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"Se i partiti vivono in un mondo sparito", di Ilvo Diamanti

Dopo Monti. Che ne sarà del sistema partitico italiano? Con quali alleanze e quali leader affronterà le prossime elezioni? Intorno alla legge elettorale: è difficile dire qualcosa. Le proposte dei diversi partiti sembrano fatte apposta per interdire quelle altrui. Mentre i contatti tra i leader e i partiti proseguono. Disegnano scenari futuri che riflettono quelli di un
tempo. Nel centrodestra, la Lega di Maroni non può ri-stabilire l’alleanza con il Pdl di Berlusconi. Per non smentire se stessa. Ma non può neppure prescinderne, come prospettiva. Soprattutto in caso di elezioni in Lombardia. Pena: l’isolamento. La marginalizzazione. Reciprocamente, il Pdl: non può escludere l’intesa con la Lega, su cui ha costruito la sua maggioranza da oltre dieci anni. Così entrambi i partiti si (contrad)dicono: nemici a parole, ma alleati in diverse occasioni. Come al Senato, di recente, nel voto a favore del semi- presidenzialismo. Pdl e Lega. Distanti, ma pronti a collaborare di nuovo. Dopo Monti.
Nel centrosinistra il progetto di Veltroni, del Pd partito unico e maggioritario, in grado di intercettare i voti dell’area di sinistra, è tramontato. Così si riapre la tradizionale questione. Quale coalizione? Centro-Sinistra o Centrosinistra senza trattino? Cioè, un’intesa fra Pd e Udc, aperta a Sinistra, cioè a Sel? Oppure un rapporto privilegiato fra Pd, Sel e Idv, raffigurato dalla cosiddetta “foto di Vasto”? (un’ipotesi difficile, dopo le critiche violente di Di Pietro contro Monti, Napolitano e, dunque, contro il Pd di Bersani). Le discussioni degli ultimi giorni non offrono risposte chiare, al proposito. D’altronde, nessuno dei principali attori politici, in questa fase, può permettersi di indicare un percorso rigido. Rinunciando ad altre soluzioni, ad altre intese e alleanze. Troppo fluido il campo politico. Troppo instabili e precari gli orientamenti dei mercati e, d’altro canto, i sentimenti dei cittadini. Così Casini annuncia che l’Udc correrà da sola, ma apre all’intesa con il Pd. Mentre Pd e Sel siglano un patto di solidarietà. E Bersani esprime interesse a un’intesa con l’Udc. Che Vendola non esclude. Di Pietro, invece, propone un cartello dei partiti antagonisti, che veda l’Idv insieme a Sel e al M5S. Subito rifiutato da Grillo e da Vendola. Insomma, dopo Monti: la confusione regna sovrana. Tutto è possibile e nulla è escluso. In questa transizione estiva. Parole e immagini: come dissociate. Asincrone. Come provenissero da un altro mondo. D’altronde, i mercati non vanno in ferie. Non si riposano. Anzi. E neppure la politica, quest’anno. I suoi protagonisti: impegnati a disegnare mappe e scenari per il prossimo futuro. Il dopo Monti. Seguendo gli stessi linguaggi e le stesse formule di ieri. Come se – dopo Monti – fosse possibile ripetere lo stesso copione. Con le stesse etichette, le stesse sigle, gli stessi calcoli. Di prima. Io penso che si tratti di ragionamenti in-fondati. Elaborati e proposti in modo inerziale.
Dopo Monti: non è possibile ripetere lo stesso schema di prima. Proviamo a fare qualche conto, sulla base dei sondaggi più recenti. Tendenzialmente, il Pd, insieme a Sel e l’Udc, può ottenere intorno al 35% dei voti. Mentre un’intesa fra il Pdl e la Lega raggiungerebbe a fatica il 25%. Il Pdl e lo stesso Pd, d’altronde, faticano a proporre e immaginare – nel senso di “raffigurare” alternative future, che li vedano reciprocamente antagonisti, quando coabitano sotto lo stesso tetto. A sostegno del governo Monti. I partiti di opposizione – della prima e della seconda ora – non sembrano, peraltro, monetizzare la loro (op)posizione. L’Idv e Sel si aggirano intorno al 6-7%. Come, d’altronde, il più convinto sostenitore del governo: l’Udc. La Lega, infine, non riesce, per ora, a superare la soglia critica del 5%. Insomma, i principali partiti dell’era berlusconiana hanno subito un sensibile calo nel corso del governo Monti. Tutti, senza eccezione. Unico beneficiario: il M5S. Emerso, anzi, esploso negli ultimi mesi. In occasione delle amministrative dello scorso maggio. È, ancora, stimato un po’ oltre il 20%. Poco sopra il Pdl. Non molto al di sotto del Pd. Intercetta il consenso di chi esprime dissenso verso il sistema partitico della Seconda Repubblica. Non solo il Pdl e i suoi alleati, ma anche i partiti di opposizione di centrosinistra. Che hanno accettato le regole e i modelli del gioco imposto da Berlusconi. (Alcuni, come l’Idv di Di Pietro, sono sorti e si sono sviluppati insieme al Cavaliere). Senza riuscire a rinnovarsi davvero. Neppure negli ultimi anni, quando il vento dell’antipolitica ha soffiato più forte. E continua, in questa fase, a spirare violento. Lo dimostra l’attenzione suscitata dal referendum promosso dall’Unione Popolare contro la diaria dei parlamentari. Un referendum sconosciuto, come il soggetto politico che lo ha lanciato. Un’iniziativa, peraltro, di dubbia costituzionalità, in quanto non è possibile indire referendum l’anno prima delle elezioni legislative. Per quanto “silenziata” dai media e, ovviamente, dai partiti, sembra che abbia raccolto un’adesione molto ampia. A conferma del clima ostile che agita settori molto estesi della società contro il sistema partitico e i “politici”.
Ebbene, dopo Monti – e dopo Grillo – non è possibile riproporre gli stessi schemi, le stesse etichette e gli stessi volti di prima. Perché – come ho già scritto – entrambi, per quanto diversi e perfino alternativi, segnalano la crisi della nostra democrazia rappresentativa, oltre che del Berlusconismo. Il grado di fiducia, ancora elevato, di cui dispone Monti: rivela la domanda di una classe politica migliore. Competente e di qualità.
Il risultato alle amministrative e il largo consenso riconosciuto dai sondaggi al M5S sono proporzionali al vuoto dell’offerta politica. Esprimono la critica “dal basso”, verso una classe politica lontana dai cittadini. E non migliore di essi (anzi…). Le ipotesi di cui discutono i partiti e i leader risultano, per questo, inattuali. Come le mappe storiche che colleziono, disegnano confini e Paesi che non esistono più. Comunque, irriconoscibili, rispetto al presente. Come l’Italia pre-unitaria. Oppure l’Europa prima della fine della Yugoslavia e dell’Urss. Ma, dopo Monti, sono cambiate le mappe e le bussole della politica del Paese. Siamo entrati in un’epoca geopolitica diversa.
Nulla resterà come prima.

