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"Una sforbiciata mirata per non uccidere la ricerca italiana. Coinvolti presidenti degli enti nella riorganizzazione", di Flavia Amabile

Alla fine non si è stupito o amareggiato nessuno delle parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dell’auspicio che si «valutino attentamente le finalità e la specifica condizione finanziaria di ciascun ente». In questi giorni i presidenti degli enti di ricerca sono in vacanza ma ognuno di loro sa bene di avere un compito da svolgere. Tutto deve essere pronto a settembre quando il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, li incontrerà di nuovo tutti per capire dove e come si deve intervenire. Il giorno esatto della convocazione sarà deciso al rientro dalle ferie. La macchina dei tagli agli enti di ricerca è in moto e cancellare i tagli per il 2012 è stato solo un atto di fiducia da parte del governo (peraltro a costo zero) nei confronti del ministro Profumo che ha accettato di pagare come ministero il costo della cancellazione dei tagli per il 2012 ma ha preteso in cambio dai presidenti degli enti una relazione dettagliata sugli interventi che comunque dovranno essere realizzati. La differenza è sostanziale: se ad intervenire non è un qualsiasi ministero o commissario incaricato che arriva con un tratto di penna a tagliare a casaccio qui e lì c’è qualche probabilità di non uccidere totalmente la ricerca italiana.

Questa è la sfida lanciata dal ministro a luglio ai presidenti degli enti di ricerca durante il primo incontro. L’atmosfera era propizia: la ricerca – in genere poco considerata – aveva appena portato a casa un ottimo risultato con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare alla scoperta del Bosone di Higgs: i capi di cinque delle sei divisioni del Cern di Ginevra dove è avvenuta la scoperta sono italiani.

Forse in tempi diversi la tabella dei tagli sarebbe anche passata, ma il giorno dopo i complimenti del presidente Napolitano all’Infn per il successo internazionale era parso davvero uno schiaffo esagerato persino per un Paese disattento come l’Italia.

Quella che ventiquattro ore prima era stata celebrata come la punta di eccellenza della ricerca italiana veniva punita con un taglio delle dotazioni del 3,78% nel 2012 (-9,1 milioni di euro), del 10% nel 2013 e nel 2014, con una riduzione annua di 24,3 milioni di euro.
Un po’ meno venivano colpiti altri enti ma in totale si trattava di circa 30 milioni per il 2012 e 51 per il 2013 e il 2014. Il ministro Profumo ha riunito i dodici presidenti degli enti che fanno capo al Miur e ha fatto capire che il rinvio dei tagli del 2012 era solo momentaneo, che «una riorganizzazione sarà indispensabile». E quindi a settembre ognuno dovrà presentarsi con una proposta a saldi invariati rispetto alle richieste del governo..

Le sacche di sprechi sono molte, e lui lo sa avendo con la ricerca un lungo rapporto da ex rettore del Politecnico di Torino e poi da presidente del Cnr. Alcune cifre le ha già ricordate nei giorni caldi degli incontri di luglio. «Per la sola ricerca sprechiamo ogni anno 500 milioni di euro: per ogni euro conferito all’Europa le nostre aziende e istituzioni riportano 60 centesimi di contributi. Gli inglesi ne ricavano un euro e 40 centesimi, gli olandesi 1,3, i belgi altrettanto, gli austriaci 1,4».
Gli interventi, ha spiegato, dovranno seguire un principio molto semplice: «La cosa pubblica deve essere un po’ gestita come la nostra famiglia. Nei momenti di difficoltà prima di tutto si spengono le luci, non si lasciano accese, anche se i nostri figli qualche volta le dimenticano. E noi dobbiamo insegnare loro ad andare avanti in questa direzione».

Il ministro ha anche fatto alcuni esempi concreti: «E’ possibile che il Cnr abbia 440 sedi? E che ci siano anche sedi con 3 ricercatori? Questo ente paga 20 milioni in affitti soltanto a Roma».

Ma lo stesso vale per gli altri enti. «Esistono moltissime duplicazioni e situazioni anomale». La sfida del ministro Profumo è trovare il modo per eliminare sovrapposizioni, sprechi e situazioni anomale senza toccare la capacità di fare ricerca. Non è poco. Ci riuscirà?

La Stampa 15.08.12

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“Il «sollievo» dei 112 Istituti Ma rischiano di perdere 88 milioni. Ferroni (Fisica): non possono trattarci come una stazione geologica”, di Paolo Conti

