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"Pagamenti bloccati per 75 miliardi così le nostre aziende soffocano", di Luisa Grion

Le imprese italiane vanno avanti con difficoltà, con un sistema del credito che ha stretto i cordoni, le commesse che mancano e i clienti vittime della crisi, sempre più spesso non riescono a tener dietro i pagamenti. Le insolvenze a giugno, secondo Banca d’Italia ammontavamo a 75 miliardi. E il fenomeno si allarga. Non riuscire a restituire i capitali ricevuti in prestito, non essere in grado di pagarci gli interessi, non farcela: è questo il “rischio insolvenza” – in tempi di crisi – incubo di molte imprese e di tante famiglie. Per la Banca centrale europea il pericolo di non onorare i propri debiti, in Italia, è più alto che altrove: il Bollettino d’agosto lo dice in termini molto chiari. In tutta la zona euro «c’è un netto deterioramento della valutazione del rischio di credito delle imprese », ma «l’incremento è stato particolarmente pronunciato per le imprese italiane e piuttosto moderato per quelle olandesi e tedesche». Amsterdam e Berlino non hanno molto da temere, dunque, Roma sì. Il tasso d’insolvenza – ovvero la percentuale di prestiti non rimborsati dalle aziende – secondo Francoforte è destinato ad aumentare. Poche parole per mettere sul piatto la «particolarità» del sistema Italia e un maggiore affanno confermato dalle cifre. Dietro all’analisi dei banchieri di Draghi, c’è una realtà composta da aziende in crisi di liquidità, ritardi nei pagamenti, difficoltà di credito, aumento dei protesti. Secondo la Banca d’Italia, nel mese di giugno, le insolvenze bancarie a carico delle aziende superavano i 75 miliardi di euro, in aumento del 17 per cento rispetto all’anno precedente. La Cgia di Mestre, a questa cifra, aggiunge i quasi 10 miliardi
a carico delle imprese a conduzione familiare portando la stima sotto il tetto degli 84 miliardi, in crescita – nel complesso – del 13,8 per cento. Una tendenza – fa notare – che ha indotto le banche a stringere ulteriormente i cordoni della borsa: i prestiti erogati sono diminuiti nell’anno del 2 per cento (meno 20 miliardi). L’Abi, l’associazione delle banche, conferma la crisi: «il tasso di decadimento, cioè il numero dei nuovi prestiti che entrano in sofferenza rispetto allo stock esistente ad inizio periodo, è passato dall’1,6 per cento del 2008 al 2,7 nel primo trimestre del 2012». Ma «le banche italiane hanno operato con la dovuta prudenza mantenendo intatta la loro solidità», precisa.
Questo il difficile quadro attuale, ma un recente studio del Cerved Group (datato luglio scorso) conferma le previsioni delle Bce. L’istituito di ricerca ha elaborato infatti l’indice CeGRI, che misura su una scala da 0 a 100 il rischio di insolvenza delle aziende italiane e ha valutato che nel 2012 e nel 2013 tale misura raggiungerà quota 70,5 un valore che per la prima volta nel decennio supera la soglia dei settanta punti. In crisi, secondo il rapporto, saranno soprattutto le imprese del Sud, le aziende di dimensioni ridotte e quelle volte al mercato interno. Fra i settori, a pagare lo scotto più alto sarà l’edilizia, dove l’indice toccherà un massimo di 75,8 punti; ad avere meno guai, invece, la meccanica (61,2). Una foto confermata dalla mappa delle crisi aziendali elaborata dal ministero dello Sviluppo economico: le grandi aziende che hanno un tavolo di crisi aperto sono 135 (solo 54 i casi risolti o a buon punto), ma al dato – precisa Salvatore Barone della Cgil – «va aggiunta la miriadi di piccole imprese a rischio di fallimento e le 300 aziende che hanno chiesto, e non ancora ottenuto, l’apertura di una trattativa al ministero».
Il governo annuncia, per settembre, un nuovo pacchetto di semplificazioni per incentivare la crescita. Ma a Confindustria non basta: se l’insolvenza aumenta è perché lo Stato non paga. Per il vicepresidente Boccia «bisogna affrontare la questione dei pagamenti della Pubblica amministrazione verso le imprese: siamo a quota 100 miliardi».

La Repubblica 10.08.12

"Il garante dell'Europa", di Gian Enrico Rusconi

Il Mario Monti «tedesco» è ridiventato «italiano». Era da qualche settimana che i commenti dei giornali tedeschi avevano abbandonato i toni benevoli verso il nostro premier. In sintonia con le crescenti insofferenze di molti uomini politici, avevano aggiustato il tiro contro l’attivismo «europeista» del presidente del Consiglio. Affiancandolo naturalmente all’altro Mario «italiano», il Draghi presidente della Bce.
Ma è stata la maldestra affermazione di Monti nella intervista a «Der Spiegel» («ogni governo ha il dovere di guidare il proprio Parlamento») a offrire ai politici tedeschi l’occasione di presentarsi come una compatta classe politica che difende la sovranità del Parlamento in una democrazia funzionante. Una lezione di democrazia parlamentare impartita al premier italiano e agli italiani in generale. Gettare sulle proposte economico-finanziarie di Monti l’ombra di un comportamento che delegittima la democrazia parlamentare è l’arma più insidiosa contro di lui. Rilancia l’antica diffidenza tedesca verso l’Italia come perenne anomalia politica. Non a caso qualcuno ha aggiunto che si sente ancora l’eredità del berlusconismo.

