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"Che fine ha fatto l'attuazione dell'autonomia?", di R.P. da La Tecnica della Scuola

L’articolo 50 della legge 35 del 6 aprile scorso dava al Ministro due mesi di tempo per emanare linee guida per l’attuazione dell’autonomia. A tutt’oggi non si hanno notizie in merito. Come al solito è probabile che ci siano ostacoli di natura finanziaria. Il CNPI non segnala il ritardo ma attribuisce erroneamente alla legge 35 la novità dell’autonomia statutaria. Il termine di due mesi previsto dall’articolo 50 della legge 35 con cui era stato convertito il decreto n. 5 dello scorso febbraio (il cosiddetto “decreto sviluppo”) è ormai ampiamente scaduto e nulla è dato di sapere sulle reali intenzioni del Ministro rispetto alle linee guida per l’attuazione dell’autonomia.
Il dato strano è che neppure il CNPI, nel parere espresso di propria iniziativa in materia di autonomia e autogoverno della scuola, ha evidenziato questa “dimenticanza” del Ministro premurandosi invece di stigmatizzare l’ipotesi dell’autonomia statutaria contenuta nella legge 35 (ma, a dire il vero, in nessun punto della legge si parla né di statuti né tanto meno di organi collegiali).
L’articolo 50 della legge prevede anche che le linee guida vengano sottoposte al parere della Conferenza unificata ma, almeno fino ad oggi, nessuno documento su questo argomento sembra essere stato trasmesso dal Governo alla Conferenza.
Insomma, l’applicazione delle norme in questione dovrà attendere ancora.
Ma di che si tratta, in concreto ?
Le linee guida, secondo la legge, dovrebbero riguardare il potenziamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, il cosiddetto “organico dell’autonomia” oltre che la costituzione di reti di scuole con e del relativo organico.
E’ molto probabile che Il ritardo dell’operazione sia legato al fatto che le linee guida devono essere concordate con il Ministero dell’Economia che, come di consueto, presterà la massima attenzione agli aspetti contabili.
Ed effettivamente è difficile capire come si potranno attivare organici di rete o di altro genere “senza maggiori oneri per la finanza pubblica” come recita l’ultimo comma dell’articolo 50 della legge 35.

"Non siamo giapponesi", di Leonardo Tondelli

Io credo che il rumore della scossa del 29 non me lo scorderò più. Però è anche vero che assomiglia ad altri rumori, che da quel giorno in poi mi fanno un po’ male al cuore. I tuoni, per esempio, e questo mi ha fatto odiare gli acquazzoni estivi. Anche gli aeroplani certe volte mi spaventano. Lo sciame sismico è snervante: puoi mantenere i nervi saldi durante una scossa di magnitudo 5.9 per poi impazzire perché hai sentito un tuono. E ogni tanto le sirene alla finestra ti dicono che qualcun altro ha il cuore più debole del tuo. Mentre notavo queste cose, e in farmacia il Lexotan andava via come il pane, un giornalista prestigioso, uno di quelli che girano il mondo e chiacchierano con tutti, visitava le tendopoli, assaggiava i tortellini, e decideva che il morale era alto, perché… Perché gli emiliani sono così, sempre di buonumore. Siccome poi il giornalista riteneva necessario trovare un compromesso sul tema del giorno – l’annosa polemica della parata – decise testé di proporre su internet il seguente referendum consultivo: che ne pensate di far volare le Frecce tricolori, invece che a Roma, sui terremotati? Sarebbe un bel gesto di solidarietà, non è vero? Un bell’invito a… come si dice da voi? A tener botta.

Racconto l’episodio perché secondo me è indicativo di dove ci porta la retorica dell’emiliano solare e proattivo. Quello dopo un piatto di tortellini aveva partorito l’idea di esprimerci solidarietà facendoci sentire il rombo delle Frecce tricolori, a tutti quanti. E se a tre o quattro anziani, in case di riposo dislocate in luoghi di fortuna, fossero saltate le coronarie, nessuno avrebbe fatto il collegamento. Bisogna smettere di offrire tortellini alla gente. Poi si convincono che noi stiamo bene e siamo pronti a ripartire. Non stiamo affatto bene. Forse non siamo pronti a ripartire.

Su internet c’è un brano che è girato così tanto che non riesco più a capire chi lo abbia scritto (dev’essere almeno passato per «Il Resto del Carlino»). Ormai è di tutti quelli che l’hanno condiviso. Il motivo di tanto successo credo sia evidente:

«Gli emiliano-romagnoli sono così. Devono fare una macchina? Loro ti fanno una Ferrari, una Maserati e una Lamborghini. Devono fare una moto? Loro costruiscono una Ducati. Devono fare un formaggio? Loro si inventano il Parmigiano Reggiano. Devono fare due spaghetti? Loro mettono in piedi la Barilla. Devono farti un caffè? Loro ti fanno la Saeco. Devono trovare qualcuno che scriva canzonette? Loro ti fanno nascere gente come Dalla, Morandi, Vasco, Ligabue e la Pausini. Devono farti una siringa? Loro ti tirano su un’azienda biomedicale. Devono fare quattro piastrelle? Loro se ne escono con delle maioliche. Sono come i giapponesi, non si fermano, non si stancano, e se devono fare una cosa, a loro piace farla bene e bella, ed utile a tutti… Ci saranno pietre da raccogliere dopo un terremoto? Loro alla fine faranno cattedrali».

Questi sono i tipici discorsi che l’emiliano amerebbe ascoltare – se esistesse. Ma forse non esiste, e comunque chi non amerebbe sentirsi descrivere così. Siamo bravi, abbiamo fatto la Ferrari e il Parmigiano Reggiano, quindi uno sciame sismico cosa vuoi che sia? Ci risolleveremo, perché pare sia una caratteristica tipica degli emiliani, risollevarsi. Questi discorsi ci aiutano a crearci un’identità – una cosa piuttosto labile, in Valpadana, dove tanti sono arrivati negli ultimi sessant’anni – e a farci coraggio; e indubbiamente in questo periodo ne abbiamo bisogno. Però, se uno ci riflette un attimo, sono solo parole. Non vogliono dire quasi niente.

Per accorgersene basta riandare al terribile sisma dell’Aquila, rileggere gli articoli, riascoltare le dirette tv. Per scoprire che in Italia c’era, a detta dei commentatori, almeno un altro popolo indomito e fiero che non si sarebbe fatto impressionare dal terremoto, gli aquilani appunto. Anche loro avrebbero ricostruito tutto alla svelta. Quando si è capito che non sarebbe andata così, a uno stereotipo (il fiero aquilano indomito ricostruttore) ne è immediatamente subentrato un altro: il pigro meridionale fatalista, se l’Aquila è ancora una maceria è colpa sua. Quando dopo il sisma del 20 maggio pensarono bene di intervistare il ferrarese Vittorio Sgarbi, la condanna fu senza appello:
«Sono molto ottimista perché conosco la disponibilità psicologica emiliana, il senso civico, imprenditoriale, amministrativo. Insomma, non staranno fermi e sono convinto che tra un mese saranno già ripartiti. All’Aquila son passati tre anni, ma è tutto esattamente come all’indomani del sisma. Stanno mani in mano, ad aspettare».

