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"Ferragosto, esplode la crisi del lavoro", di Rinaldo Gianola

A Taranto c’è l’intervento chiarificatore di un giudice della indagini preliminari che impone la chiusura dell’Ilva come condizione per avviare la bonifica e il risanamento dell’area, con tanti saluti a chi si era illuso di poter continuare a produrre e lavorare nel più grande impianto siderurgico italiano con i suoi 12mila dipendenti. L’Ilva rappresenta il 20% del pil della regione Puglia, se l’impianto viene spento cessano la produzione altri due impianti al Nord e si avvia verso lo schianto un pezzo rilevante del nostro tessuto produttivo. Davanti a Montecitorio, poi, un uomo di 54 anni si è dato fuoco, è in fin di vita, pare per la disperazione di aver perso il lavoro e di essere rimasto senza un reddito. Negli ultimi mesi aveva avuto solo qualche contratto “a chiamata”, un lavoratore “squillo”, poi nemmeno questi. La fredda e parziale contabilità della recessione indica in 290 i casi di suicidio o tentato suicidio riconducibili alla crisi. Quindi c’è il caso di una compagnia privata di voli low cost, la Wind Jet del dottor Pulvirenti proprietario pure del Catania Calcio, che pare arrivata al capolinea, dopo mesi e mesi in cui le notizie delle difficoltà dell’azienda si sono moltiplicate senza che nessuno si preoccupasse di metterci una pezza. Così siamo arrivati all’esodo d’agosto con migliaia di cittadini bloccati negli scali, non si sa se la compagnia continuerà a volare e non si sa nemmeno se i 300mila passeggeri che hanno già comprato i biglietti per i prossimi mesi potranno essere “salvati” o perderanno soldi e voli. Martedì interverrà il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, che di aerei se ne intende per aver creato quand’era amministratore delegato di Intesa San Paolo la cordata dei” patrioti” per salvare Alitalia e aveva tra i suoi maggiori debitori l’Air One del signor Toto. La gravità di queste vicende è ovviamente diversa, ma fotografano l’emergenza in cui è precipitata l’Italia del lavoro. Un’emergenza dalla quale pare che non riusciamo ad uscire. Ogni giorno c’è la sensazione di perdere qualche pezzo per strada, di assistere all’indebolimento di un sistema che non si regge più. Non c’è bisogno di aver studiato alla Bocconi per comprendere che la priorità assoluta del Paese è da molto tempo l’attivazione di politiche economiche e industriali capaci di riavviare un processo di investimenti, di crescita, di buona occupazione. Invece prima abbiamo avuto Silvio Berlusconi che vedeva i ristoranti pieni e quindi giurava sull’inesistenza della crisi, poi è arrivato il governo dei prof, più presentabile e capace, che ha privilegiato la riforma delle pensioni, dimenticando per strada però 390mila lavoratori, e poi quella del mercato del lavoro cercando di rendere credibile l’idea che se si altera l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori allora arriveranno valanghe di investitori stranieri ansiosi di attivare produzioni e iniziative imprenditoriali. La realtà, naturalmente, è profondamente diversa. Le imprese straniere continuano a fare affari dove hanno convenienza, compresa l’Italia. I francesi di Lactalis si prendono Parmalat, la svuotano del miliardo e mezzo di euro custodito in cassa, mentre le imprese e le banche italiane stanno a guardare. I tedeschi dell’Audi hanno messo sul tavolo un miliardo di euro per la Ducati dove c’è persino la Fiom a rappresentare una gran quota di dipendenti e la Volkswagen prenderebbe pure la nostra adorata Alfa Romeo, distrutta dalla Fiat che la rilevò nel 1986 grazie a Bettino Craxi, se solo Sergio Marchionne fosse disponibile. Ma sulle intenzioni della Fiat, le cui fabbriche italiane producono meno di quattro anni fa ma dovrebbero arrivare a un milione e seicentomila vetture entro il 2014 come scritto nel piano Fabbrica Italia, si informerà il ministro Fornero, che voleva ridimensionare pure la cassa integrazione all’inizio della sua azione governativa, e quindi possiamo stare tranquilli. Arrivati al quinto anni di crisi, con una recessione di cui non si vede la fine (prendiamo per buoni i dati di Confindustria), la nostra bella Azienda Italia ha perso per strada un milione di occupati, circa mezzo milione è stato interessato dalla cassa integrazione, la disoccupazione è largamente oltre l’11% se si considerano i lavoratori in mobilità, destinati ad essere espulsi dai processi produttivi, un giovane su tre è senza lavoro. Negli ultimi due anni hanno chiuso circa 30mila aziende, cresce la diseguaglianza tra chi sta meglio e chi sta peggio. Presso il ministero dello Sviluppo economico sono aperti 141 tavoli di crisi, interessano tutti i settori. non si salva nessuno, complessivamente coinvolgono 169mila lavoratori che rischiano di perdere il posto. Questa è l’Italia, potenza economica dell’Occidente industrializzato, nel bel mezzo dell’agosto 2012. Buone vacanze.