La Repubblica 06.08.12

"Italia ed Europa, con pochi giovani la società soffoca", di Carlo Buttaroni*

Tra il 1850 e il 1950 la popolazione del pianeta è cresciuta di 1,3 miliardi d’individui. Nel 2050 si stima che la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi, con un incremento di 6,6 miliardi rispetto a cento anni prima. La crescita della popolazione ha origine essenzialmente nell’aumento dell’attesa media di vita che, negli ultimi cento anni, è più che raddoppiata. Si vive più a lungo, ma in compenso nascono meno bambini (4,3 per donna negli anni Settanta contro i 2,6 attuali). La conseguenza di questo processo demografico è il capovolgimento della piramide delle età, prima caratterizzata da un’ampia base costituita da giovani e che da qualche anno si sta riducendo velocemente. Un fenomeno impetuoso e recente che sta invertendo il segno che aveva fin qui caratterizzato l’equilibrio tra nuove e vecchie generazioni. Nel 2045, per la prima volta nella storia dell’umanità, gli anziani (cioè le persone con più di sessant’anni) e i giovani (con meno di quindici) rappresenteranno la stessa quota della popolazione mondiale. In Europa, il passaggio della staffetta tra giovani e anziani è avvenuto all’inizio degli anni Novanta e, oggi, il fenomeno più rappresentativo è proprio il progressivo pensionamento della generazione nata negli anni del «boom demografico», che garantì al sistema produttivo le risorse umane necessarie a sostenere la crescita economica e ai sistemi di welfare un ampio bacino di approvvigionamento finanziario. Oggi le nuove generazioni europee non sono sufficienti a sostituire quelle che escono dal mercato del lavoro per anzianità e il sistema presenta una crescente sproporzione, in percentuali, tra popolazione attiva e popolazione non attiva. Oltretutto, se da un lato si assiste a un notevole prolungamento della vita media e del periodo di permanenza degli anziani a carico del sistema di protezione sociale, dall’altro cresce anche il numero di anni che precedono l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Le cause principali di questo ritardo sono da rintracciare nell’elevato livello di competenza oggi richiesto e nella carenza di posti di lavoro. La conseguenza di questo stato di cose è un sistema sempre meno sostenibile dal punto economico e meno stabile, nel momento in cui la base fiscale si riduce e contestualmente aumentano i costi determinati dall’aumento della popolazione anziana a carico del sistema stesso. Rubinetti chiusi Le entrate e la spesa pubblica, infatti, risentono delle caratteristiche anagrafiche della popolazione. Le prime derivano dalla tassazione dei redditi di lavoro e, quindi, il periodo di massima contribuzione degli individui coincide con l’età lavorativa adulta; le punte massime della spesa pubblica si concentrano, invece, nelle due fasce estreme: la prima tra 0 e 20 anni e la seconda tra i 60 e gli 80 anni, con il secondo picco che supera abbondantemente il primo. L’evoluzione demografica è stata finora in equilibrio, ma è una situazione destinata rapidamente a cambiare in peggio. Se, da un lato, le entrate sono destinate a ridursi in rapporto alle generazioni in grado di produrre reddito, la spesa pubblica per la previdenza e l’assistenza degli anziani è destinata a crescere in relazione all’aumento dei beneficiari del sistema pensionistico e socio-assistenziale. Se la curva demografica è quella attuale, la manodopera necessaria all’espansione del sistema produttivo dovrà essere cercata tra le risorse già presenti nella popolazione, attraverso l’incremento dei tassi di attività della popolazione in età lavorativa. Nei prossimi anni la mobilitazione della forza lavoro sarà un fattore strategico per l’espansione dell’apparato produttivo e per la tenuta del sistema stesso. La questione dell’equilibrio finanziario del sistema sociale è sicuramente la sfida dell’Europa. Ma esiste anche un problema considerato, erroneamente, meno «attuale» rispetto alle ricadute economiche dell’invecchiamento della popolazione: il tema dell’accesso, dell’equità e delle pari opportunità. Riguarda in primo luogo gli immigrati, le donne, gli anziani e