Conviene ricordarsele, le parole di Sgarbi, per capire cosa potrebbe capitare tra qualche anno, se le cose non vanno per il verso giusto – e le cose potrebbero non andare per il verso giusto, Ferrari o non Ferrari, Parmigiano o non Parmigiano.

Al posto dell’emiliano intrepido, ricco di inventiva e voglia di fare (in sostanza uno stereotipo del lumbard con l’etichetta sovrapposta all’ultimo momento) potrebbe subentrare quella dell’emiliano fatalista, dell’emiliano retrivo, rassegnato alla palude e al sottosviluppo: dopotutto certi comuni della Bassa sono rimasti zone depresse fino agli anni Sessanta. Insieme al Polesine, erano incluse in quel «meridione del Nord» da cui si fuggiva in cerca di lavoro a Milano o Torino. Dopotutto il fascismo agrario non è nato proprio qui, nella Bassa dei braccianti e dei mezzadri? E non è qui che la guerra civile proseguì ben oltre il 25 aprile, come ha scritto Giampaolo Pansa nei suoi ultimi novecentocinquantasei libri? Non che questo c’entri molto col terremoto, ma se è per questo, nemmeno la Ferrari, e quindi?

La statuetta dell’emiliano autonomo e fiero di rimboccarsi le maniche è l’espressione di un desiderio: noi non siamo necessariamente così, ma è così che gli altri ci vorrebbero vedere. Se fossimo così gentili da rimboccarci le maniche e risolvere tutto senza pianger troppo miseria, ecco, il resto d’Italia questa cosa la apprezzerebbe molto.

Noi però non siamo così. Non necessariamente. Non abbiamo inventato né la Ferrari, né il Parmigiano: tutte cose che abbiamo ereditato dai nonni, ma in quanto a creatività dobbiamo ancora dimostrare di saper reggere il confronto. Se davvero c’è una caratteristica emiliana che abbiamo conservato, forse è quella sensazione di incredulità, di scetticismo nei confronti dei mali del mondo, che non ci ha reso un buon servizio: noi nell’eventualità di un terremoto del genere semplicemente non ci credevamo, non sono cose che potevano accadere da noi, perché da noi non accade mai niente di male.

Scoprire che le cose non stavano così è stato un choc dal quale forse non ci siamo ancora ripresi. Questa – come definirla – ingenuità, questa dabbenaggine non la mostriamo soltanto nei confronti delle calamità naturali. Siamo per esempio una terra di camorra, una terra dove la criminalità organizzata ha trovato nicchie molto comode dove prosperare, un senso della legalità molto friabile dove infiltrarsi: e non doveva venire per forza Saviano a dircelo. Invece no, è dovuto venire proprio lui, e in molti ancora non ci credono: per molti c’è ancora una frattura insanabile tra gli incendi dolosi dei nostri capannoni e la criminalità che si vede alla tv; in fondo è la stessa difficoltà ad ammettere che le macerie dei nostri paesini possano finire nel telegiornali. Da noi non ci si ammazza, non si muore, giusto qualche delitto ogni tanto, ma passionale…

Forse è il momento e il luogo peggiore per fare del disfattismo, però da qualche parte dobbiamo pur dircelo, che il modello emiliano era in crisi molto prima del terremoto. Continuare a ripetere che ce la faremo come ce l’hanno fatta i friulani dopo il 1976 non ci avvicina neanche di un centimetro né al Friuli né al 1976. Non è solo questione di statuto speciale (che pure fa la sua differenza). I friulani a quei tempi potevano agganciarsi a un’economia che, sbuffando un po’, continuava a tirare e, con qualche sosta per prender fiato, avrebbe tirato per tutti gli Ottanta e un po’ dei Novanta. Questo terremoto è terribile anche e soprattutto per il momento in cui arriva. Per tante realtà produttive della nostra zona era già il momento peggiore dal dopoguerra prima del terremoto. Dopo, c’è almeno la sensazione che le cose non possano andare peggio di così. Se qualcuno delocalizza e non torna, non date per forza la colpa allo sciame sismico: in certi casi sarà stato solo un pretesto.

La crisi del modello emiliano ha un simbolo in comune col terremoto: il capannone. Non quello anni Sessanta, col profilo seghettato, che in generale ha retto bene (sembra quasi che allora ci fosse più consapevolezza sismica di oggi; o forse semplicemente si preferiva costruire edifici solidi). Il capannone minimale, rigorosamente rettangolare, un quadratino grigio nelle foto dal satellite, accostato a tanti altri quadratini grigi fino a creare le ZI, Zone Industriali.

In Emilia ne sono stati fatti tanti, sempre più semplici, sempre più in fretta, finché anche l’idea di saldare le travi al tetto deve esser parsa un eccesso di prudenza. Non importa che tanti di questi alla fine siano rimasti sfitti, uno degli aspetti di una bolla immobiliare che stava cominciando a sgonfiarsi anche senza il terremoto. I capannoni emiliani mantengono tutto il loro potenziale simbolico.

Per prima cosa, sono piccoli, eppure sempre un po’ troppo grandi per l’impresa media a conduzione familiare. Così capita che un solo capannone sia diviso tra più aziende. Fino a un certo punto, oltre a essere capannoni, erano anche insediamenti: la famiglia spesso costruiva il suo appartamento a fianco, o sopra. In sostanza i capannoni erano l’evoluzione dei fienili colonici: nel 1940 ogni casa aveva il suo fienile, spesso contiguo; vent’anni dopo ogni capannone aveva il suo appartamentino sul tetto o sul fianco. Vita famigliare e imprenditoria erano la stessa cosa, il figlio del tipografo cresceva sopra la tipografia. Perlomeno doveva andare così, ma in tanti casi non ha funzionato: il figlio è cresciuto, ha studiato, e a un certo punto ha cambiato città o regione e a volte nazione; un capannone su tre è rimasto senza eredi.

Il capannone emiliano è l’emblema di una società rimasta forse bloccata nel passaggio tra civiltà contadina e industriale: ha smesso di coltivare la terra e si è messa a costruire e riparare macchinari. Ma fino a un certo punto ha continuato a pensare di potersi organizzare come nei casolari: la famiglia patriarcale che aveva campato per secoli in una corte col fienile avrebbe prosperato anche sul tetto del capannone; bastava aggiungere un piano ogni volta che un figlio prendeva moglie.