«Lo sappiamo tutti, e lo comprendiamo anche molto bene… viviamo in un Paese in crisi, che ha gran bisogno di misure drastiche per la riduzione delle spese. Ma questo stesso Paese, per poter puntare al futuro soprattutto dei più giovani, deve offrire un segnale che permetta di costruire le basi per un avvenire più competitivo. E oggi la competizione fa parte di una filiera composta da innovazione, ricerca e formazione. Insomma, la ricerca viene descritta come un fiore all’occhiello. Ma non è così. Perché la ricerca non è un costo ma un autentico e solido investimento…»
Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche (112 istituti articolati nel territorio nazionale) appare sollevato dopo le parole molto chiare del Capo dello Stato sulla «necessaria priorità degli investimenti per l’innovazione, la ricerca e la formazione». Le cifre sono note. Un taglio complessivo di più di 88 milioni per il 2013 e altrettanti per il 2014 per gli enti di ricerca: di questi, quasi 50 milioni l’anno riguardano i dodici istituti e centri di ricerca gestiti direttamente dal ministero dell’Istruzione e della ricerca, tra cui il Cnr e l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn).
Il Cnr, nella previsione originale di riduzione dei trasferimenti agli enti di ricerca, rischiava di avere un taglio di più di 16 milioni di euro sia nel 2013 che nel 2014. Mettendo seriamente in pericolo il futuro di prestigiosi Istituti di studio, solo per fare qualche esempio tra i tantissimi possibili, come quello delle Nanoscienze o di Biologica Cellulare e Neurobiologica o di Ingegneria biomedica. Ora, come si sa, non si agirà più a colpi di tagli lineari: toccherà al ministero dell’Istruzione della Ricerca, quindi a Francesco Profumo, riesaminare il comparto con tutti i presidenti degli Istituti.
Nicolais racconta di aver parlato delle conseguenze della spending review, nella sua primissima formulazione, direttamente col Capo dello Stato qualche settimana fa: «Ci unisce una vecchia amicizia, ci conosciamo bene, abbiamo avuto spesso occasione di discutere del futuro del nostro Paese. E sa benissimo quale sia il mio pensiero. Personalmente ritengo assurdo che il decreto Sviluppo, diventato legge dello Stato, non abbia nei suoi primi punti un finanziamento per la ricerca e l’innovazione. Uno sviluppo che non sia sorretto da questi due piloni è effimero, non potrà mai essere reale». Il presidente Nicolais tiene a sottolineare un punto: «La ricerca, deve ben capirlo non solo la politica ma anche la classe imprenditoriale, serve soprattutto alle imprese italiane. Oggi la competitività non si gioca ormai più, per quanto riguarda il nostro Paese sui mercati internazionali, sul costo del lavoro, sulla riduzione della manodopera. Si compete sull’innovazione, cioè su quella nuova conoscenza che riempie la produzione di contenuti inediti e originali. In tutta questa catena, come ripeto, la ricerca è un elemento essenziale».
C’è in ballo anche la fuga dei cervelli, professor Nicolais… «Certo. Ma teniamo conto che abbiamo molti “cervelli” corteggiati all’estero che decidono di restare. Ma dobbiamo mettere loro a disposizione quei fondi che possano rendere l’Italia un Paese competitivo in campo internazionale. Pronto a richiamare anche i “cervelli” che hanno scelto l’estero».
Soddisfatto per l’intervento di Giorgio Napolitano appare soprattutto Fernando Ferroni, presidente dell’Infn che avrebbe perso nel 2013 e nel 2014 ben 24 milioni 380 mila euro su un budget complessivo di 270 milioni di cui la metà se ne va in stipendi. Una mazzata, insomma, proprio nell’anno della scoperta del Bosone di Higgs, l’ultima particella elementare ancora sfuggita all’osservazione, nel laboratorio europeo del Cern dove sono impegnati molti scienziati italiani proprio dell’Infn. Attualmente l’Italia copre l’11% del budget del Cern ma l’Italia dispone, per la riconosciuta bravura dei suoi professionisti, del doppio dei posti rispetto a quella quota.
Ferroni, sotto spending review, aveva deciso di scrivere al Quirinale per esporre le sue preoccupazioni. C’era in gioco il futuro di un progetto importantissimo come il SuperB di Frascati, grande acceleratore bisognoso di notevoli finanziamenti: il timore era che i possibili investitori stranieri, vista l’incertezza del governo italiano, potessero ritirarsi. Altra incognita, con quel taglio, si profilava anche per i laboratori del Gran Sasso che nei prossimi anni dovranno puntare sul doppio beta dei neutrini.
Dice il presidente dell’Infn: «Prima di tutto vorrei sottolineare l’estrema sensibilità del presidente su questo punto, ne ho avuto la riprova con l’immediato riscontro avuto alla lettera che gli avevo spedito. Io credo che questo Paese debba darsi una linea e decidere sui grandi temi. Così come non penso che i problemi di Roma o Milano siano paragonabili a quelli di piccoli centri di provincia, nello stesso modo ritengo che i tagli semplicemente lineari non abbiano senso. Non si può trattare l’Infn come una stazione zoologica. Si deve avere il coraggio di scegliere e di procedere per categorie omogenee. Noi, per esempio, spendiamo autentici capitali in energia elettrica: ma sono gli acceleratori di particelle ad assorbire un mare di corrente. Bisogna capire, analizzare prima di tagliare…»

Il Corriere della Sera 15.08.12

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“Enti salvi a metà nel 2012 poi però scatta la tagliola”, di Marzio Bartoloni

