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"No al velo e alle nozze combinate il padre la prende a calci e pugni", di Jenner Meletti

Faceva fatica a parlare, con il sangue che usciva dal naso spaccato. «È stato mio padre, mi ha preso a calci e pugni, anche quando ero già a terra. Mi odia da anni, da quando gli ho detto che io non voglio portare il velo e che voglio essere io a decidere la mia vita». L’hanno trovata su un marciapiedi di una delle cattedrali del consumo, l’ipermercato GrandEmilia di Modena. «Non vedevo mio padre da anni — ha raccontato S. H. alla polizia — perché dal 2008 sono in una comunità protetta. Quando per caso l’ho visto al supermercato, ho avuto paura. Già tante altre volte avevo preso delle botte, perché non ero una brava musulmana e perché non volevo sposare un uomo che non avevo mai visto». Gli agenti della Volante arrivati all’iper martedì verso sera hanno trovato la ragazza, una marocchina di 22 anni, nell’ufficio dei vigilanti. Hanno messo a verbale le sue dichiarazioni e poi hanno raccolto le testimonianze delle persone che avevano visto il pestaggio. «Tutto si è svolto in un attimo, ma i colpi sono stati pesanti. È vero, la ragazza ha preso anche dei calci. A picchiare è stato un uomo che poi è salito in auto ed è andato via». Una corsa al pronto soccorso, almeno 21 giorni di prognosi. Il padre della ragazza — B. H., marocchino di 58
anni, operaio in un macello — è stato denunciato per lesioni aggravate.
La storia nasce nel paese di Peppone e don Camillo ma purtroppo non ha un lieto fine. «Quello che fa male — dice il sindaco Giuseppe Vezzani — è il fatto che non siamo di fronte a una follia improvvisa. La ragazza era seguita dai servizi sociali da sette anni, da quattro era in comunità. Nonostante il nostro impegno, non siamo riusciti a proteggerla ». Anche altri pezzi dello Stato non sono rimasti alla finestra. I carabinieri sono entrati spesso nella casa del marocchino, appena fuori il paese. Le cronache raccontano che il primo allarme arriva nel gennaio 2005. La ragazzina S. ha quindici anni, è seguita da un insegnante di sostegno per un deficit mentale. La scuola avverte i militari perché S. ha segni di percosse in faccia e sul collo. Sei giorni di prognosi, al pronto soccorso. In un pomeriggio del maggio 2008 S. viene trovata sulla strada provinciale, con addosso un pigiama fatto
a pezzi. Ha un ematoma oculare e altre lesioni. Prognosi di 15 giorni. «È stato mio padre, stavolta vuole che sposi un marocchino», dice ai carabinieri, e mima l’aggressione picchiandosi sugli occhi. «Ecco, ha fatto così».
La ragazza viene portata in comunità, il padre è denunciato. Ma da un documento del maggio di quest’anno — relativo alla richiesta di cittadinanza italiana da parte di B. H. — risulta che le denunce sono state «archiviate per infondatezza delle notizie di reato». I servizi sociali continuano a seguire la famiglia, perché B. H. ha altre quattro figlie. «Non hanno mai denunciato maltrattamenti. Comunque, a parte la più piccola, portano tutte il velo».
Una casa appena fuori dal paese, la parabola per seguire la tv marocchina. A., 24 anni, è la sorella più grande. Chiama subito la madre, che come il marito è qui da vent’anni e non parla italiano. A. invece si è diplomata e frequenta l’università. «Per caso? All’iper di Modena siamo andati in tre, io, mio padre e mia madre. Ci ha chiamato una donna marocchina che da due mesi ospita mia sorella a casa sua. Ci ha detto che non la voleva più, perché stava tutto il giorno alla stazione a non fare nulla. “Venite a prenderla, non ne posso più”. E allora siamo partiti. Mio padre non ha aggredito S., non l’ha mai fatto. Lei, appena ha visto papà, si è messa a gridare. “Vai
via, se no compro il veleno e mi uccido. No, mi butto sotto questa macchina”. E si è messa a correre. Mio padre ha cercato di fermarla è lei è caduta e si è spaccata il naso».
La madre cerca di farsi capire a gesti. Si picchia continuamente sulla tempia sinistra e la figlia traduce. «Mia sorella purtroppo è malata, la testa non le funziona bene. Se vede un uomo e pensa che sia un uomo buono subito gli dice: “vengo con te”. I servizi sociali se la sono presa e poi l’hanno abbandonata. Ecco, guardi questo foglio. Come si fa ad accettare una dichiarazione come questa? ». Carta intestata dell’Associazione Marta e Maria di Modena, convitto Agave, 28 maggio 2012. «Dichiaro di voler lasciare volontariamente l’associazione ». Le consegnano le sue cose: un libretto con 3.614 euro, un computer portatile, due confezioni di anti depressivi. «Se ha bisogno di quelle medicine, perché l’hanno lasciata andare?».

La Repubblica 11.08.12

"Tfa, gli esperti del Miur ammettono gli errori: è boom di ripescati!", di Alessandro Giuliani

Conclusa la supervisione delle varie commissioni di docenti universitari convocate per verificare l’esattezza dei 60 quesiti proposti per ogni disciplina. Sul sito del Cineca gli elenchi domande corrette e i nuovi punteggi dei candidati ammessi: grazie al nuovo “bonus” moltissimi partecipanti inizialmente esclusi si ritrovano ora promossi alle prove successive. Una soluzione che fa comodo anche agli atenei. Sono bastati pochi giorni alle varie commissioni di docenti universitari nominate del ministero dell’Istruzione per verificare la correttezza scientifica dei test delle prove nazionali di preselezione ai Corsi di Tfa: pochi minuti fa il Cineca, cui il Miur ha affidato il coordinamento delle discusse preselezioni che in alcune discipline (Filosofia, psicologie e scienze dell’educazione e Francese) hanno visto passare appena il 3% di partecipanti, ha pubblicato l’esito del lavoro di supervisione.
“Ciascun docente – si legge in un comunicato di viale Trasevere – ha rivisto le domande della disciplina di sua competenza ed ha riportato i risultati del suo lavoro su un format in cui figura il numero delle domande riconosciute non corrette, l’esposizione dell’errore contenuto nella domanda e/o nelle risposte, la matrice corretta ove possibile”.
Nel report conclusivo sono contenuti gli elenchi delle domande riconosciute non corrette, per ciascuna classe di concorso, assieme all’elenco dei punteggi assegnati ai candidati che hanno sostenuto la prova. Da una prima ricognizione, si evince che le tante lamentele dei corsisti (per la presenza di refusi, domande mal poste, presenza di più risposte esatte, errori materiali, ecc.) hanno avuto effetto. Tanto che in alcune discipline risultano almeno una decina di domande dubbie Nella A035 e nella A060 se ne contano addirittura 25!. Il Cineca ha specificato che vanno tutte ritenute “corrette”, a prescindere dall’esito. Facendo in tal modo lievitare moltissimo le possibilità di passaggio alle prove successive (servono 42 risposte esatte).
“Tutti gli atti relativi a questa complessa procedura di verifica – ha specificato inoltre il Miur – sono depositati presso la segreteria del Capo Dipartimento per l’Istruzione – dott.ssa Lucrezia Stellacci – per chiunque voglia prenderne visione, previa presentazione di domanda di accesso. Il Ministro dichiara la sua soddisfazione per la rapida conclusione dell’intera operazione e ringrazia i colleghi universitari per il prezioso contributo offerto all’Amministrazione scolastica in questa particolare contingenza”.
Fonti vicine al Miur fanno inoltre sapere che con questa veloce manovra correttiva l’amministrazione ha voluto non solo dare un segnale di trasparenza e rimessa nei binari giusti delle procedure concorsuali. Ma ha anche ribadito la necessità di non far slittare prove e esito delle selezioni: l’obiettivo rimane, infatti, quello di “licenziare” i corsisti dei Tfa normali in tempo utile per farli partecipare al concorso pubblico di primavera riservato agli abilitati.
Un’ultima considerazione: c’è da dire che se le commissioni non avessero ammesso gli errori, una discreta fetta di corsi non sarebbe mai partita. Il numero di non ammessi in questi casi era infatti pari alla totalità dei partecipanti. Con il “mea culpa” di oggi quindi (tra l’altra da dividere con l’operato dell’ex ministro Gelimini che aveva predisposto da tempo le domande) il Miur ha così scongiurato un danno d’immagine ed economico non indifferente. Un deficit, quest’ultimo, che sarebbe ricaduto tutto sugli atenei che avevano già predisposto la macchina organizzativa e che contavano sulla quota di partecipazione dei corsisti tutt’altro che simbolica: tra i 2.200 ed i 3.100 euro ciascuno. E siccome a corregere le prove sono stati proprio i docenti universitari il cerchio non poteva che chiudersi in questo modo.