Il nanismo imprenditoriale rivendicato come identità: una distesa di placidi villaggi di hobbit, ognuno con la sua fabbrichetta, e tanto peggio se nel resto del mondo i concorrenti crescevano, si fondevano, ottimizzavano le risorse, diventavano sempre più concorrenziali: noi siamo fatti in un certo modo e andiamo avanti così, crollasse il mondo – finché a un certo punto è crollato.

Un terremoto non si augura a nessuno, tantomeno al proprio tessuto produttivo, però da qualche parte si può anche scriverlo, che in molti casi lo sciame sismico ci libera dalla necessità di demolire capannoni già sfitti, di chiudere attività decotte. Un terremoto qualcosa deve pure insegnarci, non sarebbe male se c’insegnasse che l’unione fa la forza, e che da soli non si stava andando da nessuna parte. E l’umiltà: anche quella necessaria a rivolgersi al resto d’Italia e d’Europa e dire, ehi, sapete una cosa? Noi non siamo l’Emilia che pensate voi. Non abbiamo inventato la Ferrari, l’ha inventata un ingegnere che adesso è morto, e il suo successore ha speso molto per restare competitivo, ma non ci sta riuscendo. Non abbiamo inventato il Parmigiano, è una ricetta che abbiamo ereditato dai nonni, noi non abbiamo aggiunto niente, non abbiamo nemmeno pensato a luoghi di stagionatura antisismici, finché non è arrivato il botto e ci è cascato il mondo per terra. Noi probabilmente abbiamo qualche dote nascosta, però col passare del tempo si nasconde sempre di più.

In questo momento per esempio siamo nei guai, guai seri, mai sperimentati né dai padri né dai nonni, e abbiamo bisogno del vostro aiuto, più delle vostre nostalgie dei paesini di Don Camillo e Peppone. Sono morti da un pezzo, Don Camillo e Peppone, alla milionesima replica su Rete4. I nostri preti non assomigliano al primo, i nostri sindaci hanno poco da spartire col secondo. Sono più simpatici, in generale: nell’emergenza hanno fatto molte cose giuste e qualche cazzata, però non lasciateli soli. Non erano pronti per una cosa del genere, neanche loro. Erano emiliani.

"Perché il lavoro resta un diritto", di Luca Baccelli

«Tutti, non solo i lavoratori, devono capire e cambiare. Compresi i giovani, che devono rendersi conto che un posto di lavoro non è qualcosa che ottieni per diritto ma qualcosa che conquisti, per cui lotti, per cui puoi anche dover fare sacrifici». Nonostante i tentativi di smentita, sono queste le parole di Elsa Fornero nell’intervista a The Wall Street Journal del 27 giugno scor-o (riscontrabili nell’originale su wsj.com). Ci si può semmai chiedere quanto siano compatibili con queste altre parole: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»: l’art. 4 della Costituzione italiana.

Fornero è comunque in ottima compagnia. Tutta una tradizione di pensiero ha attribuito ai diritti sociali, in primis al diritto al lavoro, status incerto e debole prescrittività. Non si tratta solo dei liberisti, che non perdono occasione per riaffermare che i «veri» diritti fondamentali sono quelli civili – a cominciare dalla proprietà – o tutt’al più ad ammettere i diritti politici all’elettorato attivo e passivo. E neppure solo dei liberali pro- gressisti come John Rawls, che escludono i diritti sociali dai constitutional essentials. Perché c’è una tradizione di critica «da sinistra» dei diritti sociali come costruzioni illusorie. Espressa lucidamente, qualche anno fa, da Danilo Zolo: «Il diritto al lavoro, anche quando è sancito a livello costituzionale, resta nei sistemi ad economia di mercato un diritto non justiciable – e cioè non applicabile da organi giudiziari con procedure definite – perché nessuna autorità giudiziaria è in grado di comandare ad alcuno, si tratti di un soggetto pubblico o di un soggetto privato, di offrire un posto di lavoro a qualcun altro».

Anche Luigi Ferrajoli, che pure si è impegnato strenuamente per «salvare» i diritti sociali come diritti fondamentali, si arrende davanti al diritto al lavoro. A differenza di altri teorici, a cominciare da Kelsen, per Ferrajoli l’assenza di garanzie non significa che un diritto fondamentale non esiste, ma piuttosto che c’è una lacuna: è l’ordinamento a doversi adeguare, introducendo norme che rendano effettivo il diritto in questione. Ma questo vale in modo molto limitato per il diritto al lavoro. Ferrajoli auspica un «nuovo garantismo giuslavorista» che dovrebbe opporsi ai processi di precarizzazione del lavoro, a partire da una «restaurazione (…)delle sue tradizionali garanzie». Che sono comunque «garanzie negative della conservazione, e non già garanzie positive dell’offerta di un posto di lavoro». La via è sganciare dal lavoro la garanzia della sussistenza, con l’introduzione del reddito minimo garantito. Insomma, il «cosiddetto diritto» al lavoro non è un diritto: «l’inattuabilità di una simile figura ne vanifica il significato deontico e ne esclude perciò il carattere di “diritto”. Ad impossibilia nemo tenetur».

Ci si potrebbe chiedere se siamo davvero di fronte ad un’impossibilità logica. E soprattutto, cosa resta della Costituzione se salta il diritto(-dovere) al lavoro, autentica architrave della sua costruzione sistematica? In ogni caso, verrebbe a mancare il progenitore dei diritti sociali in quanto diritti rivendicati dai potenziali titolari, non in quanto concessi paternalisticamente dalle autorità; un diritto reclamato già nelle piazze e sulle barricate nella Parigi del 1848. Karl Marx è noto per la sua critica ai diritti dell’uomo e del cittadino contenuta nella Questione ebraica. Ma qualche anno più tardi, nel 18 brumaio, scriveva che «dietro al “diritto al lavoro” stava l’insurrezione di giugno», rilevando che lo sviluppo dei diritti fondamentali presuppone radicali trasformazioni sociali ed economiche e richiede la mobilitazione dei soggetti sociali. È quanto ha sostenuto Norberto Bobbio riconducendo l’origine dei diritti ai processi collettivi di rivendicazione, alla lotta per fare emergere nuove libertà contro vecchi poteri, che configura una «rivoluzione copernicana»: la possibilità di guardare al potere dal basso, ex parte populi.

