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Ilva, Fassina: «La produzione può continuare con i controlli decisi», di Massimo Franchi

«La produzione non va fermata: l`azienda ha preso impegni chiari che possono essere monitorati. La vicenda dell`Ilva di Taranto però deve segnare una svolta per ritornare a politiche industriali che scongiurino lo scontro fra ambiente e lavoro». Stefano Fassina, responsabile economia del Pd, non commenta le decisioni della magistratura, ma «non prende nemmeno in considerazione la chiusura della fabbrica».
Fassina, lei sabato ha definito «irrituale e preoccupante» il provvedimento del giudice Patrizia Todisco. Oggi lo stesso Gip ha tolto al presidente Ferrante il ruolo di custode delle aree sequestrate.
«Noi non attacchiamo la magistratura: per noi diritto alla salute e diritto al lavoro sono entrambi irrinunciabili. Abbiamo espresso preoccupazione e chiesto chiarezza su una situazione che obiettivamente si sta complicando. Ora bisogna attendere le motivazioni del Tribunale del riesame di cui è noto solo il dispositivo. Dobbiamo fare ordine, provare a diradare la confusione. A nostro avviso la produzione non va fermata perché ci sono tutte le condizioni tecniche e di volontà dell`azienda per dare compatibilità ad ambiente, salute e lavoro.

Dopo l`intervento della magistratura tutti gli attori coinvolti, e in particolare il neo presidente Ferrante, hanno assunto pubblicamente l`impegno di realizzare le misure richieste riconoscendo gli errori commessi in passato dall`azienda. Si è costituito un tavolo istituzionale ad hoc, il governo ha emesso un decreto legge per la bonifica e una delibera del Cipe ha autorizzato il finanziamento di ulteriori interventi. C`è stata dunque l`assunzione di impegni chiari e monitorabili che devono evitare lo stop alla produzione».

Non pensa che la magistratura abbia avuto un ruolo di supplenza rispetto ad anni e anni di inerzia da parte di azienda, sindacati ed istituzioni?
«La magistratura ha svolto un intervento su problemi reali evidenziando carenze certamente gravi a vari livelli. Ma dopo il suo intervento c`è stata un`assunzione di responsabilità di tutti gli attori in gioco. Per questo pensiamo che la produzione possa continuare. E valutiamo positivamente l`iniziativa presa dal presidente Monti».

Il ministro Clini mette in guardia: lo stop all`I Iva favorirebbe i produttori cinesi da cui le nostre aziende si andrebbero a rifornire. Vede la geopolitica dietro al comportamento della magistratura?
«Assolutamente no. Le conseguenze dirette della chiusura però sarebbero un colpo insostenibile al tessuto produttivo del Mezzogiorno e di tutt`Italia perché avrebbero conseguenze sugli stabilimenti Ilva di Genova e Novi Ligure».

I comitati di Taranto però sostengono che i costi della bonifica siano così alti (20 miliardi) che l`azienda non se li accollerà mai e che tocca allo Stato pagarli…
«Quantificare i costi è quasi impossibile. Certamente la vicenda è ormai diventata una questione nazionale anche per il carattere sistemico della produzione di acciaio. Sono necessarie quindi politiche pubbliche per risolverla. Noi questo l`abbiamo sempre avuto presente, tanto che due anni fa tenemmo la Festa nazionale del Lavoro del Pd proprio a Taranto affrontando il tema e proponendo le soluzioni che oggi ribadiamo e oggi abbiamo costituito una task force composta dal dipartimento economia e dalle strutture locali del Pd. La vicenda dell`Ilva pone infatti il tema di un nuovo e indispensabile modello di sviluppo: la tensione forte tra diritto al lavoro e qualità dello sviluppo deve risolversi grazie a politiche pubbliche che evitino lo scontro».