La Tecnica della scuola 11.08.12

"Cina, il collo di bottiglia della crescita", di Franco Bruni

In questa fase difficile per l’economia del mondo, è cruciale l’andamento della congiuntura in Cina. Ieri hanno preoccupato dati e stime che mostrano debolezza sia nelle esportazioni che nelle importazioni cinesi. Meno export è un brutto segno per l’Europa e gli Usa: è un riflesso della loro crisi, che li fa comprare meno, anche dai cinesi. Meno import ricorda il pericolo che il quadro globale si aggravi perché si inceppa il motore dei Paesi emergenti e, in particolare, dell’estremo oriente. Le debolezze dei due opposti flussi commerciali cinesi ci ricordano quanta interdipendenza ci sia nell’economia mondiale e come sarebbe bene riprendere gli sforzi per governarla insieme. Dopo la crisi del 2008-2009 si era avviata una fase promettente di cooperazione globale, molta attività del G20 e di un tentativo di G3 informale, per rafforzare i rapporti fra Cina, Ue e Usa. Ma quella fase si è interrotta: le regioni e le nazioni si sono ripiegate su se stesse, chiuse in difesa. E’ cresciuto dappertutto il protezionismo, più o meno esplicito; la Cina lo ha subito e lo ha usato aggressivamente; il mondo, anche quello emergente, si è andato segmentando anziché integrarsi; invece di rafforzare la cooperazione nelle sedi multilaterali, come il Wto, si sono moltiplicati accordi bilaterali, che spesso ruotano attorno a relazioni politiche nocive allo sviluppo globale.

Non è questo il modo migliore per beneficiare delle straordinarie potenzialità dell’economia cinese, né per indurre la Cina a fare quel che deve per rendere la sua crescita più solida e sostenibile nel tempo. Va rilanciata la diplomazia economica globale, rinfrescandola con nuove idee. Sia gli Usa che la Cina designeranno i loro numeri uno in autunno: speriamo che i nuovi leader, insieme ad un’Ue più unita, rilancino subito il triangolo dello sviluppo globale.
D’altro canto, non c’è per ora alcuna chiara evidenza che la congiuntura cinese stia franando.

Sono quasi sette trimestri che il Pil rallenta, ma la crescita prevista per i prossimi due anni è ancora attorno all’8%. Le stime sull’import-export di luglio sono provvisorie e basta guardare giugno per trovarle molto migliori. L’aumento della produzione industriale comunicato ieri rimane prossimo al 10% annuo. I consumi delle famiglie crescono più del 13% e gli investimenti fissi più del 20%. C’è allarme perché il credito interno è cresciuto meno del previsto, ma in parte si tratta di un fenomeno voluto, per frenare bolle speculative immobiliari che, fra l’altro, la Cina sta mostrando di controllare abbastanza bene. La sua politica macroeconomica è attenta, ha lo sguardo lungo, precede i problemi, mira alla sostenibilità. Le autorità hanno ben presenti i problemi strutturali del Paese, compresa la formidabile corruzione e l’immane inquinamento.

L’eccesso di surplus commerciale con l’estero è stato corretto: l’avanzo corrente è sceso in quattro anni da più del 10% del Pil a meno del 3%. E’ così sbollita la polemica sulla sottovalutazione dello yuan con la quale, soprattutto da parte degli Usa, si sono create a lungo inutili tensioni diplomatiche e confusa la natura delle questioni da affrontare insieme.
Il vero problema macroeconomico cinese non è la congiuntura del Pil: fra l’altro le condizioni della finanza pubblica sono tali che Pechino potrebbe compensare in ogni momento crolli dell’attività nel resto del mondo con forti aumenti di spesa in disavanzo. Il problema cinese è invece la composizione del Pil: consiste nella necessità di accelerare molto i consumi interni, riducendo il risparmio e frenando l’eccessiva spesa in investimenti.

L’avanzo con l’estero si è ridotto soprattutto perché si sono ancor più accresciuti gli investimenti fissi, giunti a sfiorare la metà del Pil. Ciò ha beneficiato i Paesi specialisti nell’esportare beni d’investimento, come la Germania: si stima che il 10% in più di investimenti in Cina aumenti dell’1% il Pil tedesco. Ma troppi investimenti accumulano capitale e infrastrutture inutili e rendono più fragili le prospettive della crescita cinese.
Vanno invece aumentati i consumi, soprattutto di servizi, come i trasporti e le assicurazioni, ma anche di beni durevoli di qualità medio-bassa. Ciò cambierebbe la natura e la provenienza delle importazioni cinesi: un fenomeno da monitorare e gestire a livello globale. Sarebbe inizialmente un problema, ma potrebbe divenire un’opportunità, anche per l’Ue.

Per la Cina aumentare molto i consumi interni è anche un problema politico. Vuol dire aumentare i salari nei molti settori dove sono ancora troppo bassi, ridistribuire profondamente il reddito, rimediare a quello che è ormai un clamoroso eccesso di vari generi di diseguaglianza. Significa accrescere i consumi pubblici, soprattutto migliorando il welfare (pensioni, sanità, scuole), la cui scarsezza è una delle ragioni per cui le famiglie cinesi risparmiano tanto. Ma tutto ciò cambia delicati rapporti di potere fra centro e periferia, fra gruppi politici e burocratici, fra modernizzatori e innovatori. Basti pensare alle grandi imprese pubbliche dove hanno radici molti degli squilibri interni e, nello stesso tempo, forti poteri conservatori.