Ma allora, cosa sono i diritti? Si riducono a un fascio di tutele e di obblighi garantiti dall’ordinamento a determinati soggetti? O c’è un qualcosa di più, un contenuto che eccede, non solo simbolicamente, i doveri correlativi? In alcune interpretazioni, da Ernst Bloch a Joel Feinberg, è come se l’origine dai processi di rivendicazione si riverberasse sul significato dei diritti; come se permettesse loro di esprimere l’affermazione della dignità umana, l’«alzarci in piedi da uomini»: «Get up, stand up, stand up for your rights», cantava Bob Marley. C’è di più: il linguaggio dei diritti veicola tutto questo in una forma giuridica, che permette appunto di individuare garanzie di tutela. Ma se le cose stanno così, se c’è una priorità ed un’eccedenza di senso dei diritti rispetto alle garanzie corrispondenti, il fatto che io non possa andare da un giudice a chiedergli un posto di lavoro non significa che parlare di «di- ritto al lavoro» sia un nonsenso.

Tutelare il diritto al lavoro richiede una serie complessa di norme e di provvedimenti. Forme di integrazione monetaria del reddito del tipo del salario di ingresso possono essere opportune. Ma credo si debba tornare a dirlo: è rilevante se il reddito è il risultato di un’attività produttiva e sociale, oppure no; se – come finisce per fare Ferrajoli – si riduce il diritto al lavoro ad una garanzia di sopravvivenza, oltretutto risolvibile in elargizione monetaria, c’è il rischio di negare al mondo della produzione il carattere di spazio pubblico, di misconoscerne la dimensione politica: alcuni «accordi» sindacali (si pensi all’esclusione dalle aziende di importanti organizzazioni e dei loro iscritti) e disposizioni legislative del recente passato potrebbero venire interpretate in questo senso. E si rischia di sottovalutare il rilievo del contributo al «progresso materiale e spirituale della società» nell’esperienza esistenziale delle persone, a fortiori nell’epoca della disoccupazione pervasiva e della precarietà sfrenata. La tutela del diritto al lavoro richiede norme contro i licenziamenti arbitrari, contro le discriminazioni nell’accesso al lavoro e così via (sul modello, per capirsi, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori). Ma rimanda anche a politiche di redistribuzione del tempo di lavoro mediante una sua diminuzione e una diversa articolazione.

Tutelare il diritto al lavoro significa insomma porre le condizioni perché un posto di lavoro non sia una «conquista», il risultato di una strenua lotta fra individui e di gravi sacrifici.

L’Unità 04.08.12

"Non abbiamo bisogno di governissimi", intervista a Pier Luigi Bersani di Maria Zegarelli

Casini dice che non pensa di farsi «fare da Vendola l’esame del sangue», mentre Vendola spiega che lui e Casini stanno «lavorando a due prospettive diverse»: Pier Luigi Bersani non sembra preoccupato dai distinguo tra i due leader, a cui il Partito democratico si è rivolto per l’alternativa di governo nel dopo Monti. «Mi sembra che tutto nasca da un equivoco, perché qui nessuno ha proposto un’alleanza con Udc e Sel», risponde il segretario dando il via a questa intervista.
Segretario, come giudica le reazioni alla Carta d’intenti del Pd? «Dal mio punto di vista mi sembrano reazioni positive, come anche i primi incontri, a partire da Nichi Vendola e il Forum del Terzo settore hanno dimostrato. Nei prossimi giorni ne seguiranno altri, ma credo che la nostra iniziativa sia stata compresa».
Vendola è stato tra i primi a condividere la Carta, ma la sua base è in rivolta, preccupata da un’alleanza che va dai progressisti ai moderati.
«Credo che nel giro di poco tempo tutto si chiarirà perché mi sembra che alla base ci sia un equivoco comunicativo. Nessuno ha parlato di un’alleanza tra Bersani, Vendola e Casini. Questa è stata la vulgata ma la realtà è un’altra. Noi pensiamo ad un campo di democratici e progressisti, non solo tra i partiti ma con l’associazione i movimenti, rivolgendoci a tutte quelle forze che non accettano la deriva populista, di destra e antieuropeista, che sta sempre più prendendo piede. Ma è ovvio che sono tutti passaggi da verificare, che sta a noi progressisti organizzare il nostro campo e lanciare una proposta aperta, dopodiché l’organizzazione di questo centro moderato non tocca a noi».

A voi, e a lei in particolare, spetta organizzare le primarie. Finora gli aspiranti candidati, oltre a lei, sono Vendola, Renzi, Tabacci e Nencini. Non pensa che possano indebolire il Pd anziché rafforzarlo? «Cerchiamo di tenere a mente il percorso. Prima si deve delimitare il campo sulla base di un confronto sui contenuti, poi si fissano regole e tempi per le candidature. Ragionevolmente potranno avvenire entro la fine dell’anno: lo stabiliremo insieme a chi parteciperà a questo percorso, non decido io da solo. Non ho mai pensato che le primarie possano essere un problema, sono una nostra cifra e, quando il confronto è alla luce del sole, ha una dimensione nazionale e mette al centro i temi del Paese, e non dei partiti, e se si fonda su principi e fondamenti programmatici essenziali condivisi, non deve destare preoccupazione».
E per la riforma della legge elettorale, in- vece, è preoccupato? Ogni volta che sembra vicino l’accordo si riparte da zero.
«Sono molto preoccupato perché vedo che di fronte ad una nostra chiarezza di posizioni, che è la stessa negli incontri riservati e nelle feste democratiche, il Pdl continua a fare melina. Noi abbiamo detto che non vogliamo tornare al voto con il Porcellum e chi dice il contrario vuol dire che non conosce il Pd. Il Porcellum produce gli Scilipoti: un nome, un programma. Anche in queste ore abbiamo dichiarato flessibilità nella discussione pur avendo una nostra proposta, da mesi, fondata sul doppio turno di collegio. Siamo disposti al confronto purché restino fermi due principi: la sera che si chiudono i seggi, si deve sapere chi può governare; il cittadino deve poter scegliere il proprio parlamentare. Possiamo ragionare sui modi di raggiungere questo obiettivo, ma finora non è ancora arrivata una proposta univoca dal vasto, spero sempre meno, campo del centrodestra». Nel caso di una legge elettorale che dà il premio di maggioranza al partito, il Pd arriverà a una lista unica con tutti coloro che parteciperanno alle primarie, da Vendola a Nencini?
«A me una cosa è chiarissima: Berlusconi certamente ha in testa meccanismi verbalmente innovativi, tanto che gli ho consigliato la lista “viva la mamma”, ma noi ci chiameremo Pd. Su questo non si discute. È evidente, però, che alla luce della nuova legge elettorale, dei meccanismi per dare il premio alle liste collegate dovranno essere individuati perché anche le individualità devono essere riconosciute. Detto questo sono convinto che, mentre oggi ci sono quelli che dicono, genericamente, che i partiti non riescono a fare la legge elettorale, il giorno dopo che la legge ci sarà, spunteranno i “puristi”, quelli che fanno finta di dimenticare che se non si raggiunge un compromesso in questo Parlamento non si va da nessuna parte».