Il taglio sulla ricerca, almeno per quest’anno, è rientrato, anche grazie al pressing dello stesso Quirinale. Ma si tratta, in realtà, di un salvataggio solo a metà: perché a schivare la scure della spending review sono stati solo i dodici enti di ricerca controllati dal ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Francesco Profumo, che ha recuperato le risorse richieste (20 milioni) mettendo in cura dimagrante gli acquisti del suo ministero. Per gli altri 10 enti vigilati da altri ministeri – dall’Istat all’Istituto superiore di Sanità – la tagliola sui bilanci invece scatta subito da qui alla fine dell’anno e vale in tutto 13 milioni.
Insomma la «necessaria priorità degli investimenti per l’innovazione, la ricerca e la formazione» chiesta dal capo dello Stato nella sua lettera è stata salvaguardata fino a un certo punto. Non solo quest’anno. Ma soprattutto in futuro quando per il 2013 e il 2014 la tagliola della spending review scatterà, in ogni caso, per tutti con un taglio a regime che vale complessivamente 88 milioni: 51 per gli enti di ricerca vigilati dal Miur – dal Cnr all’Istituto di Fisica nucleare fino all’Agenzia spaziale – e 37 per gli altri. Per i primi in particolare la spending review ha previsto che il taglio non sarà direttamente sui bilanci, come era previsto nel testo originario, ma sul Fondo ordinario di finanziamento che distribuisce ogni anno le risorse a tutti e 12 gli enti (circa 1,65 miliardi). Fondo che viene diviso con apposito decreto e per il quale il presidente della Repubblica nella sua lettera fa un «auspicio». E cioè che «in tale sede si valutino attentamente le finalità e la specifica condizione finanziaria di ciascun ente». Il riferimento è probabilmente al fatto che nella pioggia di tagli decisa in prima battuta venivano colpiti alcuni centri di ricerca più degli altri: a partire dall’Istituto di fisica nucleare che poco prima della spending review era finito alla ribalta per il contributo dato nella scoperta del bosone di Higgs al Cern. E che subiva, qualche giorno dopo l’annuncio della scoperta, il taglio più pesante. Da qui l’appello del capo dello Stato a non ripetere più gli errori fatti e l’invito a fare attenzione alla «priorità ricerca e innovazione» valutando caso per caso le «finalità» e la «specifica condizione finanziaria di ciascun ente».
Restano, infine, “scoperti” i 10 enti vigilati dagli altri ministeri (Economia, Lavoro, Ambiente e Sviluppo economico): a cominciare dall’Istat che, dopo il taglio di 1,1 milioni di quest’anno, a regime dal 2013 dovrà subire una sforbiciata da 3 milioni. Un sacrificio che ha fatto dire al presidente Enrico Giovannini che da gennaio potrebbe essere a rischio la produzione dei dati statistici.

Il Sole 24 Ore 15.08.12

"Gli incendi dolosi e i troppi tagli ai Vigili del fuoco", di Vittorio Emiliani

Quando senti di persone colte a incendiare boschi, ti vien voglia di chiedere «pene esemplari». Perché i danni che i roghi, quasi tutti dolosi, procurano al patrimonio del Paese sono enormi e rimediabili soltanto in anni e anni. Sempre che non si tratti di irrecuperabili boschi secolari o di una riserva preziosissima come quella naturale dello Zingaro a San Vito Lo Capo (Trapani) incenerita nei giorni scorsi. Poi scopri che a Roma, assediata dai roghi, hanno colto sul fatto quattro romeni. Due si volevano «vendicare» per essere stati sloggiati da Monte Mario con le loro tende. Che fare per mitigare un simile flagello? Nel gennaio-luglio 2012 sono stati bruciati ben 24.000 ettari, in pratica l’intero comune di Genova, con un incremento del 110 % per i boschi. I romeni colti mentre incendiavano copertoni e lenzuoli hanno patteggiato 2 anni di carcere a testa. Basteranno a scoraggiare gli imitatori? Serverebbero pene più gravi? In caso di racket credo di sì, e però problemi posti al Paese da questo umiliante primato vengono ben prima. Certo, la siccità in certe regioni è, come il caldo e il vento, eccezionale, e fa propagare gli incendi in modo fulmineo, ma per lo più essi sono accesi da mani criminali per strappare al verde pregiate aree fabbricabili. Per l’edilizia abusiva, spesso mafiosa, comunque per la speculazione. Infischiandosene delle leggi che non consentono costruzioni di sorta sui terreni bruciati.
In realtà, malgrado gli sforzi delle associazioni ambientaliste, la scuola fa ancora poco, in generale, per far capire che i boschi sono essenziali per la salute psico-fisica, per la biodiversità, per la bellezza dei nostri paesaggi. Ma lo Stato che, coi condoni edilizi (ben quattro sotto Berlusconi), ha incoraggiato il malaffare, coi tagli alla spesa ed ora con la spending review, sta indebolendo apparati di prevenzione e di pronto intervento fra i migliori del mondo. «A New York i pompieri sono considerati degli eroi. In Italia succede in pratica il contrario», è l’amara battuta che circola all’interno di questo corpo, straordinario per preparazione, coraggio, disponibilità. A Roma e provincia, flagellate da roghi continui, i vigili, secondo la Fp-Cgil, sono 1400 contro i 2000 necessari. A Bologna ne mancano almeno 150 su 650. Così si formano meno squadre. I mezzi poi sono vetusti: a Roma «su 58 autopompe, oltre 28 sono fuori servizio», denuncia il segretario della Fp-Cgil, Natale Di Cola. Molti hanno oltre 25 anni di «anzianità». Ma poi non ci sono pezzi di ricambio, né fondi per acquistarli. Ogni vigile guadagna sui 1300 euro al mese, poco più della metà di un collega tedesco. A Bologna denunciano che con la spending review si potranno assumere 2 nuovi vigili ogni 10 pensionati: spending review o suicidio collettivo?

