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"Unioni gay nel programma", di Paola Concia

Mentre ci fermiamo in una panchina per scrivere questo articolo Ricarda mi chiede: «Su cosa?». Sul programma del centrosinistra per le prossime elezioni. Cioè sul fatto che deve esserci scritto che faremo una legge per il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali: uguali diritti e uguali doveri delle coppie sposate. Non vorrai continuare ad essere clandestina in Italia vero?
Lei sorride e dice: «Ma è ovvio che deve esserci scritto!». Tanto ovvio non è, se dobbiamo continuare a specificarlo. Per lei è ovvio perché vive in un Paese in cui siamo una coppia riconosciuta con quasi gli identici diritti e doveri delle coppie eterosessuali. Dove in questi giorni il partito della Merkel vuole rompere l’ultima differenza tra coppie omo ed etero con l’equiparazione fiscale. È vero, il differenziale tra Italia e Germania, non è soltanto sui titoli di Stato e sulla salute delle rispettive economie, ma anche sui temi dei diritti civili. Anche perché di questi temi si occupano alacremente i partiti conservatori. Va bene, sono protestanti, ma stanno nel Ppe come l’Udc, sia chiaro. Anch’io, come tante e tanti altri e come Bersani, per fortuna, penso che il programma del centrosinistra debba tracciare un modello di società. Fare una serie di proposte chiare che diano risposte ai tanti problemi che oggi abbiamo, che vanno dal grande debito pubblico alla forte disoccupazione femminile e giovanile, al merito che non esiste, dove la cultura, la formazione, la ricerca scientifica sono un optional, dove abbiamo due rami del Parlamento che fanno lo stesso lavoro con un numero eccessivo di eletti. E tra le tante risposte che dobbiamo dare, ebbene sì, le dobbiamo dare anche alle nuove famiglie italiane che vivono nella clandestinità da troppo tempo, ma che contribuiscono al bene del nostro Paese e creano coesivo sociale. Queste sono le famiglie omosessuali. Questo Paese va ricostruito economicamente, socialmente e civilmente e tutte e tre le cose viaggiano insieme, ficchiamocelo tutti i testa: progressisti, sinistra e «moderati». Ringrazio per questo l’Unità perché nella «tarantella» estiva della costruzione delle alleanze per il voto vuole parlare di contenuti. La costruzione di un’alleanza di governo va fatta tra forze omogenee, perché solo forze omogenee che hanno gli stessi obiettivi e la stessa visione possono affrontare e risolvere i tanti problemi che attanagliano il nostro Paese.
Le olimpiadi sono appena finite: le squadre che vincono sono quelle affiatate, i cui giocatori sono in sintonia. Non possono sprecare energie con la conflittualità interna, l’avversario è fuori, non dentro la squadra. Con questo voglio dire a tutti, Udc in primis: noi siamo un partito e una forza progressista, coraggiosa e di sinistra che vuole affrontare la sfida del governo del Paese senza conservatorismi, ma rompendo anche quella cappa di oscurantismo generale che incombe sull’Italia e che fa male alla crescita, perché soffoca energie.
E allora, a chi tentenna e dice per puro opportunismo che il tema delle coppie omosessuali deve stare fuori dal programma di centrosinistra per lasciarlo alla libertà del Parlamento, dico che questa è storia antica, di un’altra era geologica della politica italiana, che sa di ammuffito. Questo tema è parte di una idea di società. I diritti civili non sono diritti a parte, ma sono uno dei colori di quell’arcobaleno che noi vogliamo colorare.

Noi portiamo la nostra cesta piena al tavolo della costruzione delle alleanze per le prossime elezioni. Da quella cesta non toglieremo nulla perché le cose contenute sono tutte fondamentali. Potremmo cambiare il pane pugliese con quello napoletano, ma non togliere il pane. All’Udc dico: ma non vi sembra un po’ esagerata tutta questa vostra ossessione per le coppie omosessuali? Sembrate attaccati come le cozze a questo ultimo retaggio, che vi vede in compagnia della destra più pericolosa e anti europeista che c’è nel vecchio continente. E allora sì, questo sarebbe qualcosa che ci divide davvero. Sarebbe un presupposto fondamentale sul quale non poter costruire un’alleanza.

L’Unità 14.08.12

"La ricostruzione oltre Monti", di Alfredo Reichlin

Chi governerà tra pochi mesi l’Italia? La risposta non è così facile. Essa non sta più tutta dentro i vecchi schemi del gioco politico parlamentare e comporta il disperato bisogno di forze dirigenti nuove, capaci di misurarsi con gli sconvolgimenti che vediamo. Dunque chi governerà, e in nome di quale visione delle cose che ci sovrastano? E quindi con quale proposta politica, intendendo per proposta politica il tipo di problema che si pose Alcide De Gasperi alla cui «proposta politica» (un centro che guarda a sinistra) si richiama oggi un nuovo fermento cattolico moderato. E che si pose in modi diversi Palmiro Togliatti con la sua proposta di «democrazia progressiva». So bene che l’Italia di allora era molto diversa, ma come allora anche oggi la nostra patria sembra sospesa tra la dissoluzione del vecchio Stato e la ricostruzione di una nuova Repubblica.
È con questo animo che io ho letto la Carta d’intenti presentata da Pier Luigi Bersani. C’è in essa un forte senso di verità soprattutto nella sua analisi, ed è da qui che egli fa discendere la necessità di uno schieramento più largo e più ampio rispetto anche al vecchio centrosinistra.

