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"Né studio né lavoro, la «costosa» esclusione dei giovani", di Sergio Rizzo

Si fa presto a dire «spread». Perché se fa male ogni volta che il differenziale fra i tassi di rendimento dei nostri Btp e dei bund tedeschi va in orbita, non va certamente meglio con altri confronti. Il più doloroso di tutti, quello che riguarda l’occupazione giovanile. In Germania gli under 30 che lavorano sono 8 milioni 135 mila; in Italia, appena 3 milioni 202 mila. Quasi cinque milioni di meno. Il tasso di occupazione, cioè il rapporto fra i giovani che lavorano e il totale delle persone in quella fascia d’età, è da noi risultato pari, nel primo trimestre dell’anno, al 33,2%, contro il 57,1% dei tedeschi. E’ un dato che forse meglio di qualunque altro spiega l’abisso che separa i nostri due Paesi. Il primo, la Germania, dove i giovani inattivi sono il 36,7%, e il secondo, l’Italia, nel quale sono addirittura il 57,6%: 21 punti in più.
Si potrà pensare che un tasso di inattività così elevato sia collegato a una maggiore propensione all’istruzione. Purtroppo però, spiega una recente e ancora inedita indagine della Confartigianato, non è affatto questo il motivo. E anche qui lo dicono chiaramente i numeri. Se infatti si prende in esame la fascia d’età compresa fra i 15 e i 24 anni, quella cioè tipica dell’istruzione secondaria e universitaria, la quota di giovani italiani impegnati nello studio è del 58%, contro il 67,2% della Germania. La conclusione è che in Italia ci sono 555 mila studenti in meno. Un particolare che fa rabbrividire, soprattutto pensando alla qualità dell’apprendimento. Basta dire che in Italia il tasso di abbandono della scuola o dell’università da parte dei giovani fra i 15 e i 24 anni è del 18,6%, a fronte dell’11,8% in Germania. Per non parlare delle competenze. I dati Ocse-Pisa dimostrano che uno studente italiano è mediamente meno preparato di un suo collega tedesco tanto in letteratura, quanto in matematica. Nelle scienze il gap si può calcolare in una misura pari al 7 per cento.
Minore propensione allo studio, maggiore inattività, minore occupazione, maggiore tasso di senza lavoro. I disoccupati con meno di trent’anni erano in Italia nel 2011, secondo lo studio della Confartigianato, 824 mila: 132 mila in più rispetto alla Germania, che ha però una popolazione del 36% superiore alla nostra. I giovani tedeschi senza lavoro erano dunque pari al 5% di tutti gli abitanti di quella età, contro l’8,7% degli italiani. Ed è una fotografia in costante peggioramento: nel primo trimestre del 2012 siamo già arrivati all’11,1%, mentre la Germania è scesa al 4,7%. Il tasso di disoccupazione rispetto ai giovani italiani attivi è salito quindi al 25,1%; i tedeschi sono al 7,6%. Ancora più preoccupante, però, è il raffronto fra gli «inattivi» che non soltanto non lavorano, ma nemmeno studiano. In Italia sono infatti un milione 425 mila, contro 809 mila in Germania. Esattamente il doppio, in rapporto alla popolazione della stessa fascia di età: il 15% contro il 7,5%. «Se il mercato del lavoro italiano registrasse un tasso di occupazione pari a quello tedesco avremmo 2 milioni 262 mila giovani under 30 occupati in più», conclude il rapporto Confartigianato.