15.08.12

"La sindrome dell’ostaggio", di Andrea Bonanni

La Corte costituzionale tedesca assicura che emetterà la sua sentenza sulla fattibilità del nuovo fondo salva-Stati entro il 12 settembre, come promesso. L’ennesimo ricorso dell’ennesimo economista tedesco in cerca di notorietà, anche se presentato con furbesco ritardo, non dovrebbe bloccare la decisione e non riuscirà a dare il colpo di grazia all’euro né agli strumenti che l’Europa tenta di mettere in campo per difenderla. Sempre che, naturalmente, il verdetto della Corte sia positivo, come ci si aspetta. In caso contrario, infatti, i governi europei avrebbero gettato due anni di lavoro e di negoziati dalla finestra, e l’euro si troverebbe senza difese di fronte agli attacchi della speculazione.
Ma questo ennesimo assalto dei “falchi” contro la moneta europea, condotto questa volta per via giudiziale, ha in realtà evidenziato un vecchio problema mai risolto e che rischia ora di diventare cruciale per il futuro del continente.
Non è la prima volta che la Bundesverfassungsgericht di Karlsruhe viene chiamata a decidere i destini dell’Europa. Praticamente tutti i passi adottati dai governi a Bruxelles per far fronte alla crisi, dalla creazione del primo fondo salva-Stati ai vari interventi in aiuto di questo o quel Paese, sono stati portati davanti ai giudici tedeschi che hanno dovuto pronunciarsi sulla loro costituzionalità. Lo stesso meccanismo è stato messo in opera per i vari Trattati europei, compreso l’ultimo, fortemente voluto dalla stessa Germania.
È stata proprio la Corte di Karlsruhe, infine, che ha sostanzialmente tarpato le ali alla libertà di azione del governo di Berlino stabilendo che qualsiasi accordo la Cancelliera concluda a Bruxelles deve essere preventivamente approvato dal Parlamento nazionale tedesco.
Tutto questo è ineccepibile dal punto di vista della legittimità interna di un Paese democratico. Ed il rigore con cui la corte esercita il proprio mandato è certo encomiabile in una Germania che non ha dimenticato gli orrori e le deviazioni dallo stato di diritto compiute durante il nazismo. E tuttavia come risultato di questa situazione l’Europa si trova regolarmente presa in ostaggio da un organismo che non le appartiene, che non ha nominato, su cui non ha giurisdizione. Un organismo che agisce secondo le regole e i criteri di una Costituzione altra rispetto a quella europea e a cui le istituzioni e i cittadini europei non possono appellarsi, a meno che non siano tedeschi.
Si crea dunque un paradosso da cui è difficile uscire. La Corte di Karlsruhe è chiamata dalla Costituzione federale a difendere la sovranità nazionale tedesca in un momento in cui è proprio la stessa Germania a chiedere agli altri Paesi d’Europa di rinunciare alla propria sovranità per salvare la moneta unica. Il problema è che oggi i cittadini europei si trovano a dover osservare due dettati costituzionali: quello delle Costituzioni nazionali, che in molti casi salvaguardano la sovranità di ciascun Paese, e quello dei Trattati europei, che prevedono formalmente una sempre crescente integrazione, con relativa cessione di sovranità.
Il paradosso, in sé, non è molto diverso da quello che l’Europa ha già dovuto affrontare quando in diverse occasioni è stata costretta a congelare i Trattati per la prevalenza di qualche migliaio di voti negativi nei referendum tenutisi in Danimarca o in Irlanda. È la democrazia, si dirà. Certo. Ma è una democrazia a fettine, che mal si concilia con il principio di legittimità e di bene comune. Nessuno, infatti, ha mai voluto sottoporre i Trattati Ue ad un referendum pan-europeo riconoscendo così il principio fondante di ogni democrazia per cui il voto di ogni cittadino ha lo stesso valore. Facendo a fette la legittimità democratica, oggi il voto di un danese conta come quello di dieci italiani. E il giudizio di un magistrato costituzionale tedesco prevale non solo su quello di un suo collega italiano, ma di fatto anche su quelli della Corte di Giustizia europea.
Per decenni l’Europa ha convissuto senza troppi drammi con queste contraddizioni. Ma non potrà continuare a farlo a lungo. Infatti, proprio su impulso della Germania, l’Unione monetaria sta entrando in un quinquennio di sempre maggiore integrazione e federalizzazione non solo delle politiche economiche, ma della politica tout court.
Dopo il fondo salva Stati, verrà l’unione bancaria. Dopo l’unione bancaria, verrà l’Unione di bilancio. Dopo l’Unione di bilancio, verrà la federalizzazione del debito. E dopo ancora verrà l’Unione politica con la creazione di un governo economico comune. Sarà un percorso difficile, che dovrà trovare un punto di conciliazione tra gli interessi divergenti dei diciassette governi, a loro volta controllati e condizionati dai diciassette parlamenti nazionali. Se a questo puzzle già quasi irrisolvibile si dovessero aggiungere le diverse sensibilità delle diciassette corti costituzionali nazionali, potremmo risparmiarci fin dall’inizio la fatica di tentare questa ennesima avventura.