L’Unità 13.08.12

"Europa, questione di democrazia", di Michele Ciliberto

Le dichiarazioni di Monti allo Spiegel, e le polemiche che ne sono conseguite sono molto utili. Esse, infatti, consentono di sollevarsi dalla dimensione feriale e quotidiana e di porsi domande di fondo, a cominciare da quella fondamentale: qual è l’idea di Europa per la quale ci battiamo e stiamo facendo i durissimi sacrifici che la crisi internazionale ha imposto a tutti i popoli europei, compreso il nostro?
La gravità della crisi di questi drammatici mesi ci ha distolto dalle questioni, e dalle interrogazioni, di ordine generale. D’altro canto, come dicevano gli antichi: primum vivere, deinde philosophari. Ma la discussione di ordine generale è importante e vale perciò la pena di chiarire alcuni punti essenziali.
L’Europa è il nostro comune destino, l’avvenire di tutti i popoli europei: se restasse chiusa nelle sue vecchie articolazioni statali, da un lato precipiterebbe in modo ineluttabile verso nuove forme di nazionalismo (come la storia recente ci ha mostrato ad abundantiam); dall’altro, si avvierebbe verso un sicuro declino, in un mondo che comincia ad essere dominato dalle grandi potenze asiatiche e percorso da sconvolgimenti che ricordano quelli che colpirono intere zone dell’Europa – a cominciare dall’Italia – quando il centro mondiale dell’attività economica e commerciale, dopo la scoperta dell’America, si spostò dal Mediterraneo all’Atlantico.
Da questo punto di vista sono stati fatti, senza dubbio, giganteschi passi avanti. Fine delle guerre fra gli Stati europei, eliminazione delle barriere doganali, libera circolazione degli individui, unificazione della moneta… Perfino Kant, il teorico della pace perpetua, resterebbe colpito nel vedere quanta strada sia stato capace di fare quel «legno storto» che è l’uomo, compreso quello europeo.
Ma proprio l’euro, che è stato un momento essenziale di questo processo straordinario, ne dimostra, come in un grande specchio, i forti limiti, l’incompiutezza. Se l’unità europea continua a restringersi al piano economico, possono discenderne conseguenze assai gravi sul piano politico, sia nel presente che nel futuro. Se l’orizzonte europeo si riducesse alla sola dimensione economica, diventerebbe infatti naturale che la nazione economicamente più potente – in questo caso la Germania – volesse far sentire con particolare energia la sua voce, fino a considerarsi «più eguale degli altri» e ritenere di poter dettare, agli altri, le proprie decisioni. Ed è proprio quello che sta accadendo. Il vecchio e bistrattato Marx non se ne meraviglierebbe, ma atteggiamenti come questi rivelano con chiarezza che la strada imboccata finora è insufficiente: naturalmente se l’obiettivo finale rimane quello di costruire un destino comune e solidale tra le nazioni europee.
Occorre dunque riaprire l’orizzonte e, per farlo, bisogna cambiare completamente il punto di vista. Ed è necessario che le forze democratiche europee si impegnino in prima persona in questo lavoro perché da esso dipende, in buona parte, il futuro dell’Europa. Se non si riesce ad elaborare e imporre un’altra idea di Europa, il default al quale assisteremo non sarà quello della Grecia: a farne le spese sarà quella visione europea che è stata imposta in questi anni, offuscando o accantonando i valori etici, spirituali ed anche religiosi connaturati alla sua storia. Quei valori di libertà, di emancipazione, di tolleranza che si sono manifestati in maniera compiuta, per la prima volta, con l’Illuminismo.
Per individuare i caratteri di questa differente idea Europa occorre, in via preliminare, chiarire due relazioni: tra Stato e nazione; tra sovranità nazionale e sovranità europea.
La modernità si costituisce attraverso l’intreccio organico di Stato e di nazione. La struttura secolare dell’Europa è basata sul modello dello Stato nazionale. Ma lo Stato moderno è una costruzione storica: come è nato, così può morire. Allo stesso modo il nesso tra Stato e nazione è un fenomeno storico di primaria importanza ma, proprio perché storico, esso può decadere o configurarsi in modi e forme differenti.
Se si vuole sostenere una «nuova» idea di Europa e un rapporto positivo e fecondo tra sovranità nazionale e sovranità europea esiste poi un secondo punto da chiarire. Stato e nazione non sono termini equivalenti, anzi: il concetto di nazione è assai più largo e complesso di quello di Stato. Ci sono state grandi nazioni che si sono configurate assai tardi nella forma dello Stato moderno, come l’Italia e la Germania.
Ora, è proprio dalla crisi, e dalla fine, di questa relazione che possono germinare sia l’idea degli Stati Uniti di Europa che quella della nuova sovranità europea. Negli Stati Uniti di Europa confluisce infatti una pluralità di tradizioni nazionali, ma proiettandosi oltre le forme della statualità moderna in cui esse si sono incarnate per una lunga fase della loto storia; la sovranità europea è lo spazio giuridico, politico ed etico in cui tutte queste tradizioni si riconoscono potenziandosi e partecipando dal loro specifico punto di vista alla costruzione di un comune destino europeo. Sia gli Stati di Europa che la sovranità europea sono costituiti da «diversi», non da «eguali»; e qui sta la forza di entrambi.
Di qui discendono due conseguenze decisive, che è utile ribadire alla luce delle polemiche di questi giorni: non è accettabile il primato di una nazione europea sulle altre in ragione della sua potenza come singolo Stato; vanno considerate, valorizzate, anche le tradizioni di quelle nazioni che, pur indebolite oggi come Stati, hanno dato un contributo decisivo alla storia culturale e spirituale dell’Europa. Come la Grecia per intendersi: una nazione della quale, come tutti dovrebbero comprendere, gli Stati uniti di Europa non potranno mai fare a meno, se non vogliono rinnegare se stessi. Sostenere perciò, come qualcuno ha fatto, che la Germania ha il diritto di svolgere nei confronti di altri Paesi europei lo stesso ruolo che l’Italia può svolgere verso la Sicilia, è una tesi senza alcun fondamento teorico o politico.
Gli Stati Uniti d’Europa, che sono la prospettiva di tutti i popoli europei, devono avere questa base ideale, spirituale, etica ed anche religiosa, e per questo possono rappresentare un mutamento radicale nella storia del nostro continente ed un evento eccezionale nella storia del mondo, proprio perché essi, a differenza dell’America, nascono da una lunga storia nella quale gli Stati nazionali hanno svolto il ruolo decisivo. Certo, essi sono un orizzonte da realizzare, non un traguardo realizzato. Ma questo è l’obiettivo: ritrovarsi uniti e solidali in una nuova comunità, al di la delle barriere e dei confini, di una storia tante volte sanguinosa e fratricida, sulla base di una concezione della sovranità che, al suo interno, si attua consapevolmente oltre caratteri e forme costitutive della statualità moderna.
Un traguardo eccezionale e assai complicato, come i contrasti di questi mesi dimostrano. È perciò assai singolare che oggi la parola sia lasciata solo agli economisti, anche se si può capire che ciò possa accadere tenendo conto della grave crisi in cui ci troviamo. Ma l’Europa è, per fortuna, una realtà assai più complessa e più larga dei mercati e dello spread che, come una sorta di Moloch, scandisce le nostre giornate. Per questo, nonostante tutto, continua a rappresentare un orizzonte condiviso per tutti i popoli europei. Come direbbe un filosofo tedesco, il «passato» dell’Europa è pregno di un «futuro» che non si è ancora pienamente dispiegato.

