Come se ne esce? «Imitando il modello francese e tedesco — spiega Azzone —, dove si hanno molti centri di qualità ma si punta sull’eccellenza di alcuni». È la strada intrapresa dall’Università di Pisa, che non a caso nella classifica Arwu ha ottenuto un risultato lusinghiero anche per quanto riguarda i macrosettori: in Scienze naturali ha confermato la leadership, essendo l’unica italiana presente tra le prime 100 al mondo; in Matematica e Fisica ha ribadito l’eccellenza, posizionandosi per entrambe tra il 76° e il 100° posto al mondo; e in Chimica e Informatica è entrata tra il 101° e il 150° posto.
Ma numeri in classifica e graduatorie hanno davvero un senso per chi studia? «Assolutamente sì — conclude Azzone —. Sono passati da due a quattro milioni i ragazzi che ogni anno scelgono di frequentare l’università all’estero nei Paesi dell’area Ocse. Dobbiamo avere visibilità internazionale se vogliamo essere competitivi e attrarre cervelli. O non far fuggire i nostri».

Il Corriere della Sera 18.08.12

"La lezione tedesca", di Pietro Greco

Il dibattito che si va sviluppando in questi giorni in Italia intorno all’Ilva di Taranto (o l’industria o l’ambiente, o il lavoro o la salute) è drammaticamente vecchio. E mentre noi ripetiamo da anni gli stessi concetti, altri Paesi sono andati avanti.
E hanno affrontato la stessa questione in modo assai concreto sia come teoria che come pratica.
La teoria, tanto per essere chiari, dice che non esiste alternativa al lavoro fondato su una produzione industriale che non tenga conto dei vincoli ambientali e sanitari definiti al meglio delle conoscenze scientifiche. E dice che se pongo sui piatti della bilancia, da una parte l’economia e dall’altra l’ecologia, è la bilancia che si rompe. La teoria, infine, dice che i vincoli ambientali non sono necessariamente dei limiti, ma possono diventare fattori di innovazione e di sviluppo (sì, sviluppo non solo crescita) sostenibile sia da un punto di vista sociale che ecologico.
Cerchiamo di applicare la teoria punto per punto al caso Ilva, agganciando il nostro ragionamento a fatti empirici verificabili.
1) L’analisi scientifica dei dati ci dice che l’Ilva di Taranto ha inquinato nel passato e tuttora inquina, sia pure in misura molto minore. I chimici hanno verificato che ci sono ampi spazi contaminati: non solo in aria, ma anche in terra e in mare. E che le aree contaminate sono da bonificare. Gli epidemiologi hanno verificato che questo inquinamento ha prodotto in passato e continua a produrre effetti sanitari seri, anzi tragici. E che le cause di malattie gravi e di morti vanno rimosse.
Questa è la realtà scientifica, verificata dai migliori esperti italiani. In ogni altro Paese europeo e – come si diceva una volta – occidentale, non si fa a pugni con la realtà: la si accetta e si cerca di costruire, sui dati di fatto, un futuro desiderabile. Da noi c’è chi, pur di non riconoscere di avere la febbre, rompe il termometro. E così si cerca di gettare discredito su scienziati di grande valore, che il mondo spesso ci invidia e che lavorano a stretto contatto con organizzazioni internazionali.