La Repubblica 15.08.12

"Acqua azzurra", di Massimo Gramellini

Sloggiati a forza dalle calette proibite della Maddalena, i possidenti di megayacht reagiscono con accenti che mescolano lo stupore all’arroganza, minacciando di non tornare mai più in Sardegna. Sono oligarchi russi, principi tedeschi, evasori italiani. Vorrei li accompagnasse il mio personale augurio di buon viaggio. Vadano a inquinare le coste croate, francesi o lillipuziane: qui da qualche tempo si cerca di diventare un Paese povero ma serio. È il risvolto ironico di questa estate deprimente. Finché eravamo la patria dei finti divieti e degli scontrini fantasma, il mondo degli ultraricchi ci frequentava disprezzandoci. Adesso che cominciamo a pretendere il rispetto delle regole, i moralisti di ieri si indignano per l’inaudito capovolgimento del luogo comune che ci vuole accomodanti e servili. E usano l’unica arma a loro disposizione, i soldi. Così ogni slancio di pulizia viene sottoposto al ricatto economico, che purtroppo la crisi rende particolarmente efficace.

In effetti avremmo potuto scegliere un momento più propizio per redimerci, ma abbiamo accumulato ritardi ventennali e, come tutti i ritardatari, ci tocca fare i compiti all’ultimo minuto. Siamo a metà del guado: non abbiamo più i vantaggi che garantiva l’illegalità e non intravediamo ancora quelli che verranno dall’onestà. Ora, delle due l’una. O torniamo indietro e ci perdiamo per sempre. Oppure andiamo avanti, fino a quando cominceremo ad assomigliare a quello che da sempre dovremmo essere: un paradiso da contemplare e non da usare.