L’Unità 12.08.12

"Wall Street e City unite dai peccati", di Francesco Guerrera

Voi Americani del cavolo! Ma chi vi credete di essere per poterci dire di non trattare con l’Iran?». Queste parole di fuoco, urlate, secondo le autorità americane, da un dirigente della Standard Chartered – la banca inglese indagata per riciclaggio del denaro iraniano -, hanno innescato la miccia nella relazione-dinamite tra New York e Londra. Le capitali del capitale sono ai ferri corti. Wall Street e la City – accomunate dalla passione per il denaro dei loro abitanti, ma sempre in lotta per diventare il centro internazionale della finanza – sono in rotta di collisione.

Il «casus belli» è inconsueto. Un’inchiesta a sorpresa di Ben Lawsky, un giovane procuratore di New York che questa settimana ha accusato Standard Chartered di aver «lavato» 200 miliardi di dollari iraniani in contravvenzione delle sanzioni Usa contro il regime di Teheran. La Standard Chartered nega tutto, ma la notizia ha scatenato un putiferio transatlantico. Boris Johnson, il popolarissimo sindaco di Londra, si è assentato dalle Olimpiadi per attaccare il «protezionismo finanziario» degli Usa. Alla sinistra di Boris, il parlamentare laburista John Mann ha accusato gli americani di «discriminazione anti-britannica». E persino Mervyn King, il pacato governatore della Banca d’Inghilterra, ha impersonato Tony Soprano, «consigliando» ai colleghi americani di andarci con i piedi di piombo nelle inchieste con le banche inglesi.

I britannici sono particolarmente sensibili in questo frangente perché altre due grandi banche – la Hsbc e la Barclays – sono state accusate dagli Usa di misfatti internazionali. Gli americani, dal canto loro, fanno finta di non capire le ramificazioni geopolitiche delle loro azioni, chiedendosi con falso stupore come mai gli inglesi abbiano reagito con tale virulenza ad inchieste di autorità giudiziarie indipendenti. Lawsky, in questo momento, è il nemico numero uno della City, ma le ragioni di fondo della tensione tra i due poli del sistema finanziario vanno ben al di là di un giovanotto che si crede Eliot Ness negli «Intoccabili».
Il bel Lawsky, con i suoi capelli alla Tom Cruise e i vestiti di ottimo taglio, è solo il simbolo della guerra fredda tra due città e due culture che sono con l’acqua alla gola sin dal terremoto finanziario del 2008.

Con i mercati allo sbaraglio, le economie in coma ed il settore bancario in ritirata, New York e Londra sono nel mezzo di una crisi d’identità. Disorientate e ferite, le due città si azzuffano per prendere quello che è rimasto del settore finanziario. «La recessione non ci si addice», mi ha detto un capo di Wall Street l’altro giorno. «Noi finanzieri siamo creature del boom. Quando la situazione peggiora non sappiamo più cosa fare».

Lo stesso si può dire delle città che ospitano questa strana razza umana: gente di grandissima intelligenza e ambizione, ma motivata quasi esclusivamente dal fare soldi. Ho passato gli ultimi vent’anni in tre capitali del denaro – Londra, Hong Kong e New York (con un interludio a Bruxelles) – e il filo conduttore è molto chiaro: la classe finanziaria ha la capacità di dominare, influenzare e snaturare un’intera città. Dai ristoranti ai taxi, dai prezzi delle case alla prostituzione, il potere dei signori in giacca e cravatta (e delle poche signore in tailleur) è immenso. 200 sterline per una «Ferrari infuocata», un cocktail con rum, Grand Marnier e Chartreuse? Non c’e’ problema. Appartamenti per 60 milioni di dollari con il campo di basketball privato? Subito, sir. Cocaina come se piovesse? Ma certo.