La ragione molto profonda e molto realistica di ciò è che è necessario avviare una vera e propria ricostruzione dell’Italia. Ricostruzione. Questa è la questione di fondo. Ecco perché trovo forviante il tentativo di contrapporre al Pd la cosiddetta «agenda Monti», intendendo così insinuare il dubbio che un governo di centrosinistra non garantirebbe la necessaria continuità nello sforzo di risanare l’Italia e di ricollocarla nell’agone europeo.

Certo tutti i dubbi sono sempre leciti. Ma la domanda che secondo me dovremmo porci (tutti, anche noi del Pd) è che cosa intendiamo per «continuità» con lo sforzo intrapreso dal governo Monti e che, come si sa, si è retto molto su di noi. Guardando al domani, non so se è chiaro a tutti quali prove ci attendono. Io parto dal fatto che ciò che è in discussione non è solo l’economia, ma la nazione italiana. Stiamo attenti. Perché, se è vero che il nostro destino è vitalmente legato a quello dell’Europa, è altrettanto vero che noi siamo di fronte a un nodo tuttora irrisolto: quale Italia e in quale Europa? Questa è la partita drammatica che si sta giocando. C’è da riflettere quando un intellettuale serio come Michele Ciliberto scrive su questo giornale che l’interrogativo dominante è ormai quello delle «fonti» della nostra sovranità e se essa si può ancora esprimere nella «forma» della democrazia. E poi c’è il mondo: possiamo dire tutto quello che vogliamo contro le logiche speculative dell’economia finanziaria, ma ciò che non dobbiamo dimenticare sono i termini nuovi e le dimensioni inedite del conflitto mondiale. Siamo dentro un vero e proprio sconvolgimento. Sono passati cinque anni dall’esplosione di una crisi mondiale sconvolgente, ma non si vede ancora una via di uscita. Evidentemente si è rotto qualcosa di molto profondo. Non regge più il vecchio «ordine» basato sul fatto che il governo di quel fenomeno grandioso che è la mondializzazione è stato affidato – di fatto – ai cosiddetti mercati finanziari, e quindi alla inaudita potenza di una ristretta oligarchia degli affari, rinunciando al potere regolatore della politica.

Ecco perché, arrivati a questo punto, tutto chiede nuovi ordinamenti e nuovi patti tra l’economia e la società. In mancanza di ciò, noi stiamo assistendo a una lotta feroce su chi prenderà la guida del mondo. Per questo è così importante la partita che si sta giocando sull’euro. Consolidarlo dando ad esso la garanzia di una unione politica e quindi la forza di quel continente Europa che rappresenta 500 milioni di persone ed è il luogo più ricco, più colto e più bello del mondo, sarebbe una svolta. Spingerebbe verso una nuova Bretton Woods. L’Italia è nell’occhio di questo ciclone in cui cinismo, potere, paure e speranza si mescolano.

Mi scuso per queste «fantasie». Vi ho accennato non per sfuggire all’asprezza del nostro «qui e ora», ma al contrario, l’ho fatto per dire perché l’Italia così com’è oggi non regge. L’agenda Monti? Va benissimo, ma che cosa resta di questa agenda se non allarghiamo lo sguardo e non comprendiamo che la vera garanzia di una continuità rispetto ad essa è affrontare il problema di una ricostruzione anche sociale del Paese?

Questo Paese ha un enorme bisogno di verità. Berlusconi ha aggravato le cose, ma la verità è che da molti anni, almeno venti, è la struttura profonda dello Stato italiano che si è andata indebolendo. Perché? È a questa domanda capitale che bisogna dare una risposta. E la devono dare gli italiani, non la Bce. Perché è vero che il gioco della speculazione finanziaria ci sta dissanguando, ma dopo tutto esso si nutre di un processo involutivo profondo che da anni blocca lo sviluppo dell’Italia e che nasce dal modo come la società italiana si è disarticolata, ha perso coesione, ha smarrito quella che è la condizione prima dello sviluppo: un patto di cittadinanza (diritti e doveri, l’uguaglianza e l’autorità della legge) insieme con un compromesso sociale in funzione delle forze produttive, e non come è accaduto delle rendite. Come non comprendere che sta qui la forza della Germania? Non dico nulla su quello che resta il nostro problema principale irrisolto da centocinquanta anni e che negli ultimi anni si è per- fino aggravato, il problema del Mezzogiorno, quasi il 40% del Paese che si allontana non solo dal Nord ma dall’Europa.