La Stampa 15.08.12

"Le carte del premier per ridurre le aliquote", di Claudio Tito

«NOI dobbiamo lasciare il Paese in ordine e consentire a chi verrà dopo di proseguire nell’opera di risanamento». Prima delle brevi vacanze che si è imposto e che ha imposto ai suoi ministri, Mario Monti ha voluto fare un rapido giro di consultazioni con i leader della sua “strana maggioranza” e con i vertici istituzionali: il capo dello Stato Napolitano e i presidenti di Senato e Camera Renato Schifani e Gianfranco Fini.
E con tutti Monti ha ripetuto come un mantra quello che considera l’obiettivo primario dell’esecutivo: rimettere in ordine i conti pubblici italiani e rivitalizzare un’economia boccheggiante. Ma quella tornata di incontri e telefonate ha prodotto una novità insperata: è ricomparso a palazzo Chigi un dossier che appariva sempre più sfocato nell’orizzonte visibile della politica italiana. Quello fiscale. Con tanto di taglio delle tasse, a cominciare dalle aliquote Irpef. Un capitolo che il premier, per il momento, non intende diffondere. Sopratutto non vuole alimentare inutili illusioni. Ne custodisce infatti con estrema attenzione il contenuto in uno dei cassetti della sua scrivania. E per ora si è limitato a recepire gli input dei suoi alleati. Senza, però, serrare i battenti: «Vedremo a settembre».
Quel faldone, infatti, è stato aperto in primo luogo dai segretari della coalizione. In quei colloqui pre-ferragostani sia Bersani, sia Alfano, hanno riproposto al premier il tema. Lo hanno invitato a riprendere in considerazione un fattore che può essere determinante per la “crescita” dell’economia e per affrontare la campagna elettorale con un successo da sventolare pubblicamente. Senza mezzi termini i due principali partiti della coalizione vogliono quindi inserire nell’agenda preelettorale del governo la “revisione” delle aliquote fiscali. «Un segnale — insiste da tempo il segretario dei democratici — va dato. Soprattutto ai cittadini più deboli».
L’argomento del resto era scomparso dai radar ministeriali da diverso tempo. A novembre, all’atto di nascita dell’esecutivo tecnico, il primo compito da svolgere era salvare il Paese dal default. L’idea di ridurre il peso delle imposte era semplicemente inimmaginabile. Adesso però la situazione è in parte cambiata. Tanto che dinanzi alle richieste dei partiti la risposta del presidente del Consiglio è stata questa volta meno negativa che in passato: «Vedremo a settembre». Una frase che ha lasciato uno spiraglio di speranza nei resoconti forniti da Alfano, Bersani e Casini ai loro rispettivi stati maggiori.
Da quel momento, dunque, nell’agenda autunnale di Monti figura anche questa ipotesi di studio. Il Professore, infatti, sta mettendo a punto proprio in questi giorni la road map di fine legislatura. Un percorso a tappe che incrocia gli appuntamenti europei e quelli italiani: gli incontri con i leader dell’Ue e gli obblighi per il risanamento economico, la riforma della giustizia e quella della legge elettorale.
Ma il vero centro del confronto potrebbe essere la riforma fiscale. Previsioni e grafici sugli effetti provocati dalle diverse soluzioni sono già sulla scrivania del premier e del ministro dell’Economia. Ipotesi, solo ipotesi al momento. Eppure l’ex rettore della Bocconi vuole almeno prendere in considerazione la possibilità di verificare i margini di praticabilità di un intervento sulle tasse. Ma, ha avvertito i suoi interlocutori “politici”, è pronto ad agire solo ed esclusivamente a tre condizioni: evitare le “nefaste” riproposizioni di condoni (sia fiscali, sia edilizi), rendere compatibile qualsiasi tipo di intervento con gli obiettivi di spesa pubblica e con gli impegni assunti con l’Unione europea a cominciare dal pareggio di bilancio per il prossimo anno, e un accordo pieno e totale tra le forze politiche sui criteri e sul tipo di “taglio” da apportare.
L’ipotesi del voto anticipato in autunno, nel frattempo, sembra allontanarsi e il Professore vuole impiegare gli ultimi mesi di legislatura per dare corpo alla aspettative di “crescita” invocata da tutti: forze politiche e sindacati, imprenditori e investitori stranieri. «Dopo aver fatto tutto quello che serve per salvare l’Italia — è il ragionamento che si fa a palazzo Chigi — ora vediamo se si può fare dell’altro. Crescita e sviluppo sono target imprescindibili».
Certo, sulla scrivania del presidente del consiglio i dossier governativi sono piazzati secondo un preciso ordine di necessità e urgenza. Il primo è quello “europeo”. Monti sa infatti che buona parte del futuro economico-finanziario dello Stivale dipende da tre importanti appuntamenti europei previsti a settembre: l’Eurogruppo fissato nella prima settimana del prossimo mese, la sentenza della Corte Costituzionale tedesca sullo scudo antispread (il capo del governo era stato informato tre giorni fa che non erano fondate le voci circa un rinvio della decisione) e la riunione del board della Bce convocato per la metà dello stesso mese. Un incontro decisivo nel quale si metteranno a punto operativamente gli interventi dell’Eurotower per tentare di porre sotto controllo gli spread ingiustificati e “normalizzare” le valutazioni dei titoli di Stato dei Paesi che “i compiti a casa” li hanno già fatti o li stanno facendo. Un meeting fondamentale perché palazzo Chigi — ripetono da giorni — non intende attivare lo “scudo” se verranno applicate “condizionalità” ulteriori rispetto a quanto concordato il 28 giugno scorso in occasione dell’ultimo consiglio europeo. E una prima controprova di quel che
stabilirà la Banca Centrale europea si avrà proprio il prossimo mese quando ripartiranno le ponderose aste dei Btp: quasi 12 miliardi da piazzare a settembre e altri 36 fino a dicembre.
Il secondo dossier riguarda il debito pubblico e le modalità per ridurlo. Già nel consiglio dei ministri prima di ferragosto erano state discusse alcune misure. A partire dalle dismissioni dei beni immobili e dal piano di Grilli per comprimere l’enorme fardello che appesantisce le casse dello Stato con uno piano quinquennale in grado di tagliare lo stock del 3-4% ogni anno. Senza svendere i gioielli di famiglia come Eni, Enel e Finmeccanica. «Dobbiamo stare molto attenti — ha avvertito il ministro dell’Economia proprio nell’ultima riunione di governo — il rischio scalate è concreto e dovremmo fare un uso molto deciso della golden share». In questo ambito il ruolo della Cassa depositi e prestiti — è l’intenzione dell’esecutivo — sarà centrale: conferimento di beni e aziende pubbliche in cambio di una equivalente riduzione del debito.
E il terzo dossier è appunto quello fiscale. Che — nei piani del Professore — se tutte le altre condizioni si saranno realizzate positivamente insieme a un consolidato controllo delle spese correnti, può essere affrontato in questi quattro mesi di legislatura («di fatto — ha ripetuto negli ultimi giorni — possiamo lavorare fino a dicembre, poi c’è la campagna elettorale ») attraverso due step fondamentali: il riordino dell’intero pacchetto delle agevolazioni fiscali e la legge di Stabilità — la ex Finanziaria — che dovrà essere approvata dalle Camere entro Natale. «In quel momento — spiega il sottosegretario ai rapporti con il Parlamento, Giampaolo D’Andrea — si potrebbe intervenire dando un segnale ai partiti e ai cittadini limando le aliquote fiscali anche di un solo punto».
Rimodellare gli scaglioni, però, può avere un risvolto politico. Il Pdl infatti chiede da tempo di ridurli per tutti. Il Pd reclama una manovra maggiormente incisiva sui redditi più bassi. Alla vigilia delle elezioni, allora, un’operazione di questo tipo è possibile solo se tutti i partiti della “strana maggioranza” sono d’accordo sui criteri di intervento. Perché Monti vuole tenere lontano il suo esecutivo dalla campagna elettorale e dalle eventuali accuse di favorire questo o quel blocco di riferimento. «Se tutti saranno d’accordo, vedremo». Ma da qui all’autunno il Professore deve soprattutto preparare la prossima tornata elettorale mettendo in sicurezza il Paese dal punto di vista economico. E “l’agenda montiana” ha in primo luogo questo obiettivo.