Nei periodi di boom, gli altri vivono di luce riflessa, tentando di servire quest’aristocrazia del dollaro (e della sterlina) o di diventare uno di loro.
Durante le crisi, però, quest’economia dell’eccesso non funziona più: i banchieri e gli operatori vengono licenziati, i ristoranti chiudono e anche gli spacciatori hanno poco da fare. E le città soffrono.

L’anno scorso, il settore finanziario ha contribuito con il 14 per cento alle entrate fiscali dello stato di New York, molto meno del 2010, quando un dollaro di tasse statali su cinque veniva da un banchiere o operatore di Borsa.
Il sindaco di New York Michael Bloomberg, che da buon miliardario di soldi se ne intende, lo ha spiegato bene: «Non torneremo più ai bei tempi, quando le tasse pagate da una Wall Street in stato di grazia coprivano tutti i debiti». A Londra, la situazione è simile, visto che un settore che contribuisce a quasi il 10% del Pil è in crisi ormai da anni.
E allora le due città lottano per accaparrarsi quello che possono: posti di lavoro, quartier generali delle banche, tasse.

Non è solo orgoglio nazionale che ha portato l’establishment britannico ad esplodere quando Lawsky ha chiamato Standard Chartered – una banca antica e all’antica – un’«istituzione-canaglia».
E’ stata anche la paura di essere visti come un posto dove i servizi finanziari sono sporchi, dove anche i pilastri più solidi del sistema, quale Standard Chartered, si stanno decomponendo. «Non vogliamo diventare la Las Vegas della finanza», ha protestato un banchiere inglese.

La realtà è che sia New York sia Londra sono sempre state un po’ Las Vegas, soprattutto nei periodi di vacche grasse. Per anni, la City si è offerta a banche ed hedge funds come la campionessa della «light-touch regulation», il posto dove le autorità di settore non disturbano più di tanto. E Wall Street, nonostante procuratori aggressivi come Eliot Spitzer e Ben Lawsky, ha spesso chiuso uno o due occhi sugli scandali e i peccati dei suoi abitanti. Tra i casi di «insider trading», il macello dei mutui subprime e le varie truffe finanziarie degli ultimi anni, New York non può proprio scagliare la prima pietra.
Indispensabili per il funzionamento del capitalismo mondiale, Londra e New York hanno scoperto di avere un altro elemento in comune: nessuna delle due è senza peccato.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