Questa è la dimensione dei problemi. Non ce la faremo da soli forse, abbiamo bisogno vitale dell’Europa certamente. Ma di quale Europa? La forza singolare del Pd sta nel fatto che noi siamo parte di una grande corrente ideale politica e innovatrice europea, che ha già vinto in Francia, che può vincere in Italia, e che ha buone carte per governare tra un anno la Germania. Altro che governi tecnici. Come ha scritto giorni fa Mauro Magatti, ciò di cui il Paese ha disperatamente bisogno è un nuovo progetto di modernizzazione in grado di portarlo a ricomporre tecnica e senso, competitività e integrazione sociale, capitale e lavoro, e in questo modo prendere parte alla nuova fase storica che si sta aprendo.

L’Unità 14.08.12

"Il corpo delle donne come una bandiera", di Chiara Sarceno

Usare il (proprio) corpo femminile come manifesto politico. Rovesciare l’ossessione voyeuristica per il corpo femminile che va di pari passo con la marginalizzazione delle donne come cittadine e come esseri pensanti, a vantaggio non dei propri interessi individuali, ma di obiettivi di denuncia politica. È quanto fanno gruppi di donne femministe, soprattutto dell’Est Europeo. Usando le tecniche del flash mob, le Femen ucraine usano letteralmente il proprio seno nudo per rendere platealmente visibili le proprie denunce contro il governo, contro la trasformazione del loro paese in una sorta di bordello per consumatori internazionali in occasione degli europei di calcio, contro la Sharia, persino contro Berlusconi nel novembre 2011. Le giovani donne russe della punk band Pussy Riot, quando irrompono con le loro canzoni di denuncia in contesti “sacri al potere” – il Kremlino, la cattedrale ortodossa – si limitano ad esibire minigonne. Ma le maschere che celano il volto alludono ironicamente alla spersonalizzazione delle donne da parte di chi le rappresenta, appunto, solo come corpi fungibili, purché attraenti per chi li guarda e consuma. L’ultima di queste azioni – una “preghiera” anti-Putin nella cattedrale ortodossa di Mosca durante una cerimonia religiosa – è costata loro molto cara, con una denuncia da parte del patriarca moscovita, e conseguente arresto. Possono essere condannate ad anni di carcere. Ahimè per loro, non avrebbero potuto essere più efficaci nel dimostrare lo stretto filo che nella Russia di oggi lega il potere politico alla Chiesa ortodossa.
L’uso del proprio corpo da parte di donne femministe, come strumento ed insieme atto comunicativo a fini di disvelamento e denuncia, non è un fenomeno nuovo, né limitato all’Est europeo. Più che l’episodio delle studentesse tedesche che attorniarono a seno nudo il filosofo Adorno durante un episodio di contestazione studentesca nel 1969, per umiliarlo alludendo in pubblico alle sue non sempre represse tentazioni di allungare le mani, è nel settore artistico che se ne può trovare ampia testimonianza. Le artiste di quella che è stata chiamata l’avanguardia femminista degli anni settanta hanno tutte, in un modo o nell’altro, usato fotografia, film, video e performance per affermare che “il personale è politico” e contro “l’obbligo d’essere belle”. Invece di limitarsi a documentare, certo meritoriamente, l’abuso e la strumentalizzazione del corpo femminile nella comunicazione pubblica, o anche a denunciare come irrispettosa e denigratoria questa o quella pubblicità o spettacolo, queste artiste hanno rovesciato il tavolo, mettendosi esse stesse nella parte del soggetto che comunica con il corpo. Hanno riempito di un’intenzionalità insieme critica e autonoma la messa in scena del corpo femminile, a partire dal proprio. I “corpi piatti” ed evanescenti di Francesca Woodman, le bambole di carta nell’armadio dei vestititi di Cindy Sherman, le performance di Valie Export, che, in quelle che oggi chiameremmo flash mob, provocava passanti e pubblico mostrandosi di volta in volta come un teatro ambulante da cui emergevano solo le tette o il sesso, che invitava ironicamente a toccare – queste ed altre ancora erano forme di espressione che rifiutavano la pura documentazione e andavano oltre la denuncia, per aprire ad uno sguardo, e ad una comunicazione, diversa.
Né le Femen né le Pussy Riot sono artiste sofisticate come quelle dell’avanguardia femminista. Sembra, però, che ne abbiano ereditato la lezione comunicativa: diventare soggetti anche nella comunicazione del, e con il corpo. Certo, non è l’unico modo, né necessariamente il più efficace, per contrastare il potere (le suore statunitensi, ad esempio, ne stanno mettendo in opera altri per contrastare i diktat del Vaticano). Ma vedere delle donne che usano allegramente, anche se rischiosamente, il proprio corpo per sbeffeggiare il potere ha un che di liberatorio, specie dall’osservatorio italiano. Ove sembriamo strette tra il dover prendere posizione sul diritto a fare la escort e il perbenismo moralista e ipocrita che vorrebbe le donne “per bene” e competenti tutte seriose, accollate, possibilmente anziane, meglio
se nonne, comunque de-sessualizzate.