La Repubblica 15.08.12

"Maturità, perchè non si fa 100", di Marina Boscaino

Qualche giorno fa Elena Ugolini,sottosegretario all’Istruzione ha replicato a Italia Oggi che le ricordava i risparmi derivanti da una riduzione delle bocciature che gli insegnanti durante lo scrutinio non hanno in mente le casse statali. Quest’anno, peraltro, è stato promosso alla classe successiva il 95,7% degli studenti delle medie e il 62% delle superiori, con un aumento dello 0,4% nel primo caso, e addirittura dell’ 1,2% nel secondo. Eurostat stima in 6728 euro la spesa annuale per studente: l’incremento di promossi, circa 50 mila, produrrebbe quasi 336 milioni e mezzo di risparmio per lo Stato. Per Education at a Glance 2011 pubblicazione dell’Ocse la spesa pubblica per studente nel 2008 era invece di 9315 dollari (7552 euro): secondo questi dati il risparmio supererebbe i 38lmln di euro. E l’ultimo evento dell’anno scolastico, la maturità? Il Miur ha licenziato il documento sugli adempimenti per gli esiti finali un mese fa, ma a tutt’oggi i risultati non sono stati ancora pubblicati. PIÙ IN generale il servizio statistico del ministero è aggiornato al 2007, mentre Il sito dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema scolastico riporta dati fino al 2010. Attendiamo gli aggiornamenti per analizzare a fondo i dati. Possiamo però già verificare che il numero delle lodi è in diminuzione e che quello dei bocciati è ulteriormente calato (dal 2% del 2010, all’I% scorso anno, con una conferma della tendenza alla riduzione anche nei dati parziali rilevati in alcune grandi città), mentre si era registrato un aumento dello 0,6% dei non ammessi nello scrutinio di giugno. Le prime proiezioni confermano il primato delle bocciature nel Nord: Liguria, Friuli, Lombardia e Piemonte, proprio le zone del Paese che hanno registrato prestazioni migliori nelle prove Invalsi. Il numero esorbitante di lodi nelle regioni del Sud causa dell’inasprimento della normativa già ridimensionato nel 2011, appare diminuire. Maglia nera nelle valutazioni, come sempre, l’istruzione professionale: pochissimi diplomati con “100” e molti oltre uno su sette che raggiungono solo il punteggio minimo. Quale fotografia della scuola italiana consegnano queste prime, frammentarie, notizie sull’esame di Stato? Una scuola ancora a diverse velocità, classificabile per collocazione geografica: in cui apprendimenti degli studenti e maggior rigore nella valutazione vanno di pari passo. Una scuola in cui i segmenti dell’istruzione superiore non hanno identica dignità, né danno le stesse opportunità, penalizzando gli studenti più deboli. Invertiamo ora, in un momento di ottimismo, la prospettiva e parliamo delle “eccellenze”, i “capaci e meritevoli” citati nella Costituzione, potenziali destinatari di quelle lodi che abbiamo visto in flessione. Sono studenti-modello: corredo genetico e sollecitazioni li predispongono a un percorso scolastico brillante, a curiosità, a capacità di approfondimento. SONO motivati, rigorosi, in grado di costruire un metodo di studio autonomo. Per conseguire il massimo all’esame di Stato, devono però superare questo spericolato, quasi impossibile, percorso ad ostacoli, definito a suo tempo dalla Gelmini: voti non inferiori all’8 negli ultimi 3 anni, condotta compresa; massimo punteggio per quanto riguarda credito scolastico (25), prove scritte (15) e orale (30). Contemporaneamente la scuola italiana ha avuto in eredità dal ministro, una “riforma” concretizzata nel taglio di 140mila posti di lavoro tra docenti ed Ata, frutto, tra l’altro, di riduzione del 10% dell’orario scolastico alle superiori; annullamento delle sperimentazioni, alcune delle quali avevano prodotto efficacissimi risultati di apprendimento; smembramento delle più accreditate procedure didattiche della scuola primaria; aumento del rapporto docente-Audenti per classe. A fronte di quei taglie dell’inconsulta difficoltà di quel percorso, come potrebbero essere molti i ragazzi in grado di raggiungere il massimo risultato, di dimostrarsi “capaci e meritevoli”? È giusto che un 14 corrispondente a un 9,5 in uno degli scritti (frutto magari di un’imperfezione nella prova di greco o in quella di matematica) possa vanificare il soddisfacimento di tutti gli altri requisiti? Cosa esattamente la scuola deve certificare con la lode? La perfezione o, piuttosto, la perfettibilità corroborata da impegno, serietà, capacità di approfondire ed elaborare autonomamente contenuti culturali? Questa prima (e speriamo ultima) maturità dell’opaca epoca Profumo (che, peraltro, non ha apportato modifiche né alla gimkana meritocratica, né alla “riforma” gelminiana) rivela insomma una scuola intrappolata in una logica ragionieristica che corrompe anche i criteri per la definizione del merito, in cui l’auspicata serietà diventa cecità punitiva. Dai risultati (ancora parziali) degli Esami di Stato emerge la difficoltà a prendere il massimo dei voti, ma non si tratta di giusto rigore, bensì della visione punitiva e ragioneristica che si cela nella riforma.