Per contrasto la posizione tedesca sull’intera questione del sostegno dell’euro viene presentata come l’unica democraticamente ineccepibile, anche e soprattutto contro la Bce «che rischia i soldi dei contribuenti (tedeschi) senza essere democraticamente legittimata». Per un paio di giorni la classe politica tedesca ha nascosto – dietro le questioni di principio – le differenze reali che esistono e crescono al suo interno. Saggiamente Angela Merkel, ritirata nella sua vacanza altoatesina, non si è lasciata coinvolgere dalle polemiche dando l’impressione di aver capito il vero senso delle parole di Monti.

Come si è creato tutto l’equivoco? E come si supera? L’affermazione del premier italiano, che ha scandalizzato i tedeschi, è che «se i governi seguissero esclusivamente le decisioni dei Parlamenti la rottura dell’Europa sarebbe più probabile della sua integrazione». Presa alla lettera questa affermazione sembra un invito a limitare la sovranità del Parlamento. Ma non era questa l’intenzione di Monti. La sua era in realtà una impropria generalizzazione fatta dalla sua personale esperienza di governo. «Se avessi dovuto tenere in considerazione le posizioni del Parlamento italiano, dal quale avevo avuto indicazioni di far passare gli eurobond, non avrei dovuto dare il consenso italiano nell’ultimo consiglio europeo di fine giugno». Il premier ha aggiunto, sempre nell’intervista a «Der Spiegel», che se la moneta unica diventasse un fattore disgregante, «allora i fondamenti del progetto di Europa sono distrutti».

Sono parole gravi che mettono a fuoco la non risolta contrapposizione tra «competenza tecnica» e «responsabilità politica» che è alla radice delle difficoltà attuali del governo italiano. Soltanto in questo contesto si spiega la tesi incriminata che «ogni governo ha il dovere di guidare il proprio Parlamento». «Guidare» non è concetto felice e si presta a molti fraintendimenti. Neppure per il Cancelliere tedesco che gode di notevoli prerogative e competenze decisionali, è appropriato il concetto di «guida» del Bundestag.

Non credo che dietro all’improprietà del linguaggio di Monti sia latente l’idea di una qualche infrazione istituzionale/costituzionale per il rafforzamento dell’esecutivo. Monti fa semplicemente riferimento alle competenze tecniche per le quali è stato chiamato al governo, in supplenza di una classe politica, apparentemente priva di tali requisiti. In questo senso per «guidarla». Ma si tratta di competenze che avranno il loro peso irreversibile, anche quando si tornerà alla «normalità politica» con le prossime elezioni. Temo invece che i partiti, che stanno litigando sul nuovo sistema elettorale, non abbiano ancora percepito che la grande sfida del prossimo Parlamento sarà il nuovo rapporto tra competenze tecniche, rappresentanza popolare e responsabilità decisionale.

Per il momento dobbiamo quindi accontentarci della «stranezza» di questo governo o della sua «anomalia». «Un leader non eletto, chiamato a realizzare impopolari cambiamenti nei cui confronti i politici del Paese erano riluttanti. Monti fa affidamento sulla tolleranza dei principali partiti politici italiani e non ha un suo potere di base, ad eccezione della sua credibilità personale». Sono parole del «Wall Street Journal», un altro protagonista delle polemiche di questi giorni. Naturalmente per fare questa constatazione non c’era bisogno dell’autorevole giornale americano che, lungi dal porsi il problema dell’uscita dall’anomalia attuale, si accontenta di ripetere lo stereotipo che «la natura disciplinata di Monti è più tedesca che italiana».

E’ tempo di abbandonare questo stereotipo. I tedeschi hanno un’idea di «disciplina politica» diversa da quella di Monti – in corrispondenza alla diversità dei due sistemi politici. Il sistema tedesco è funzionante, quello italiano è in emergenza. I tedeschi sono giustamente soddisfatti del loro circuito istituzionale virtuoso tra Parlamento, governo, Corte Costituzionale e Bundesbank. Esso ha accompagnato lo sviluppo della Germania nel passaggio cruciale della riunificazione e attraverso la serie di decisioni che hanno costruito l’Unione europea. E lo ha fatto insieme agli altri partner europei. Oggi si trova davanti ad una prova imprevista, apparentemente contraria alla lettera di talune normative comunitarie. I tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano loro di fare qualcosa che contraddice profondamente la loro «disciplina politica», mentre dovrebbero essere gli altri (in particolare i paesi del Sud) ad imitarla. In realtà le cose non stanno esattamente così. I politici tedeschi più attenti e riflessivi (non solo dell’opposizione socialdemocratica) lo sanno benissimo. E si stanno convincendo che è in gioco lo stesso destino della Germania.