La Repubblica 14.08.12

"Risanare senza spegnere", di Vittorio Emiliani

Se il destino del maggior centro siderurgico di un Paese che concorre al 18 % della produzione europea di acciaio può venire deciso dalla sentenza di un magistrato, davvero una politica industriale degna di questo nome non esiste più. Che il colosso di Taranto – insediato quasi dentro la città per favorire i proprietari di terreni – inquinasse in modo micidiale lo si sapeva da anni e anni. Ma poco o nulla hanno fatto – tutti quanti i soggetti in campo – per «mettere in sicurezza» gradualmente lo stabilimento tarantino.Una fabbrica che oggi dà lavoro e reddito (diretto o indiretto) a circa 18mila persone. Cessare ogni produzione nelle aree «a caldo», come impone la sentenza del Gip Patrizia Todisco, vuol dire erigere un monumento alla politica ambientale. Ma al tempo stesso erigere un monumento funebre alla politica e all’occupazione industriale in quella siderurgia in cui Italia e altri Paesi sviluppati (non solo Cina o India) hanno peso e ruolo. Prima di scatenare, anche in piazza, una sorta di «guerra di religione» a sostegno di questo o quel magistrato bisogna chiarire alcuni passaggi. La sentenza del Tribunale della Libertà, che non bloccava la produzione e nominava «custode» l’amministratore delegato dell’Ilva Ferrante, metteva quest’ultimo davanti a precise responsabilità: se durante i lavori di bonifica, si fossero registrati altri dati negativi, ne avrebbe risposto direttamente. Le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate e il Gip ne dà una interpretazione seccamente restrittiva senza conoscerle. Che procedura è mai questa? Quali ragioni la muovono? Il fatto che l’amministratore delegato dell’Ilva abbia impugnato il provvedimento? Peraltro la sentenza di Todisco è inappellabile presso il Tribunale della Libertà essendo venute meno le misure cautelari. Ci si può rivolgere soltanto alla Cassazione. Mentre alla Corte costituzionale il governo ricorrerà per verificare se non sia stato leso il suo potere «di fare politica industriale». L’ombra di Bisanzio si allunga.
E qui torniamo al discorso iniziale: possibile che si debba giungere ad una simile tragedia sociale per riparlare in Italia di politica industriale e della compatibilità delle fabbriche inquinanti con la vita delle città? Bisogna disperatamente, lucidamente tentare di mettere in campo forze, risorse, tecnologie per un piano rigoroso di misure risanatrici che ridiano vivibilità a Taranto e preservino i livelli di occupazione.
Chi sosterrà i costi di questo colossale quanto indispensabile risanamento? Lo Stato, l’Ilva o entrambi? Nel primo e nel terzo caso, perché mai la mano pubblica non dovrebbe controllare direttamente che quei fondi vengano ben spesi? In Italia abbiamo demonizzato l’intervento pubblico. In Francia, persino col centrodestra, non c’è stata questa demonizzazione «ideologica»: esecrare tutto ciò che è pubblico, santificare tutto ciò che è privato. La vicenda dell’Ilva dimostra che così non funziona. Il presidente di Federacciai ha affermato un anno fa che, nella siderurgia, rispetto al ’90, le emissioni inquinanti specifiche si sono ridotte «di oltre il 35%». È vero anche per Taranto? Certo non è il momento delle divisioni: fra i magistrati che si occupano della complessa vicenda, fra i sindacati, fra il governo e i lavoratori e i cittadini di Taranto. È il momento di un imponente sforzo comune: coniugare la salvezza della produzione e della occupazione industriale con quella di un ambiente inaccettabilmente inquinato. Che però non si disinquina in un giorno, né a colpi di sentenza irrimediabili.