Ieri, assieme alle notizie congiunturali, c’è stata quella della lettera al comitato centrale del partito comunista dei 1600 dirigenti e intellettuali conservatori che chiede immediate dimissioni del premier. Probabilmente vuol dire che il premier sta operando attivamente per la modernizzazione della Cina e che ciò crea forti tensioni politiche. Potrebbero essere queste il vero collo di bottiglia della crescita cinese? E’ difficile rispondere, ma è naturale supporre che un forte aumento della cooperazione globale aiuterebbe i leader cinesi più capaci e pronti alla modernizzazione. Mentre un Occidente che con la Cina è fra il distratto, il sospettoso e il difensivo, aumenterebbe i problemi dello sviluppo economico e politico, sia cinese che mondiale.

La Stampa 11.08.12

"Al partito o alla coalizione? Il «premio» divide Pd e Pdl", di Roberto D'Alimonte

Premio al partito o premio alla coalizione? Quando si riaprirà il tavolo della riforma elettorale dopo le ferie estive questo sarà uno dei nodi che dovranno essere sciolti per arrivare all’accordo. Un nodo delicato per i suoi effetti sulla struttura della prossima competizione elettorale e sul suo esito. Infatti farà una bella differenza che il premio venga assegnato al partito o alla coalizione con più voti. Va da sé che chi ha la possibilità di fare alleanze preferisce la seconda soluzione (premio alla coalizione), mentre chi è solo preferisce la prima (premio al partito).
Su questo punto, come su altri, gli interessi dei due maggiori partiti al momento divergono. Il motivo è che il Pd ha dei possibili alleati e il Pdl no. Il 1° agosto Bersani e Sel hanno annunciato un accordo di massima sulla base di una carta di intenti redatta dal leader del Pd. Secondo Bersani questo accordo rappresenta la prima tappa nella «costruzione dell’alternativa di governo». La conseguenza logica è che al Pd vada bene un sistema elettorale che incentiva le alleanze prima del voto. Quindi il premio alla coalizione.
Per il Pdl la questione delle possibili alleanze è più incerta. Al momento il partito di Berlusconi è solo. Quali sono i suoi possibili alleati? Per ora non se ne vedono in giro. La Lega – il suo alleato storico – ha ripetutamente annunciato che correrà da sola alle prossime elezioni. Si vedrà se questa sarà ancora la sua posizione a ridosso delle elezioni. Per ora è così. Le varie liste di centro sono indisponibili a un’alleanza con il Cavaliere. Se il quadro non cambia è possibile che il Pdl punti a un premio dato al primo partito – e non anche alla coalizione – per andare a uno “scontro uno contro uno” con il Pd per la conquista del premio. I dati attuali sulle intenzioni di voto dicono che in un duello del genere il Pdl uscirebbe sconfitto. Ma immaginiamoci una campagna elettorale in cui il Cavaliere farà di nuovo leva sulle paure degli elettori moderati davanti a una possibile vittoria della sinistra. Quanti di questi elettori che oggi sono tentati dall’astensione o dal voto per Grillo tornerebbero sotto le bandiere del nuovo Pdl? Al momento non esiste risposta. Ma la domanda è pertinente. Uno “scontro uno contro uno” tra Pd e Pdl potrebbe scatenare dinamiche imprevedibili. Naturalmente anche il Pd potrebbe avvantaggiarsene. È praticamente certo che l’antiberlusconismo spingerebbe potenziali elettori di partiti minori di sinistra a votare Pd pur di impedire la vittoria del Cavaliere.
In sintesi un premio dato al primo partito favorisce certamente i partiti maggiori polarizzando la competizione su di essi. Questo non vuol dire che il premio dato alla coalizione non generi comunque una competizione incentrata sugli stessi partiti ma avverrebbe in misura minore. Questi partiti non sarebbero i protagonisti solitari della contesa. Infatti, in questo caso, anche il Pdl molto probabilmente non sarebbe più solo. E qui sta una delle ragioni del rinvio della riforma elettorale a tempi in cui il quadro sia più chiaro. Non è affatto certo che il Pdl debba affrontare da solo la prossima sfida con il Pd. Il quadro attuale può cambiare e molto probabilmente cambierà. Per quanto possa essere attraente per certi aspetti l’idea di uno “scontro uno contro uno” il Pdl ha davanti a sé un’altra strada che potrebbe portarlo a preferire la soluzione del premio alla coalizione. È la strada delle liste civiche o liste ad hoc. Un Pdl rinnovato e affiancato da una serie di liste civiche potrebbe forse essere competitivo contro una alleanza Pd-Sel. Anche in questo caso non ci sono oggi dati che possano avvalorare questa affermazione. È solo una ipotesi che serve a far vedere come la questione della riforma elettorale sia strettamente intrecciata agli sviluppi della situazione politica e alla possibile offerta elettorale. Una offerta che è ancora in fase di costruzione.
In queste condizioni è “razionale” che gli attori che devono approvare il nuovo sistema elettorale, e che sono anche quelli che lo devono utilizzare, tendano a ritardarne l’approvazione. Forse a settembre ci saranno novità. In ogni caso una cosa è certa: con il tipo di premio in gestazione la sera delle elezioni si saprà il vincitore ma non con quale coalizione governerà. Infatti, così come stanno le cose oggi e molto probabilmente anche domani, non ci sarà nessuna coalizione e nessun partito in grado di arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi. Anche se il premio fosse di 15 punti percentuali né la coalizione Pd-Sel, né una eventuale coalizione Pdl-liste civiche ha una realistica possibilità di superare la soglia del 50% dei seggi. E allora perché i due partiti maggiori dovrebbero legarsi le mani scegliendosi gli alleati prima? La domanda è particolarmente rilevante per il Pd perché oggi è l’unico partito in condizioni di vincere il premio da solo. Correndo da solo non sarebbe poi più libero di trattare la formazione del governo dopo il voto? Alla fine uno “scontro uno contro uno” potrebbe avvantaggiare sia Pd che Pdl. Chissà. Sono scelte difficili. In ogni caso la possibilità che il premio vada alla coalizione non preclude la scelta di correre da soli. Offre solo una opzione in più. Tutto questo per dire come una questione – voto al partito o alla coalizione – che sembra tecnica abbia invece una grande rilevanza politica e sistemica.

