Latest Posts

"Quote rosa, la spallata nei palazzi del potere", di Michela Marzano

«Crederò all’uguaglianza tra gli uomini e le donne solo quando vedrò una donna incompetente occupare un posto di responsabilità», disse un giorno Françoise Giroud, famosa in Francia per essere stata la prima donna ad occupare il posto di ministro delle Pari opportunità negli anni ’70. Si trattava ovviamente di una battuta. Perché uno dei problemi di fronte cui ci troviamo da sempre è proprio l’incompetenza di tanti nostri responsabili, che si tratti del mondo politico, economico o culturale. Una battuta di pessimo gusto, si potrebbe aggiungere oggi in Italia, dopo la triste esperienza delle veline in politica degli ultimi anni. Eppure, come accade spesso, dietro la battuta si cela una grande verità. Visto che ancora oggi le donne, a parità di titoli, sono meno occupate, più precarie e meno pagate degli uomini. E che sono molto rare coloro che arrivano ai vertici decisionali. Le donne che riescono a farlo, devono ancora oggi dimostrare di essere “eccezionali”, “perfette”: capaci di impegnarsi di più, di fare di più, di controllare di più… sempre “qualcosa in più” rispetto agli uomini. Allora sì, nonostante i progressi degli ultimi quarant’anni, siamo ancora lontani dall’uguaglianza. Quella che dovrebbe permettere a tutti, uomini e donne, di occupare posizioni di rilievo anche se non sono “perfetti” o “eccezionali”.
Certo, la situazione della donna comincia a cambiare anche in Italia. Possiamo essere fieri di avere oggi al governo tre donne che occupano ministeri “di peso” (Interno, Giustizia e) Welfare). E non possiamo che accogliere con gioia la decisione del Consiglio dei ministri sulle “quote rosa” nei Cda delle società a controllo pubblico. Visto anche che il ministro Fornero ne ha approfittato per insistere sulla necessità di rendere effettiva la partecipazione delle donne anche in politica. Questo tipo di decisioni sono infatti un passaggio obbligato perché l’uguaglianza uomo/donna si concretizzi. È la lezione che ci viene dai paesi del Nord Europa, ma anche dagli Usa, che considerano che l’unico modo per combattere le discriminazioni sia quello di ricorrere alle “azioni positive” (affermative actions), ossia opporre alle “discriminazioni esistenti” delle “discriminazioni positive”. Basta tuttavia imporre delle “quote rosa” perché le donne non si scontrino più con tanti ostacoli di ordine amministrativo, economico e sociale?
Per molto tempo la soluzione delle “quote rosa” mi ha lasciato perplessa. Ho spesso citato Montesquieu e la sua lucidità sull’impatto che le leggi possono avere sulla società. Per l’autore de L’esprit des lois, non bisogna cambiare i costumi attraverso le leggi, ma le leggi attraverso i costumi. Quando si vuole trasformare una società e modificare i comportamenti individuali e collettivi, il modo più efficace non è cambiare le leggi, ma agire a livello sociale e, solo in un secondo momento, modificare anche le leggi. Ecco perché mi sembrava fondamentale che le donne lavorassero sui “contenuti” e non più solo sui “contenitori” dell’uguaglianza, impegnandosi perché l’atteggiamento e la mentalità maschili cambiassero progressivamente. Ero convinta che si dovesse cominciare col creare le condizioni adatte perché poi le donne potessero occupare posizioni di rilievo, ad esempio creando asili nido, scuole materne con orari compatibili con quelli delle mamme che lavorano, servizi e infrastrutture di vario genere che rendessero più facile, quotidianamente, la vita femminile.
Dobbiamo però arrenderci all’evidenza. In certi casi, solo la legge può accelerare la trasformazione della società modificandone le pratiche. Perché la realtà socio-economica cambi, è necessario passare per la fase delle “quote rosa”. Anche semplicemente perché, finché le donne non occuperanno posti di responsabilità, non avranno mai gli strumenti per lottare contro le discriminazioni e far sì che l’uguaglianza tra gli uomini e le donne non sia più solo un principio astratto. Allora sì, questa decisione del Consiglio dei ministri che oggi riguarda solo le società pubbliche è importante da un punto di vista simbolico. Speriamo che l’esempio venga seguito non solo in politica, ma anche dalle grandi aziende private.