l’Unità 14.08.12

"Cari prof, non date mai meno di 4 agli studenti", di Mariapia Veladiano

E poi bisogna anche parlare dei voti. Perché se i test non hanno vita felice qui da noi in Italia, e il perché lo ha raccontato per bene Stefano Bartezzaghi domenica, poi però tutti i test, proprio tutti, diventano numeri che danno idoneità, promozioni, accessi all’università o a selezioni. Sì e no ai nostri progetti di vita. Un test è un bivio: di qua o di là. Per questo non può essere sbagliato, sciatto, ambiguo. E anche quando è perfetto, è solo un puntino nello scorrere dei giorni e delle esperienze di una persona. Niente di più. Dovrebbe. Soprattutto a scuola, dove i test dilagano, importati all’ingrosso dal mito dell’oggettività del valutare. E diventano voto.
E allora parliamo del voto. E quindi della valutazione, della scuola che vogliamo, del mondo in cui viviamo. Tutto si tiene quando si parla di scuola e di ragazzi.
Dopo decenni ormai di letteratura sulla valutazione, il voto incendia sempre ancora le discussioni più scomposte. È così sovraccarico d’altro che quando è negativo per legge sparisce dai tabelloni finali, quasi che l’insufficienza a scuola sia stigma di insufficienza personale e umana di fronte all’universo mondo. E a volte, lo sappiamo, capita qualcosa che non può nemmeno essere nominato. Eppure i giornali devono scriverne. C’è chi, giovanissimo, prende un brutto, bruttissimo (troppo brutto?) voto a scuola e poi ci lascia. Lascia la sua vita.
Sotto quale cielo può capitare questo? Se la vita è altrove – sta scritto nei diari di scuola pieni di tutto: foto, ritagli, lettere, poesie, canzoni, fiocchi di regali, che sporgono colorati, di tutto tranne cose di scuola – allora perché il voto cattivo può per un momento magari, solo un momento, diventare il mondo che si rovescia addosso?
Dei ragazzi spesso non sappiamo nulla. Ostentano quel che non sono per nascondere meglio quel che vorrebbero essere. Dopo la tragedia si dice: ma come si fa? La scuola non può farsi carico di tutto. Ed è così.
Ma valutare è uno dei suoi compiti, serve a capire se il passo di chi insegna è giusto, se chi apprende lo sta facendo, a certificare al mondo che un percorso è compiuto davvero, che ci si può fidare, che quel diploma racconta ciò che i ragazzi sanno e sanno fare e che anche grazie a questo sapranno diventare quel che desiderano.
A scuola la valutazione incrocia tutto intero il tempo in cui i ragazzi esplorano ancora intatte tutte le loro possibilità, cercano conferme del loro valore, hanno paura di non trovarle. È la formazione del sé. Un momento benedetto. In cui ci vuole tempo, spazio per l’errore, e per rimediare all’errore. La valutazione degli apprendimenti, e oggi delle competenze, accompagna questo periodo e pur in una cornice che deve essere definita, chiara, rigorosa e comune, la scuola deve sempre sapere che la vita sorprende, che tutto può accadere, nel bene e nel male. Il voto è solo lo strumento che ci siamo dati per comunicare fra professori, ragazzi, famiglie, mondo. Non è nemmeno così necessario, almeno all’inizio. La scuola trentina prevede che nei primi quattro anni delle elementari i bambini siano valutati per aree di apprendimento.
Non ci sono voti per le singole discipline. A dire che il processo che porta un bambino ad avere gli strumenti per valorizzare le proprie attitudini è meravigliosamente unitario. E non ci sono i voti fino alla terza media. Ci sono giudizi. Articolati ma non bizantini, poche voci che dicono come e cosa è accaduto. Vien così meno la tentazione di quella contabilità lineare della valutazione che i ragazzi delle superiori consegnano a volte all’ultima pagina (il valore simbolico degli spazi!) dei loro diari: cinque più, sei e mezzo, quattro, sei = 5,44. Sarà sufficiente o no? Versione artigianale di certi fogli di excel che invece capita siano i professori a compilare. Ma lo sappiamo che questo non è valutare. Nella didattica modulare
se la verifica mostra che i contenuti del modulo sono stati fatti propri, il voto va a sostituire quello eventualmente negativo nella verifica precedente. Il modulo è appreso. Il brutto voto è rimediato. La recente riflessione sulla valutazione autentica chiede verifiche che mettono in gioco la scuola e la vita, e portano lo studente a misurarsi con quesiti di realtà.
Lo sappiamo ormai che la valutazione è un processo di osservazione, interazione, che chiede tempo e trasparenza e tanta tanta fiducia. Reciproca. Lo studente che si fida, perché ha visto già molte volte che tutto è equo e chiaro: richieste, criteri, modalità di recupero. L’insegnante che si fida dello studente, gli dà credito: di poter migliorare, poco a poco, perché la fiducia dell’altro attiva la fiducia in se stessi. Ai ragazzi la scuola importa, eccome. Nelle aule costruiscono la rete di fiducia in se stessi e negli altri che permetterà loro di resistere anche alle sconfitte.
Certo, poi alla fine c’è un voto. Una sintesi, un punto in cui si concentra tutto il processo. E allora, alla fine, si può parlare del voto. Al riparo dalla carica emotiva perché il voto è
anche potere: quanta letteratura e quanta esperienza ce lo hanno raccontato? Al riparo dalla carica ideologica perché la scuola è oggi luogo di battaglia politica e nella furia del dibattere si vorrebbe far credere che i voti bassi aiutino la qualità e il merito.
Non è così. Il Trentino registra l’eccellenza nei test Invalsi e nelle indagini internazionali Ocse-Pisa. Eppure il Regolamento di valutazione della scuola trentina non permette voti sotto il 4 nelle pagelle delle superiori. Dietro c’è una riflessione pedagogica precisa: allo studente si dà un messaggio chiaro, sufficiente a bocciarlo se serve, niente di più.
E infatti poi il Regolamento impedisce quella finzione iniqua che è data dai sei necessari
a essere ammessi all’esame di stato come invece capita nel resto dell’Italia. I 4 restano e fanno media vera. Trasparenza, anche qui. Perché la valutazione ha assoluto bisogno di avvenire in un contesto di giustizia. E allora i voti minuscoli, tre due- uno ( zero meno, in una fulminante battuta dei Peanuts) non sono necessari, non fanno bene e possono invece fare male. Inutile lasciarli visto che l’autonomia delle scuole permette altre strade condivise.
Questa è la scuola. Poi c’è il mondo. Se noi consegniamo ai ragazzi un mondo in cui la violenza delle parole, dei rapporti, dell’ingiustizia sociale è normale, accettata e inevitabile, in cui nei film, nei libri, nella realtà la violenza fisica è una strada possibile, quasi ordinaria di risposta all’offesa vera o presunta, o solo equivocata, allora certo un ragazzo può pensare che anche la frustrazione di un voto negativo può essere risolta con la violenza. Contro di sé. Anche il mondo c’entra, eccome. E così certamente no, la vita dei ragazzi non è mai altrove.