Monti chiede ai tedeschi «maggiore elasticità». E’ quasi un eufemismo: per i tedeschi si tratta di qualcosa di molto più impegnativo. Nessuno chiede loro di rinunciare al loro invidiabile sistema istituzionale e alle sue regole. Si tratta di riadattarlo alla nuova imprevista, grave situazione. I veri amici della Germania sono convinti che se apre il suo sistema alle esigenze degli altri partner europei, diventerà la garanzia più solida per l’Europa.

La Stampa 10.08.12

"Josefa, una regina tra i cigni", di Concita De Gregorio

Grazie signora Idem. Per la gioia di questa mattina di sole al castello di Windsor, per aver indicato sorridendo i cigni prima di partire ché una finale olimpica è una finale olimpica, sì, ma la bellezza dei cigni qui accanto, guardate Grazie per essere uscita dalla gara da combattente ed essere tornata nella vita da regina, un attimo dopo, coi figli in braccio e il sorriso radioso a dire «tutti devono sentirsi comodi nello sport, quelli che vincono e quelli che perdono. Stasera con mio marito beviamo un bicchiere di vino, che dopo tutti i cereali che abbiamo mangiato ce lo meritiamo davvero». I cigni, il vino. Le lacrime che scendono sole mentre dici, ridendo, «non siate tristi per me. È stato un sogno bellissimo da vivere insieme. Chiudo solo la porta delle gare: la vita è ancora tutta da vivere». Janek, 17 anni, che ascolta e fa sì con la testa.
Cinquecento metri in kayak in un minuto e 53 secondi, una fatica che tutti noi qui nel pubblico non ce la possiamo nemmeno immaginare, 48 anni, 8 Olimpiadi, 2 figli partoriti fra una e l’altra, «un’anatra di piombo» ti dicevano a vent’anni in Germania, a 36 oro olimpico con l’Italia grazie a un marito che ami e che ti ama, poi Atene, poi Pechino, poi Londra, qui, ora, tre decimi di secondo dal bronzo, un’esitazione in partenza, «penso sempre troppo, sono stata un attimo in più a guardare l’arrivo», un peluche che ti guarda all’arrivo nelle mani di Jonas, 9 anni, quella partenza un po’ lenta «non è che le faccio apposta, è che non so far altro che così», la sudafricana che non te l’aspettavi, arriva nella coda dell’occhio ed è un istante, lo sguardo al tabellone, quinto posto, gli amici da Ravenna che urlano davanti alla tv, Guglielmo che è già a riva per riprenderti e tu che ti fermi, invece. Ancora un momento, ancora un minuto. Ancora un po’ in questo specchio d’acqua da sola. A far durare al rallentatore l’ultimo fotogramma di 35 anni in acqua, una carriera magnificente, la più bella storia di sport italiano a queste Olimpiadi: la storia di Sefi Idem che lascia lo sport senza una parola di meno né una di più, senza una parola sbagliata. Tutte, una per una, da ricordare nella prossima storia, quella che comincia qui.
«Sono felice perché ero in gara, avete visto. Venivo da due anni terribili, nona ai mondiali 2010 e settima nel 2011, quest’anno non ne parliamo, in acqua mi sentivo una zattera. Però avevo mio marito che mi spronava, e i figli, e i ragazzi del circolo Aniene che hanno sacrificato le vacanze per allenarsi con me allora ho pensato allo slogan di queste Olimpiadi, “inspire a generation”. Ho pensato che sì, possiamo davvero con l’esempio ispirare i giovani ma anche ho pensato alla mia generazione: non è mai troppo tardi per mettersi in gioco, si deve e si può. E alle madri vorrei dire: ci facciamo troppi sensi di colpa alle volte. I figli ci amano per quello che siamo». Grazie all’Italia, dice, che «non mi ha mai chiesto di farmi da parte perché ero vecchia, in Germania quando ero quinta a vent’anni ero già fuori», grazie a voi giornalisti «che avete sostenuto me e questo sport così faticoso. Non siate severi con Schwazer, ha fatto un grandissimo errore, è rimasto da solo con la sua paura e ha sbagliato. Ma io lo capisco quando dice che aveva la nausea: a 24 anni ero pronta a smettere, avevo un allenatore autoritario, l’inverno in acqua fa freddo. Avevo nausea. Ho avuto la fortuna di incontrare le persone giuste. È stato, il mio col kayak, un matrimonio combinato: l’amore è venuto dopo. Le Olimpiadi sono sempre entusiasmanti. Purtroppo arrivano ogni quattro anni…». Eppure c’è chi dice che sono un trionfo dei nazionalismi, le Olimpiadi. «Ma no, Grillo è un patacca», uno sbruffone in romagnolo, che è l’italiano di Josefa: «È pieno di atleti nati altrove che gareggiano per l’Italia, è bello per questo. È una ridicolaggine, l’avrà detto per approfittare del palcoscenico olimpico. Non andiamo mica a invadere, a fare le guerre: è una festa, gareggiare. Un gioco. Non mi piace chi denigra i sogni degli altri». E i suoi, di sogni, Sefi? «Io ho sognato con voi, abbiamo sognato insieme. Ora vorrei restituire allo sport qualcosa del molto che mi ha dato. No, non penso a poltrone… mi vengono i brividi. Penso a scrivere. Janek mi aiuterà. Vorrei raccontare le storie di chi ha perso, perché vincere è facile: è quando perdi che devi essere davvero un campione ». È quando perdi. «Vedete, sono in quel punto della vita che se le cose vengono o non vengono non cambia: non è per la gara che sono meno felice. Lo sono molto». La sua famiglia la porta via, adesso. L’ultima foto sono loro quattro abbracciati, di spalle, che si parlano all’orecchio nel viale che costeggia le acque. In tutti i sensi, la più elegante uscita di scena mai vista: il profilo che si allontana, il lago dei cigni
di Windsor.