Casini intanto ha detto che correrà da solo e poi eventualmente farà l’alleanza con il Pd. C’è da fidarsi o c’è il rischio che a urne chiuse rilanci la grande coalizione?

«Io mi affido ai processi di fondo che avvengono nella società. Avevo ragione quando parlavo della necessità di tenere insieme questione democratica e questione sociale, o quando avvertivo che la discriminante in Europa passava da un lato dalle posizioni regressive anti-euro, anti-fisco, anti-immigrati e dall’altro dalle posizioni progressiste e liberal-costituzionali europeiste. Credo che questa sia la dinamica profonda in Europa come in Italia. Quindi, più che alle diplomazie, che pure bisogna coltivare, mi affido al fatto che esistono forze moderate per le quali non è possibile cedere alle sirene populiste».

Si riferisce all’ultima discesa in campo di Berlusconi?
«Il ritorno di Berlusconi è la conferma di quello che sto dicendo: la lira un giorno sì e un giorno no, no alle tasse, e fra un po’ torneranno i comunisti…».

In realtà secondo Fabrizio Cicchitto con l’apertura di Casini al Pd i comunisti sono già tornati…
«Appunto. Quando dico che la prima legge che faremo sarà per dare la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati che studiano nel nostro Paese, so che Lega, Pdl e Grillo saranno contrari. I progressisti sono a favore, il centro costituzionale democratico deve scegliere. Si devono mettere dei paletti di civiltà, di europeismo, di riforma democratica su basi costituzionali, di patto sociale. E chiamare ad una alternativa alle ricette populiste regressive. Chi ci sta ci sta».

Stando alle dichiarazioni di Casini e Vendola si ha l’impressione che la strada sia tutta in salita. Lei ha detto che il suo obiettivo è scongiurare una nuova Unione. Sicuro di riuscirci?

«Qui torniamo nell’equivoco: noi non stiamo facendo l’Unione con Casini. Stiamo organizzando il campo dei democratici e dei progressisti i quali spero abbiano la capacità e la forza neces- saria a governare il Paese, che cercheranno un patto, se sarà possibile farlo, per le riforme democratiche, con forze diverse, anche moderate, ma saldamente costituzionali che non vanno lasciate in braccio alle formazioni populiste».

Quindi lei ha letto le più recenti interviste di Vendola e Casini tutto sommato positivamente?
«Mi sembra che in quelle interviste la ragionevolezza di questo percorso emerga abbastanza chiaramente, pur restando ognuno nel proprio campo».
Invece con Di Pietro è rottura definitiva o, come spera Vendola, ci sono ancora margini?

«Non so quanto Vendola lo speri. Io credo – avendo mostrato, in tutti questi mesi, assoluto rispetto per l’Idv e Di Pietro e avendo sentito posizioni del tutto inaccettabili e attacchi che nessun altro ci ha fatto – che la scelta di Di Pietro sia inequivocabile. Di fronte al passaggio che abbiamo davanti, cioè governare una crisi inedita dal dopoguerra ad oggi, Di Pietro ha scelto il disimpegno e da questa scelta sono derivati dei comportamenti che hanno portato a questa situazione. Nessuno potrà mai dire che è responsabilità del Pd».

Nel caso in cui si dovesse fare la riforma elettorale entro settembre è plausibile pensare ad un voto anticipato?
«L’ho ripetuto in tutte le sedi: noi oggi dobbiamo guardare alla fine naturale della legislatura, non siamo in grado di decidere altro ma è giusto darsi uno strumento, la legge elettorale, per affrontare qualunque eventualità perché siamo nel mare mosso, e dobbiamo essere pronti».

A proposito di mare mosso. Quanto sarà condizionato dall’Europa l’agire, soprattutto in fatto di politiche economiche, del prossimo governo?

«Tutto dipende da quello che succede nelle prossime settimane. L’altro ieri, con la riunione della Bce, c’è stato un passo avanti, ma non risolutivo. Quello che viene fuori è che un Paese, in parte vittima dei suoi problemi, in parte dell’attacco al sistema euro, per far mettere in moto procedure che lo aiutino anche semplicemente a pagare meno interessi sul debito, deve chiedere l’intervento europeo facendo scattare procedure di supervisione e senza sapere quali sono le condizioni che questo pone. La Banca centrale europea può agire, ma entro limiti assai ristretti. Mentre in Germania Corte costituzionale e Parlamento prendono tempo per approvare il Fondo salva-Stati. E intanto il Paese di cui sopra che fine fa? Muore. Insomma, non si può pensare di salvare la famiglia ammazzando qualche familiare e mettendo dei vincoli tali da vanificare quello che si fa per cercare di raggiungere degli obiettivi».

Sta dicendo che l’Europa non può chiedere misure ancora più dolorose?
«A Bruxelles non si parlò di ulteriori condizioni per l’accesso allo scudo anti-spread. Se ci fossero ulteriori condizioni concordate tra i Paesi, si vedrà. L’economia italiana ha le carte per superare le difficoltà».

Qualcuno parla anche di garanzie politiche per il futuro.
«Ricordo che i governi di centrosinistra hanno più volte dimostrato di saper affrontare e superare i problemi. Non c’è bisogno di ricorrere ai governissimi».

Bersani, la lista dei sindaci si farà o no?

«Non so da dove sia venuta fuori questa cosa. Vendola e io abbiamo detto che ci interessa moltissimo che questo grande campo progressista abbia dei protagonisti sociali e istituzionali che vengono da realtà diverse e quindi ci rivolgiamo anche ai nostri amministratori. Ma non abbiamo mai pensato a liste di sindaci».

Come pensa di coinvolgere sindaci e forze civiche in questo percorso se non attraverso delle liste?
«Intanto costruendo un progetto di governo che ingaggi queste forze non soltanto nella campagna elettorale ma nella governance del Paese. Incontrando il Terzo settore, ho parlato con un pezzo della classe dirigente di questo Paese che intendo coinvolgere nel governo. Un primo piccolo esempio è stata la Rai».