Il Sole 24 Ore 10.08.12

"Niente più premi ai prof Controriforma di Profumo", di Alessandra Ricciardi

Non li darà ai prof migliori e neanche alle scuole migliori. Nel rush finale pre vacanziero, oggi approda al consiglio dei ministri un decreto, di cui ItaliaOggi è in grado di anticipare i contenuti, che manda definitivamente in soffitta i premi agli insegnanti e alle scuole più capaci. Il decreto ridisegna il sistema di valutazione delle perfomance: rispetto alla riforma Gelmini non sarà più collegato a forme di premialità, servirà esclusivamente a individuare i punti di carenza delle scuole e dare un aiuto ai docenti in classe. Come? Con un nucleo di esperti-osservatori che saranno inviati, sotto l’indirizzo e il coordinamento dell’Invalsi, l’istituto nazionale di valutazione, nelle scuole per capire e individuare i miglioramenti possibili, sia nella didattica che nella gestione amministrativa. Gli esperti saranno individuati dal ministero in un secondo momento. Ma non ci sarà nessuna penalizzazione per chi rende di meno, così come nessun premio a chi eccelle. Perché la retromarcia rispetto ai proclami di meritocrazia del precedente governo? Premiare il merito è stato il vessillo degli ex ministri della funzione pubblica, Renato Brunetta, e dell’istruzione, Mariastella Gelmini, (molto) prima ancora di Luigi Berlinguer, che da ministro di sinistra fu costretto a dimettersi a causa delle proteste di piazza contro il cosiddetto concorsone, che prevedeva un aumento di stipendio per chi superava una selezione periodica. Nei fatti tutti, a destra e a sinistra, hanno provato quanto sia difficile valutare le performance del personale e delle scuole, perché mancano indicatori certi e scientificamente validi, perché i sindacati sono tradizionalmente contrari a sottrarre competenze al contratto rispetto a strumenti privatistici di valutazione; e perché poi differenziare i salari dei docenti, così come le entrate delle scuole, richiederebbe maggiori investimenti e non invece, come capita i tempi di crisi, riduzioni di spesa. La Gelmini aveva avviato due sperimentazioni. Quella dei prof è morta dopo neanche un anno. La seconda, valutare le scuole, andrà avanti fino a scadenza naturale. La nuova valutazione messa sul piatto dal ministro Francesco Profumo si articola nell’autovalutazione della scuola e nella rilevazione affidata a osservatori esterni. Un modello, quello degli osservatori esterni, che in Usa sta sperimentando, pare con buoni esiti, la fondazione di Bill Gates.

da ItaliaOggi 10.08.12

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“Una rivoluzione nella scuola Test per tutti, dati pubblicati. La relazione inviata al Consiglio di Stato. Esaminatori anche dall’esterno”, di Flavia Amabile

Arriva la rivoluzione nella valutazione delle scuole e una parte dei sindacati insorge. La procedura è appena agli inizi: ieri il consiglio dei ministri ha effettuato la prima lettura del regolamento messo a punto dal Miur. Il testo dovrà poi ottenere il via libera del Consiglio di Stato, delle commissioni competenti e poi tornare a Palazzo Chigi per la lettura definitiva e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Il regolamento è formato da sette articoli e una condizione più volte ripetuta nel testo: non ci sarà alcun aggravio di spese, il nuovo apparato sarà varato a risorse invariate. È chiaro quindi che le parti sociali abbiano immediatamente fatto sentire la loro voce per chiarire che si tratta di una soluzione che non può essere approvata così com’è, senza premi o incentivi, senza un solo euro in più per affrontare la nuova mole in arrivo nelle scuole.

Il regolamento prevede la nascita del Sistema nazionale di valutazione formato dall’Invalsi, dall’Indire e da un nucleo di ispettori interni al Miur ma anche esterni, reclutati dalla società civile, dal mondo delle università, degli enti di ricerca, delle associazioni professionali.

Almeno ogni tre anni il ministro dell’Istruzione dovrà indicare le priorità «strategiche» della valutazione del sistema educativo. Nella sede dell’Invalsi verrà insediata una conferenza di coordinamento del nuovi Sistema di valutazione. Anche in questo caso a costo zero. L’Invalsi avrà il compito di fare da capofila e coordinare l’intero sistema, definendo il programma delle visite nelle scuole, gli indicatori di efficienza e di efficacia sulla base dei quali le scuole verranno valutate. L’Indire si occuperà della ricerca, innovazione e formazione mentre gli ispettori effettueranno le valutazioni e le visite nelle scuole.

Per le scuole il processo prevede innanzitutto l’autovalutazione, quindi una valutazione esterna, la messa a punto di miglioramenti per aumentare le loro performances e la pubblicazione e la diffusione dei risultati raggiunti. Per la prima volta si analizzerà il valore aggiunto degli istituti, ovvero il grado di miglioramento conseguito dagli studenti fra l’ingresso e l’uscita da una data scuola.

Ieri il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo in una lettera di auguri per le vacanze inviata a tutti quelli che lavorano o hanno a che fare con il mondo della scuola, ha avvertito tutti: «Il nostro programma di azione nei prossimi mesi è quasi temerario, se si pensa alle fragilità del nostro Paese. Eppure sono certo che esso è alla nostra portata. Troppo spesso infatti le fragilità italiane sono invocate come alibi e non, invece, usate come stimolo a fare di più e con maggior impegno. E’ nella storia del nostro Paese sia la prima sia la seconda possibilità. Noi scegliamo la seconda!»

Nella lettera non c’è un riferimento esplicito alla rivoluzione della valutazione in arrivo ma di sicuro si tratta di una sfida «temeraria» a giudicare dalle prime reazioni. Il sottosegretario del Miur Marco Rossi Doria sul suo blog ha difeso la riforma in arrivo ma sostenendo una posizione di apertura a eventuali modifiche e quindi di «proseguire la discussione su quali siano gli strumenti e le modalità più adatte».

Critici alcuni sindacati. Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil chiede «partecipazione, coinvolgimento, condivisione di tutti i soggetti».«Nulla di tutto questo – aggiunge emerge dalla bozza di regolamento che, in ossequio alle peggiori tradizioni del nostro paese, viene calendarizzata per un primo esame del consiglio dei ministri a ferragosto. Un passaggio così delicato non può essere elaborato nel chiuso delle stanze senza un reale confronto con il mondo della scuola. E la distanza con il mondo dell’istruzione è evidentissima dai contenuti della bozza». Favorevole la Cisl-Scuola che chiede maggiore celerità: «Con una settimana di ritardo rispetto a quanto era stato annunciato nell’incontro con i sindacati, lo schema di regolamento sul sistema di valutazione della scuola approda al consiglio dei ministri, che tuttavia lo legge ma ne sospende l’approvazione. Strano modo di procedere, anzi, di non procedere, e viene da chiedersi per quali ragioni. Noi non ne vediamo di serie ».