La repubblica 10.08.12

"Norma antiscilipoti per dire addio alla Seconda Repubblica", di Francesco Cundari

Difficoltà politiche e nebulosità tecnica del dibattito sulla riforma della legge elettorale rischiano di far dimenticare il punto di partenza: mai come in questa legislatura si era assistito allo spettacolo di un Parlamento in cui masse di eletti si spostassero dalla maggioranza all’opposizione e poi di nuovo dall’opposizione alla maggioranza, cambiando partito e anche fondandone di nuovi per l’occasione.
Dalle elezioni del 2008 a oggi sono infatti ben 161 i parlamentari che dopo il voto hanno cambiato gruppo almeno una volta. Ma buona parte di loro ha compiuto il viaggio a più riprese (a essere rigorosi, per calcolare esattamente il tasso di trasformismo bisognerebbe dunque moltiplicare il numero dei transfughi per la loro velocità di circolazione, che è altissima). Il tentativo di riformare il nostro sistema deve fare i conti anche con questi problemi. Non per niente il dibattito sulle riforme istituzionali, e sulla riforma della legge elettorale in particolare, si protrae, con poche interruzioni, da oltre vent’anni.
L’intera storia della Seconda Repubblica ne è scandita implacabilmente: referendum, progetti votati in bicamerale e abbandonati in Aula, riforme votate in Aula e bocciate dal referendum, quesiti sottoscritti dai cittadini ma bocciati dalla Consulta, approvati dalla Consulta ma fermati dal quorum: l’elenco delle battaglie che in questi vent’anni si sono combattute attorno ai diversi modelli e ai relativi feticci (lo «spirito del bipolarismo», la «religione del maggioritario», lo «spettro della proporzionale») potrebbe riempire una biblioteca.
A ripercorrere questa lunga e travagliata storia dai primi referendum Segni all’inizio degli anni Novanta fino alle schermaglie di oggi, però, balzano subito agli occhi alcune evidenti contraddizioni. Contraddizioni stridenti, in particolare, tra la retorica che ha accompagnato ciascuno di quei passaggi (dalla proporzionale al maggioritario, dal Mattarellum al Porcellum) e gli effetti concreti delle soluzioni adottate. In breve, tra previsioni e risultati.
L’esempio più clamoroso è offerto proprio dalle ultime elezioni, salutate da un coro assordante come il trionfo della logica del maggioritario e dello spirito del bipolarismo, come il coronamento della Seconda Repubblica: un sistema ormai praticamente bipartitico, in cui la scelta di Pd e Pdl di “correre da soli”, unita al meccanismo violentemente polarizzante della legge elettorale, con il suo ricco premio di maggioranza, sanciva la fine di tutti i mali storici del nostro sistema politico. Frammentazione, opacità, trasformismo, potere di ricatto delle formazioni minori (e loro moltiplicazione): tutti quei mali che il bipolarismo maggioritario aveva combattuto sin dai primi anni Novanta, senza riuscire tuttavia a debellare.
La nuova era del sistema «tendenzialmente bipartitico» salutata da tanti commentatori all’indomani delle ultime elezioni si è chiusa come ognuno può vedere da sé. Il potere dei cittadini di scegliere insieme la maggioranza, il governo e il premier non ha impedito che il governo guidato da Silvio Berlusconi venisse messo in crisi dalla secessione di un pezzo della sua maggioranza e del suo stesso partito, che dopo avere incassato il premio di maggioranza decideva con piena legittimità di passare all’opposizione. E se nonostante questo il governo Berlusconi non cadeva era solo perché al tempo stesso, come si ricorderà, un nutrito gruppo di parlamentari eletti con i partiti di opposizione decideva con piena legittimità di passare in maggioranza. D’altra parte, tutto questo non ha comunque impedito che a Palazzo Chigi, qualche tempo dopo, andasse un presidente del Consiglio e un intero governo scelto dal Parlamento senza passare da nuove elezioni, con una maggioranza formata da partiti che alle ultime elezioni si erano fieramente combattuti.
La vera novità della Seconda Repubblica e in particolare di questa legislatura, almeno dal punto di vista della rilevanza statistica, è la straordinaria proliferazione di partiti nati in Parlamento. In altre parole, in nome del diritto dei cittadini a scegliere direttamente governo e maggioranza, contro lo spettro proporzionalista delle alleanze fatte e disfatte in Parlamento dopo il voto, non solo i cittadini non hanno scelto né l’attuale governo né l’attuale maggioranza, ma nemmeno i partiti. La vera novità sono i parlamentari che dopo le elezioni si scelgono il partito, o meglio ancora, che dopo aver preso i voti con il Pd o il Pdl, la Lega, l’Udc o l’Idv, ne fondano uno tutto nuovo direttamente in Parlamento. Magari per poi ripensarci qualche giorno o qualche mese dopo. Nelle varie legislature della famigerata Prima Repubblica i partiti presenti in Parlamento erano generalmente otto o nove in tutto, i cambi di campo molto rari, il gioco di scomposizione e ricomposizione di partiti mai apparsi fuori del Parlamento (come i vari «Responsabili») semplicemente sconosciuto. Solo in questa legislatura i parlamentari che hanno cambiato gruppo almeno una volta sono 161. Molti lo hanno fatto più volte (il tragitto statisticamente più seguito è il classico Pdl-Fli-Pdl, ma non mancano molte interessanti varianti). Alcuni, subentrando solo successivamente come primi dei non eletti dei rispettivi partiti, al gruppo parlamentare del suddetto partito non si sono iscritti nemmeno per un giorno (in qualche caso, che potremmo qualificare forse come scappatella parlamentare, ci hanno ripensato dopo, iscrivendosi al gruppo del partito in cui erano stati eletti solo diversi mesi dopo il loro ingresso in Parlamento). Ma non mancano casi di autentica bulimia, capaci di cambiare gruppo parlamentare ogni tre o quattro mesi.
Evidentemente, di fronte a questi fenomeni, non c’è legge elettorale che tenga, se prima non si approva una norma che preveda l’impossibilità di costituire gruppi parlamentari che non corrispondano alle liste votate dagli elettori. Senza con questo intaccare il principio costituzionale dell’indipendenza del singolo parlamentare, eletto senza vincolo di mandato (nulla impedisce infatti al dissidente di uscire dal proprio gruppo e confluire nel gruppo misto). Norme che vadano in questa direzione sono state abbozzate da tutti i partiti. Si tratta ora di toglierle dal mucchio delle diverse proposte e controproposte complessive e approvarle subito, come precondizione per qualsiasi riforma (tanto più se la nuova legge elettorale prevedesse delle soglie di sbarramento, per ovvie ragioni). Quello che serve subito, insomma, è una norma semplice e chiara contro lo scilipotismo, esito ultimo e paradossale del nostro bipolarismo forzoso. Fosse anche l’unica norma a essere definitivamente approvata, sarebbe già qualcosa.