La situazione assume connotati drammatici in alcune parti del Paese. Il record della disoccupazione giovanile spetta alla Provincia di Caltanissetta, con il 43,6%, seguita da Crotone, con il 41,5%, e da Napoli, al 39,8%. Ma fanno la loro parte anche Avellino, con il 38,2%, Agrigento, con il 37,3%, Palermo, con il 36,5% e Caserta, dove il tasso di disoccupazione dei giovani al di sotto dei 30 anni è al 35,2%. Ed ecco l’altra Italia: i giovani senza lavoro a Cuneo sono il 5,9%. Nella Provincia di Bolzano non superano il 7%. A Udine, l’8,8%. A Parma, il 9,1%. A Bergamo, il 9,6%. A Como, il 9,9%. Lodi è la prima Provincia dove la disoccupazione giovanile è a due cifre: 10 per cento. E arriviamo al paradosso. Perché nel secondo trimestre di quest’anno, in un Paese dove trovare un’occupazione (e ormai non soltanto stabile) sta diventando un problema sempre più serio, ci sono stati secondo la Confartigianato 31.960 posti di lavoro «di difficile reperimento». Numero non distantissimo da quello dei laureati nel 2007, che a oltre quattro anni dalla fine degli studi sono ancora faticosamente alla ricerca di una sistemazione. Costoro sono esattamente 44.662, ed esprimono un tasso di disoccupazione della cosiddetta manodopera intellettuale pari al 17,5 per cento. Cercano lavoro in 3.348 laureati in materie geo-biologiche, 6.795 laureati in materie letterarie, 3.298 psicologi, 5.182 esperti in materie giuridiche.
Andiamo avanti con il paradosso? Lo studio dell’organizzazione degli artigiani confronta il numero dei 1.192 meccanici per riparazione di automobili il cui reperimento sul mercato si è dimostrato difficile, con i 1.207 laureati con titolo triennale in scienze dell’educazione e della formazione ancora disoccupati. Ma anche quello dei 951 montatori di carpenteria metallica introvabili con gli 869 laureati in scienze della mediazione linguistica che sono a spasso. Oppure quello degli 887 cuochi che qualcuno cerca disperatamente con gli 878 laureati in lettere a ciclo unico costretti ancora a girarsi i pollici quattro anni dopo aver finito l’università. «Una delle condizioni per superare la crisi consiste nel ridurre la distanza fra i giovani e il mondo del lavoro. Dobbiamo a tutti i costi annullare lo spread che ci separa da Paesi come la Germania. Vogliamo avere nelle nostre aziende ragazzi motivati e formati»: parola del segretario generale della Confartigianato Cesare Fumagalli. Certo che la soluzione passi anche per un investimento sempre maggiore nell’apprendistato. Resta da capire cosa fare per tutti quegli universitari che senza volerlo hanno sbagliato strada.