soprattutto i giovani. I flussi immigratori extracomunitari hanno, finora, in parte mitigato gli effetti dell’invecchiamento della popolazione europea, sostenendo la crescita demografica e l’offerta di lavoro di molti paesi con saldo naturale negativo come la Germania, l’Italia e la Grecia. Bisogna, però, tener conto che anche gli immigrati invecchiano e il flusso immigratorio compensativo può essere alimentato solo attivando processi integrativi reali che ne facilitino l’inserimento e la permanenza. Un secondo problema di accesso e pari opportunità è quello che riguarda la divisione sociale del lavoro tra uomini e donne. L’aumento del numero di anziani bisognosi di cure, nei prossimi anni, farà aumentare la domanda di assistenza, ma la conseguente crescita della spesa pubblica porterà al trasferimento di parte del carico assistenziale dalle casse pubbliche alle tasche delle famiglie. Sulle donne graverà la maggior parte delle responsabilità del lavoro di cura verso gli anziani della famiglia, in aggiunta al lavoro domestico e alla cura dei figli da un lato e alla carriera professionale dall’altro. Ed ecco l’ennesima contraddizione: se la manodopera necessaria allo sviluppo economico dovrà derivare da una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, questo carico di responsabilità, ancora così poco condiviso, rende difficilmente conciliabile il lavoro e la gestione delle problematiche familiari. L’esclusione dal lavoro Esiste, inoltre, un ulteriore problema di accesso e pari opportunità è l’esclusione dal sistema produttivo e formativo della componente anziana della forza lavoro. I dati Eurostat dimostrano che in tutti i paesi dell’Unione europea il tasso di occupazione della popolazione anziana è tanto più alto quanto più elevato è il titolo di studio, ma tra le categorie che beneficiano dell’istruzione e della formazione i lavoratori anziani sono attualmente i meno favoriti. Il presupposto di base è che una risposta adeguata all’invecchiamento non debba limitarsi a considerare le persone anziane di oggi, ma debba tener conto di tutto il ciclo di vita e interessare i soggetti di tutte le età. Infine i giovani. L’evidenza che continueranno a essere pochi è scritta nel basso tasso di fecondità. A questo si aggiungono il ritmo lento della transizione alla vita adulta e il ritardato ingresso nel mondo del lavoro. Un altro aspetto è la scarsa dinamicità sociale che caratterizza le nuove generazioni. Se la generazione dei genitori rappresenta il principale «provider» dei figli e, allo stesso tempo, il principale ammortizzatore sociale di cui possono beneficiare, è inevitabile che, nel futuro, tenderanno a riprodursi le disuguaglianze proprie delle generazioni più anziane. Questo perché la mobilità sociale tende a bloccarsi nel momento in cui le possibilità dei giovani sono collegate esclusivamente alle risorse, di tipo economico, intellettuale o sociale, che i genitori possono trasferire. Come si può intuire, in questa dinamica, l’invecchiamento politico è una diretta conseguenza. Non solo dal punto di vista anagrafico, ma anche delle politiche che dovrebbero accompagnare la crescita economica di tutta la società. Il rischio, dunque, è duplice: quello di un’ulteriore, progressiva perdita di rappresentanza politica dei giovani e l’affermarsi di élite autoreferenziali in tutti gli ambiti rilevanti della vita pubblica. Per i giovani italiani, la condizione di svantaggio è ancora più evidente rispetto sia alle generazioni precedenti, sia ai coetanei degli altri paesi sviluppati: sono meno aiutati dal sistema di welfare pubblico, hanno salari d’ingresso più bassi e il sistema previdenziale è squilibrato e iniquo rispetto a quelli delle generazioni che sono uscite o stanno uscendo dal mercato del lavoro. La crescita dell’aspettativa di vita è sì una conquista dell’umanità, ma bisogna intervenire per non farla diventare il capolinea del progresso, investendo sulle donne e sui giovani, sulla ricerca e sul lavoro. Occorre, cioè, costruire una nuova consapevolezza socia
le per tornare a vedere il futuro come un territorio da conquistare anziché un luogo dove consumare le ultime risorse rimaste.