La Repubblica 04.08.12

******

“Aziende pubbliche, ecco le quote rosa nei cda un componente su tre sarà donna”, di Annalisa Cuzzocrea

Stavolta no, non è un contentino. Il regolamento approvato ieri dal Consiglio dei ministri – in applicazione della legge varata un anno fa sulle quote rosa nei consigli di amministrazione – è destinato ad attuare una rivoluzione nelle società italiane controllate dallo Stato. Che dovranno avere nei loro cda e nei loro collegi sindacali almeno un terzo del genere meno rappresentato. Tradotto, almeno un terzo di donne.
E quindi Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Rai, Sace, Cassa depositi e prestiti, Finmeccanica, Fintecna, Anas: sono 25 le società che dipendono direttamente dal ministero dell’Economia, 89 le controllate di secondo livello, 2.100 le partecipate con oltre il 50 per cento dagli enti locali. Facendo i conti, tra il 2012 e il 2015, dovranno trovar posto al loro interno 6.500 consiglieri e 3.500 sindaci donna. È questa, la rivoluzione. «Un’altra importante tappa nel cammino verso l’affermazione di una nuova cultura della parità di genere», dice Elsa Fornero. Si augura, il ministro del Welfare, che la decisione «sia un buon esempio per la politica. Che non si debba, con rammarico, registrare l’assenza di candidature femminili come pare essere il caso delle prossime elezioni in Sicilia». Lo stesso auspicio arriva da Anna Finocchiaro, la presidente dei senatori pd che – come altre sue colleghe, tanto a destra quanto a sinistra – plaude alla legge: dalla presidente della fondazione Bellisario e deputata pdl Lella Golfo, che per prima l’ha promossa, a Chiara Moroni di Fli, fino all’ex ministro Mara Carfagna («una giornata storica»). Non un uomo fino a tarda sera, quando appare, timida, una dichiarazione del capogruppo pdl Fabrizio Cicchitto.
Roba da femmine, penseranno gli altri. Potrebbe non essere così. Perché se davvero ci sarà posto per tante donne in più (oggi la percentuale rosa nei cda delle controllate è al 7,6%), tutto rischia di cambiare anche per gli uomini. Tanto più che la legge che il Parlamento aveva varato un anno fa – dal 12 agosto entrerà in vigore per tutti, organismi pubblici e privati. Per le società quotate, infatti, il regolamento era arrivato già a febbraio ad opera della Consob, chiamata a vigilare sull’ottemperanza delle nuove regole. E quindi anche lì, nei prossimi 4 anni, sono in arrivo 700 consiglieri e 200 sindaci donna. Una decisione che ha già sortito i suoi effetti, visto che nell’ultimo anno e mezzo molte società hanno cominciato ad adeguarsi passando dal 6,75 per cento di presenza femminile alla fine del 2010 al 9,49 del mese scorso. Adesso – mano a mano che arriveranno i rinnovi – dovranno fare di più. Così come avverrà nel pubblico, dove a controllare non sarà la Consob, ma direttamente il governo e il ministero per le pari opportunità. La pena, per chi non si adegua dopo i richiami formali, è la decadenza del cda.
A storcere il naso hanno cominciato in molti. Perché «le donne non sono panda», come dice da sempre Emma Bonino. Perché non è con le quote che si raggiunge la parità, spiega chi è contrario a questa legge. Perché si rischia che i cda si riempiano di «figlie di» e «amiche di». La fondazione Bellisario ha risposto raccogliendo 2.500 curricula di donne capaci (oltre il 90 per cento con una o più lauree, la metà con master all’estero) «per dimostrare – dice la presidente Lella Golfo – che le donne ci sono, ci sono da sempre. Adesso non si potrà far finta di non vederle».