L’Unità 05.08.12

"Ma nessuno può fermare l'intervento di Draghi", di Eugenio Scalfari

La crisi dell’euro rispecchia il fallimento d’una politica senza prospettive. Al governo tedesco manca il coraggio di andare oltre uno status quo divenuto insostenibile. Questa è la causa del continuo peggioramento della situazione, nell’Eurozona negli ultimi due anni, malgrado ambiziosi programmi di salvataggio e innumerevoli vertici di emergenza.
Questo drastico giudizio l’ha scritto ieri sul nostro giornale Jurgen Habermas, un filosofo, uno storico, un profondo studioso dei pregi e dei difetti della democrazia. Concordo da tempo con la sua opinione e con quella di tutti coloro che hanno voglia di capire quali siano le vere cause che attanagliano l’Unione europea e in particolare i 17 Paesi dell’Eurozona.
Personalmente e nonostante questo giudizio di fondo sono stato ottimista sull’esito finale poiché non pensavo che l’Europa arrivasse al punto di volersi suicidare. E riponevo grande fiducia nella competenza tecnica e nella visione politica di Mario Draghi e nella forza e nell’indipendenza della Banca centrale europea da lui guidata. La conferenza da lui tenuta a Londra alcuni giorni fa aveva confermato queste speranze ed era stata anche positivamente accolta dai mercati. Poi nella mattinata di giovedì scorso si è svolta la riunione del consiglio direttivo della Bce e la conferenza stampa del suo presidente il quale, stando a chi gli ha parlato subito dopo, era felice del risultato.
Sedici membri di quel consiglio, formato dai governatori delle Banche centrali nazionali, avevano manifestato opinioni pienamente in linea con quelle del presidente ed uno soltanto si era dissociato. Ora sono in corso gli studi necessari ad approntare gli strumenti operativi e su di essi ci sarà il voto definitivo del consiglio.
I mercati giovedì hanno accolto molto negativamente i risultati di quel vertice, ritenendoli ancora una volta insufficienti e interlocutori. Ma il giorno dopo – venerdì – c’è stata una netta inversione di tendenza sia nelle Borse sia negli spread dell’Italia e della Spagna. Eppure non era accaduto nulla di nuovo in quelle 24 ore che giustificasse le aspettative. Un errore di valutazione giovedì e un ripensamento venerdì? I mercati – si sa – sono molto volatili ma la loro “volagerie” è sempre motivata da una causa, un dato nuovo, una più chiara e autentica spiegazione. Ma nulla di simile è accaduto. Allora perché un capovolgimento così improvviso e così vistoso? E che cosa c’è da aspettarsi per domani quando i mercati riapriranno?
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Desidero ricapitolare le conclusioni raggiunte dal consiglio della Bce e riassunte da Draghi.
1 – Il tasso ufficiale di sconto e il tasso riservato ai depositi delle banche presso la Bce sono rimasti invariati: 0,75 il primo e zero il secondo.
2 – La Bce entro la fine di agosto interverrà sul mercato secondario per acquistare titoli pubblici a scadenza breve per cifre illimitate. Scadenza breve s’intendono Bot a un anno.
3 – Si tratta dunque di operazioni tipicamente monetarie che possono tuttavia essere molto utili anche al Tesoro se limiterà le emissioni di Bpt e accorcerà la durata media del debito pubblico. Questa politica di accorciamento della durata media può essere adottata per un paio d’anni senza particolari difficoltà.
4 – L’intervento della Bce avverrà però soltanto sui titoli pubblici di quei Paesi che lo avranno chiesto al fondo “salva Stati” sottoscrivendo con le autorità dell’Eurozona nuove condizioni ritenute necessarie. Una volta ottenuto l’ok dalle predette autorità la Bce darà inizio agli acquisti limitatamente ai Bot con scadenza breve fino al massimo di 12 mesi.
5 – La Bce non esclude – ma senza impegno – altre iniziative come per esempio nuova liquidità alle banche che ne facessero richiesta, allentamento dei collaterali offerti in garanzia e perfino finanziamento diretto di imprese con l’acquisto di obbli-
gazioni da esse opportunamente garantite.
Fin qui il resoconto di Draghi. Come sopra ricordato i mercati giudicarono negativamente sia la limitazione dell’intervento a titoli a scadenza breve sia il rinvio delle operazioni alla fine d’agosto sia, soprattutto, la necessità dell’ok del fondo “salva Stati”. Ma il giorno dopo cambiarono idea. Forse sarà opportuno a questo punto qualche spiegazione e qualche osservazione.
La Bce non è una Banca centrale come tutte le altre. In comune ha soltanto l’indipendenza dai governi con un aspetto che ne rafforza l’azione operativa: le altre Banche centrali hanno il governo del loro Paese come interlocutore. La politica fiscale ed economica è esclusivo appannaggio del governo, la Banca centrale ha come compito la politica monetaria, la stabilità dei prezzi, la fissazione del tasso di sconto e la vigilanza sul sistema bancario. La Bce invece non ha alcun governo come interlocutore e non lo avrà fino a quando non sia nato il nucleo d’un governo europeo con sovranità sul fisco e sulla politica economica degli Stati confederati.
Naturalmente anche la Bce ha dei vincoli operativi che risultano dai Trattati europei e dal suo Statuto. Le sono vietate operazioni di acquisto di titoli pubblici sul mercato primario. Le finalità da perseguire sono: assicurare la liquidità al sistema, evitare che il tasso di inflazione superi i limiti ritenuti appropriati, evitare situazione di deflazione, mantenere la stabilità dei prezzi, fissare il tasso ufficiale di sconto.
Questo è il quadro. Aggiungo – l’ho già scritto molte volte e lo ripeto – che la Bce è il solo istituto europeo dotato d’una formidabile potenza di fuoco e d’una capacità operativa rapida, naturalmente entro i limiti stabiliti dai Trattati e dallo Statuto.
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Né i Trattati né lo Statuto prevedono che la Bce abbia bisogno d’un ok dal fondo “salva Stati” per adottare interventi che Trattati e Statuto prevedono nelle sue finalità. Per la semplice ragione che Trattati e Statuto enumerano i poteri e i vincoli della Bce da quando fu fondata quattordici anni fa mentre il fondo “salva Stati” non ha più d’un anno di vita.
E allora: non c’è dubbio alcuno che non esistano pericoli d’inflazione, Draghi l’ha detto decine di volte in pubbliche dichiarazioni e i tassi d’inflazione sono certificati dal bollettino della Banca.
Non c’è tuttavia dubbio alcuno che la stabilità dei prezzi e la stessa politica monetaria sono fortemente turbate dalle differenze dei tassi d’interesse derivanti dai diversi rendimenti dei titoli sovrani a scadenze quinquennali e decennali.
Non c’è infine dubbio alcuno che in alcuni Paesi dell’Eurozona è in atto una profonda recessione e una altrettanto marcata deflazione.
Poiché questo stato di cose è certificato dalla stessa Bce e rientra nelle finalità che essa ha l’obbligo di perseguire, non si vede ragione alcuna che essa debba o voglia ottenere l’ok del fondo “salva Stati” per realizzare obiettivi che non menzionano affatto quell’ok.
Ho grandissima stima ed anche affettuosa amicizia per Mario Draghi ma questo non mi impedisce di porgli la domanda: perché l’acquisto di titoli a breve in Spagna e in Italia dev’essere autorizzato? L’Italia in particolare ha varato con l’approvazione del Parlamento la riforma delle pensioni, la riforma del lavoro, la revisione della spesa e tutte le misure previste nella lettera firmata nell’agosto scorso da Trichet e dallo stesso Draghi, ivi compreso il pareggio del bilancio entro il 2013. È sottoposta, l’Italia, come tutti gli Stati dell’Unione alla vigilanza e al monitoraggio della Commissione europea.
È carente – questo sì – per quanto riguarda la crescita e la produttività, ma questi obiettivi non sono raggiungibili da un singolo Paese dell’Unione se non sono inquadrati e sostenuti da una politica dell’intera comunità europea. Crescere e aumentare la produttività in un sistema rigorista che non prevede crescita, ma soltanto recessione e deflazione, è impensabile. Non c’è bisogno di citare e demonizzare Keynes, basta ricordare Beveridge e Roosevelt ed anche quel brav’uomo di Hoover che precipitò gli Usa e l’Europa nel baratro del ’29.
Domenica scorsa avevo chiesto a Draghi: se non ora, quando? Gli ripropongo la domanda leggermente modificata: perché non ora? Aspetta che Monti si sottoponga a ulteriori condizioni ma con quale certezza per il futuro? Certezze, non promesse da marinaio. Se Monti piegherà la testa stimolerà i mercati ad aggredire i titoli pubblici italiani. Che farà in quel caso Draghi? Difenderà il muro quando già sarà crollato?
Può darsi che questo vogliano i falchi della Bundesbank, i liberali tedeschi, la Csu della Baviera, gli hedge funds e le grandi banche americane ed anche Romney e Wall Street e la City. Ma questa è l’anti-Europa cui si aggiunge la rabbia sociale in tutti i Paesi.
Quanto alla Bundesbank, essa fa parte organica della Bce alla quale ha delegato come tutte le altre Banche nazionali la politica monetaria, la stabilità dei prezzi, la lotta contro la deflazione. Può votar contro nel consiglio direttivo ma poi deve comportarsi come la maggioranza avrà deciso. Questa è la regola e spetta a Draghi farla valere.
Lo ripeto, con amicizia e stima: perché non ora?