La Stampa 11.08.12

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“Le pagelle anche per le scuole Un nuovo sistema di valutazione”, di Valentina Santarpia

Ispezioni con gli esperti e dossier autoprodotti dagli istituti. E ora anche alle scuole verranno date le pagelle. Lo stabilisce il «regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione», ieri in prima lettura al Consiglio dei ministri, che introdurrà di fatto esami e voti anche per docenti e dirigenti scolastici. Il nuovo sistema elaborato dal ministero dell’Istruzione si baserà su tre elementi: l’Invalsi, l’istituto che attualmente si occupa di rilevare gli apprendimenti degli studenti attraverso i famigerati test; l’Indire, che invece segue la formazione degli insegnanti; il nucleo di valutazione esterna. L’Invalsiavrà il ruolo chiave di tutto il sistema e definirà gli indicatori di efficienza a cui le scuole e i loro dirigenti dovranno rispondere, oltre a redigere un rapporto periodico sul sistema scolastico (in modo da consentire anche una comparazione su base internazionale). È come se anche il personale della scuola, e soprattutto i suoi responsabili, dovessero «fare bene i compiti» per poter poi ottenere «buoni voti», cioè risultati positivi, al momento dell’«interrogazione», ovvero dell’ispezione.
Il regolamento prova dunque a far cambiare mentalità ai responsabili scolastici, che dovranno abituarsi a fare «autovalutazione», elaborando periodicamente un rapporto in base alle indicazioni dell’Invalsi. E poi dovranno sottoporsi alle ispezioni: un dirigente tecnico (l’ispettore vero e proprio) e due esperti selezionati dall’Invalsi valuteranno come la scuola sta provando a raggiungere gli obiettivi dichiarati, prendendo in considerazione anche il «valore aggiunto» degli istituti, ovvero il grado di miglioramento conseguito dagli studenti fra l’ingresso e l’uscita. Se un ragazzo entra con un basso punteggio Invalsi, e ne esce con uno alto, significa che la scuola funziona bene. Il «voto» dato dal nucleo di valutazione sarà importante per spronare la scuola a migliorare i punti deboli della gestione, ma influirà anche sul premio di produzione dato ai dirigenti scolastici. Perché il dirigente della scuola che esibisce una performance deludente, non avrà il suo bonus economico.
Importante anche il ruolo dell’Indire, che dovrà sostenere i «processi di innovazione» delle scuole, favorendo l’uso delle nuove tecnologie in ambito didattico. Quanto costerà tutta questa rivoluzione? Niente, visto che il ministero dell’Istruzione ha introdotto diverse clausole per specificare che la valutazione si fa «nell’ambito delle risorse disponibili». Ma prima dell’introduzione ufficiale, manca qualche passaggio formale: il regolamento dovrà passare dal Consiglio di Stato, dal Consiglio nazionale della pubblica istruzione, alla Camera e al Senato e infine tornerà a palazzo Chigi per l’approvazione definitiva. Intanto potrebbe succedere di tutto. Confindustria e Unione presidi approvano, ma i sindacati sono divisi. «Pur con aspetti da approfondire e precisare meglio, l’impianto del regolamento che ci è stato presentato ci sembra apprezzabile», osserva il segretario della Cisl scuola Francesco Scrima. Sulla stessa linea la Uil, mentre la Cgil è pronta a dare battaglia: «Un regolamento troppo schiacciato sull’Invalsi, che lascia poco spazio all’autovalutazione — commenta il segretario Cgil Scuola Mimmo Pantaleo —. Ben venga la valutazione delle scuole, ma crediamo sia necessario aprire un confronto ampio, non subire una decisione unilaterale».

Il Corriere della Sera 11.08.12

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“Valutazione delle scuole: una visita ogni 4 anni?”, di Reginaldo Palermo

Nella bozza di regolamento si parla di visite alle scuole da parte dei nuclei esterni (secondo notizie fornite dal Miur potrebbe essere alcune centinaia all’anno). Nella migliore delle ipotesi ciascuna scuola verrebbe “visitata” una volta ogni 4 anni. Ma i costi sarebbero comunque molto elevati. La decisione del ministro Profumo di varare il nuovo sistema nazionale di valutazione ha provocato, come era inevitabile, prese di posizione di una parte significativa del mondo sindacale.
Le critiche riguardano non solo il metodo ma anche il merito del provvedimento.
“Lo schema di regolamento viene approvato a scuole chiuse, senza alcun confronto con le scuole”, accusa la Flc-Cgil.
“Il nuovo meccanismo comporterà un aumento dei carichi di lavoro dei docenti” rincara la Fgu-Gilda.
Nel merito si sta disquisendo se sia corretto affidare all’ Invalsi e agli ispettori tecnici il compito di definire gli indicatori di efficacia e ed efficienza rispetto ai quali procedere alla valutazione complessiva degli istituti scolastici.
C’è però da chiedersi se il regolamento potrà davvero trovare applicazione.
I dubbi non sono pochi.
Per esempio, si parla di visite periodiche alle scuole da parte degli ispettori e dei nuclei di valutazione esterna precisando subito che tutto questo dovrà avvenire “senza maggiori oneri per le finanze pubbliche”.
E allora c’è da chiedersi chi mai accetterà di far parte dei nuclei ben sapendo che non solo non riceverà alcun compenso ma dovrà pure pagarsi le spese di trasporto e di permanenza fuori sede.
Che dire poi dell’ipotesi che ogni anno vengano sottoposte a visita alcune centinaia di scuole?
Ora, i conti sono presto fatti: le istituzioni scolastiche sono circa 8mila e se anche si arrivasse a mille visite all’anno ogni scuola verrebbe visitata esattamente una volta ogni 8 anni.
Con duemila visite, la verifica verrebbe fatta una volta ogni 4 anni.
Per arrivare ad uno standard accettabile (visita ogni due tre anni per ciascuna scuola) bisognerebbe mettere in cantiere non meno 2.500/3.000 verifiche all’anno: obiettivo impossibile da raggiungere soprattutto se si pensa di non spendere neppure un euro.
D’altronde il Governo dei professori dovrebbe ben sapere che già nel 2008, tre loro illustri colleghi (Andrea Ichino, Andrea Checchi e Giorgio Vittadini) avevano provato a mettere a punto un progetto per attribuire all’Invalsi compiti analoghi a quelli previsti dall’attuale bozza di regolamento.
Ma i costi erano tali che il ministro Gelmini, da poco arrivata a Viale Trastevere, decise di non farne nulla. Il progetto dei tre super-esperti sfiorava un costo di 80 milioni di euro, con una differenza significativa rispetto al programma di Profumo: non erano previste le visite alle scuole da parte dei nuclei esterni.
Ad un primo esame, insomma, il provvedimento esaminato dal Consiglio dei Ministri sembra più un libro dei sogni che non un progetto concreto.
Per il momento Flc-Cgil, Fgu-Gilda e movimenti no-Invalsi di varia estrazione possono dormire sonni tranquilli: il progetto di Profumo non sembra facilmente realizzabile in tempi rapidi.

La Tecnica della Scuola 14.08.12

Bersani: "Fedeli all'Europa del rigore, industria fra le politiche prioritarie", di Fabrizio Forquet

«La prima cosa che intendo dire all’Italia e all’Europa è che noi siamo quelli dell’euro, siamo quelli dei governi Prodi, Amato, D’Alema che fecero fede in condizioni difficili a tutti i patti internazionali, europei e occidentali, che siamo quelli di Ciampi e Padoa Schioppa». Pierluigi Bersani sa che la sfida più grande per lui è ormai arrivata. Mancano sette-otto mesi alla chiusura della legislatura, ma ormai la corsa in vista delle elezioni è partita. Chi vuole avere chance per andare al governo deve mettere sul tavolo le carte migliori che ha a sua disposizione. Bersani è tra i più accreditati. Lui lo sa. E ha scelto il Sole 24 Ore per provare a spiegare agli elettori italiani, all’Europa e ai mercati perché devono fidarsi del centro-sinistra dopo i buoni risultati del governo Monti.