La Stampa 12.08.12

"E' ora di un piano straordinario per l'occupazione", di Nicola Cacace

Rischio insolvenza per migliaia di imprese,secondo la BCE, anche per 75 miliari di debiti statali mai onorati malgrado le promesse governative. Centinaia di aziende sull’orlo del fallimento per calo di domanda (tra le ultime la Windjet). E a Taranto il giudice ribalta la sentenza che autorizzava il risanamento con impianti in marcia. Sono solo gli ultimi esempi di una serie di insuccessi, fallimenti, cali produttivi, con effetti occupazionali disastrosi che colpiscono un tessuto economico sfibrato da anni di politiche anti produzione, anti domanda, anti lavoro, anti equità. Non può esistere un’Europa con una Maastricht giustamente rigorosa per i conti pubblici e nessun riguardo per la salute dei popoli. Come non può esistere un contesto finanziario anteposto sempre al mondo economico-produttivo. Questo non può non produrre gli effetti sociali che sono sotto i nostri occhi e che producono il più basso tasso di occupazione europeo e il più alto tasso di diseguaglianza. Quando il 45% della ricchezza è nelle mani del 10% delle famiglie, è delittuoso che si pongano tanti ostacoli ad una patrimoniale per i super ricchi, che non deprimerebbe affatto la domanda, come è ben noto agli esperti. Quando sono occupati meno di 57 cittadini ogni 100 in età da lavoro (in Europa sono più di 64) significa che mancano almeno 3 milioni di posti lavoro per essere a livello europeo. In queste condizioni di disperazione sociale non ha alcun senso consolarsi con il nostro tasso di disoccupazione lievemente inferiore a quello europeo, intorno all’11%. Perché è un dato falsato che ci dice solo che milioni di italiani sono, come dice l’Istat da anni, «scoraggiati dal cercare un lavoro che non c’è» e prendono altre vie di sopravvivenza: emigrazione, lavoro nero e precario o aiuto dei genitori. In questa situazione però non si vede un Di Vittorio che, come nel primo dopoguerra, invochi un Piano straordinario per il lavoro per trasformare le macerie in più solidi edifici. La situazione italiana dei giovani, delle famiglie povere, del Sud e dei disoccupati è così drammatica che non ci si può semplicemente battere contro l’attacco dei mercati aspettando che da Berlino e Francoforte arrivino scudi antispeculazione più solidi. Questo va fatto, ma non basta più alla salute del Paese. È ora che le forze politiche e sociali spremano le meningi e varino un piano de lavoro, come quello che fece Roosevelt dopo la crisi del 1929. Un piano di opere pubbliche, incentivi alle cooperative sociali e culturali di cui c’è gran bisogno, un piano di incoraggiamento alle nuove iniziative imprenditoriali giovanili come il primo varato venti anni fa nel Mezzogiorno, un piano di defiscalizzazione dei salari che rilanci un po’ di domanda senza ammazzare le imprese, un sostegno alle iniziative «green», non solo in senso ambientale ma anche sociale, culturale e della ricerca. Un piano che, dopo aver aiutato le imprese industriali con un minimo rilancio della domanda ed uno straccio di politica industriale assente da anni guardi con attenzione ai servizi che con la loro inefficienza e alti costi penalizzano sia il sistema produttivo che l’occupazione. Da più di venti anni non c’è Paese industriale dove l’occupazione non cresca solo nei servizi. Da noi tutti i servizi sono un campo aperto alle più basse speculazioni, con imprenditori interessati solo a settori come autostrade ed elettricità. Perché le nostre imprese devono pagare energia e trasporti il 20% più dei concorrenti? Perché nel turismo, noi leader da secoli andiamo sempre più indietro? Perché l’Italia ha meno del 70% di occupati nei servizi contro il 75%-80% degli altri Paesi industriali? È ora di cominciare ad operare per una Maastricht dell’occupazione, se non è già troppo tardi. Se non ora quando?