L’Unità 13.08.12

"Sono mancate le misure di breve periodo". Epifani: "per la ripresa bisognava derogare al patto di stabilità", di Francesca Schianchi

Se il governo dopo l’estate si muove verso temi come l’agenda digitale o le questioni energetiche, si muove nel senso giusto. Il problema però è che tutto questo per andare a regime richiede tempi medi», sottolinea Guglielmo Epifani, per otto anni segretario generale della Cgil: «E intanto a settembre ci saranno cento tavoli di crisi aperti e difficoltà di accesso al credito per le piccole e medie aziende». Quindi ci vorrebbero interventi sull’immediato… «La nostra differenza rispetto ad altri Paesi è che noi non abbiamo realizzato mai nessuno stimolo a breve sull’economia: una contraddizione che ci portiamo dietro dall’inizio della crisi».

Più facile a dirsi che a farsi: come si realizzano stimoli a breve sull’economia?«Intanto, il governo aveva preso l’impegno di risolvere il problema dei ritardati pagamenti alle imprese della Pubblica amministrazione. E invece finora non si è sbloccato un euro».

E poi? «Ci vorrebbero misure per consentire la deroga al patto di stabilità per gli enti locali, per quei tanti comuni che hanno progetti di investimento che non possono realizzare a causa del blocco dei pagamenti. Bisogna trovare delle modalità per rendere più agevole l’accesso al credito per le piccole e medie imprese. E occorre ricordarsi che c’è un problema di domanda interna: le industrie che esportano hanno buoni bilanci, mentre chi vive di domanda interna è in affanno».

Già, ma come si stimolano i consumi? «Riducendo le tasse».

Ne è consapevole anche il ministro Grilli:non sa quando sarà possibile farlo, però. «Per questo volevamo una piccola patrimoniale che permetta di abbassare le tasse sul lavoro».

Il ministro dice che la patrimoniale non fa parte del suo vocabolario… «E allora, visto che finalmente forse si arriverà a un accordo con la Svizzera sui soldi portati all’estero, perché non usiamo una parte di quelle risorse per ridurre il debito e una per stimolare i consumi, in funzione anticiclica? La mia critica al complesso delle manovre di questi cinque anni è di aver sempre assecondato il ciclo anziché provare a fare politiche anticicliche».

Perché non l’abbiamo fatto, secondo lei «Prima il governo Berlusconi ha sottostimato la crisi, e Tremonti pensava che le manovre fossero inutili perché tutto dipendeva dall’Europa. Poi Monti s’è trovato in una situazione talmente difficile che si è curato soprattutto del recupero di credibilità internazionale».

Qual è il suo giudizio sul governo Monti? «E’ arrivato che stavamo sull’orlo della bancarotta e ha fatto un’operazione europea di valore, anche se i risultati tardano a vedersi. Sul fronte interno ha sottovalutato la crescita, e poteva gestire meglio la riforma delle pensioni e quella del lavoro, che porta più problemi che vantaggi».