2) Non è affatto scontato che una fabbrica che produce acciaio del tipo di quella di Taranto – a ciclo integrale, con convertitore a ossigeno – sia necessariamente inquinante: esistono tecnologie in grado di abbattere il tasso di emissioni di sostanze tossiche e pericolose entro i limiti fissati dalle norme europee.
3) Non è vero che la produzione “pulita” di acciaio è impossibile in un Paese a economia matura, con alto costo del lavoro e stringenti vincoli ambientali. Le tecnologie pulite vengono comunemente impiegate sia in Giappone, sia negli Stati Uniti, sia in Germania: rispettivamente al secondo, terzo e quarto posto nella classifica dei maggiori produttori mondiali (il primo produttore mondiale è la Cina). La Germania, in particolare, produce circa 45 milioni di tonnellate di acciaio, contro i 29 milioni di tonnellate dell’Italia (dati 2007). Il 70% della produzione, oltre 30 milioni di tonnellate, avviene con il sistema utilizzato all’Ilva di Taranto. Ebbene, anche questa produzione tedesca di acciaio non solo rispetta le normative europee, ma è assolutamente competitiva sui mercati mondiali. Tant’è che, assicura l’agenzia Fitch, è in aumento, dopo la crisi del 2008. Dunque, produrre acciaio nel rispetto dell’ambiente e della salute umana è possibile. Anche in Paesi a economia matura, con alto costo del lavoro e vincoli ambientali stringenti.
4) Altro dato empirico: abbiamo appreso nei giorni scorsi che l’economia tedesca ha ripreso a crescere, anche a ritmi più sostenuti del previsto, nonostante il resto d’Europa, Italia in testa, sia in recessione. Perché la Germania cresce e gli altri no? Il motivo non risiede nella politica finanziaria del Paese: l’economia tedesca cresce perché la sua industria tira. Sono aumentati, infatti, sia i consumi interni che le esportazioni di beni prodotti dalle industrie. Ma perché il sistema produttivo del primo Paese industriale d’Europa, la Germania, tira e quello del secondo Paese industriale d’Europa, l’Italia, no? I motivi sono diversi, ma di gran lunga il principale è che il sistema industriale tedesco punta sulla qualità, anche ambientale, del prodotto, mentre il sistema industriale italiano – dalla Fiat all’Ilva – cerca di competere muovendo, verso il basso, le leve del costo del lavoro e dei diritti sul lavoro delle deroghe alle norme ecologiche e sanitarie. In Germania il sistema industriale ha effettuato un salto culturale, accettando di fare i conti con la realtà: se una produzione inquina se ne prende atto e si cerca di intervenire senza nascondere la polvere sotto il tappeto, ma trasformando i “vincoli” in “opportunità di innovazione”, sia nei processi sia nei prodotti. Il che non significa “maggiori spese”, ma “maggiori investimenti” in ricerca e sviluppo. I frutti di questi investimenti e di questa cultura si vedono. Il Paese riesce ad avere, nel medesimo tempo, un ambiente migliore, minore disoccupazione, maggiori salari e a far crescere la propria economia mentre il resto d’Europa affonda.