L’Unità 09.08.12

"Quei test improbabili e ambigui", di Luciano Canfora e Nuccio Ordine

Mentre in queste ore il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca dovrebbe decidere le sorti dei test preliminari di ammissione al Tirocinio Formativo Attivo (Tfa), ci sembra importante fornire alcune riflessioni operative prima che scelte affrettate o demagogiche finiscano per trasformare un apparente farmaco in un ferale veleno. Nelle ultime settimane, infatti, man mano che si svolgevano le prove delle varie classi di concorso, è cresciuto lo sgomento tra professori e candidati. Innanzitutto per gli evidenti errori, alcuni tempestivamente segnalati sul Corriere e riconosciuti come tali anche dal Ministero che è corso ai ripari concedendo come valide tutte (!) le risposte ai quesiti 5 (definizione sbagliata di variante) e 15 (titolo sbagliato di un’opera di Buzzati) per la classe 51. Purtroppo, a una lettura attenta di ogni singolo quesito — con particolare attenzione alle classi di concorso 36-37, 43 e 50-52 — il bilancio diventa ancora catastrofico. Agli errori, ai quesiti imprecisi e mal formulati, si aggiunge anche un numero impressionante di domande che vanno considerate come «inopportune». Proveremo ancora a offrire qualche significativo esempio. Un esilarante sbaglio riguarda la domanda «che cos’era il Komintern?» (classe 37): nessuna delle risposte segnalate è quella esatta, poiché non si tratta della Terza Internazionale Socialista (come proposto nella soluzione) ma semmai della Terza Internazionale oppure dell’Internazionale Comunista. Ancora più numerosi sono i casi di quiz imprecisi, ambigui o mal formulati. Il quesito «L’anno della Charte octroyée» (classe 50) ci sembra molto rappresentativo: 1814 è la risposta considerata esatta, mentre avrebbe potuto essere anche il 1815, visto che la famosa carta fu effettivamente promulgata una prima volta nel giugno 1814 ma dovette essere rimessa in vigore, dopo i cento giorni, nel luglio 1815, con la decadenza dell’Atto Costituzionale di Napoleone. In numero veramente eccessivo — e questo rappresenta il motivo per cui la struttura di fondo dei test va considerata completamente sbagliata — si registrano i quesiti che abbiamo definito «inopportuni».
In alcune classi, rappresentano oltre il 50/60% dei casi. Si tratta di domande improponibili, per varie ragioni: perché troppo specialistiche o perché evocano opere e autori assolutamente marginali nei canoni di insegnamento e del tutto assenti nei manuali e nelle antologie. Che senso ha chiedere a un candidato di riconoscere la prima quartina di un sonetto di Tasso («Due donne in un dì vidi illustri e rare»), la cui produzione poetica è sterminata, se neanche uno specialista di questo autore sarebbe stato in grado di farlo (classe 50)? o chiedere di identificare la prima quartina di un sonetto di Marino, «Cinto di fosche e tenebrose bende» (classe 51)? e come avrebbe potuto un candidato sapere che Dario Niccodemi è l’autore de «La nemica» (classe 50)? Altro ancora ci sarebbe da dire sull’eccessiva presenza di richiesta di date (con soluzioni alternative distanti talvolta di un anno) o sulle questioni in cui più di una risposta è plausibile. Non si salvano neanche i brani proposti per l’analisi. Al posto di offrire agli studenti passi di classici, sono stati selezionati testi di critica, confermando la barbarica tendenza a privilegiare la letteratura secondaria alle opere: non sarebbe stato più opportuno proporre direttamente una poesia di Pascoli o una pagina di Pirandello, evitando di far passare per indiscutibili verità le opinioni, pur autorevoli, di alcuni critici? A voler continuare, i casi discutibili sarebbero tantissimi. E a voler rileggere tutti i quiz somministrati nelle varie classi di concorso dell’area umanistica, il bilancio si farebbe ancora più pesante, soprattutto per l’idea che viene offerta delle discipline che i futuri docenti dovranno poi insegnare.
Ridurre la cultura a superficiale nozionismo e a sterile esercizio mnemonico (ben altra cosa è imparare by heart , a memoria e con il cuore, le poesie) — oltre a mortificare gli oscuri artéfici ministeriali, voraci lettori di bignamini e di voci Wikipedia — mortifica professori e studenti che si impegnano con serietà nelle scuole e nelle università. Siamo il Paese degli eccessi: o tutti dentro con prove annacquate (come è successo nelle vecchie Ssis) o tutti fuori con prove inaccettabili. Di fronte a esiti così catastrofici, c’è bisogno di un gesto di coraggio che superi senza equivoci la spirale arbitrio-demagogia che ha già largamente devastato scuola e università. Sarebbe opportuno e urgente convocare una commissione di specialisti non per rabberciare ciò che non è «rabberciabile», ma per trovare un nuovo metodo di selezione che rispetti i contenuti delle discipline e i reali meriti dei candidati.