*Presidente Tecnè

L’Unità 06.08.12

"Il debito: l’agosto senza rete di Italia e Spagna pochi bond in scadenza, poi si spera in Bce", di Maurizio Ricci

La rete di protezione dell’euro decisa dalla Banca centrale europea non è ancora in funzione. Ci si domanda a questo punto se agosto possa riservarci, in assenza di quel sistema protettivo, brutte sorprese. Se cioè potremmo assistere a ondate speculative contro la Spagna e contro l’Italia. Per rispondere a questa domanda, bisogna andare a vedere in che misura i due Paesi dovranno ricorrere al mercato per rinnovare i titoli di Stato in scadenza questa estate e dalle parole di Mario Draghi a chiusura della riunione della Bce, quella rete di protezione dell’euro, che molti reclamano da tempo, non è più una chimera: la Banca centrale europea è decisa ad intervenire, per impedire che un paese venga costretto, dalle onde dei mercati, ad abbandonare la moneta unica. Nei fatti, però, la rete ancora non esiste: c’è solo l’ombrello del Fondo salva-Stati, che i più giudicano insufficiente. La rete Bce sarà in grado di agire, probabilmente, solo a settembre, quando ne saranno stati definiti i dettagli tecnici. A prima vista, è un buco inquietante, che misureremo già da oggi: agosto è un mese traditore, dove l’assenza di molti operatori rende più facili le ondate speculative e il panico si propaga più facilmente. É in grado l’euro di reggere quattro-cinque settimane ballando sul filo, senza rete, o può essere abbattuto da un default improvviso?
In realtà, è improbabile che le due candidate, Spagna e Italia, si trovino, nei prossimi due mesi, di fronte ad uno sciopero degli investitori che rifiutano di finanziarne il debito o sono disposti a farlo solo a tassi che il rispettivo Stato sa che non può pagare, lasciando la bancarotta come unica alternativa. Il motivo di questo ottimismo è, semplicemente, il calendario. Qui, conta il mercato primario, le aste in cui i governi incassano direttamente i soldi degli investitori, non quello secondario, dove gli investitori si scambiano i titoli fra loro. E Italia e Spagna, da qui a fine settembre, hanno assai poco da chiedere ai mercati, nelle aste di titoli pubblici. In questi due mesi, Madrid conta di emettere titoli per non più di 18 miliardi di euro. Di questi, tuttavia, meno di 2 miliardi riguardano aste di titoli con scadenza superiore a tre anni. Il grosso ha una scadenza inferiore a 15 mesi. La differenza è importante, perché i titoli a breve sono quelli su cui Draghi ha annunciato l’intervento della Bce e l’effetto immediato sui mercati è già stato una discesa vertiginosa dei relativi tassi: difficile che, nelle prossime settimane, a meno di una tempesta, il Tesoro spagnolo
si ritrovi preso per il collo nelle aste di questi titoli. Per l’Italia, le cifre sono assai più pesanti: sono in programma aste per quasi 60 miliardi di euro. Anche qui, però, solo 12 miliardi di euro (a settembre) riguardano titoli a lunga scadenza. Il resto sono titoli a breve, coperti, almeno per il momento, dall’effetto Draghi. Sia per Roma che per Madrid, i problemi veri arriveranno ad ottobre, con aste parallele di titoli a lunga scadenza, ognuna per 20 miliardi di euro.
Insomma, non è vero, per ora, che chi va in vacanza è un traditore. L’Europa sembra in grado di attendere gli snodi cruciali di settembre, a cominciare dalle modalità di intervento della Bce: la rete di protezione disegnata da Draghi ha, infatti, probabilmente non a caso, ancora molti buchi. Sul principio della rete di protezione, il presidente della Bce ha isolato in minoranza la Bundesbank, ma sarebbe assai faticoso condurre gli interventi con la più importante Banca nazionale che gli spara dai fianchi. Una tregua con la Bundesbank passa, probabilmente, per la soluzione di alcune questioni solo apparentemente tecniche, che Draghi, per ora, ha lasciato sullo sfondo o in sospeso e che riguardano, tutte, i limiti di impegno per i salvataggi della Bce e, per questa via, dei governi e dei contribuenti europei, tedeschi in prima fila.