Bersani, per cominciare, non c’è il rischio che i prossimi mesi siano occupati dalla campagna elettorale, proprio mentre il Paese è ancora chiamato a scelte difficili?

«E’ intanto utile, in questi mesi che ci avvicinano fisiologicamente ad un appuntamento elettorale, come avviene in tutte le democrazie del mondo, dare messaggi molto chiari sui temi di fondo: lealtà al governo Monti, lealtà verso il grande obiettivo europeo, responsabilità nella tenuta dei conti, nella riduzione del debito e nella costruzione di un avanzo primario. Contro ogni deriva regressiva e populista intendiamo fare barriera forte. Detto questo, vogliamo arrivare all’appuntamento elettorale dicendo la nostra, sull’Europa e sull’Italia».

Partiamo dall’Europa, deve fare di più. Ma come e in che direzione?

«L’Europa così come gira non va bene. Io credo innanzi tutto che il dibattito con le opinioni pubbliche europee vada spostato dalle tecnicalità economiche al tema di fondo che è culturale e politico. Il patto iniziale fu la riunificazione della Germania dentro una Europa forte. Se si rompe quel patto andiamo verso l’incognito. Purtroppo in questi anni abbiamo visto diffondersi, sotto l’influsso della globalizzazione, un’ideologia di destra per cui chi è forte pensa che chi è debole gli stia svuotando le tasche. E’ un’ideologia pericolosa, l’abbiamo vista anche nelle reazioni all’intervista di Monti, al di là della frase più o meno felice sui parlamenti».

Lei come ha valutato quella frase?

«Forse andrebbe ricordato a Monti che in Italia magari puoi dire qualsiasi cosa del Parlamento, ma in giro per il mondo ci sono delle democrazie…».

Intanto il clima con la Germania diventa sempre più teso. E’ giusto secondo lei attribuire ai tedeschi responsabilità su quello che sta avvenendo?

«Non va bene fare guerre con la Germania. Noi paesi cosiddetti periferici dobbiamo riconoscere che dopo l’euro non abbiamo fatto i compiti a casa, non abbiamo approfittato dell’abbassamento dei tassi. Secondo me questo è avvenuto per responsabilità di Berlusconi, ma come Paese dobbiamo riconoscerlo. La Germania deve riconoscere, però, che tutto quel che ha guadagnato dall’euro, ed è tantissimo, può anche perderlo e che una famiglia non si salva ammazzando qualche familiare. Quindi va fatto valere un discorso di corresponsabilità. Solo così l’Europa farà passi avanti e li farà fare a tutti noi».

L’Italia ha fatto i suoi compiti a casa?

«Abbiamo fatto molto. Ma è venuto il momento, e noi lo faremo da subito se saremo chiamati a governare, di mettere al centro delle nostre preoccupazioni l’economia reale. Quand’anche avessimo tutti gli scudi anti-spread del mondo, se l’economia reale viaggia in questo modo, non ce la caviamo. La recessione che abbiamo davanti è di dimensioni preoccupanti. Dobbiamo fare ogni sforzo per la crescita, o almeno per contrastare la recessione. Magari sui conti pubblici teniamo, ma qui rischiamo di arretrare decisamente nelle quote mondiali di produzione e lavoro. Nelle esportazioni i margini si vanno assottigliando. Il mercato interno è fermo. Così rischiamo una riduzione strutturale della nostra base produttiva. Allora nei famosi compiti a casa va data priorità a quella che potremmo definire, in senso esteso, politica industriale, che per me vuol dire politiche anche politiche per i servizi o l’agricoltura».

Il governo non fa abbastanza?

«Diciamo che per ora c’è attenzione non sufficiente. Ma il problema viene da lontano. Per troppo tempo abbiamo assistito inerti allo spostamento di investimenti dall’economia reale alla finanza. Dobbiamo invertire la rotta. Siamo un sistema di piccole e medie imprese, dobbiamo averne cura. Io rimpiango, per esempio, la dual income tax, il credito d’imposta per la ricerca, le prospettive tecnologiche dell’industria per il 2015. Se avessimo tenuto su queste misure forse non saremmo a questo punto».

Il governo ha rinunciato a ripristinare il credito di imposta sugli investimenti in ricerca…

«E invece va fatto. Quando io ci lavorai immaginavo uno strumento che doveva insediarsi come strutturale: gli imprenditori devono sapere che è un incentivo a disposizione per anni e senza rubinetti di sorta che creano sfiducia e incertezza».

Su quali settori è giusto puntare?

«L’Italia deve fare l’Italia. Deve puntare innanzitutto sulle sue tradizioni, tipicità, sul patrimonio del made in Italy. Poi deve portare tutto questo alle frontiere tecnologiche nuove. Quindi l’efficienza energetica, le tecnologie del made in Italy, le scienze della vita, le tecnologie per i beni culturali, e così via. Intanto la burocrazia e i mille cavilli d’Italia bloccano spesso gli investimenti».

Cosa fare?

«Bisogna agire certamente su alcune condizioni del contorno: dalla giustizia civile alle duplicazioni amministrative. Ma io ho una mia idea sul rilancio degli investimenti industriali, quello del riuso delle aree industriali».

Un buco nero fino ad oggi in Italia.

«Ed è una grande opportunità. Oggi in Italia abbiamo una quantità enorme di metri quadrati di aree dismesse, di fatto bloccate dai costi di bonifica e da pastoie burocratico-amministrative. Dobbiamo introdurre un meccanismo anche finanziario che risolva il problema delle bonifiche e permetta con dei patti d’insediamento qualche accelerazione da un punto di vista amministrativo e autorizzativo».

Resta il problema più ampio della pletora di autorizzazioni e controlli che rendono impossibili spesso gli investimenti.

«E qui io penso che la via è quella di esternalizzare: ci sono una serie di funzioni che riguardano le attività produttive che possono essere affidate ad un’autocertificazione rafforzata da parte di professionisti assicurati, così l’amministrazione pubblica si concentra sui controlli».

Cos’altro ha in mente quando parla di nuova politica industriale?

«Ci sono tanti strumenti da rivedere: siamo a posto con le procedure straordinarie, leggi Prodi 1 e 2, la legge Marzano? Secondo me no. Vogliamo discutere sulla cassa integrazione speciale? Mi va bene che tassativamente non ci siano proroghe ma nel sistema industriale italiano è un errore buttare via uno strumento così».

E’ giusto usare anche la Cdp per fare politica industriale? E con che ambiti?