Il Corriere della Sera 15.08.12

“Siamo uguali a voi uomini” le tunisine si ribellano alle leggi degli islamisti, di Giampaolo Cadalanu

Le tunisine e i tunisini non ci stanno a vedersi sequestrare dagli islamici la prima rivolta araba, nata come moto popolare senza influenze esterne. Tutto è cominciato qui, e qui deve andare avanti. All’avanguardia della protesta c’è ancora Sidi Bouzid, la città dell’interno dove nel dicembre del 2010 Mohamed Bouazizi si è dato fuoco avviando la rivoluzione e dove ieri è partito lo sciopero generale. In migliaia sono scesi in piazza, i commercianti hanno tirato giù le saracinesche, per le strade rimbombavano gli slogan contro Ennhada, il partito di ispirazione musulmana al potere, che si è limitato a definire lo sciopero generale «ingiustificato». Uffici statali e negozi erano sbarrati, tranne poche botteghe destinate a permettere ai fedeli islamici di mangiare dopo il tramonto del sole, alla fine del digiuno quotidiano imposto dal Ramadan.
Centinaia di persone hanno risposto alla chiamata dei partiti di opposizione, dei sindacati, della società civile, e hanno sfilato davanti al Palazzo di giustizia, per reclamare la liberazione dei manifestanti arrestati nei giorni scorsi, quando la polizia aveva represso le proteste a suon di lacrimogeni e pallottole di gomma.
Gli slogan erano in parte gli stessi delle giornate di rabbia, quelle in cui era stata la gente a deporre il tiranno Ben Ali.
A Tunisi erano state ancora una volta le donne a prendere l’iniziativa, lunedì sera, trascinando gli uomini nella vie del centro, per occupare avenue Bourghiba e gridare un «no» corale a un progetto di Costituzione che nega la pari dignità con gli uomini. I parlamentari incaricati di redigere la nuova carta avevano osato toccare l’equilibrio delicatissimo voluto da Habib Bourghiba, arrivando a definire i sessi «complementari » e non uguali. Una scelta discussa anche dal presidente della Repubblica Mocef Marzouki, il quale ha detto ai manifestanti di avere esplicitamente richiesto l’espressione «uguaglianza totale » ai costituenti. Una scelta che giustamente le donne tunisine hanno interpretato come primo passo verso l’indebolimento delle norme che le tutelano esattamente dal 13 agosto del 1956, considerate un caposaldo culturale in Tunisia, dove la tradizione islamica convive con una presenza femminile molto significativa nel lavoro e nella politica. Probabilmente la manovra è stata fermata, anche a costo di ritardare il varo della nuova Costituzione, che sarà pronta forse solo nei primi mesi del 2013.
Il disagio espresso nelle piazze nasce dalle difficoltà economiche e dalla disoccupazione ma si affianca alla deriva autoritaria del partito Ennhada al governo, di pari passo con il tentativo di islamizzare maggiormente la società tunisina, tradizionalmente laica. Dei contrasti delle ultime settimane sembrano aver tratto vantaggio anche le ali più radicali dell’islam politico. I gruppi salafiti, che nei mesi scorsi si erano distinti per disordini all’università, sono tornati alla carica, stavolta se la sono presa con gli atleti alle Olimpiadi. Secondo loro Habiba Ghribi, argento nei tremila siepi e prima tunisina a vincere una medaglia, dovrebbe essere privata della nazionalità perché in gara indossava un abbigliamento «che rivelava troppo». Su Facebook i militanti del gruppo Ansar al Sharia hanno attaccato duramente anche il nuotatore Osama Mellouli, oro nei diecimila metri e bronzo nei 1500 stile libero, colpevole di aver bevuto prima della gara, violando il Ramadan.

La Repubblica 15.08.12

“Quota 96”: il giudice del lavoro di Torino riconosce la specificità della scuola, di Pasquale Almirante

Un sicuro diritto sarebbe stato violato, quello della specificità della scuola rispetto al resto del pubblico impiego e quindi ci sarebbe evidente conflitto fra le norme della riforma Fornero e le norme speciali della scuola. Dopo Oristano anche Torino apre ai pensionandi. Il giudice del lavoro di Torino, al quale altri gruppi del comitato “Quota 96” si erano rivolti per ottenere giustizia rispetto al blocco imposto dalla riforma sulle pensioni della ministra del lavoro, la cui legge blocca i benefici pensionistici delle quote al 31 dicembre 2011, ha riconosciuto la violazione del diritto del personale della scuola di ottenere lo spostamento dei benefici al 31 agosto 2012.
Dopo la sentenza del giudice del lavoro di Oristano, che però aveva intimato all’Usr di mandare in pensione i docenti che hanno maturato il diritto al 31 agosto a decorrere dal 1 settembre 2012, arriva ora anche quella di Torino che tuttavia si discosta solo nell’urgenza.
Infatti il giudice di Torino sposta il riconoscimento del diritto al 31 agosto, ma non riconosce l’urgenza del giudice di Oristano e quindi aggiorna il tutto al 23 ottobre. In ogni caso, precisa l’avvocato che sta sostenendo la lotta del personale della scuola impelagato in questa assurda vicenda per l’insensibile e capziosa volontà di fare di ogni erba un fascio, il giudice torinese ha dato ragione al comitato “Quota 96” quando ha detto che la riforma Fornero non ha rispettato la specificità della scuola in riferimento al resto della P A.
Infatti, ribadisce l’avvocato, il Tribunale di Torino afferma 2 cose molto importanti:
1) La competenza del Tribunale del Lavoro sulla base di una recentissima sentenza della Cassazione a sezioni unite;
2) che le norme devono essere coordinate fra loro e, pertanto, la sede cautelare non è sufficiente per una valutazione complessiva, facendo emergere i molti dubbi sulla reale portata e legittimità della norma Fornero, rinviando, per tale motivo ad una udienza fissata in brevissimo tempo.
L’unica cosa che Torino rigetta quindi è l’urgenza visto che manca il periculum della irrimediabile offesa e quindi rimanda la definizione della materia al 23 ottobre prossimo.
Ricordiamo invece che i giudici del lavoro di Roma e Milano avevano demandato la definizione della questione alla corte dei Conti.