Il Corriere della Sera 09.08.12

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“La corsa per prepararsi ai test. Fino a 4.000 euro a studente”, di Valentina Santarpia

Altro che vacanze. Per migliaia di neodiplomati o neo mini-laureati sono iniziati i conti alla rovescia (e i conti in tasca) per i test di ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso. Che sono sempre di più: su 4.690 corsi di laurea esistenti, sono 1.590, cioè il 33,9%, con costi per la preparazione che vanno da poche centinaia di euro a qualche migliaio. Ormai un terzo dei corsi (sia per laurea triennale che magistrale) è a numero chiuso o programmato, e quindi richiede, per l’iscrizione, il superamento di una prova. Oltre ai 708 corsi di laurea in Medicina, Veterinaria e Architettura, per i quali ogni anno il ministero dell’Istruzione decide il numero di posti disponibili, ci sono infatti gli 882 scelti liberamente dai singoli atenei che sono costretti a limitare il numero di accessi per offrire una didattica dignitosa: il 18,8% del totale, un trend che si conferma in crescita rispetto al 17,7% dell’anno scorso. Basti pensare che ci sono atenei, come quelli di Catania e Palermo, dove tutti i corsi sono ormai ad accesso limitato. E allora scatta la corsa al quiz.
L’anno scorso per un totale di 9.690 posti disponibili a Medicina e chirurgia, si sono presentati in 84.422, una media di 8,7 candidati a posto, con i picchi di Siena (13,5), Sassari (12,4), Salerno (10,9). Quest’anno ci sono poco più di diecimila posti a disposizione, e gli atenei sono già pronti alla ressa, anche se la possibilità di ambire a più università nell’ambito della Regione, come stabilito dal ministro all’Istruzione Francesco Profumo, dà qualche chance in più. Stessa storia per Veterinaria, dove a fronte di 958 posti a disposizione (quest’anno ce ne sono anche meno, 918) si sono presentati nel 2011 ai test 7.305 aspiranti, 7,6 per ogni disponibilità. Non fa eccezione Architettura, oltre 23 mila candidati per 8.760 posti (quest’anno sono 8.720). Ed è facile immaginare che saranno più che ambiti anche gli oltre 149 mila posti sparsi negli atenei per i corsi più disparati, da Scienze della comunicazione a Ingegneria, fiore all’occhiello del Politecnico di Milano, dove l’anno scorso c’erano 7.792 aspiranti ingegneri a fronte di 5.469 disponibilità, +9% rispetto all’anno precedente: «Noi crediamo tantissimo ai test di ammissione — spiega il rettore Giovanni Azzone —. Ma diamo la possibilità ai ragazzi di farli già dal terzo e quarto anno di liceo. Possono tentarlo anche più volte: il nostro obiettivo è motivarli, e infatti i test anticipati costano 30 euro invece dei 50 di settembre, e per la preparazione mettiamo a disposizione un volume scaricabile online».
Già, i costi, l’altro capitolo spinoso: perché partecipare alla sfida a suon di crocette non è gratuito. A Padova il test costa 27 euro, a Roma Tre 25, a Catania 40, ma in moltissime facoltà, dalla Sapienza di Roma alla Statale di Milano, si aggira sui 50 euro, e ci sono anche atenei più cari, come Bologna (60 euro), Napoli (70 euro), Pavia (dai 75 ai 100 euro) fino ai 110 euro della Luiss di Roma. Considerando che ciascuno studente tenta di solito più prove, la cifra lievita. E poi c’è tutto il business della preparazione ai quiz: i manuali possono costare fino a 115 euro, ma i corsi più raffinati vanno dai 400 euro (per una full immersion di pochi giorni a fine agosto) agli oltre 4.000 euro, per corsi più lunghi che durano qualche mese oppure prevedono soggiorni vacanza abbinati a sessioni di studio. È uno dei motivi per cui l’Unione degli universitari attacca a testa bassa i test: «Lo sbarramento con i test di ingresso universitari sta sempre più diventando un vero e proprio ostacolo sociale per l’accesso alla massima istruzione — dice il presidente Michele Orezzi — e invece di abbattere le barriere costruiamo ostacoli sempre più alti». Una posizione non condivisa da Luigi Frati, rettore della Sapienza di Roma: «Se siamo in Europa, dobbiamo rimanerci: se ci sono le quote latte, ci sono anche le quote medici, dobbiamo essere pragmatici». Come ci si allena al meglio, allora, senza spendere cifre strabilianti? «Con la clessidra da un minuto, che aiuta a calcolare i tempi, oppure con il Sudoku, che sviluppa la logica», suggerisce Pierluigi Celli, direttore generale della Luiss. «Perché sa qual è il vero problema? Che noi italiani siamo troppo emotivi».