L’Unità 12.08.12

"Web e green economy il piano per la crescita", di Alberto D'Argenio

Eccolo il nuovo piano per la crescita firmato Monti-Passera. Sarà il cuore degli ultimi mesi del governo. C’è tanto Internet, con il Mezzogiorno chiamato a trasformarsi nel magazzino dei dati lanciati in Rete. Si punta poi a trasformare l’Italia nello snodo europeo del gas
valorizzando il ruolo di Snam. Tanta Green economy, ma anche nuovo petrolio nostrano. E infine Start up, capitali freschi dall’estero e riorganizzazione degli aeroporti. Il comandamento di Palazzo Chigi e Via Veneto è: «Basta parlare solo di recessione e spread». Se possibile. Così si prepara il secondo piano per la crescita di Passera. Un primo pacchetto sarà approvato a settembre (agenda digitale, nuove imprese e semplificazioni). Poi di mese in mese altre misure (energia, aeroporti e infrastrutture).
Intanto Monti ha chiesto ai suoi ministri di presentare al Cdm del 24 agosto le proprie idee per irrobustire la cura anti-crisi preparata in Via Veneto. Particolari aspettative su sanità (settore farmaceutico), agricoltura e turismo. E a settembre ci sarà anche un check up sulle liberalizzazioni, con la cernita dei decreti attuativi e dei regolamenti non ancora approvati per renderle effettive. Partirà poi un monitoraggio sul territorio per verificare che a livello locale le cose cambino davvero (per esempio sull’aumento delle farmacie o dei notai).
La crescita sarà una delle armi che l’Italia cercherà di mettere in campo nella “battaglia d’autunno”. Quella che da settembre deciderà le sorti dell’euro tra ripresa delle aste dei titoli di Stato, possibili scossoni in arrivo da Grecia e Spagna e negoziati a Bruxelles. L’Italia vuole farcela da sola. Dunque impressionando i mercati con nuove riforme da affiancare al costante risanamento dei conti. Se non bastasse il contagio non dipende solo da noi – rinforzarsi nel negoziato per l’eventuale attivazione dello scudo anti-spread (con successivo intervento della Bce) con le nuove riforme da mettere sul tavolo europeo. In modo da scoraggiare i falchi del Nord ad avanzare richieste di nuovi impegni lacrime e sangue monitorati da una Troika in stile Grecia.
AGENDA DIGITALE
Uno dei tre pilastri del secondo pacchetto crescita è l’agenda digitale che Passera ha scritto con i colleghi Barca, Profumo, Patroni Griffi e Peluffo. La misura più evocativa riguarda il Mezzogiorno: impiantare nelle regioni del Sud una serie di Data Center.
Enormi centri per lo stoccaggio dei dati digitali nel quale fare affluire le informazioni presenti in Rete. L’esempio è l’Islanda, che si è trasformata in un “Mega-server” dove i più grandi siti del mondo conservano le loro informazioni. Lo stesso farà il Sud. Se possibile per le aziende della New economy italiana e planetaria. Di certo per ospitare i dati che arriveranno con la totale digitalizzazione della Pubblica amministrazione, uno degli obiettivi del piano. Non solo, si incentiveranno le aziende protagoniste del Made in Italy ad andare in Rete (E-commerce) anche per aumentare le vendite all’estero. Si lavora poi all’azzeramento del
digital divide entro il 2013: portare la banda larga per Internet (2 megabite al secondo) in tutto il Paese con il cavo o tramite il wireless. Strumenti da usare anche per lanciare la banda ultra-larga (fino a 20 megabite) per la navigazione veloce e per la televisione. Si partirà con il cablaggio delle grandi città. Poi, con programmi misti (pubblico e aziende che vincono le gare per le metropoli) estensione della copertura al resto del Paese.
IMPRESE
Gli altri due pilastri del nuovo pacchetto di settembre saranno semplificazione e start up. Primo, un programma definito con le categorie per facilitare la vita alle aziende italiane. Procedure burocratiche e autorizzazioni più semplici. Sempre guardando al mondo produttivo, aiutare le Start up, ovvero rendere più facile aprire un’impresa. In tutti i settori, dalla tecnologia all’artigianato. Il primo punto è l’accorpamento di tutti i fondi per gli aspiranti imprenditori da far convergere in un unico contenitore, il “Fondo dei fondi” che nelle intenzioni di Passera dovrà essere più efficace, di più facile accesso e con una più equa distribuzione delle risorse sul territorio.
INVESTIMENTI ESTERI
Per favorire l’arrivo degli investimenti stranieri, occupazione e soldi freschi per una nazione in crisi, un gruppo di lavoro tra il ministero di Via Veneto e Confindustria ha ideato una sorta di sportello unico ai quali gli imprenditori di fuori si potranno rivolgere. Un modo per rendere più attrattiva l’Italia rendendo più facile il contatto la “temutissima” burocrazia italiana ed eliminare le differenze normative regionali. Una sorta di tutor che consiglia e segue le pratiche nella doppia veste di “avvocato” dell’imprenditore e di funzionario pubblico che alla fine concedere tutte le autorizzazioni del caso.
GAS E PETROLIO
Nel trimestre ottobre-dicembre il piano per la crescita verrà arricchito da altri provvedimenti. Spicca la nuova strategia nazionale per l’energia. L’ultima risale a tre lustri fa. Il ministero dello Sviluppo economico punta a trasformare l’Italia nell’hub europeo del gas. Un centro di arrivo, conservazione e smistamento nel resto del Continente del metano in arrivo dal Nord Africa e dall’Est. Oltretutto un modo per valorizzare Snam Rete Gas (si vuole trasformarlo in un grande player europeo) che con le liberalizzazioni è stato separato da Eni. E ancora, il governo punta a rilanciare la produzione di idrocarburi: tornano i piani per l’estrazione del petrolio Made in Italy che, insieme al gas nostrano, dovrà coprire il 20% del fabbisogno nazionale (il doppio di oggi). C’è spazio anche per la Green economy e per le sue enormi potenzialità per crescita e occupazione che ruota intorno alle rinnovabili (il resto d’Europa è avanti, noi siamo stati rallentati dal governo Berlusconi). E allora, si confermano e si spera di superare gli obiettivi europei per il 2020 (20% dei consumi nazionali di energia pulita) tramite idroelettrico, fotovoltaico e geotermia, la produzione energetica con le biomasse. Un’opportunità di sviluppo anche per l’agricoltura italiana. E ancora, efficienza energetica.
AEROPORTI
Ancora entro Natale, arriverà quel piano aeroporti fino ad oggi mai scritto in Italia, lasciando le decisioni alle necessità (elettorali) del mondo politico. E allora, un riorganizzazione degli scali con la soppressione di quelli inutili o in perdita (potrebbero essere rimpiazzati da nuove strutture più strategiche). La riscrittura della geografia aeroportuale basata su dati del traffico, slot e tipologia degli scali (turistica, commerciale, low cost…). Passera punta anche a sbloccare le risorse per attuare il suo piano infrastrutture (strade, autostrade…): per ora sono stati attivati 35 miliardi, vuole arrivare a 60.