La Tecnica della Scuola 15.08.12

(Se possibile) Buon Ferragosto!

La congiuntura economico e sociale che coinvolge da anni il Paese (crisi produttiva, speculazione finanziaria, lavoro che manca e crescita bloccata) fa apparire l’augurio di un sereno Ferragosto come fuori luogo.
E a maggior ragione dopo il terremoto, che ha colpito la nostra terra, con 27 morti e oltre 11mila sfollati che hanno perso quasi tutto. Con il crollo di case, chiese, capannoni produttive e centri di aggregazione, é cambiata per sempre la nostra vita e con essa le nostre certezze.
Tuttavia, non possiamo farci togliere la speranza: dalla nostra parte abbiamo l’ottimismo della volontà.
Pertanto Manuela Ghizzoni e la Redazione augurano un buon ferragosto agli affezionati lettori, agli amici che interagiscono e arricchiscono questo sito, a chi scrive e segnala notizie e curiosità, a chi protesta e a chi sollecita a fare meglio.

"Finale di legislatura", di Claudio Sardo

Sarà un ferragosto di meritato riposo per tanti italiani. Ma l’animo di molti è carico di apprensione, di paura, di rabbia. Tra questi gli operai dell’Ilva e i cittadini di Taranto, vittime di uno scontro inaccettabile tra salute e lavoro. Lo Stato si gioca in questa terra del Sud una partita decisiva: per la propria credibilità, per la sopravvivenza della manifattura italiana e di politiche industriali degne di questo nome, per il ruolo che il nostro Paese occuperà nell’Europa di domani. Se si spegnerà l’altoforno, la nostra siderurgia sarà morta. Ma tenere aperta l’azienda, vuol dire necessariamente e seriamente risanare.
Il tema non è l’ennesimo conflitto tra la magistratura e altri organi dello Stato, ma è per intero la capacità della politica di guidare processi reali di cambiamento. In Germania si produce acciaio a prezzi competitivi e con costi ambientali ridotti. Non si capisce perché non lo si possa fare anche in Italia. E, se la proprietà dell’Ilva si rifiutasse di partecipare alle spese, scaricando sullo Stato tutti i costi del risanamento (ci auguriamo non accada, viste le recenti dichiarazioni), non si capisce in base a quale ideologia l’azienda non potrebbe tornare allo Stato. In Francia, di certo, non si fanno scrupoli quando giudicano un’impresa strategica ai fini dell’interesse nazionale.
Sarà ancora una volta un Ferragosto di grande preoccupazione per gli operai discriminati dalla Fiat per la loro tessera Fiom: il rifiuto del Lingotto di adempiere alle sentenze favorevoli ai lavoratori ricorrenti è un vulnus che non può essere tollerato in un Paese democratico. Anche in questo caso serve un governo forte, attento all’economia reale, capace di mediazioni sociali e al tempo stesso di progetti di più lungo periodo. Un governo che chiami Marchionne ad un confronto serio sul futuro. Un governo che rimetta in agenda, davvero, le politiche industriali dopo la lunga, colpevole assenza dell’epoca berlusconiana.
Perché la malattia dell’Italia non si misura soltanto con lo spread. Il termometro sociale sono le decine di migliaia di lavoratori di aziende che stanno chiudendo. Sono le famiglie retrocesse nella fascia di povertà dai tagli all’occupazione e ai servizi sociali. Sono i giovani che non trovano lavori dignitosi e sono costretti così a rinunciare a un pezzo del loro futuro. Questo agosto segue una lunga crisi. La più profonda dal dopoguerra. E purtroppo la fine del tunnel ancora non si vede. Settembre ci farà scoprire che i destini e gli interessi di tanti imprenditori saranno sempre più intrecciati con quelli dei loro dipendenti: ma il timore è che la mortalità delle aziende possa crescere ancora. Con danni gravissimi al sistema produttivo del Paese e alla sua capacità di riconoscersi come una comunità.