Da settembre ci sarà la fase duedella spending review… «Checché ne dica il governo, la fase uno è stata caratterizzata da tagli lineari. Ora bisogna capire se nella fase due si vuole assumere un processo selettivo di riorganizzazione della spesa pubblica. Perché ci sono settori come sanità, istruzione, ricerca su cui tagliare ancora diventa controproducente».

La Stampa 13.08.12

"Quando l’imprenditore si sente classe operaia", di Ilvo Diamanti

Il volto sociale della crisi è descritto da molti indicatori. Per primo, il tasso di disoccupazione, che tende a crescere, rapidamente. Poi, il calo dei consumi. Che si riflette, fra l’altro, nel minor numero di persone partite per le ferie. Ancora: la repentina riduzione del risparmio privato. Punto di forza del nostro sistema bancario. L’aspetto, forse, più significativo della “crisi sociale” italiana, però, riguarda l’impresa. In particolare, di piccola dimensione. Visto che, in Italia, le piccole imprese hanno un’incidenza molto ampia. Sono, infatti, circa 60 ogni 1000 abitanti, mentre la media europea è intorno a 40 (Istat su dati della Commissione Europea 2009). Gli italiani. Un popolo di santi, poeti e navigatori. Ma anche di imprenditori. Soprattutto dopo il declino della grande impresa metropolitana del Nord-Ovest, sostenuta dallo Stato. Identificata dalla Fiat. Negli ultimi trent’anni, invece, lo sviluppo è stato trainato dalla piccola impresa, diffusa nel Nord-Est e nelle regioni dell’Italia Centrale ma anche del Centro-Sud adriatico. Un fenomeno socioeconomico che ha improntato l’identità nazionale. Dentro e fuori i confini. L’imprenditore, dagli anni Ottanta, ha smesso di essere il padrone. È diventato, a sua volta, lavoratore. Autonomo. Mito e modello di mobilità sociale, in un Paese dove molti lavoratori dipendenti ambivano a divenire anch’essi lavoratori in-dipendenti. Padroni — di se stessi. Un Paese dove l’impresa individuale e familiare ha continuato a moltiplicarsi. Un Paese di artigiani e commercianti, oltre che di industriali. Affollato da titolari di aziende meccaniche, tessili, edili, calzaturiere, chimiche e siderurgiche. Ma anche da informatici, tassisti, commercianti, commercialisti, ristoratori e parrucchiere. Tutti “imprenditori”. Un universo ampio, fluido. E frammentato.
Anche per questo, negli ultimi trent’anni, la cosiddetta “concertazione” ha avuto tanta importanza. Perché non solo le organizzazioni dei lavoratori dipendenti, ma anche quelle degli imprenditori e dei lavoratori autonomi, avevano, anzi, hanno, grande presenza e influenza sociale. Fra lavoratori dipendenti e indipendenti, autonomi e imprenditori, vi sono ampi margini di sovrapposizione. Confini mobili.
D’altronde, la Seconda Repubblica è sostanzialmente fondata sull’imprenditore, come mito e come realtà. La Lega: ha dato visibilità alle rivendicazioni delle aree di piccola impresa del Nord. Mentre Silvio Berlusconi ha incarnato il mito dell’imprenditore all’italiana. Che si è fatto da sé. Lo ha sceneggiato e rappresentato. In tutti gli ambiti e in tutti i linguaggi. Dai media allo sport. Dal costume all’a-morale pubblica.
Gli italiani, d’altra parte, concepiscono la propria differenza e specificità rispetto agli altri popoli anzitutto nell’arte di arrangiarsi (Indagine Demos per Intesa-Sanpaolo, marzo 2011). Che, come ho scritto altre volte, non si può ridurre a mera furbizia. Ma si traduce anche in arte, appunto. Capacità creativa. Che permette di adattarsi e di reagire, in fasi critiche come questa. Attraverso soluzioni impreviste e innovative.
Le sofferenza delle imprese italiane, in questa fase, vanno, dunque, valutate con attenzione. Perché potrebbero prefigurare un cambiamento di ciclo sociale, oltre che economico. Dagli esiti difficilmente prevedibili. I segnali, in tal senso, sono numerosi. Sotto il profilo delle statistiche economiche, è in atto, ormai da anni, un calo assoluto del numero di imprenditori: 25 mila in meno nel 2011 rispetto al 2010, ma 170 mila rispetto al 2004 (Fondazione R.Te. Imprese Italia su dati Istat). Nel 2012, peraltro, si è verificato un calo delle nuove imprese. In particolare, come segnalato su la Repubblica (fonte InfoCamere), appare sensibile il declino dei giovani imprenditori (ma anche delle imprenditrici).
Le associazioni di categoria, inoltre, denunciano le crescenti difficoltà della piccola distribuzione e, in particolare, degli alberghi e dei ristoranti, molti dei quali, nell’ultimo anno, hanno chiuso o stanno chiudendo.
La stessa enfasi dedicata dai media ai suicidi di piccoli imprenditori e di lavoratori autonomi, al di là della misura del fenomeno (non troppo diversa rispetto agli anni precedenti), denuncia la drammatizzazione del fenomeno nella percezione sociale.
È, peraltro, evidente il disagio dell’imprenditore sul piano “politico”. Lo rivela il declino dei soggetti che ne hanno assunto — e propagandato — l’immagine. La Lega e, soprattutto, Berlusconi: il Presidente imprenditore a capo del Partito-impresa.
Ma si riflette anche nella crescente difficoltà delle organizzazioni imprenditoriali, sul piano della rappresentanza. Per prima Confindustria. Indebolita, ovviamente, dalla crisi della base associativa. Ma anche dalla scelta di alcune imprese di non aderire. Di rappresentarsi da sole. Per prima la Fiat di Marchionne. Protagonista e interprete dell’impresa italiana fino a poco tempo fa.
Ma i problemi di rappresentanza di cui soffrono le organizzazioni di categoria — e in particolare Confindustria — si traducono, in modo esplicito, nel difficile rapporto con il governo.
— Ieri, con il governo Berlusconi, il Presidente Imprenditore: accusato di aver tradito la sua missione. La propria identità. — Negli ultimi mesi, con il governo tecnico. Come sottolinea, da ultimo, la polemica in merito alla spending review che ha opposto Giorgio Squinzi — nuovo presidente degli industriali — e Mario Monti. Il quale ha, peraltro, indicato — e denunciato — nella concertazione il principio della crisi del Paese. Dimenticando quanto quel sistema di relazioni abbia contribuito a cementare la società e le istituzioni nei primi anni Novanta, quando la Prima Repubblica affondava, insieme ai conti dello Stato.
Insomma, se le imprese italiane soffrono, soffre anche l’imprenditore, principale riferimento di questa società “cetomedizzata”, come la definisce Giuseppe De Rita (da ultimo ne L’Eclissi della borghesia, scritto insieme ad Antonio Galdo e pubblicato da Laterza). In questo Paese, dove la borghesia innovativa e riformatrice ha, storicamente, occupato uno spazio limitato. Inadeguato a promuovere la modernizzazione. Gli imprenditori: piccoli e piccolissimi. I lavoratori autonomi. Hanno, invece, ingrossato il Paese “medio”. Dove coloro che si sentono “ceto medio” (sondaggio Demos-Coop, aprile 2012), dal 2006 a oggi, si sono ridotti, anzi, sono crollati, dal 60% al 40%. In Italia, se anche gli imprenditori si sentono di ceto medio- basso e si dichiarano “classe operaia”: chi reagirà alla crisi? E soprattutto, chi spingerà la ripresa?