La Repubblica 14.08.12

"Ferragosto una malattia italiana", di Francesco Manacorda

Quale legame c’è fra i trecentomila passeggeri lasciati a terra da WindJet e i settemila lavoratori dell’Ilva che rischiano di rimanere a casa se l’impianto di Taranto, come ha deciso il Gip, dovrà bloccare la produzione? Sono due facce dello stesso male italiano. Un male che nasce dalla mancanza di qualsiasi prevenzione, si alimenta di continui rinvii e rimpalli che rappresentano la negazione delle responsabilità amministrative e di governo, esplode infine nell’emergenza. Anzi, nell’emergenza di Ferragosto: una forma tipica e cronica della nostra patologia nazionale che ha la caratteristica di essere di solito prevedibilissima, ma che nonostante questo, anno dopo anno, allarme dopo allarme, si ripete come se fosse inevitabile.

Così è difficile stabilire adesso di chi sia esattamente la colpa dei passeggeri rimasti a terra negli aeroporti, sebbene avessero un biglietto pagato regolarmente e spesso anzi con mesi di anticipo.

Si può attribuire la responsabilità, o parte di essa, alla stessa WindJet, che già dal 2009 chiudeva i bilanci in rosso, all’Enac che sovrintende a tutta l’aviazione civile e non ha vigilato a sufficienza, all’Alitalia che ha scoperto solo all’ultimo di non potere o volere concludere la trattativa per l’acquisizione del concorrente in cattive acque.

Ma una certezza c’è: l’immagine drammaticamente negativa che il caso WindJet proietta nel mondo – con i bivacchi dei passeggeri, la Caporetto dei call center e i costi supplementari caricati su chi vuole tornare a casa – è devastante per l’intero comparto turistico italiano. I russi o gli israeliani accampati nei nostri aeroporti faranno comprensibilmente – i titoloni sui loro giornali. E su un settore fondamentale per la nostra economia come quello del turismo calerà ancora una volta un giudizio di inaffidabilità, senza che a Mosca o a Tel Aviv si faccia troppa differenza tra il fallimento di un singolo gestore aereo, le inadempienze di chi avrebbe dovuto vigilare, e l’inaffidabilità di un Paese nel suo complesso.

Paragonare la disavventura estiva dei viaggiatori al bivio drammatico dell’Ilva non deve suonare irriguardoso. Anche a Taranto la (non) scelta è stata quella di lasciar correre, di rimandare anno dopo anno la soluzione di problemi certamente complessi come quelli posti dall’enorme stabilimento siderurgico situato in città. Ma anche in questo caso i mesi, e prima ancora gli anni, paiono essere passati inutilmente: ci si ritrova in piena estate con una crisi potenzialmente esplosiva che offre pochi spazi di mediazione e favorisce soluzioni paradossalmente affrettate, sebbene arrivino con grandissimo ritardo. Difficile che dal braccio di ferro istituzionale innescato sull’Ilva tra magistratura e governo possano venire scelte mediate e meditate. E difficile, più in generale, affrontare la questione costretti dal solito meccanismo dell’emergenza agostana a una contrapposizione irrisolvibile come quella tra diritto alla salute e diritto al lavoro.

Anche in questo caso è più facile prevedere gli effetti su ampia scala dello scontro che va in scena a Taranto. Al di là di quello che sarà l’esito della vicenda il messaggio per chi avesse intenzione di investire in Italia è chiaro: da noi i problemi non si affrontano per lungo tempo, ma quando poi lo si fa le decisioni si accavallano l’una sull’altra, contraddittorie; a decidere – quando si decide – sono spesso poteri concorrenti, che con un semplice atto paiono poter rovesciare quanto stabilito solo poche ore prima.

Anche questo, non solo quello che ansiosamente seguiamo ormai ogni giorno sui mercati finanziari, è uno «spread», una differenza che penalizza l’Italia nei confronti di Paesi più affidabili. E anche su questo fronte rischiamo di pagare un prezzo assai tangibile – meno turisti nel nostro Paese, meno investimenti nelle nostre imprese – per colpa di un deficit che non si calcola in euro, ma in quella moneta assai più delicata che si chiama fiducia.