La prima riguarda l’entità dei futuri interventi. I manuali di domatori dei mercati spiegano che, se si vuol spendere poco, bisogna impegnare tanto. Anzi, non porre limiti all’intervento. Ovvero, solo mettendo in campo un terrificante bazooka si spaventano i ribassisti quanto basta per metterli in fuga e, quindi, paradossalmente, spendere poco. Draghi ha parlato di “dimensioni adeguate a raggiungere l’obiettivo” e, quindi, di interventi potenzialmente illimitati: quale che sia il risultato finale, le cifre messe in campo inizialmente saranno certamente in grado di rendere nervosa la Bundesbank. Dipende peraltro — seconda questione — da cosa Draghi intende per “obiettivo”: una generica riduzione degli spread o una quantificazione precisa del livello di differenziale (ad esempio, 300 punti fra Italia e Germania, invece degli attuali 450-500) che Francoforte ritiene giustificato e che intende, dunque, raggiungere a qualsiasi prezzo? Ancora, il costo potenziale degli interventi della Bce, oltre che alla loro entità, è legato anche al loro status: i titoli che Francoforte acquisterà avranno un trattamento privilegiato, rispetto a quelli comprati dai normali investitori? Così è stato per il debito greco, dove i crediti dei privati sono stati tosati e quelli delle istituzioni europee no. I soldi dei contribuenti europei che finanziano la Bce sono stati tutelati, ma il bilancio dell’operazione è negativo: gli investitori sanno che, se interviene Francoforte, il loro credito varrà di meno, in caso di bancarotta, ed è meglio tenersi lontani dai titoli che compra la Bce. Draghi ha fatto capire che la Bce è pronta a rinunciare a questo privilegio, ma una decisione deve essere ancora presa.
In sospeso c’è anche una questione che, più che i bilanci Bce, riguarda il complesso della politica economica e gli stimoli alla ripresa. Nel precedente round di acquisti (limitati) di titoli pubblici, la Bce si preoccupò, come dicono i tecnici, di sterilizzare questi esborsi. Poiché, per comprare titoli, Francoforte stampa nuovi euro, che vanno ad aumentare la massa di moneta in circolazione, c’è il rischio che questa moneta in più favorisca l’inflazione. Per questo, la Bce sterilizzava queste emissioni, con operazioni di segno opposto: vendendo cioè altri titoli per un ammontare equivalente e ritirando i relativi euro dal mercato.
Tutto il contrario di quanto hanno fatto Federal Reserve e Banca d’Inghilterra con le manovre di “quantitative easing” per stimolare la ripresa: più moneta in circolazione, infatti, significa credito più facile, consumi e investimenti più attraenti. E ora? I futuri interventi della Bce saranno sterilizzati o no? I frequenti richiami di Draghi, in questi giorni, alla riduzione del rischio di inflazione e alla possibilità di operazioni “non convenzionali” fanno pensare che il presidente della Bce non sia contrario a manovre di stimolo monetario, sul modello Fed. Gli allarmi che il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ha ripreso a lanciare, proprio in questi giorni, sui rischi di inflazione che gli interventi della Bce potrebbero alimentare, fanno pensare che la Buba la veda in modo esattamente opposto. Anche questo è un braccio di ferro.

La Repubblica 06.08.12

"A Berlino molti pregiudizi e qualche verità", di Stefano Lepri

Come facciamo a convincere i tedeschi che non vogliamo i loro soldi? Mario Monti ce l’ha messa tutta questa volta, nell’intervista apparsa ieri. Forte della sua competenza, di nuovo ha tentato di spiegare che l’aiuto a Grecia, Irlanda, Portogallo l’abbiamo pagato noi più che loro, e che ai tassi attuali sul debito pubblico sono gli italiani e gli spagnoli a sovvenzionare i tedeschi, non il contrario. Farsi capire non è facile. In Germania oggi le difficoltà dell’unione monetaria non stanno soltanto producendo un disincanto di massa verso l’integrazione europea, speculare a quello che vediamo anche da noi. C’è anche un fenomeno culturale che coinvolge una parte della classe dirigente tedesca, incline a ritenere di aver ragione contro tutto il resto del mondo o quasi.