La Repubblica 13.08.12

L'eccidio di Sant'Anna di Stazzema Schulz: "Mai più il ghigno nazista", di Massimo Vanni

“M’inchino di fronte alle vittime di Sant’Anna. E’ per loro che abbiamo la responsabilità di costruire l’Europa e di proteggerla dalla speculazione che fa soffrire i popoli e nutre i nazionalismi”. Lo ha scritto, in italiano, il presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, che oggi era in Toscana a commemorare – insieme con autorità italiane e familiari delle vittime – i 560 morti provocati dall’orrore nazista 68 anni fa nel paesino in provincia di Lucca. Ad aprire il corteo che porta all’ossario sul Colle di Cava c’erano, con Schulz, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, il sindaco di Stazzema Michele Silicani e le autorità religiose, civili e militari, oltre a tantissimi gonfaloni di comuni. Una giornata dedicata anche al ricordo dei milioni di morti causati dalla ‘follia nazista’.

Sotto l’ossario che ricorda l’eccidio, davanti ai pochi superstiti, ai familiari delle vittime e ai tanti gonfaloni dei Comuni il presidente del parlamento europeo parla in tedesco avvalendosi di una traduzione simultanea. E dice : “La limngua che io parlo è la stessa degli uomini che hanno compiuto questo eccidio. Non lo dimentico. Sono qui come tedesco e come europeo. l’Europa è la via migliore per non ripetere crimini come questo”.

Schulz ha detto di non riuscire a “descrivere con parole la crudeltà di tali fatti. Mi presento oggi a voi come tedesco, profondamente scosso dalla disumanità dell’eccidio qui perpetrato in nome del mio popolo”. Eppure, ha proseguito il presidente del parlamento europeo, anche oggi c’è chi dice di voler smantellare l’Europa: “Abbiamo cambiato le strutture, facendo nascere l’Europa, ma non abbiamo cambiato gli uomini. Questi sono sempre uguali e sono sempre capaci di commettere crimini come questo”. Solo l’Europa, invece, può impedirlo: “E non possiamo permettere oggi che l’Europa venga distrutta da quelle forze speculative che hanno ridotto tanta gente alla disperazione”.