Il Corriere della Sera 09.8.12

"L’Italia brucia, in Emilia morti due anziani", di Pino Stoppon

L’Italia brucia. Complice anche un caldo torrido e l’assenza di piogge, ieri è stata un’altra giornata di incendi in tutta la penisola. Sono scoppiati roghi in quasi tutte le regioni anche se solo l’Emilia ha pagato il tributo maggiore con due morti: anziani che, in due distinte occasioni, sull’Appennino bolognese e parmense, hanno dato fuoco a sterpaglie e sfalci, ma sono stati travolti da roghi sfuggiti al loro controllo. Mentre la Sicilia è ancora in piena emergenza, si fanno i primi bilanci: solo ieri ci sono stati 158 incendi boschivi; Campania e Lazio le regioni più colpite con 50 e 23 roghi.
Il primo decesso in mattinata a Sabbioni, vicino a Loiano, nel Bolognese. Lì un anziano di 88 anni ha acceso un fuoco per ardere sfalci e sterpaglie. Ma, complici le temperature che anche ieri non ha dato tregua all’Emilia, il fuoco è divampato, bruciando oltre 4mila metri quadrati. Non è ancora chiaro se l’uomo si sia sentito male o sia caduto, ma di sicuro la morte è riconducibile all’incendio.

Nel pomeriggio invece, nel Parmense nei pressi di Zerla, comune di Albareto, vicino al passo del Cento Croci, un altro pensionato (87 anni) è morto nell’incendio che ha anche distrutto parte di un bosco.
Secondo una prima ricostruzione, stava bruciando sterpaglie quando il vento ha fatto propagare le fiamme. Il pensionato ha cercato di fermarle, ma è stato soffocato dal fumo.
Resta però la Sicilia la regione più colpita dagli incendi. Numerosi roghi si sono sviluppati anche oggi nel Messinese. In azione due Canadair (mezzi che sono al lavoro anche sul Gargano), squadre di vigili del fuoco e della Forestale. La Procura di Trapani, nel frat- ììtempo, ha aperto un fascicolo contro ignoti per incendio doloso boschivo ai danni della riserva naturale orientata dello Zingaro, gravemente danneggia- ta nei giorni scorsi da un imponente rogo. Gli inquirenti cercheranno di scoprire chi e perché ha aggredito una delle più suggestive aree protette della Sicilia e se c’è una regia unica per gli altri incendi, verosimilmente dolosi, sviluppatisi, nelle stesse ore, ad Erice, Makari e Castelluzzo, sempre nel Trapanese.
Intanto l’assessore regionale al Territorio e Ambiente, Alessandro Aricò, ha annunciato che porterà all’ordine del giorno della prossima giunta di governo la proclamazione dello stato di calamità per le zone della Sicilia, in particolare del trapanese e del palermitano, colpite dall’emergenza incendi.
Roghi anche a Roma, in diversi quartieri, con difficoltà per spegnere le fiamme per la scarsità dei mezzi dei vigili del fuoco. Una situazione «drammatica» quella degli automezzi al Comando di Roma è la denuncia della Fp-Cgil. «Oggi – ha spiegato il sindacato – su 58 autopompe 28 sono fuori servizio per riparazione».