«Credo sia utile come riferimento nelle società delle reti e va bene il volano per le infrastrutture. Ma io sarei più ambizioso nel riconsiderare questo fondo strategico che non si capisce bene cosa faccia. Noi abbiamo un sistema di medie imprese, quelle che innovano, investono, si internazionalizzano, che adesso sono piene di impegni con le banche. Allora io dico: con partecipazioni minoritarie, in modo selettivo, è inimmaginabile un fondo misto di partecipazione dove transitoriamente CDP, le banche trasformando temporaneamente i loro crediti, siano impegnati in operazioni non di salvataggio, ma di supporto?».

Sulla banda larga continuiamo ad avanzare solo con piccoli passi.

«Lì ci vuole una forte regia del Governo. E sono convinto che CPD deve essere messa al servizio via via di una soluzione combinata, soluzione che guardi al progetto paese. Sulla banda larga nel 2008 noi avevamo lasciato una dote di 900 milioni, con quelle risorse diciamo che l’accordo con Telecom si sarebbe potuto trovare più facilmente».

La produzione automobilistica in Italia continua ad arretrare. Il Governo farebbe bene a convocare Marchionne?

«La diplomazia economica dei governi è importante. Io ho sempre detto che l’unica soddisfazione certa di un ministro è che se chiami un interlocutore questo deve venire. Poi può dire quello che vuole, ma deve venire e dirtelo. Qui c’è un po’ di debolezza del Governo. Su Fiat, ma anche su Finmeccanica dove lo Stato è proprio azionista. Ma la decisione sugli investimenti in Italia tocca alla Fiat non al Governo. Io credo che bisogna chiamarli e chiedere: vi impegnate voi o no? Perché Fiat già ci ha condizionato già una volta negli anni 80 bloccando la possibilità di altri ingressi. Se hanno tutti gli stabilimenti in cassa integrazione, non possono bloccarci nei prossibili sviluppi dell’industria automobilistica in Italia. Qui bisogna essere molto seri e molto chiari».

Lei ha capito che fine ha fatto il piano Fabbrica Italia?

«Io non ho mai capito cosa fosse e quindi non ho mai capito dove è finito. Si è imbastita una polemica tra Marchionne e Fiom e si è perso di vista l’aspetto industriale vero. Se Fiat non ce la fa meglio i tedeschi che nessuno. Ma io sono complessivamente preoccupato che un pezzo di Paese vada in controllo estero. Su Ansaldo energia e su Ansaldo trasporti per esempio eviterei di perdere il controllo».

Come vede la situazione dell’Ilva?

«La decisione presa martedì consente sviluppi positivi. I temi ambientali, attenzione, sono temi veri. La politica industriale richiede risorse, così come il rispetto degli impegni Ue. Nel momento in cui vi proponete per governare il Paese dovete dire dove prendete i soldi. Sui tagli di spesa si puo procedere, ma con il cacciavite. Io vorrei smontare l’assioma o taglio o tasse. Spesso a un taglio corrisponde una sorta di tassa che magari viene pagata dagli italiani più deboli in termini di servizi. Bisogna mirare i tagli agli sprechi veri, altrimenti deprimi il mercato e metti le mani nelle tasche degli italiani».

Altre fonti di risorse?

«Riequilibreremo i carichi fiscali. Ma soprattutto: noi al netto del ciclo siamo tra i Paesi messi meglio. Senza toccare l’avanzo primario, bisogna trovare con l’Europa un minimo meccanismo di elsticità».

Cambiare i patti?

«No, solo un calcolo del ciclo fatto con buon senso. Da vedere con la Commissione. Se poi arrivasse un po’ di sollievo sui tassi… Le operazioni di politica industriale non costano moltissimo. E io darei priorità a un’altra questione: con il governo Prodi non eravamo in crisi e spendevamo 2,5 miliardi di fondo sociale, oggi con la recessione è ridotto a 150 milioni. Non c’è teoria, per quanto liberista, al mondo che non consideri che in epoca di recessione devi rispondere con spesa sociale. Farei una task forze con enti locali e terzo settore per affrontare questa questione e frenare con la sussidiarietà le tendenze disgregative. Anche così si fa comunità».

Siamo tornati a misure di spesa. Lei ha ribadito gli impegni europei, ma poi quando si parla del problema fondamentale delle risorse necessarie allo sviluppo e a centrare quegli impegni c’è troppa genericità».

«Rispondo così: guardiamo la storia. Quando si è trattato di controllare la spesa corrente abbiamo fatto meglio noi della destra. Per un motivo semplice: conosciamo meglio l’amministrazione e la macchina di governo».

Sugli enti locali si può tagliare ancora?

«Bisogna vedere di cosa parliamo. L’enorme pletora di consorzi e società miste va sbaraccata. Quello lì è un grosso risparmio. Poi bisogna ridurre il carico di impiego pubblico in una forma che lavori sul turn-over in modo intelligente. Tipo: ogni amministrazione deve ogni tre anni fare un piano industriale, qualcuno glielo certifica, se lo realizza gli do il 50% del turnover altrimenti no. Ecco un altro risparmio. Poi vanno alienati beni pubblici. Ma in forma realistica: quando sento parlare di 400 miliardi, dico: eravate lì potevate farlo. Ma come lo declina Grilli o come lo dice Astrid sicuramente si puo fare».

A proposito di dove reperire le risorse non mi ha ancora parlato di patrimoniale…

«La nostra posizione è quella di un contributo dei grandi patrimoni immobiliari. Credo che non sia una bestemmia. Aggiungo che, a proposito di dove prendo i soldi, noi sull’evasione dobbiamo fare di più. Serve la Maastricht della fedeltà fiscale: arrivare all’obiettivo più tre o meno tre di fedelta fiscale rispetto all’europa. Come ci si arriva: attraverso la deterrenza certamente, come si fa negli Usa, ma soprattutto attraverso banche dati incrociate. Se noi avessimo quelle a regime non solo recupereremmo risorse, ma avremmo la possibilità di graduare le politiche sociali in base al reddito. Non voglio fare Robespierre ma serve trasparenza».

Ma non pensa che con l’Imu già oggi la tassazione su chi ha più immobili è molto alta?

«Credo che per i patrimoni più ingenti ci possa essere qualche contributo in più, potenziando un po le esenzioni per chi ha di meno».

Proviamo a individuare la rappresentanza sociale di un suo eventuale governo.

«Lavoro dipendente che fa il suo dovere, professioni che accettano la modernizzazione, l’intellettualità e la creatività italiana, gli imprenditori che fanno il loro mestiere e credono alla loro impresa. Ci metto anche il ceto medio impoverito. Isolo invece come avversari tutte le posizioni di rendite a qualsiasi livello, le ricchezze e i patrimoni che rifiutano la solidarietà. L’accordo con la Svizzera va fatto, per dirne una, perché bisogna raggiungere la ricchezza mobile che si occulta. E come avversario ci metto anche la politica che costa e non realizza. E infine le grandi retribuzioni che sono scandalose».

Non si preoccupa quando Vendola apre a Casini a condizione che “rinunci alle politiche liberiste, mercatiste e rigoriste” appoggiate in questi anni?

«Le aggettivazioni ognuno le sceglie come vuole. Che però in questi dieci anni in Italia e in Europa si sia permesso che l’egemonia finaziria dominasse su tutto è stato un problema».