La Repubblica 05.08.12

"I miti perduti dell'estate", di Emanuele Trevi

Con le spiagge mezze vuote e le città mezze piene abbiamo perso in solo colpo due grandi avventure: sia chi partiva che chi restava viveva in una condizione particolare e inconfondibile, una specie di stato d’emergenza in cui le cose della vita acquistavano una risonanza particolare e fatti che mai sarebbero potuti accadere si verificavano con la facilità delle fiabe. Non c’è nemmeno posto per un’idea dignitosa del lavoro, che della vacanza è il contrario e il necessario presupposto. Benvenuti nell’età dell’ansia Mentre arriva dal deserto dell’Algeria un nuovo ventaccio bollente, il Drago Africano, a rendere ancora più micidiale la canicola, i dati statistici sulle vacanze rendono incontestabile quella che fino ai ieri poteva sembrare un’impressione, più o meno opinabile: solo quattro italiani su dieci, quest’anno, se ne vanno in vacanza. La buona notizia è che forse è arrivato il momento di mandare in pensione l’ormai insopportabile metafora biblica dell’Esodo. È come se sei Ebrei su dieci, invece di seguire Mosé nella Terra Promessa, se ne fossero restati al servizio del Faraone. Ma anche i patiti delle città deserte, quelli che in città sono sempre rimasti volentieri, sono costretti a ripensare radicalmente le loro convinzioni, e accontentarsi di qualche sabato pomeriggio. C’è troppa gente in giro, e troppi pochi giorni a disposizione, perché si rinnovi nella sua purezza la trasognata magia del Ferragosto a casa propria, coi suoi piaceri segreti e le sue improbabili casualità.
La nuova situazione avrà certamente i suoi motivi concreti, primo fra tutti l’assurda patologia economica in cui ci trasciniamo di anno in anno senza prospettive, ma i suoi riflessi sull’immaginario non sono meno perturbanti. Con le spiagge mezze vuote e le città mezze piene, insomma, abbiamo perso in solo colpo due grandi mitologie, o spazi narrativi. Sia la «grande vacanza» che l’estate in città sono state delle prodigiose miniere di racconti proprio perché erano due circostanze assolute, ben diverse da ogni altra, e dotate di una durata capace di farne percepire i più delicati riflessi psicologici. Erano, in una parola, due avventure nel senso più pieno della parola: sia chi partiva che chi restava viveva in una condizione particolare e inconfondibile, una specie di stato d’emergenza in cui le cose della vita acquistavano una risonanza particolare e fatti che mai sarebbero potuti accadere in altre situazioni si verificavano con la facilità delle fiabe.
Il primo grande scrittore che ha intuito tutto ciò è stato forse Dostoevskij nelle «Notti bianche». Ma chiunque abbia più di quarant’anni ha fatto esperienza diretta, che andasse o meno in vacanza, di questa potente sovversione estiva dei ritmi, dei valori, delle abitudini consacrate. Era forse l’ultima sopravvivenza moderna di millenarie forme di vita umana fondate su un senso acutissimo dell’avvicendarsi delle stagioni e delle loro necessità. Un irrimediabile stato di confusione si è insediato al posto di un’esistenza in cui ad ogni tempo erano assegnate delle prerogative. Il calendario è diventato il più inutile tra i relitti del passato che ci portiamo dietro per mera abitudine. A seconda degli stati d’animo individuali, o delle oscure pulsioni che si irradiano nel sistema nervoso del corpo sociale, ogni giorno contiene in sé quantità imponderabili di Carnevale e di Quaresima, di sabato e di lunedì.
Benvenuti nell’età dell’ansia. Sì perché è l’ansia il collante principale di questo stato di universale indistinzione. L’ansia esige per sé, in ogni singolo attimo della vita, tutte le possibilità della vita: la più irresponsabile leggerezza e il più plumbeo sentimento della fatalità, lo spreco e il risparmio, l’amore e la solitudine, l’ozio e la fatica. Quanto al tempo ed ai suoi ritmi necessari, c’è poco da fare: l’ansia conosce solo un futuro prossimo e minaccioso, da scongiurare con ogni possibile scaramanzia. Una cosa è certa: dove l’ansia regna sul mondo, non c’è posto per nulla che assomigli lontanamente a una vacanza in senso classico. Ma non c’è nemmeno posto per un’idea dignitosa del lavoro, che della vacanza è il contrario e il necessario presupposto.
Si rimane così, con il piede in due staffe, nella sconfortante uniformità dei giorni. E c’è da temere che se in virtù di qualche inconcepibile miracolo la crisi economica che oggi svuota gli alberghi e tiene a casa sei italiani su dieci cedesse il passo a un periodo di sicurezza e prosperità, il ritorno delle vecchie, radiose, interminabili vacanze non sarebbe così automatico. Dovremmo comunque imparare di nuovo che c’è un tempo per ogni cosa, e che le cose si fanno davvero solo una alla volta.