“Bisogna non dimenticare mai – ha ammonito Schulz – bisogna mantenere vivo il ricordo. Affinché mai più in Europa ideologie disumane e regimi criminali tornino a mostrare il loro ghigno odioso… La libertà, l’umanità devono essere riconquistate ogni giorno. Questo è il nostro compito di epigoni, questa è la missione che ci hanno assegnato i martiri di Sant’Anna di Stazzema. Vi ringrazio di cuore per tenere vivo il ricordo dei martiri e per permettermi, come tedesco, di commemorarli e di unirmi al vostro lutto. E’ un dono fatto a me personalmente”

“Noi tutti dobbiamo scendere in campo contro il ritorno di modi di pensare che hanno sempre portato ai popoli europei nient’altro che disgrazie – ha proseguito Schulz – e minacciano ora di mandare in rovina anche l’Unione europea. Non possiamo permetterci di ricadere negli antichi errori. Se questo spirito foriero di sciagure per i popoli europei conquistasse la maggioranza degli Stati membri dell’Unione, se gli riuscisse di rimettere in questione il carattere di collante di popoli di questa Unione, allora ritornerebbero con esso anche gli spettri della prima metà del XX secolo”.

Schulz ha anche fatto un commento su Berlusconi, al quale lo oppose, anni fa, una vivace polemica all’Europarlamento, “Sono sempre molto impressionato – ha detto – da quei politici che sono stati al governo per 10 anni e se poi stanno fuori dal governo per 8 mesi e fanno finta di non aver niente a che fare con quei 10 anni precedenti”.

Tra i numerosissimi ricordi dell’eccidio, quello del presidente Napolitano. In un messaggio al sindaco Silicani, e a tutti i convenuti alla commemorazione, Napolitano scrive: “Quel 12 agosto 1944 che vide cadere sotto il piombo della barbarie nazifascista 560 vittime inermi, in gran parte vecchi, donne, bambini, è una data scolpita nella memoria di chi visse quei terribili avvenimenti e di chiunque ne conservi il ricordo”.

‘Il dolore e l’orrore di quella giornata hanno trovato un nuovo momento di commossa rievocazione nella recente concessione a Cesira Pardini della Medaglia d’Oro al Merito Civile per l’eroico gesto compiuto, in quel terribile frangente di efferata brutalità, per salvare a rischio della propria vita la madre e le sorelle” – prosegue Napolitano – “Esempi di generosa solidarietà sono essenziali per tramandare, soprattutto alle giovani generazioni, i principi di libertà, giustizia e solidarietà che animarono le scelte di allora e sono stati posti a fondamento della rinascita civile e democratica del nostro paese”.

Martin Shultz ha parlato poi di Europa: “Io non vorrei un imperialismo del marco. Abbiamo bisogno di una valuta comune perchè solo una valuta comune ci rende più forti. In Germania – ha aggiunto – ci sono persone che dicono che si dovrebbe reintrodurre il marco perchè così saremmo più forti, mentre la lira, la peseta e il franco sarebbero deboli. Io rispondo, è vero. Ma in questo modo la Germania diventerebbe troppo grande per l’Europa e troppo piccola per il mondo. Da sola non potrebbe affrontare i mercati globali”.

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"Un sacrario per Graziani con i soldi della Polverini", di Roberto Rossi

Il raduno in Piazza San Sebastiano prima, la conferenza di Don Ennio Innocenti a seguire, e poi la deposizione di una corona di fiori presso la tomba, santa messa, intervento delle autorità, cena a buffet e, per finire, spettacolo musicale. E tra le danze – una volta saziati anima e corpo – ieri sera ad Affile (comune della provincia di Roma, 1700 abitanti a 600 metri sul livello del mare) si è chiusa l’inaugurazione, all’interno del parco Radimonte, del sacrario dedicato al fu Maresciallo d’Italia e viceré d’Etiopia, Rodolfo Graziani.

Non proprio quel che si dice un eroe della Patria. Tutt’altro. Un generale fascista condannato dallo Stato italiano a 19 anni di prigione, collaborazionista dei nazisti, per un periodo ricercato come criminale di guerra dalla giustizia internazionale.

Una breve nota biografica, aiuterà a capire di più il personaggio. Graziani fu per tutta la vita un militare. Si fece tutte le guerre dell’epoca. Iniziò da quella di Libia, del 1911, per poi tuffarsi nel conflitto mondiale del ‘15-‘18 con il grado di capitano. Ma è stato in Africa che Graziani ha legato il suo destino. Nel 1921 venne inviato in Libia, quando la colonia era quasi totalmente sfuggita al controllo italiano. In Cirenaica era presente un forte movimento che reclamava l’indipendenza.