La scoperta che dal prolungarsi della crisi la Germania guadagna l’ha già strillata come scoop al suo pubblico assai popolare il quotidiano Bild la settimana scorsa. Sessanta miliardi di euro negli ultimi trenta mesi era il calcolo; diversi esperti lo ritengono abbastanza verosimile. Eppure, poco si è smosso. I populisti si gloriano di questa ulteriore prova successo della patria; i più fanno finta di non vedere.

Che cosa sta accadendo sui mercati lo hanno spiegato benissimo al New York Times di venerdì scorso alcuni operatori finanziari. Sanno che i titoli di Stato italiani, agli attuali alti rendimenti, sarebbero un ottimo affare; ma continuano a venderli invece di comprarli per paura che tra i loro colleghi prevalga uno «tsunami di pessimismo collettivo» capace di spingere l’Italia al dissesto.

Questa è la realtà che molti economisti tedeschi negano; la loro teoria non la contempla, dunque non esiste (in chi al liceo ha penato sui Promessi Sposi affiora un ricordo…). Sostengono che rendimenti al 6-7% per il debito di Italia e Spagna sono razionali, anzi ben gli sta. Ciò che ora brucia è che la Bce abbia riconosciuto quella realtà, contrario il solo rappresentante della Bundesbank. Sta qui l’importanza delle decisioni di giovedì scorso, come ha sottolineato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.

Il nuovo nazionalismo tedesco perlopiù risponde parlando d’altro, in un corto circuito pericoloso tra demagogia elettorale e dogmi di un mondo accademico conformista. Si accusano i Paesi del Sud e la Francia di voler condurre la Bce a stampare moneta per finanziare gli sprechi dei politici, come avveniva nel loro passato. Quale passato, per noi? In Italia l’irresponsabile pratica era stata interrotta già nel 1981, grazie a Carlo Azeglio Ciampi e a Nino Andreatta; dieci anni prima del Trattato di Maastricht.

Nello stesso tempo dobbiamo riconoscere che diversi eventi italiani hanno contribuito ad alimentare la sfiducia tedesca. Negli Anni 90 i due Paesi soffrivano di mali simili; durante il decennio successivo a Berlino si sono succeduti governi capaci di curarli, a Roma no. Il troppo spiccio invocare gli eurobond da parte dei nostri politici tradisce il desiderio che i tedeschi paghino una parte del conto per noi.

È buono, seppur sia anche bizzarro, che il compromesso uscito dal consiglio della Bce preveda una condizionalità politica agli interventi per domare i mercati (proprio perché si tratta di raddrizzarli, non si creerà moneta in eccesso). Esploriamo un territorio nuovo, dove in ogni momento occorre verificare che cosa va deciso con il voto dei cittadini e che cosa è compito dei tecnici. In entrambi i Paesi, si deve guardare più allo spirito che alla lettera delle Costituzioni che ci hanno dato la democrazia alla fine degli Anni 40; e i Trattati europei, se serve, si modificano.