Il Corriere della Sera 05.08.12

"Superare le disuguaglianze", di Nadia Urbinati

Preparandosi a riprendere in mano il timone del governo, la politica farebbe bene a riflettere sulle ragioni della sua Caporetto, nel novembre 2011. Ciò che ha atterrato l’onorabilità della politica non furono tanto gli scandali sessuali del premier o le diffusissime vicende di corruzione, ma l’impotenza a fare il suo lavoro: governare. L’incapacità, non la disonestà, ha mandato a casa il governo Berlusconi. Questa accusa è molto più grave di quella di corruzione. Poiché mentre la disonestà è l’esito di una deturpazione che non mette in discussione la politica ma alcuni suoi praticanti, l’inadeguatezza a prendere decisioni mette in luce un limite oggettivo della politica democratica. Infatti fu il sapere di dover andare di fronte agli elettori con programmi di rigore e sacrifici, e di rischiare di perdere il consenso, che ha reso il governo Berlusconi impotente. Con il governo dei tecnici è circolata un’idea perniciosa: che la forza di un governo sia in proporzione della sua non rispondenza agli elettori. Questo è il vulnus democratico contenuto nella filosofia di un governo tecnico. L’uscita dal quale deve necessariamente corrispondere alla rinascita della politica delle idee e della progettualità con la quale presentarsi agli elettori.
Difficile prevedere che cosa lascerà il governo Monti. Ma una cosa sembra chiara proprio in virtù di questa premessa: con l’avvento del governo dei “tecnici” la politica dei politici si trova di fonte a un compito impervio, che è quello di dimostrare di essere meglio di un governo senza politica partigiana; che un governo che deve rendere conto agli elettori è migliore e altrettanto capace di un governo tecnico. Ritornare a parlare di programmi e di idee è la via maestra. Ed è urgente. Un problema tra i più urgenti che una politica democratica dovrà affrontare sarà quello della crescente diseguaglianza della società italiana. La diseguaglianza è un problema per la democrazia, soprattutto quando si radica nelle generazioni, perché balcanizza la società e rompe la solidarietà tra cittadini, inducendo i pochi a secedere, se così si può dire, dall’obbligo di contribuire per chi non sente più come uguale.
La società italiana sta da alcuni anni percorrendo una strada a ritroso rispetto a quella nella quale si era immessa dopo la Seconda guerra mondiale: dall’eguaglianza alla diseguaglianza. Lo documentano ricerche effettuate dal 2009 al 2012 da istituti diversi come l’Ocse, la Banca d’Italia e l’Istat. Da circa quindici anni, si assiste a una progressiva disuguaglianza dei redditi e un aumento progressivo della povertà. Come osserva Giovanni d’Alessio in uno studio per la Banca d’Italia di qualche mese fa, il rapporto tra la ricchezza e il reddito è all’incirca raddoppiato negli ultimi decenni; insieme è aumentato il ruolo dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro. In altri termini, la ricchezza sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo mentre declina il ruolo del lavoro. Un significativo aspetto della disuguaglianza riguarda la sua tendenza a trasferirsi da una generazione all’altra, legando sempre di più il destino dei figli a quello dei genitori. È questo un fattore tra i più devastanti e che documenta direttamente la stabilizzazione delle classi. Perché disuguaglianza non occasionale, non per personale responsabilità, ma di classe, un fatto che vanifica ogni più ragionevole discorso sul merito individuale.
Questo trend classista ci dice in sostanza che lavoro dipendente e lavoro autonomo sono divaricati (il reddito del secondo aumenta molto più in proporzione al reddito del primo) e che i punti di partenza (la famiglia) diventano sempre più determinanti e difficilmente neutralizzabili da parte degli individui. Non a caso, insieme alla divaricazione dei redditi autonomi e da lavoro si ha la divaricazione degli accoppiamenti: sempre più persone si sposano con persone con reddito simile. Insomma poveri sposano poveri, ricchi sposano ricchi – e per conseguenza, tendenza al trasferimento delle diseguaglianza e dei privilegi da una generazione
all’altra.
La democrazia non ha mai promesso né perseguito l’obiettivo di rendere tutti i cittadini economicamente eguali, ma ha promesso con formale dichiarazione nelle costituzioni e nelle carte dei diritti, di “rimuovere gli ostacoli” che impediscono a uomini e donne, diversi tra loro sotto tanti punti di vista (dal genere al credo religioso alla ricchezza) di aspirare a una vita dignitosa. Vi è nella democrazia politica un invito assai esplicito a mai interrompere il lavoro di manutenzione sociale operando sulle condizioni di accesso o le “capacitazioni” per usare un termine coniato da Amartya Sen. Ecco perché a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale le democrazie hanno dichiarato che i livelli di disuguaglianza nella ricchezza devono e possono essere mitigati agendo sui meccanismi che la determinano, ad esempio con politiche in grado di assicurare che il godimento di alcuni diritti fondamentali raggiunga più pienamente e uniformemente la popolazione. Scrive d’Alessio, che “la scuola pubblica erogando un servizio a tutti, tende a ridurre la disuguaglianza tra i cittadini in termini di conoscenze e di abilità, presupposto di una quota rilevante di quella in termini di ricchezza, riducendo in particolare il divario che caratterizza coloro che provengono dalle classi sociali più svantaggiate”. Lo stesso vale per il servizio sanitario, che rimuove un ostacolo forse ancora più fatale per chi non ha altra ricchezza se non il proprio lavoro. Eppure proprio queste “spese sociali” sono oggi messe in discussione e decurtate. I programmi politici sono quindi determinanti perché a consolidare le classi insieme al declino fortissimo dei matrimoni interclassisti interviene proprio lo smantellamento di quel fattore sul quale si era costruita la democrazia moderna: la politica sociale, che significa la ridistribuzione dei redditi attraverso i servizi destinati alla salute e all’istruzione; in questi due settori chiave che da sempre hanno contribuito a contenere il divario tra le classi lo Stato investe sempre di meno, dimostrando nei fatti di non essere in grado o di non volere più usare la spesa pubblica per obiettivi democratici, per rimuove gli ostacoli alla crescita della disuguaglianza, come promesso dalla Costituzione.

La Repubblica 05.08.12