A guidarlo era il «leone del deserto», Omar al Mukhtar. In Libia Graziani sperimentò le stesse tecniche di repressione, trasferimenti coatti, massacri collettivi, che utilizzerà in seguito. Nel giro di qualche anno la Libia tornò sotto il controllo italiano, mentre Mukthar fu catturato e ucciso. Quando nel 1935 Mussolini, per coronare il suo sogno imperiale, aggredì l’Etiopia, Graziani tornò a dimostrare tutta la brutalità applicata in guerra usando in maniera sistematica e indiscriminata i gas.

Diventerà viceré d’Etiopia scalzando Badoglio. Fu uno dei periodi più tragici e sanguinosi per il popolo etiopico. Graziani fu responsabile di una persecuzione spietata, distrusse quasi interamente Addis Abeba, uccise migliaia di etiopici e massacrò la comunità copta vescovo compreso. Una volta terminato il conflitto, l’imperatore d’Etiopia, Hailé Selassié chiese che Graziani fosse inserito nella lista dei criminali di guerra e la United Nations War Crime Commission lo collocò al primo posto nella lista dei criminali di guerra italiani.

Ma non solo. Graziani fu anche, tra i militari, quello che nel 1944 si mise al fianco dei tedeschi sotto la guida del generale Albert Kesselring che comandava il fronte italiano. Con la fine del fascismo anche lui abbandonò il Duce alla sua sorte. Nel giugno del 1948 fu processato e condannato a 19 anni di reclusione, ma tra amnistie e condoni, 17 anni gli vennero cancellati. Il tribunale, come ricorda il sito dell’Anpi, argomentò che Graziani non era stato in grado, nonostante i bandi, le fucilazioni e i rastrellamenti, di incidere sulle decisioni del governo di Mussolini.

Ma egli non si smentì, aderì al Movimento sociale italiano di cui divenne presidente onorario lasciandolo solo alla fine dei suoi giorni. Questo era Rodolfo Graziani per il quale, a 67 anni dalla sua morte, è stato eretto un sacrario in un parco pubblico. Il comune di Affile, che lo scorso 26 maggio ha reso omaggio a Giorgio Almirante (ex segretario dell’Msi, nonché repubblichino, segretario del giornale Difesa della Razza e tante altre cose), con un busto scoperto nell’omonima piazza, ha motivato questa scelta annoverando Graziani tra i suoi concittadini celebri.

In realtà il Maresciallo, che nacque a Filettino (Frosinone) l’11 agosto 1882 e morì a Roma l’11 gennaio 1955, ad Affile passò solo alcuni anni della sua vita, andando a rifugiarsi nelle sue proprietà solo dopo essere uscito dal carcere. Ma al sindaco di Affine, Ercole Viri, poco importa. Tant’è che nel sito del Comune Graziani è ricordato come «uno dei protagonisti dei burrascosi eventi che caratterizzarono quasi mezzo secolo della storia italiana». «È come se – ha ricordato Esterino Montino consigliere regionale Pd del Lazio ­ in Germania in un qualche sperduto paese di un qualsiasi Land si facesse un monumento per ricordare Goering o Hesse». Con soldi pubblici tra l’altro. Perché il progetto di completamento del parco Radimonte la Regione Lazio ha stanziato 180mila euro. Soldi finiti per esaltare la memoria di un criminale di guerra.