La Repubblica 12.08.12

"Sforbiciata a giudici e mini-sedi: è l’austerity Severino", di Francesco Lo Sardo

Primo, rispondere all’sos lanciato dai comuni con un’immediata iniezione di liquidità per 1 miliardo e 190 milioni di euro. Secondo, dare attuazione alla sforbiciata per un valore di oltre 50 milioni in tre anni del Guardasigilli Paola Severino ai mini-tribunali e relative mini-procure: un taglio secco di ben 31 sedi, oltre alla scure su 220 sezioni distaccate e 667 uffici di giudici di pace – altri 28 milioni di risparmio – con redistribuzione del personale sul territorio: diecimila tra pm, giudici onorari e amministrativi. Sono questi i due pezzi forti del consiglio dei ministri presieduto ieri da Monti a palazzo Chigi prima della breve pausa di ferragosto. «Una riforma epocale», per citare il ministro Severino che è riuscita, forzando resistenze di ogni genere grazie al pieno appoggio di Monti, a cambiare «la geografia giudiziaria del paese, ferma all’epoca dell’unità d’Italia». Rispetto all’iniziale taglio previsto di 37 sedi, la Severino ha ritenuto opportuno salvare i tribunali nelle zone ad alta intensità di criminalità organizzata: ha perciò mantenuto quelli di Caltagirone e Sciacca in Sicilia; in Calabria a Castrovillari sarà accorpato il tribunale di Rossano, Lamezia Terme e Paola; nel Lazio a Cassino sarà unita la sezione di Gaeta; Napoli nord sarà dotato di una propria procura.
La revisione dello schema dei tagli non ha impedito al Pdl e alla Lega (che anziché apprezzare lo sforzo dell’impegno anti-mafia denuncia un presunto trattamento di favore per il Sud) di polemizzare aspramente con la Severino, aggredita sul piano personale da Gasparri che l’ha definita «arrogante e scorretta». «La Severino è penosa, va cacciata», ha aggiunto il presidente dei senatori del Pdl in cerca di fama estiva su Twitter. Un attacco che, in realtà, nulla ha a che vedere col merito dei tagli e che invece conferma il tradizionale ruolo del Pdl di becera cassa di risonanza degli interessi più corporativi degli avvocati, della burocrazia e del sottobosco di settore, ostili a ogni cambiamento della mappa giudiziaria.
Perciò il Pdl strilla e annuncia di voler far ripristinare dal parlamento le sedi di Lucera, Vigevano, Bassano del Grappa, Pinerolo, Chiavari, Crema, Sanremo, Urbino, Sala Consilina e Lagonegro. Tra gli altri provvedimenti, il consiglio dei ministri ha approvato l’anticipo del pagamento della terza rata dei trasferimenti ai comuni dal Fondo di riequilibrio.
Il governo ha anche impugnato davanti alla Consulta il bilancio della regione Puglia: conteneva – spiega palazzo Chigi – disposizioni in contrasto col piano di rientro dal disavanzo sanitario e i principi di ordinamento della finanza pubblica.