A settembre toccheremo con mano che la legislatura sta ormai volgendo al termine. È stata la legislatura della grande vittoria elettorale e poi del clamoroso fallimento politico di Berlusconi. Una stagione che, combinata alla crisi economico-finanziaria, ha spinto il Paese sull’orlo del baratro. Il compromesso raggiunto sul governo Monti ci ha consentito di tornare a sederci al tavolo europeo con la dignità che avevamo perso. Il punto oggi non è quanto Monti non sia riuscito a fare, quanto abbia fatto bene o male: il punto è quale strategia, quale forza, quale politica il centrosinistra può mettere in campo per portare il testimone dove, in tutta evidenza, il governo dei tecnici non potrà mai arrivare. Una cosa è certa: Monti ha alzato l’asticella per il suo successore e ha messo fuori gioco molti curricula.
L’Italia deve molto a Giorgio Napolitano. Ha posto le basi istituzionali di una ricostruzione possibile. E lo ha fatto quando era più solo, con alle spalle un rischio di insolvenza dello Stato che avrebbe bruciato il futuro di almeno tre generazioni. Chi oggi critica il presidente con argomenti pretestuosi e meschini, in realtà non ha alcun interesse per chi soffre concretamente a causa della crisi o per la democrazia che rischia di perdere le stesse basi di sovranità. La seconda Repubblica ci ha portato una concezione della politica cinica e grottesca: tanto che demagoghi e populisti si sono moltiplicati a destra e a sinistra.
Monti ha adottato politiche di rigore finanziario. Eseguendo i compiti dettati dall’Europa. Gli effetti dei suoi decreti hanno in parte aggravato gli squilibri sociali interni (e correzioni nel senso dell’equità sono necessarie da subito, come ha scritto anche ieri il Capo dello Stato). C’è ancora la spending review da proseguire per scongiurare almeno l’aumento dell’aliquota Iva. Ma ci sono soprattutto gli interventi per la crescita che mancano da troppo tempo: se il Pil italiano cala addirittura di più di quello spagnolo vuol dire che persino la Spagna, nella crisi, ha adottato politiche anti-congiunturali più efficaci delle nostre. E poi c’è il piano di riduzione del debito – almeno decennale – che va progettato e portato in Parlamento.
Monti può fare ancora un tratto di strada. Ma le scelte di fondo appartengono a un governo che nasca dalle elezioni. E tutto possiamo permetterci tranne che una campagna elettorale lunga sei mesi. Questo invece è il rischio dell’autunno: mentre le condizioni sociale, inevitabilmente, si aggraveranno. Il governo Monti faccia in fretta quel che deve fare. E i partiti della «strana» maggioranza si prendano le loro responsabilità prima di dar vita a una competizione tra chiare alternative politiche. La riforma elettorale deve avere la massima priorità: due settimane, al massimo tre. Non si può tornare a votare con il Porcellum: gridino pure i populisti di destra e di sinistra, che al Porcellum ora si stanno aggrappando. Al Capo dello Stato va rimessa la scelta del momento migliore per votare con una nuova legge. Potrebbe essere un danno gravissimo per l’Italia impedirgli lo scioglimento delle Camere in tempo utile per il voto in autunno.

l’Unità 15.08.12

"I paletti di Napolitano sui tagli alla spesa. E per la ricerca: servono valutazioni specifiche", di Marzio Breda