La Stampa 14.08.12

"La trappola del falso dilemma", di Michela Marzano

Fino a quando si continuerà a contrapporre il diritto al lavoro al diritto alla sopravvivenza, e quindi il salario alla salute, non si troverà alcuna via d’uscita al problema
dell’Ilva. Perché messo in questi termini, più che di un problema si tratta di un dilemma morale. E come sappiamo tutti, un dilemma etico non ha, per definizione, alcuna soluzione. I dilemmi sono drammatici, disperati, senza sbocco. Perché si sbaglia sempre e comunque. Perché quale che sia la decisione che si prenda, si finisce poi sempre col rimpiangere quello che si è detto o fatto. Come il celebre “dilemma di Sophie”, raccontato nel romanzo di William Styron, che racconta di come una giovane ebrea polacca deportata ad Auschwitz con i figli fosse stata perversamente costretta a scegliere dai nazisti quale dei due far morire. Se Sophie non sceglie, moriranno tutti e due. Se invece ne sceglie uno solo, l’altro avrà la vita salva. Da un punto di vista strettamente utilitaristico e matematico, Sophie dovrebbe salvarne almeno uno. Ma come può una madre scegliere quale figlio merita o meno di vivere?
Nel romanzo, dopo alcuni minuti di smarrimento, Sophie deciderà di salvare Jan, sacrificando la piccola Eva. Ma pagherà la decisione presa per il resto della vita, tormentata dai sensi di colpa e dalla disperazione. Perché in fondo, anche se da un punto di vista razionale salvare una vita è meglio che non salvarne nessuna, da un punto di vista esistenziale ed etico esistono scelte che non si possono fare. Come nel caso della scelta impossibile tra salute e lavoro. A meno di non costringere la gente a difendere l’indifendibile: «Preferisco morire tra vent’anni di cancro, piuttosto che tra pochi mesi di fame», si sente oggi dichiarare da certi lavoratori dell’Ilva che hanno paura di perdere il proprio posto di lavoro. «Preferisco morire subito di fame, piuttosto che vedere i miei figli deperire e ammalarsi», rispondono alcuni ambientalisti locali.
In realtà, nel caso dell’Ilva è un grave errore insistere nel presentare il problema in termini di opposizione, se non addirittura di ricatto, tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Nonostante le apparenze, infatti, si è di fronte a quello che filosoficamente parlando si potrebbe definire un “falso dilemma”: si assolutizzano i valori chiave in gioco, ossia la salute e il lavoro, mostrando che l’uno si oppone inesorabilmente all’altro, e che l’unico modo per uscire dall’impasse è quello di sacrificarne uno dei due. È la tecnica argomentativa dell’aut-
aut.
Per concludere cinicamente che “tertium non datur”. Con tutti i drammi nessi e connessi. Come in fondo accade ogni qualvolta ci si trovi di fronte ad una scelta secca, impossibile, disumana. Eppure i progressi della tecnologia e l’esempio di molti altri paesi europei mostrano che non c’è alcun bisogno di contrapporre salute e lavoro. Anzi, il lavoro e la salute vanno di pari passo, come ha ribadito ieri il ministro dell’Ambiente Clini: non ha alcun senso opporre risanamento ambientale e produzione di acciaio perché è proprio grazie alla partecipazione attiva dell’Ilva che si potrà procedere al risanamento degli impianti.
Certo, la decisione del 10 agosto del gip di Taranto Patrizia Todisco di bloccare la produzione in attesa della bonifica sembra ancora una volta ribadire il fatto che, con l’Ilva, ci si trova di fronte proprio ad un dilemma. Non è un caso che le polemiche siano subito ripartite. Per il presidente dei Verdi e per Antonio di Pietro, ad esempio, i magistrati starebbero solo facendo il loro dovere difendendo il diritto alla salute. Per i difensori ad oltranza del-l’attività economica, la decisione del gip sarebbe invece la prova del fatto che l’Italia non offre alcuna
chance allo sviluppo industriale, e che non sarebbe altro che un paese “antiquato e pittoresco”, per utilizzare, estrapolandoli, i termini del New York Times.
Ieri il governo ha ufficializzato il ricorso alla Consulta aprendo un conflitto con la magistratura pugliese. Ma quando il dibattito si polarizza in questo modo, è difficile trovare una soluzione, proprio perché tertium non datur.
Speriamo allora di uscire da questo “falso dilemma” e ritrovare la via della ragione, invece di cedere alle sirene della dialettica sofista. Non solo per salvare al tempo stesso il lasindacale
voro e la salute, ma anche per evitare che, in nome della salvaguardia dell’ambiente, sia proprio l’ambiente ad essere sacrificato. Chi può essere così ingenuo da pensare che un problema come quello del risanamento ambientale di zone già fortemente danneggiate possa essere preso in considerazione e risolto se l’Ilva cessa ogni attività? È solo un esempio. Che non deve far perdere di vista la necessità di portare avanti un’attività e una produzione sostenibile. Ma talvolta la filosofia del senso comune permette, molto più dell’idealismo, di non cadere nella trappola dei falsi dilemmi che, quasi sempre, finiscono in tragedia.