da Europa Quotidiano 11.08.12

"Porte chiuse ai trasformisti", di Michele Prospero

I continui cambi di casacca dei parlamentari sono l’emblema del fallimento della seconda Repubblica. Sia che l’abbandono abbia motivazioni politiche (la disintegrazione voluta da Fini del partito padronale, gli spostamenti di Rutelli per aggregazioni neocentriste), sia che coinvolga una caduta del senso dell’onore del deputato, il trasformismo è una fenomenologia negativa del sistema. È palese il risvolto etico di certi passaggi di campo. Impressiona il prezzario ministeriale svelato da Pionati nel ricostruire la contromossa del Cavaliere in risposta alla mozione di sfiducia del 2010. Il transfughismo allora riguardò i candidati della società civile (Calearo) e le disinvolte operazioni dei seguaci di Di Pietro.

Un leader specializzato nel reclutare degli indignati deputati pronti a passare agli ordini del caimano (De Gregorio, Razzi, Misiti, Scilipoti).
La seconda Repubblica, con le sue pratiche di infinite migrazioni, ritorna alle consuetudini dell’Ottocento, perché sono stati disintegrati gli anticorpi del trasformismo: i partiti. Ovunque, nella vicenda storica dell’Europa, le piaghe del nomadismo degli eletti sono state curate con l’obbligo dei deputati ad aderire a gruppi parlamentari. Così i partiti ponevano termine all’età del deputato che operava come singolo e imprevedibile rappresentante della nazione. Quando però sono crollati i partiti, niente più è stato in grado di estirpare il male del trasformismo. Il maggioritario spinse gli spezzoni di partito ad allestire due grandi coalizioni. Sulla scheda si affrontavano due soli simboli. Dopo le urne però come per magia (nessuna riforma dei regolamenti parlamentari fu concepita per adeguarli al tempo muovo del maggioritario) in aula proliferavano i gruppi più variegati. La schizofrenia di un sistema che con la legge elettorale induceva alle alleanze forzate e con la conservazione degli antichi regolamenti parlamentari cantava l’inno della frantumazione produceva ingovernabilità e trasformismo.
Le coalizioni, rimaste come figure centrali anche con il Porcellum, che obbligava a stipulare intese insincere pur di aggiudicarsi il cospicuo premio, hanno imposto una politica liquida. Micropartiti personali erano indaffarati a trovare una marginale visibilità per conservare un potere di contrattazione, per racimolare risorse. Le due megacoalizioni che si sfidarono nel 2008 in aula poi partorirono 14 gruppi parlamentari, con analoghi diritti nei finanziamenti, nelle attrezzature, nella disponibilità di locali. Una radice del trasformismo si trova nella frizione tra una legge elettorale selettiva (che sospingeva ad aggrapparsi al soggetto coalizione) e dei regolamenti parlamentari disaggreganti favorevoli alle scomposizioni. All’apparenza di semplificazione sprigionata dal congegno elettorale ben presto seguiva la realtà della decostruzione della coalizione agevolata proprio da regolamenti che, con deroghe (al criterio numerico delle 20 unità risalente al 1919, quando però i deputati erano solo 508), nascondevano il detonatore che faceva esplodere il sistema.
È inutile ogni riforma elettorale se poi i regolamenti parlamentari restano ancorati ad assetti organizzativi del secolo scorso, e favoriscono, con licenze concesse persino a forze con meno di dieci seggi, la erosione delle coalizioni. E così il potere di investitura dei cittadini viene amputato dalla apparizione dopo il voto di gruppi, di nuove sigle sorrette attraverso scissioni, migrazioni, prestiti. La semplice clausola numerica dei 20 seggi da far valere a discrezione in aula (antica eredità dell’epoca liberale, con deputati notabili e senza partiti) presenta risvolti disfunzionali. Per arrestare la slavina della frantumazione dei gruppi (persino vantaggiosa alla maggioranza per avere il controllo delle commissioni, dell’ufficio di presidenza) occorre riconoscere il principio per cui solo i simboli offerti agli elettori sono legittimati a promuovere autonomi gruppi, e ad accedere ai finanziamenti. Se i partiti danno vita a una lista comune dovrebbero poi aprire un unico gruppo in parlamento.
Sono opportuni taluni vincoli nei regolamenti (divieto della facoltà di iscriversi a gruppi diversi da quelli di elezione, impossibilità di costituire gruppi tramite deroghe, autorizzazioni). Al trasformismo non c’è rimedio effettivo se però non ricompaiono grandi partiti. Il Parlamento dei nominati ha dovuto surrogare la morte dei partiti con le deteriori pratiche dei maxi emendamenti, dei decreti legge omnibus, delle raffiche di voti di fiducia. Dopo il Parlamento delle compravendite ci sarà spazio per il parlamento dei partiti ritrovati?