È una messa in guardia che per il governo suona a futura (e ormai imminente) memoria, visto che in autunno dovrà varare la seconda fase della spending review. Un richiamo a non tirare troppo la corda o, meglio, a calibrare bene quanto e da quali parti la si dovrà tirare, con i prossimi tagli alla spessa pubblica. Perché il Paese è in sofferenza, la pressione fiscale tocca livelli record, gli effetti della crisi su famiglie e imprese diventano sempre più duri e si rischia che ne esca minata la stessa coesione sociale. Servono dunque, scrive il Quirinale a Palazzo Chigi, «scelte equilibrate» e, appunto, «sostenibili socialmente». Di più: servono scelte «coerenti con la necessaria priorità degli investimenti per l’innovazione, la ricerca e la formazione». Non per nulla, qualsiasi possibilità di sviluppo e crescita passa per quelle tre strade obbligate.
Ecco che cosa Giorgio Napolitano ha raccomandato all’esecutivo all’indomani della conversione in legge del decreto per la revisione della spesa. Lo ha fatto il 10 agosto, attraverso una lettera del segretario generale del Colle, Donato Marra, al sottosegretario Antonio Catricalà, in cui si riaffermano preoccupazioni già molte volte espresse, ma che in questa estate di inquietudine generale pesano in modo particolare.
La lettera-memorandum trapelata ieri nasceva dall’urgenza di segnalare un dubbio di natura tecnica. Infatti, nel percorso lungo il quale è maturato il provvedimento, tra le numerose modifiche intervenute ve n’è stata una che «non appare in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale in ordine alle caratteristiche proprie della decretazione d’urgenza». In sostanza: si è aggiunto all’articolo 8 «un emendamento che prevede un incremento dei limiti minimi e massimi di alcune sanzioni pecuniarie amministrative relative alle modalità di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali». Ora, il capo dello Stato ha concesso la propria firma all’intero testo. Tuttavia, osserva che quella particolare modifica potrebbe risultare non omogenea, una «esorbitanza» o quasi un abuso (come ha sentenziato il «giudice delle leggi» in un caso assimilabile) rispetto al vincolo di non alterare l’impianto originario dei decreti. Meglio quindi fare le dovute correzioni, «per prevenire un’eventuale pronuncia di incostituzionalità».
Esaurito tale nodo (e i problemi che hanno a che fare con la Consulta, per quanto ostici, non sono mai «questioni di lana caprina», come si dice), il presidente della Repubblica entra nel tema che gli sta più a cuore. Che è quello dei tagli per mettere in sicurezza i conti. Si sa che quelli fatti finora dal governo sono solo un primo assaggio, mirato agli sprechi, e che altri ne seguiranno. Per quanto tutto ciò sia doloroso, è comunque un processo inevitabile, e Napolitano lo sa bene. Gli preme, però, che sia preservata quella sfera del lavoro italiano attraverso la quale il Paese può ripartire e quindi assicurarsi una migliore tenuta sociale. Cioè la sfera dell’innovazione, della ricerca, della formazione. Prende atto — con evidente piacere — che «è stata soppressa per il 2012 la riduzione dei trasferimenti agli enti di ricerca». Ma, dopo aver rilevato che per il biennio 2013-2014 «le riduzioni» saranno demandate a un prossimo decreto, si sente vincolato a esprimere un auspicio/ammonimento: che «si valutino attentamente le finalità e la specifica condizione finanziaria di ciascun ente». Insomma: se nell’emergenza anticrisi è stato necessario far calare la scure con un certo affanno, per l’immediato futuro bisogna invece garantire che la spending review sia più meditata. Dando «priorità» a nuovi e coerenti «investimenti» (che il capo dello Stato ovviamente non indica dato che gli indirizzi e «il merito» delle scelte ricadono nelle responsabilità del governo). Stavolta c’è il tempo per riuscirci.