La Stampa 06.08.12

"La Germania, l'Italia e i veleni dell'Unione", di Carlo Galli

Il sentimento antitedesco in Italia esiste. Si nutre di stereotipi antichi e collaudati, di memorie non remotissime, di dolori ancora brucianti. Di luoghi comuni letterari presenti in padri della cultura italiana e europea come Dante e Petrarca (i “tedeschi lurchi”, il “furor di lassù, gente ritrosa”) e, spesso, di trivialità da bar sui “crucchi” e le loro cancelliere. Ed esiste un sentimento anti-italiano in Germania. Anche in questo caso, si va dalla polemica di Lutero contro il Papa e la curia romana, al pregiudizio negativo, alimentato anche dai giornali, contro la nostra mediterranea cialtroneria e la nostra subdola viltà – l’emblema degli italiani sarebbero Machiavelli, suggeritore di frodi e di inganni (l’esatto opposto della Deutsche Treue, della lealtà tedesca di cui parla lo stesso inno nazionale germanico) e, insieme, l’inqualificabile Schettino –. Ovvero, l’Italia è quella che tradisce la Germania in due guerre mondiali; è l’Italia della copertina dello Spiegel nel 1977, con il piatto di spaghetti dei “makaroni” e la pistola dei terroristi.
Di quando in quando, tutto ciò esce dalle sentine delle mentalità meno acculturate e diventa discorso pubblico: nulla di meglio, a questo scopo, del calcio, grande veicolo di identificazione nazionale. Così, dal Messico nel 1970 alla Polonia del 2012 ogni nostra vittoria era la risposta alla solita, eterna, arroganza teutonica. Finché la polemica sfugge di mano: al naufragio della Costa Concordia, su cui in Germania si era fatta facile e sprezzante ironia, i giornali di destra hanno risposto con Auschwitz; stupida la posizione tedesca, blasfema quella italiana che usa per una querelle grottesca il più grande Male della storia.
Che oggi stereotipi e pregiudizi divengano questioni politiche non è un caso. Deriva dal cattivo funzionamento della macchina della Ue, il cui aspetto più facilmente percepibile, e più utile alla propaganda, è la effettiva e innegabile potenza economica tedesca. Che ha messo a suo tempo la Germania in grado di esigere un euro funzionante come il marco, e di ottenerlo; e, ora, di opporsi a strappi troppo bruschi e palesi al sistema di regole che da Maastricht in poi sono state poste e rafforzate per fare della moneta unica europea una fortezza inespugnabile.
Il che non è avvenuto – con grande rabbia e paura dei tedeschi – perché la moneta senza unità politica, almeno federale, non regge. E infatti su questa moneta si riverberano come crepe minacciose i differenziali di efficienza e di serietà organizzativa dei singoli Paesi – gli spread misurano, salvo distorsioni speculative, proprio questo –. Si dirà che stare alle richieste tedesche implica accettare un’Europa germanizzata, costruita intorno alla produzione per l’esportazione – e quindi impossibile da realizzare –. Si dirà che la pretesa tedesca che si pensi all’Unione federale – in sostanza, a mettere in comune i debiti, o almeno una parte di essi – solo dopo che i singoli Stati hanno fatto ordine nei propri bilanci effettuando le riforme strutturali che servono a mantenerli a posto, è solo un pretesto per lucrare, nel frattempo, sullo squilibrio esistente fra Germania e resto d’Europa: uno squilibrio che porta i capitali a rifugiarsi in Germania, e quindi la Germania a rafforzarsi sempre più rispetto agli Stati più deboli. Che, insomma, la Germania per la terza volta in meno di cent’anni sta cercando di dilagare in Europa – senza sangue, questa volta, ma con maggiore efficacia –.
A queste argomentazioni si può rispondere che il dislivello economico e organizzativo fra la Germania e il resto d’Europa (soprattutto quella del Sud) è reale, che ha precise e oggettive radici storiche e politiche: senza essere una potenza di dimensioni continentali, tuttavia la Germania ha una scala fisica, demografica, economica, scientifica, superiore a quella degli Stati europei; e che, proprio per questo, per togliere alla Germania la paura dell’Europa (che l’Europa distrugga l’euro, e anche la zona di libero scambio) e all’Europa la paura della Germania (che la Germania dilaghi in Europa) c’è un’unica soluzione: l’Europa federale. Ovvero il passaggio consensuale a una dimensione continentale della politica (almeno fiscale) e dell’economia, l’unica dimensione in grado di reggere le spinte della globalizzazione. Un passaggio che deve vincere la miopia di una parte dell’opinione pubblica e del ceto politico tedesco, certo, ma anche una miopia uguale e contraria presente anche in altri Stati. Non è quindi una questione di vecchi stereotipi, ma di una grande sfida del presente, che forse non molti leader politici europei sono in grado di affrontare. Ma arrendersi ora sarebbe davvero l’ultimo grande errore della storia del vecchio continente.
Quando gli Stati nazionali erano il futuro e il progresso, un pittore tedesco, Johann Friedrich Overbeck, nel 1828 dipinse un quadro in cui Italia e Germania sono raffigurate come due fanciulle meste che attendono, unite e amiche, la libertà. Oggi, invece, per certi profili, lo Stato nazionale è il passato, e gli stereotipi xenofobi, che hanno preso il posto di quella fiduciosa raffigurazione, sono una risposta vecchia, perdente e subalterna ai problemi dell’oggi. Una risposta che nasce da politiche di basso profilo che al protagonismo preferiscono il piccolo cabotaggio fra i giganti dell’età globale; che hanno in mente, per gli italiani, un futuro antico, fatto della solita furbizia, condita di vittimismo e patetico e di nazionalismo che sarebbe ridicolo se non fosse, come si sa, l’ultimo rifugio dei mascalzoni.