L’Unità 11.08.12

"Dossier crescita a fine agosto", di Roberto Giovannini

Delle misure sulla crescita se ne riparlerà soltanto il 24 agosto, dopo le ferie (dieci giorni) che il premier Mario Monti si è preso a partire da ieri sera. Il tema è stato solo abbordato in via generale nella riunione del Consiglio dei ministri di ieri, che oltre a decidere di anticipare ai Comuni metà dei proventi dell’ultima rata dell’Imu, discutere un provvedimento per proteggere aziende nevralgiche da scalate ostili, impugnare il capitolo sanità della Finanziaria della Puglia, ha rivisto le circoscrizioni giudiziarie e il taglio dei tribunali.

Monti e i ministri Grilli (Economia), Terzi (Esteri), e Giarda (Rapporti con il Parlamento) hanno soltanto indicato in linea generale le linee guida del possibile pacchetto di rilancio della crescita economica. Entro il 24, data del prossimo Consiglio dei Ministri, ha detto Monti, sarà bene che ogni singolo dicastero produca, per la sua parte, dossier in materia. Sempre il 24 si discuterà del piano di abbattimento del debito pubblico, così come è rimandato il bilancio dei provvedimenti già varati e operativi e quelli la cui esecuzione concreta è da «accelerare». Gran parte della riunione, però, è stata dedicata al riordino della geografia giudiziaria.

Sono stati «salvati» sei tribunali situati in zone ad alto pericolo di infiltrazione mafiosa o di criminalità organizzata: Caltagirone Sciacca in Sicilia, Castrovillari (a cui verrà accorpato il tribunale di Rossano), Lamezia Terme e Paola in Calabria; infine, nel Lazio, è salvo il tribunale di Cassino, a cui verrà accorpata la sezione distaccata di Gaeta. Resta invece confermata la soppressione di tutte le 220 sedi distaccate e di 667 uffici di giudici di pace, mantenendo – rispetto alla previsione iniziale – un giudice di prossimità in sette isole (Ischia, Capri, Lipari, Elba, La Maddalena, Procida, Pantelleria) così da consentire anche l’eventuale deposito di atti urgenti in casi di irraggiungibilità della terraferma; la ridistribuzione sul territorio del personale amministrativo e dei magistrati restanti, per i quali non sono previsti né esuberi né messa in mobilità.

Tra le altre decisioni, l’anticipo «entro il mese di settembre» del pagamento ai Comuni della terza rata del Fondo sperimentale di riequilibrio per il 2012, per correggere gli scompensi tra i Comuni dovuti dalle diverse entrate derivanti dall’Imu e dall’Ici. In pratica, nelle casse dei Comuni arriverà in tempi brevi una somma pari a 1,190 miliardi. Si avvia l’iter per una rivoluzione dei criteri di valutazione di presidi e scuole superiori.

Infine, il governo ha impugnato presso la Corte Costituzionale la «finanziaria 2012» della Regione Puglia, per quanto riguarda la voce sanità, che violerebbe il piano di rientro dal disavanzo sanitario. Nel mirino c’è il passaggio sui cosiddetti «destabilizzati», ossia quei circa 800 tra medici e paramedici in tutta la Puglia per i quali era stata decisa la conferma in corsia per altri sei mesi. Una deroga per la quale la Regione si è battuta – vista la fame di personale medico negli ospedali, anch’essi falcidiati dalle misure di contenimento della spesa – forte dei 149 milioni di risparmi ottenuti attraverso i tagli.

La Stampa 11.08.12