L’Unità 18.08.12

"Il pugno di Putin ci riporta al Medioevo", di Viktor Erofeev

La scelta di percorrere una nuova strada. La Russia ha deciso di muoversi nella direzione di Teheran, dell’oscurantismo politico- religioso. «È uno schiaffo a ogni persona che pensi con la propria testa!» ha esclamato Katja, la mia moglie venticinquenne, non appena ha saputo che le ragazze del gruppo punk Pussy Riot erano state condannate a due anni di carcere.
È vero. Io, per esempio, non pensavo che il tribunale di Mosca avrebbe scelto la pena della reclusione. Lo ritenevo impossibile. Centinaia tra gli esponenti più celebri del mondo della cultura russa si sono pronunciati a favore della loro liberazione. Poi si sono aggiunte le star della musica internazionale, in testa Paul McCartney, Madonna e Sting. Ma l’impossibile è diventato possibile. Aver eseguito (quaranta secondi di esibizione) la canzone-performance punk “Madonna, liberaci da Putin!” sull’altare della cattedrale di Cristo Salvatore alle ragazze è costato la prigione. Se avessero cantato “Madonna, proteggi Putin!”, anche nel luogo più sacro dell’ortodossia, con il tempo avrebbero potuto ambire a ottenere un posto da deputato della Duma. Ma loro, al contrario, sono parte di quel movimento sociale di protesta che nega la legittimità delle elezioni della Duma e dello stesso Putin. Perciò tale verdetto è una forma di intimidazione e di vendetta personale. Non lo si potrebbe definire altrimenti.
Il verdetto di colpevolezza pronunciato dal tribunale rappresenta la crisi del potere dello stato russo. Invece di instaurare un dialogo con le fasce più progressiste e illuminate della popolazione, il Cremlino propone paura per tutti. Il potere, sentendosi illegittimo agli occhi di una parte della società, ha deciso di passare al contrattacco. È evidente che Putin non voleva confrontarsi con un partner politico come Khodorkovskij. Ma se il processo a Khodorkovskij del 2004, per alcuni cittadini inclini alla riflessione, lasciava adito a dubbi (e se avesse veramente rubato somme stratosferiche?), quello alle Pussy Riot è chiaro come la luce del giorno. La Russia ha rinunciato a essere un paese moderno e civilizzato, ha preferito tornare al suo medioevo.
Il verdetto di colpevolezza rappresenta la crisi dell’ortodossia russa attuale. In epoca sovietica la religione aveva il sostegno degli intellettuali: la Chiesa era perseguitata. Oggi è la Chiesa stessa a perseguitare i propri oppositori e odia qualsiasi idea di stampo liberale. Bisogna essere ciechi per non capire che dopo tale verdetto la maggior parte dei giovani non varcherà più la soglia di una chiesa. All’interno della Chiesa Russa Ortodossa hanno trionfato le forze più oscure.
Il verdetto di colpevolezza rappresenta anche la crisi della mentalità russa. Se gli strati più europeizzati della società si schierano in difesa delle Pussy Riot, gran parte della popolazione è soddisfatta del verdetto, vorrebbe “farle nere”, frustarle pubblicamente. Il nostro è un paese arcaico.
Il verdetto di colpevolezza rappresenta anche la crisi del neofita. Il potere, dal presidente fino al più insignificante funzionario pubblico, ha deciso di avvicinarsi a Dio, di avere fede. Ma si tratta appunto di neofiti, comunisti del giorno prima che non conoscono le tradizioni della fede cristiana e che non hanno imparato a essere cristiani pensanti. Si sentono offesi dalla blasfemia come se fosse una minaccia per la loro fede.
Il verdetto di colpevolezza sulle Pussy Riot è uno sparo contro il futuro della Russia. Solo grazie alla comparsa di una nuova generazione potremo tornare a ragionare e voltarci verso l’Europa. Per ora, ciao, Europa! Noi prendiamo un’altra strada.

La Repubblica 18.08.12

******

“La condanna della Russia pop”, di Matteo Tacconi

Due anni di reclusione senza condizionale per le Pussy Riot. Maria Alyokhina, Nadezhda Tolokonnikova e Yekaterina Samutsevich si sono prese due anni di reclusione a testa. Uno in meno di quelli che aveva chiesto, la settimana scorsa, l’accusa. È questa l’unica variazione all’esito già scritto del processo alle Pussy Riot, terminato ieri. Il giudice Marina Syrova, pronunciando la sentenza, ha confermato che le tre del collettivo punk anti-Putin hanno violato l’articolo 213 del codice penale russo, che descrive il reato di hooliganismo. Le regole sono state infrante con la celebre preghiera punk – «Vergine Maria, caccia via Putin» il ritornello – inscenata lo scorso febbraio a Mosca, all’interno della cattedrale del Cristo Salvatore.
Secondo una parte degli osservatori la sentenza era stata in una certa misura anticipata dalle frasi rilasciate dal patriarca Kirill e da Putin. Il primo, già a febbraio, aveva bollato la preghiera punk come «atto di blasfemia che non può passare inosservato». Il secondo, più recentemente, s’è invece augurato un giudizio «non troppo duro», lasciando intendere – secondo i più – che un minimo di pena andava comunque comminata. Una sorta di condanna ante litteram, come dire.