La Repubblica 06.08.12

Scuola, Puglisi (PD): Ministro risponda su docenti zone sisma e precari

Dichiarazione di Francesca Puglisi Responsabile Pd Scuola. Le belle parole e le belle visioni per la scuola non bastano. Servono fatti. A partire dall’emergenza delle scuole terremotate che attendono l’assegnazione dei 1000 docenti in più per poter affrontare il prossimo anno scolastico. Con la Spending Review si lasciano a casa 15.000 precari, non si pagano le ferie non godute ai precari, si mandano i docenti ammalati a fare i bidelli. Perché tanto accanimento? Il Ministro risponda.

"Con le fabbriche ferme non ci sarà alcuna ripresa", di Laura Matteucci

«Il problema non è più la chiusura o meno di uno stabilimento. Ormai è in discussione la permanenza stessa del gruppo in Italia, l’assetto societario, i livelli occupazionali di tutti gli stabilimenti. La domanda vera è che cosa conservare di questa azienda». Ma Marchionne ancora l’altro giorno ha ribadito non mollo l’Italia , e non si è parlato di chiusure di fabbriche. «Se è per questo, aveva anche dichiarato che avrebbe prodotto 1 milione e 600 vetture, tra auto e non, entro il 2014: mi sembra evidente non riuscirà a mantenere la promessa. Sono dichiarazioni che attengono nella migliore delle ipotesi alla speranza, nella peggiore alla propaganda. Mi lascia perplesso che sindacalisti accorti, come il segretario della Cisl Bonanni, non si rendano conto degli impegni disattesi. Sono proprio loro, i firmatari dell’accordo, che dovrebbero essere veramente furiosi». È il deserto nelle fabbriche Fiat: il problema non sono le ferie d’agosto, ma la cassa integrazione che, anche alla riapertura dei cancelli, tra fine mese e inizio settembre, le costringerà alla produzione a singhiozzo. A Mirafiori, per dire, si lavora 3 giorni al mese da quasi un anno e, visto che il piano produttivo è congelato, si rischia di andare avanti così per chissà quanto ancora. Ne parliamo con Giorgio Airaudo, responsabile auto per la Fiom Cgil che, da Torino, segue da sempre la Fiat. L’incontro con i sindacati firmatari si è chiuso con un rinvio all’autunno: lei che cosa si aspetta? «Marchionne ha rimandato tutti ad ottobre, quando presenterà il piano per l’Europa, che peraltro riguarda soprattutto l’Italia, visto che gli unici altri stabilimenti nel continente sono uno in Serbia e l’altro in Polonia. Si tratterà di capire, una volta conclusa l’operazione di acquisizione della Chrysler, che cosa intenda conservare di questa azienda. Prendiamo Mirafiori: il piano per i nuovi prodotti è rinviato a fine 2013 ma, quand’anche venisse scongelato, la proposta sarebbe di lavorare su due prodotti al massimo, mentre all’arrivo di Marchionne funzionavano 5 linee per 7 prodotti. Negli altri stabilimenti la situazione non è diversa: la Panda non sta certo occupando tutti i 5mila lavoratori di Pomigliano, per dire. Insomma, il piano Fabbrica Italia è stato seppellito definitivamente, abbiamo di fronte una proprietà che, attraverso la Exor, investe per il 70% fuori dall’auto e fuori dall’Europa, e che ha dato compito al management di proporre un nuovo azionariato. Tra l’altro, di scritto per l’Italia c’è poco o nulla, mentre in Serbia, Stati Uniti, Russia, sono state sottoscritte pagine e pagine di accordi. In questo, c’è anche una chiara responsabilità dei governi: quello precedente innanzitutto, ma l’attuale non è da meno. Il governo dei tecnici non capisco come possa pensare alla crescita senza una strategia produttiva, come creda di attrarre investimenti se poi non viene nemmeno aperto un confronto con la Volkswagen, che ha chiesto di rilevare il marchio Alfa Romeo. In tutto questo, i lavoratori sono stati lasciati soli, e ad una crisi pesante si sono aggiunti gli errori di Marchionne». Quali errori? «Ha immaginato una crisi dura ma rapida, invece perdura da anni. Non è uscito con nuovi modelli, e a questo punto chi si sta risollevando sono i tedeschi e gli asiatici, che iniziano a vedere i ritorni degli investimenti di lungo periodo fatti in Europa. E le quote di mercato perdute sarà molto dura riuscire a recuperarle». All’inizio del nuovo Millennio, e data la situazione globale, si potrebbe pensare ad auto diverse… «Peccato che, a margine di una trattativa, sulle auto elettriche e ibride fu proprio Marchionne a confidarmi l’azionista non mi dà i soldi . Parlo di 3,4 anni fa, prima della guerra che ha deciso di intraprendere con i lavoratori. Ma da allora non è cambiato nulla in questo senso».

L’Unità 05.08.12