TOSCANA

Brucia anche la Toscana. A luglio c’è stato il record di incendi boschivi: sono stati 190, a fronte dei 179 del 2007, degli 80 del 2008, degli 87 del 2009, dei 60 del 2010 e dei 71 del 2011: «È stato un mese con dati assolutamente fuori norma che ha richiesto un notevole sforzo dell’organizzazione regionale antincendi ed uno spiegamento di forze decisamente superiore alle medie del periodo», ha rilevato ieri l’assessore ad Agricoltura e foreste della Regione Toscana Gianni Salvadori, presentando il report degli incendi a luglio e nei primi giorni di agosto. I 190 incendi boschivi hanno interessato 793 ettari di superficie boscata, ai quali si aggiungono 376 ettari di altra vegetazione, per un totale di 1.170 ettari bruciati. «Considerando che la media annuale di superficie boschiva bruciata ammonta in Toscana a circa 1100 ettari – ha spiegato Salvadori – risulta evidente l’eccezionalità degli oltre 790 ettari andati in fumo in appena un mese».

l’Unità 09.08.12

"Immissioni in ruolo, una su tre potrebbe andare ai soprannumerari!", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Lo stabilisce il Miur attraverso la circolare sulle istruzioni operative che regola le assunzioni: prima di assumere i precari, gli Usp dovranno verificare se gli oltre 7.300 docenti senza titolarità e alcune centinaia di Itp C999 e C555 posseggano titoli di studio abilitanti (si sorvolerà sull’abilitazione!) spendibili sui posti assegnati. Nelle stesse ore in cui la Camera approvava la spending review, come da noi annunciato nei giorni scorsi è stato il Miur a lanciare una ormai insperata ciambella di salvataggio ad alcune centinaia di Itp C999 e C555, altrimenti destinati a transitare (assieme agli inidonei) negli organici del personale Ata. Attraverso la circolare sulle istruzione operative sulle immissioni in ruolo, alla firma del direttore generale Luciano Chiapetta, viale Trastevere ha indicato agli Usr che “ l’ utilizzazione prioritaria deve essere esperita, verificando l’eventuale possesso di altro, idoneo titolo di studio, prima del previsto transito nei ruoli del personale Ata, anche nei riguardi del personale docente attualmente titolare nelle classi di concorso C999 e C555 di cui la comma 14 dell’art. 14 del DL n. 95/2012 ”. Ciò significa, in termini pratici, che in presenza di un titolo di studio qualsiasi, sempre comunque abilitante e che comporti una spendibilità in base ai posti disponibili, gli stessi Itp assorbiti dagli enti locali dovrebbero continuare ad essere collocati degli uffici scolastici territoriali sempre nelle fila dei docenti.
La stessa procedura, del resto, viene adottata anche per gli oltre 7mila soprannumerari del prossimo anno scolastico. A tal proposito la circolare del Miur “ richiama l’attenzione su quanto previsto dall’art. 2, comma 4 del presente DM, relativamente alla priorità di utilizzazione del personale in esubero prima di procedere alle nomine di cui all’oggetto, in applicazione dei criteri di cui al DL 95/2012 in corso di conversione ed in particolare sull’articolo 14, commi 17-20, ed all’art. 2 comma 3 dell’ipotesi di CCNI sulle utilizzazioni del personale scolastico ”. Anche in questo caso la “traduzione”, per i tanti che non conoscono a memoria leggi e riferimenti normativi, è che i prof in soprannumero potranno rosicchiare, avendo la precedenza, i posti riservati ai precari in procinto di vedersi assegnato l’agognato contratto di immissione in ruolo.
L’articolo 14 del DL 95/2012, quello sulla spending review per intenderci, indica infatti che “ a l personale dipendente docente a tempo indeterminato che, terminate le operazioni di mobilità e di assegnazione dei posti, risulti in esubero nella propria classe di concorso nella provincia in cui presta servizio, è assegnato per la durata dell’anno scolastico un posto nella medesima provincia, con priorità sul personale a tempo determinato, sulla base ” di una serie di criteri. Il primo dei quali prevede che i docenti privi di titolarità si vadano a collocare sui “ posti rimasti disponibili in altri gradi d’istruzione o altre classi di concorso, anche quando il docente non è in possesso della relativa abilitazione o idoneità all’insegnamento purché il medesimo possegga titolo di studio valido, secondo la normativa vigente, per l’accesso all’insegnamento nello specifico grado d’istruzione o per ciascuna classe di concorso ”.
La sintesi è che per soprannumerari ed ex dipendenti degli enti locali passati come Itp (sommando entrambi si forma un raggruppamento di oltre 7.500 insegnanti, in gran parte delle superiori) si cercherà sino all’ultimo una collocazione. Con gli Usp che andranno a verificare se i loro titoli di studio potrebbero trovare riscontro tra le vacanze dei posti assegnati ai ruoli. In caso negativo, per i primi scatterà la messa a “ disposizione per la copertura delle supplenze brevi e saltuarie ”, disposta direttamente dai dirigenti scolastici. Per i prof di laboratorio C999 e C555, invece, diventerò inevitabile il declassamento tra gli Ata. Che però potrebbe durare appena un anno: chi acquisirà il diploma di specializzazione sul sostegno potrà infatti tornare nel 2013/14 a fare l’insegnante.

La Tecnica della Scuola 09.08.12