Ma Vendola mi sa che facesse riferimento più al Casini che appogia Monti che ad altro….

«Io ho già detto che la continuità con Monti sarà la salvezza di un’Italia che è europea e europeista. Che sta ai patti finché i patti non si cambiano e migliorano. Quindi la dignità di un Paese che sa qual è il suo destino. Dopodiché io convengo sul fatto che in Europa e in Italia noi dobbiamo dare più attenzione al lavoro. Altrimenti non c’è rigore che ci salvi».

Ma non è un’umiliazione per la politica fatta dai partiti in questi anni che un governo tecnico abbia fatto in pochi mesi una serie di riforme di cui si parlava da anni e non realizzavano?

«Qualcuno dice che tra il 96 e il 98 si sono viste liberalizzazioni e politiche industriali più incisive di quelle fatte ora».

Sulle liberalizzazioni gioca in casa, ma sul resto?

«Sulle pensioni abbiamo fatto molto».

Anche qui negli anni 90. Ma nell’ultimo governo Prodi siete tornati indietro sullo scalone…

«Giustamente credo, la gradualità nelle riforme serve. Come si è dimostrato con la vicenda degli esodati».

Bersani, insisto, perché questo è il punto: in Europa e sui mercati c’è preoccupazione per un ritorno di Berlusconi, ma anche di un centro-sinistra bloccato sulle riforme dai veti politici e sindacali.

«E’ un pregiudizio. La nostra è una politica intenzionata a chiedere il consenso della gente dicendo come prima cosa che siamo in una crisi seria e che serve responsabilità. Ma io rifiuto l’affermazione che il governo Monti abbia fatto più riforme dei governi politici di centro-sinistra. Se poi le riforme sono solo l’articolo 18…».

A proposito, sulla riforma del lavoro rimetterete le mani?

«Sì. Il mercato del lavoro va sicuramente reso più efficiente. Ma il dibattito sull’articolo 18 è un dibattito interno ideologico. Il problema vero è comunque quello della produttività: e qui siamo carenti in investimenti, ambiente di contorno, rigidità organizzativa ed eccesso di precarietà. In questo senso io credo che la questione del lavoro vada vista anche dal punto di vista dei contratti. E qui sono un convinto sostenitore di uno spostamento verso l’ambito aziendale, preservando però una base di omogeneità nazionale. Dare flessibilità organizzativa a fronte di investimenti esigibili: questa è la pista da percorrere».

Ma l’alleanza con Casini si fa prima o dopo le elezioni?

«Dipenderà anche dal sistema elettorale. Io ho in testa un’area progressista aperta che non è solo partiti. Che sia in condizioni, prima o dopo le elezioni, di lanciare un appello di collaborazione a tutte le forze europeiste, antipopuliste e costituzionali. Poi credo nei vincoli che ci siamo dati nella carta d’intenti per governare insieme: si decide a maggioranza quando non siamo d’accordo».

Il Sole 24 Ore 09.10.12

"Un immigrato su dieci lascia l'Italia per la crisi", di Valentina Santarpia

Operai, badanti, infermieri, perfino prostitute: per colpa della crisi, gli immigrati lasciano l’Italia. A lanciare l’allarme è Giovanni D’Agata, fondatore dello Sportello dei diritti (www.sportellodeidiritti.org ) che rivela: «In quattro anni, si è ridotto di oltre tre quarti il numero di arrivi ed è aumentata notevolmente la quantità di partenze». Il motivo è sotto gli occhi di tutti: chi lascia il nostro Paese cerca di trovare un lavoro dignitoso in zone meno colpite dalla crisi economica, oppure chiede di essere rimpatriato nella propria nazione d’origine, dove negli anni magari le condizioni di vita sono migliorate. «Non è raro incontrare stranieri che affermano che, per loro, in Italia non è rimasto più neanche il lavoro nero», sottolinea D’Agata, puntando il dito sul ricco Nordest, che dopo essere stato per anni meta privilegiata di flussi di migranti in cerca di benessere, ora è il luogo da cui gli stessi stranieri scappano, strozzati dalla mancanza di lavoro e dalla povertà. «Il 20% di quella che era la comunità marocchina nella Marca trevigiana è già andato via — conferma Abderrahmane Kounti, presidente dell’associazione Atlas e mediatore culturale del carcere di Santa Bona — ma se si potesse recuperare almeno una parte dei contributi pensionistici versati in tutti questi anni di lavoro se ne andrebbe almeno l’80%». Per andare dove? «Chi è rimasto senza un lavoro o ha fatto tornare i familiari in Marocco o ci è tornato lui stesso, visto che il Paese è in via di sviluppo. Mentre altri sono andati verso il nord Europa alla ricerca di nuove possibilità», spiega Kounti.
I dati statistici per ora non «leggono» il fenomeno: secondo l’Istat al 1° gennaio 2012 gli extracomunitari regolari in Italia erano circa 3,6 milioni, e calcolando anche gli irregolari, si arriva a una stima di poco più di 5 milioni di stranieri sul nostro territorio. Non numeri da esodo di massa, insomma. Se però si va a guardare il saldo migratorio, cioè la differenza tra chi arriva e chi parte, qualcosa emerge: mentre tra il 2005 e il 2010 il saldo era mediamente di 330 mila unità, questa cifra è crollata a 102 mila tra il 2011 e il 2012. E anche prendendo in considerazione il numero di nuovi permessi rilasciati nel 2011, 361.690, si ha un elemento indicativo: sono il 40% in meno rispetto al 2010. Solo nel Nordest, i permessi di soggiorno rilasciati tra il 2010 e il 2011 per motivi di lavoro sono crollati del 65%. E i primi dati dell’ultimo censimento aumentano gli indizi di una fuga in atto dall’Italia: il 9 ottobre 2011 erano «scomparsi» un milione di stranieri rispetto all’iscrizione anagrafica.
Ma l’appeal dell’Italia sembra destinato a diminuire ancora: secondo un’indagine della Fondazione Ismu, in Lombardia, la regione che ospita un quinto degli immigrati in Italia, dieci stranieri su cento dichiarano l’intenzione di volersi trasferire entro 12 mesi. Proiettando questi dati a livello nazionale, ci ritroviamo con un esercito di 150 mila immigrati pronti a fare le valigie entro l’anno prossimo. Alcuni si appoggiano alla Rete italiana per il ritorno volontario assistito, che fa parte di un progetto cofinanziato dal Fondo europeo rimpatri e dal ministero dell’Interno. Nel 2012 gli stranieri che aderiranno al programma saranno appena un migliaio, ma «le richieste sono aumentate e i posti disponibili sono stati quintuplicati rispetto al 2009», sottolinea il fondatore dello sportello. Può darsi che qualche leghista esulti di fronte a questi dati, ma in realtà ci sarebbe da piangere: la fuga degli immigrati, è l’amara considerazione finale di D’Agata, «rischia di farci perdere preziosa forza lavoro».

Il Corriere della Sera 10.08.12