L’Unità 12.08.12

"La questione morale", di Claudio Sardo

L’Italia perde lavoro, i ceti medi si impoveriscono, i nostri giovani hanno ancora meno opportunità dei loro coetanei in Europa, la Ue è tuttora incapace di compiere i passi necessari per difendere l’euro, ma di fronte a questa crisi – drammatica come mai nel dopoguerra – è immorale fuggire. Non ci si può rifugiare nell’opportunismo, nell’estremismo parolaio, nella demagogia. Bisogna rischiare, mettersi in gioco con un proposta di governo coerente, dare garanzie sugli impegni internazionali del nostro Paese, costruire le alleanze necessarie per modificare le politiche europee, puntare da subito e concretamente sulla crescita possibile, il che vuol dire anzitutto un piano straordinario per il lavoro, per la manifattura, per la ricerca. È una questione morale, che pesa sulla politica non meno della lotta contro la corruzione, contro l’illegalità, contro le logiche di occupazione del potere.
Perché la moralità della politica sta in primo luogo nella sua capacità di servizio, e dunque nella sua efficacia. Se oggi la politica è disprezzata, ciò dipende dalla sua impotenza di fronte al dominio della finanza e dei mercati, dall’incapacità di rispondere alle domande sociali La politica impotente è più esposta alla corruzione, alla contestazione dei suoi privilegi, alle dinamiche autoreferenziali e di cooptazione. Ma la frattura che si è determinata con gran parte della società ha la sua ragione prima nell’estrema debolezza dei governi. L’ideologia mercatista ha conquistato la politica, sottraendole la spina dorsale.
In questo passaggio di portata storica il compito del centrosinistra, della sinistra, è quello di ricostruire il nerbo della politica. La sua ragione sociale. Il suo scopo. La sua moralità, che consiste nel ricongiungere la propria azione con i valori dell’uguaglianza, dell’equità distributiva, delle pari opportunità, dello sviluppo attraverso il rispetto dell’ambiente e la migliore qualità della vita e del lavoro. Solo una politica vitale può riattivare un circuito di partecipazione democratica. Senza spina dorsale invece non c’è politica, resta soltanto un ribellismo individualista, ancora più funzionale al primato e all’ideologia del mercato.
Moralità della politica vuol dire presentarsi ora con trasparenza e spirito di verità. Dire ciò che è possibile fare subito e ciò che invece va costruito, insieme, nel tempo. Senza nascondere che la crisi economica è dura, che non si tornerà comunque al punto di prima, che per difendere il nostro modello sociale dovremo essere capaci di innovare, anche di sacrificarci per restituire un po’ di futuro ai nostri figli. Dovremo farlo investendo. Rafforzando l’idea di pubblico (che non vuol dire «statale»). Soprattutto rafforzando l’idea di comunità nazionale. Come nel dopoguerra si può vincere solo attorno ad un’idea di comunità, ad un senso nazionale (ed europeo), ad una missione capace di coinvolgere più di una generazione.
Ma dire la verità costa. E, dopo un decennio quasi ininterrotto di antipolitica al potere, è difficile rompere con la demogogia e il populismo. È però arrivato il momento di farlo. Costi quel che costi, il centrosinistra che si candida a governare il Paese deve fare chiarezza. Deve avere coraggio. Deve dire che con i populisti non si può governare una fase così difficile. E non solo perché sarebbero d’impedimento verso politiche d’intesa con i progressisti europei, ma anche perché è arrivato il momento della responsabilità. Chi attacca Giorgio Napolitano e mostra disprezzo per gli equilibri costituzionali, si comporta come Berlusconi anche se si proclama radicale di sinistra. Chi giudica il governo Monti alla stregua del precedente esecutivo, lo fa per lucrare sul disagio sociale e per ricavarne qualche decimale in più nei sondaggi. Una politica immorale insomma, che ha in comune con la destra italiana quel tratto di estremismo verbale a cui non corrispondono mai scelte seriamente riformiste.
Il Pd appare oggi la sola forza in grado di sostenere un programma riformatore di governo. Non è un caso che tutti facciano il loro gioco sul Pd. Vendola e Casini sembrano disposti, pur con condizioni e modalità diverse, ad accettare una sfida di governo alternativa ai populismi. Ma si tratta comunque di un’impresa molto difficile. Chi spara contro, lo fa puntando sull’unica reale alternativa ad un governo di centrosinistra: cioè il prolungamento della grande coalizione, magari ancora sotto l’egida dei tecnici. I populisti di destra sperano così di rientrare dalla finestra nella stanza del potere declinante, i populisti di sinistra confidano in una rendita di opposizione da un sostanziale «commissariamento» dell’Italia. Sarebbe questo un esito «greco». Il governo Monti ha commesso errori e non tutte le sue scelte sono condivisibili, ma ha riportato l’Italia al tavolo dell’Europa e ora ci ha posti davanti a un bivio: o saremo capaci di ricostruire una democrazia competitiva, offrendo al mondo l’immagine di un Paese che sceglie tra alternative plausibili, oppure regrediremo allo stato precedente. Allora sì la sopravvivenza del governo dei tecnici sarebbe la vittoria postuma di Berlusconi e la certificazione definitiva dello stato di minorità dell’Italia.
In altre stagioni, per battere Berlusconi, il centrosinistra ha chiamato a raccolta tutte le forze disponibili. E poi ha scontato la paralisi determinata da spinte contraddittorie. Ora serve chiarezza. E coerenza. Non si potrà fare tutto e subito. L’azione del governo progressista deve innanzitutto consolidare la fiducia in Europa e l’alleanza delle sinistre continentali. Deve difendere la moneta unica e scegliere le sue priorità per riportare sviluppo: lavoro, istruzione, politiche industriali. Ridurre le tasse sul lavoro e aumentare quelle sulla rendita. Equità, anche a costo di scontentare potenti e diffuse corporazioni. È il momento della responsabilità anche per i cittadini italiani: del resto, ci vuole consenso per governare con un respiro lungo. La sconfitta dei populismi va sanzionata dagli elettori per essere efficace. Al centrosinistra tocca lanciare la sfida e provare qui la sua moralità politica.

l’Unità 12.08.12