Tra fede e flash mob, le due anime del paese
Il processo alle Pussy Riot, con tutta la fanfara mediatica che s’è scatenata attorno, non verrà dimenticato presto. Le Pussy Riot, evoluzione punk di Voina (Guerra), gruppo di street-art nato nel 2006 e politicamente molto attivo, hanno incassato la solidarietà di mezzo mondo. Giornalisti, parlamentari, ong e musicisti di levatura internazionale si sono mobilitati a loro favore. Tuttavia la vicenda che le vede coinvolte si misura non in virtù di questo, ma sulle ricadute politiche interne. Ci si chiede, volendo tagliare corto, se il sistema putiniano esce vincitore o vinto da questa storia. È prematuro tirare le somme.
Di certo c’è che il processo ha irrobustito o messo in evidenza, a seconda dei segmenti, le divisioni della società russa. Una corre lungo la linea che separa Mosca e San Pietroburgo dal resto del paese; i due storici centri della nazione dall’enorme periferia. Da una parte c’è una classe urbana che consuma, cerca il benessere individuale e a volte, s’è visto con le proteste di piazza dell’inverno e della primavera scorsi, rivendica aperture politiche. Dall’altra, come annota Catherine vanden Heuvel, direttrice della rivista The Nation, c’è una Russia che ha nella patria e nella fede ortodossa due importanti valori di riferimento.
Più che una manifestazione di dissenso, questa porzione di paese – ha argomentato Catherine vanden Heuvel – ha visto nella performance delle Pussy Riot al Cristo Salvatore un insulto ai valori.
Ora, la questione interessante è che anche l’accusa e la sentenza finale si basano sulla lesione di questi sentimenti. Quello delle Pussy Riot è stato «un complotto per indebolire l’ordine civile, motivato da odio religioso» ha riferito ieri il giudice Syrova. L’accento viene spostato dalla dissidenza all’irriverenza, dalla contestazione al “peccato”.
È forse questo che il potere voleva? Possibile – viene da domandarsi – che l’obiettivo del Cremlino sia stato esacerbare il confronto tra classe urbana e Russia profonda, così da rafforzare il consenso (la periferia è l’immensa roccaforte del putinismo) e mortificare al tempo stesso quell’opposizione, incarnata da Alexei Navalny e dalle Pussy Riot, che affonda le radici nella grande città e si esprime usando gli strumenti della modernità, quali Internet e i flash mob)? La questione valoriale, nonché le frasi di biasimo nei confronti delle Pussy Riot e la tesi secondo cui la fede è sott’attacco, espresse in più occasioni dalle gerarchie ecclesiastiche, hanno esposto la chiesa ortodossa a inevitabili critiche, provenienti anche dall’interno del suo stesso gregge – ecco un’altra divisione causata dall’affaire Pussy Riot.
C’è infatti chi ha visto nella posizione radicale e netta dei prelati una forma esagerata di ingerenza nella vita politica del paese e la conferma di un’alleanza troppo stretta con il Cremlino. Dall’altra parte c’è chi ha appoggiato l’approccio duro. Probabilmente motivato dall’esigenza di distrarre l’attenzione del pubblico da una serie di scandali (anche finanziari) che stanno ultimamente minando l’immagine della chiesa, come spiegato qualche giorno fa dal sito dell’emittente ingleseBbc.

Al pop non piace il punk
Ci si è scissi anche all’interno della scena musicale russa. Alcuni artisti hanno appoggiato le Pussy Riot. Yuri Shevchuk, fondatore del gruppo rock Ddt, attivo dai tempi dell’Urss, è stato uno di quelli che hanno alzato più la voce. Anche altri musicisti hanno preso le parti delle Pussy Riot. Alcuni l’hanno fatto, con le loro liriche, nel White Album. Una recente operazione che prende il nome dal nastro bianco usato dai manifestanti anti-Putin nei mesi scorsi e che ha riunito duecento artisti. Ognuno ha inciso una canzone e la mega-compilation è fruibile in rete. Qualche lirica parla esplicitamente del caso Pussy Riot.
Dall’altra parte della barricata non s’è certo taciuto. Valeria, veterana della canzone pop russa, s’è meravigliata del chiasso mediatico fatto all’estero nei confronti delle Pussy Riot. Mentre Yelena Vaenga, anche lei regina del pop, ha affidato i suoi pensieri al suo sito. «Brinderò alla salute del giudice che le schiafferà dentro per un po’», ha scritto alla vigilia della sentenza. Ma perché c’è chi, soprattutto sulla scena pop, ce l’ha con le Pussy? Questi artisti vengono mantenuti dal sistema.
Suonano agli eventi di Gazprom e dei grandi colossi di stato, oppure vengono chiamati dagli oligarchi a rallegrare qualche banchetto. Gli ingaggi sono alti e assicurano la lealtà.

da Europa Quotidiano 18.08.12