Il Corriere della Sera 15.08.12

"I doveri della legge", di Gianluigi Pellegrino

Dire che è assurdo dover scegliere tra salute e lavoro è senz’altro un bel dire, ineccepibile in astratto. Ma se andiamo al concreto della vicenda Ilva la petizione astratta rischia di mostrare la corda. Rischia di portarci su un binario morto dove la purezza dei principi si infrange sul sangue vivo delle scelte da compiere. Da parte di tutti gli attori coinvolti, governo, amministrazioni locali, giudici. Il punto è che mai come in questo caso la strada maestra deve essere quella della mediazione, anche tra valori e principi che sembrano irrinunciabili e incomprimibili. Il che ci consegna due risposte. La prima è che se si ha il dovere di mediare, la decisione finale non potrà essere dettata esclusivamente dalla tutela del lavoro (infischiandose della salute) né esclusivamente dalla tutela della salute (infischiandosene del lavoro), per difficile che sia anche solo pronunciarlo. La seconda risposta è che il potere più adeguato a svolgere questa difficile ma necessaria mediazione può essere solo quello legislativo.
Sta qui, a ben vedere, la soluzione dello straniamento che tutti noi avvertiamo nella difficoltà di orientarci tra quello che sembra un insanabile, ennesimo, e forse
il più lacerante per le coscienze, conflitto tra politica e magistratura. Perché si ha l’impressione che tutti abbiano ragione, i giudici nell’intervenire su una situazione di pericolosa se non mortale illegalità sul fronte dell’inquinamento ambientale, il governo nel voler garantire una strada di risanamento che non pregiudichi la produttività e la vita dell’azienda siderurgica. Ma queste ragioni, ciascuna in sé cristallina e ineccepibile, vengono a trovarsi oggi in fatale e irrisolvibile conflitto, consegnandoci un contrasto che abbiamo definito il più lacerante tra i tanti degli ultimi anni, perché questa volta interroga le coscienze e non presenta, come invece è stato tante volte nella stagione berlusconiana, una parte in evidente malefede animata soltanto da un desiderio di revangee da una congenita intolleranza ai controlli.
Se alla magistratura va riconosciuto il merito di aver posto finalmente la questione con la sola forza dirompente, idonea a svegliare istituzioni per decenni dormienti o conniventi, va pure evidenziato che non può chiedersi ai giudici oggi di operare la mediazione che è necessaria. È senz’altro vero che nessun potere è meccanicisticamente vincolato, e nemmeno quello giurisdizionale lo è tanto meno nelle fasi cautelari connotate per definizione da ampi margini di discrezionalità. Ma questo può solo consentire di rivolgere eventuali apprezzamenti critici su come la discrezionalità venga esercitata e, se del caso, a provare ad attivare gli strumenti interni al processo per cercare di ottenere correzioni dei provvedimenti giurisdizionali non condivisi, giammai francamente ad individuare un travalicamento dei poteri sino a coinvolgere la Corte costituzionale con una iniziativa che Catricalà ha troppo frettolosamente annunciato. Piuttosto la situazione è talmente peculiare ed emergenziale da imporre l’ingresso in campo dell’unico potere che può svolgere la necessitata quanto complessa mediazione: il potere legislativo.
È la legge nel nostro ordinamento lo strumento di elezione per la composizione di valori nel solco dell’interesse generale. Tante volte leggi ad hoc sono state assunte a sproposito, se non per servire biechi interessi di parte, ma ora è invece la volta che sarebbe del tutto necessaria e opportuna. Una legge-provvedimento i cui contenuti ovviamente dovranno essere confezionati dal governo (per poi passare alla conferma del Parlamento i cui gruppi dovrebbero essere previamente coinvolti) sulla scorta di un’ampia istruttoria che potrà essere compiuta dai ministri che Monti ha prontamente previsto di inviare sul posto ed anche con l’ausilio dell’Organizzazione mondiale della sanità annunciato ieri da Clini. Le soluzioni possono oscillare dalla più radicale che è quella dell’esproprio, proposta dal giudice Amendola nell’intervista di ieri a questo giornale, e che potrebbe operare anche una compensazione parziale o totale con i Riva tra risarcimento per i danni provocati e indennizzo per l’esproprio. Sino alla diversa opzione di un termine cogente imposto per legge per la messa a norma del funzionamento dell’impianto con sanzioni aggravate in caso di inadempimento e per le attività di bonifica, nel frattempo garantendo l’attività e quindi l’occupazione. Del resto, una ragionevole soprassessione in una vicenda inquinante che va avanti da decenni di per sé deve ritenersi sicuramente ammissibile. Non si tratta ovviamente si scelte facili né sul piano tecnico né su quello politico, ma quel che è certo è che se la via obbligata è quella della mediazione illuminata tra i valori in conflitto solo un legislatore, per una volta all’altezza, ha la forza di compierla. E il dovere di assumersene la responsabilità.

La Repubblica 15.08.12