La Repubblica 13.08.12

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“Il giudice e la fabbrica”, di LUCIANO GALLINO

Una funzione essenziale delle leggi consiste nell’impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole. I giudici di Taranto nel caso Ilva, e di Roma nel caso Pomigliano, hanno dato corpo a tale funzione. Nel caso di Taranto sembra accertato che la parte più forte, la proprietà dello stabilimento, abbia permesso che esso infliggesse da anni alla parte più debole, i lavoratori del sito insieme con l’intera popolazione della città, un tasso di inquinamento che i periti della Procura hanno ritenuto letalmente elevato. Nel caso di Pomigliano è comprovato, stando alla sentenza della Corte d’appello, che la Fiat abbia proceduto ad assunzioni discriminatorie, applicando il singolare principio per cui un’impresa assume soltanto quei lavoratori che abbiano in tasca una tessera ad essa gradita, o meglio nessuna.
Adesso ambedue le vicende sono giunte a un punto critico. I giudici di Taranto hanno disposto il blocco dell’attività produttiva sino a quando l’impianto non sia dotato di tecnologie antiinquinamento adeguate. Non si vede come avrebbero potuto decidere altrimenti. Un impianto siderurgico integrato tipo quello tarantino presenta due caratteristiche: tutti i suoi componenti, dal reparto sinterizzazione sino ai treni di laminazione, sono fortemente inquinanti; al tempo stesso non si può fermarne uno per metterlo a norma perché in un ciclo integrato fermare un componente significa bloccare tutti gli altri. Ma se si ferma tutto il sito circa 15.000 operai, tra diretti e indiretti, rischiano di restare senza lavoro. A Pomigliano quel che può succedere è che la Fiat metta in cassa integrazione un numero di nuovi assunti più o meno corrispondente agli iscritti alla Fiom che dovrebbe riassumere, visto che per gli attuali volumi produttivi, essa dice, gli addetti attuali sono più che sufficienti. In ambedue i casi, siamo da capo: la tutela della legge che i giudici hanno offerto ai più deboli rischia di essere vanificata.
Non si è qui dinanzi soltanto alle responsabilità del più forte, per quanto queste siano grandi. Nessuna delle due vicende sarebbe arrivata al punto in cui è oggi se i governi che si sono succeduti negli ultimi anni; i ministeri competenti, in specie quelli dell’Ambiente e dello Sviluppo (o dell’Industria, come si chiamava un tempo); nonché i partiti ieri contrapposti e oggi alleati nel sostenere il governo cosiddetto dei tecnici, non avessero dato in qualche modo un aiuto alle società coinvolte per aver mano libera o quasi nei loro siti produttivi. Che l’impianto di Taranto inquinasse dentro e fuori dei suoi cancelli era risaputo da anni. Senza risalire troppo indietro, basterà ricordare che l’Arpa della Puglia aveva trasmesso al ministero dell’Ambiente, nei primi mesi del 2008, un documentato rapporto circa i rischi derivanti dalla diffusione di sostanze velenose provenienti dall’impianto in questione. Tuttavia una lettera del ministero all’Arpa in data 8 agosto 2008 affermava seccamente che le rilevazioni effettuate a cura dell’agenzia non potevano essere ritenute valide. Non proprio una licenza di inquinare, ma in ogni caso un efficace contributo per perdere altri anni prima di intervenire.
Quanto a Pomigliano, è probabile che la Fiat non avrebbe osato attuare le sue pratiche discriminatorie se le cosiddette riforme del lavoro susseguitesi sin dai primi anni 2000, le posizioni dei partiti ancorché definitisi di centro-sinistra, più tambureggianti campagne mediatiche, non avessero fatto tutto il possibile per spingere in un angolo la Cgil e la Fiom come rappresentanti di un sindacato capace ancora di dire no, almeno ogni tanto, alle richieste sempre più intrusive dei diritti dei lavoratori avanzate dalle imprese. Sarebbe inaudito veder buttare fuori dalla fabbrica tanti operai quanti l’azienda deve riassumerne in forza della sentenza di appello. In gioco qui non è tanto il destino dei singoli, quanto un principio basilare della democrazia industriale.
Mentre a Taranto si tratta soprattutto di salvare il lavoro di migliaia di operai, davanti una disposizione dei giudici che a fronte delle responsabilità grandissime delle imprese e dei politici appare doverosa prima ancora che pienamente giustificata. Per farlo occorrono non soltanto soldi, che oltre allo stato la proprietà dovrebbe tirare fuori anche di tasca propria a fronte degli utili degli ultimi anni (le stime parlano di miliardi), ma anche invenzioni organizzative. Come, ad esempio, adibire gran parte dei lavoratori stessi ai lavori di ristrutturazione ambientale dello stabilimento. Nessuno conosce quell’impianto meglio di chi ci lavora; e molte professionalità potrebbero essere utilizzate nei lavori di ristrutturazione con un periodo relativamente breve di formazione. Su questo punto non è ammesso dire che non è possibile, prima ancora di approfondire la questione. Quel che non sembrava possibile, consentire all’impianto tarantino di avvelenare insieme i suoi addetti e la popolazione, lo stato e i suoi ministeri lo hanno già fatto. Ora hanno il dovere di imboccare al più presto la strada opposta, quella di un’opera di risanamento che non fa pagare il prezzo per una seconda volta ai lavoratori e alla città.

La Repubblica 14.08.12