Il fatto Quotidiano 14.08.12

Luzzatto: "da Graziani a Priebke torna l’orrore", di Umberto De Giovannangeli

«La mobilitazione della comunità ebraica di Roma va benissimo, ma molti altri avrebbero dovuto trovarsi al suo fianco. Ciò che rappresenta ancor oggi Erich Priebke è qualcosa di orrendo che non può, non deve riguardare solo gli ebrei. Il diritto-dovere all’indignazione non è prerogativa solo di quanti hanno vissuto sulla propria pelle, e non è una metafora, la brutalità senza limiti dei nazifascisti». A sostenerlo è una delle personalità più rappresentative dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei).

L’inaugurazione, tra canti e danze, del sacrario dedicato al fu Maresciallo d’Italia e viceré d’Etiopia, Rodolfo Graziani, il boia delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke «in giro per Roma». Cosa indicano queste vicende?
«Indicano un tentativo ricorrente di trasformare in banalità e ordinaria amministrazione episodi di un passato che andrebbero ricordati con ben altro tono e preoccupazione. Quel passato, di cui Graziani e Priebke sono indelebile espressione, porta con sé un retaggio di crudeltà senza precedenti; esso ha lasciato un segno profondo nel Paese che deve servire da monito per impedire la riproduzione che è sempre minacciosa e non è mai stata totalmente scongiurata. Quello che forse manca è l’unità di forze diverse, che hanno vissuto la guerra fascista, che hanno conosciuto le persecuzioni delle minoranze, che hanno dovuto fare i conti, a caro prezzo, con l’aspirazione propria dei fascisti come dei nazisti, a conquistare territori altrui e sottomettere popoli che si ritenevano, e venivano trattati, come razze inferiori, e a rendere legittime procedure che dovrebbero essere invece condannate da chiunque creda minimamente nella civiltà».

Graziani, Priebke…
«Graziani e Priebke sono due figure assurte a simboli, macabri, di un passato segnato da ideologie e politiche che pur di raggiungere i propri obiettivi di potere, non hanno risparmiato sofferenze, distruzioni, che hanno seminato a piene mani un odio profondo, viscerale, senza limiti, nei confronti di esseri umani ai quali si negava il diritto della dignità umana. Queste ideologie, queste politiche non sono scomparse dal nostro presente: l’antisemitismo, il razzismo, l’ostilità verso chiunque sia considerato un “diverso”, non fanno parte del passato ma tendono a manifestarsi ancora oggi anche in Europa, anche qui in Italia. Guai ad abbassare la guardia. Senza memoria non c’è futuro per una società che si vuole democratica. Ogni ripresa di ideologie razziste rappresenta un pericolo effettivo per lo sviluppo di una democrazia di civile convivenza, e proprio per questo mi sono permesso, anche di recente, di affermare in pubblico che non mi dispiacerebbe di cambiare il nome della Giornata della Memoria in Giornata per la vigilanza in difesa della democrazia».

Ma a protestare davanti l’abitazione di Priebke c’erano solo giovani e anziani della comunità ebraica romana.
«Non esiste nessuna categoria umana che abbia sofferto da sola e che sia chiamata oggi a vigiliare da sola perché queste simbologie, oggi pallide e macabre come Priebke, non si riproducano. La mobilitazione della comunità ebraica va benissimo, ma molti altri, lo ripeto, avrebbero dovuto trovarsi al suo fianco».

L’Unità 14.08.12