La Repubblica 04.08.12

"Consumi in picchiata. Aumentano i cassaintegrati", di Laura Matteucci

Il livello del Pil in Italia «sta raggiungendo i suoi minimi storici». Quello dei consumi sembra tornato agli anni Trenta. Crolla l’impiego dell’auto a causa del caro-benzina e, secondo l’osservatorio Findomestic, la fiducia dei consumatori resta ferma ai minimi storici: 3,2 punti ad agosto, come nei due mesi precedenti. L’Ufficio studi Confcommercio aggiorna bilanci e previsioni, tutti in peggioramento: il Pil quest’anno dovrebbe flettere del 2,2%, dello 0,3% l’anno prossimo. Per i consumi, si prevede un calo del 2,8% nel 2012 e dello 0,8% nel 2013. A fare pendant, l’Inps fornisce disastrosi dati sulle ore di cassa integrazione, che a luglio sono state 115,7 milioni, in aumento del 21,3% rispetto a giugno (95,4 milioni di ore), e addirittura del 44,2% rispetto a luglio dello scorso anno (80,3 milioni di ore). A giugno, invece, le ore erano calate del 9,6% rispetto al mese precedente. In forte aumento sono sia le ore di cig ordinaria (+11,6% su giugno e +71,6% sul 2011) sia quelle di cig straordinaria (+19,6% su giugno e +36,2% sul 2011) e in deroga (+34,8% su giugno e +33,7% sul 2011). Nel commercio, le ore di cigs aumentano annualmente del 461,6% (per Confcommercio quest’anno ci saranno oltre 20mila chiusure di negozi). Da inizio anno a luglio sono state autorizzate in totale 639,5 milioni di ore, più 8,76% rispetto allo stesso periodo del 2011. Crescono pure le richieste di disoccupazione: a giugno ne sono state presentate 92.217, il 22% circa in più rispetto a maggio (75.563) e il 4,75% in più di quelle del mese di giugno 2011 (88.038). Le domande di mobilità presentate a giugno (7.693), sono invece diminuite del 5,7% rispetto a giugno 2011 (8.158), e del 21% circa rispetto a maggio 2012 (9.673). «Un binomio drammatico, cassa integrazione che cresce e aumento delledomande di disoccupazione, che segnala il progressivo declino industriale del paese», commenta la segretaria confederale Cgil Elena Lattuada. «Numeri che ci segnalano continua come l’austerità sta facendo precipitare il Paese che ha invece urgente bisogno di crescita». Per parlare di crescita, secondo la Cgil bisogna parlare di misure da adottare sul fronte fiscale, di interventi di sostegno al reddito per i dipendenti e i pensionati, e dell’adozione di politiche industriali dirottando risorse pubbliche verso investimenti produttivi. «Ma soprattutto sempre Lattuada in questi dati leggiamo la necessità di un piano straordinario per l’occupazione». A corollario, il rapporto Confcommercio ricorda che «il reddito reale pro capite è calato di circa 1.800 euro tra il 2002 e il 2012 (-9,8% reale a testa)». Non c’è da stupirsi, dunque, se «i consumi reali pro-capite subiranno, nel 2012, un calo di una profondità mai prima registrata nella storia economica repubblicana», come dice il presidente dell’associazione, Carlo Sangalli, per il quale è essenziale evitare aumenti dell’Iva nel 2013. La riforma «prioritaria» invece è quella fiscale, con due obiettivi: la semplificazione e la riduzione della pressione, che per i contribuenti in regola ha raggiunto un livello record del 55%. Secondo il presidente di Confcommercio, il governo deve puntare sull’economia dei servizi che vale il 40% del Pil e il 43% dell’occupazione.

ANZIANE A RISCHIO POVERTÀ La crisi non aiuta certo a colmare il divario di reddito tra uomini e donne, anche tra i pensionati. Da uno studio di Istat e Inps arriva la conferma che le anziane sono a rischio povertà. Oltre la metà delle 8,8 milioni di pensionate prende meno di mille euro al mese (54,8%). Solo un terzo degli uomini (34,9%) riceve assegni così bassi. Situazione opposta nei trattamenti più ricchi, sopra i 3mila euro: gli uomini (597mila) sono oltre tre volte più delle donne (180mila). Le donne rappresentano il 53% dei pensionati, ma percepiscono solo il 44% degli oltre 258 miliardi di euro erogati. «Le donne sono le più penalizzate dalla crisi commenta la leader Spi-Cgil, Carla Canone Ma ad essere penalizzate ormai sono tutte le fasce più deboli del Paese».

l’Unità 03.08.12

"Non si spenga l'altoforno. E' una questione nazionale", di Guglielmo Epifani

La vicenda dell’Ilva di Taranto mette in contrapposizione due diritti fondamentali: il diritto alla salute e alla sicurezza di cittadini e lavoratori, il diritto al lavoro e all’occupazione di migliaia di persone dell’area interessata e dell’intera filiera della siderurgia italiana. Non deve perciò preoccupare la durezza del confronto in atto quando questo non travalica, come in parte è avvenuto, i limiti della correttezza e del rispetto che si deve alle posizioni in campo quanto piuttosto il ritardo e le modalità con cui la comunità nazionale ha preso coscienza dei rischi che stiamo correndo. Rischio da una parte di ulteriore contrazione della base produttiva del Paese, nel Mezzogiorno ma non solo, e rischio dall’altra di compromettere le esigenze di sicurezza ambientale e delle condizioni di lavoro. Arrivati a questo punto, il problema che si pone per tutti magistratura, azienda, governo e forze sindacali è lavorare per una soluzione che provi a contemperare tutti i legittimi interessi in campo, evitando sia di considerare il tema della sicurezza come un nodo secondario della vicenda produttiva, sia di pensare che si possa staccare la spina ad una attività produttiva strategica per il Paese e soprattutto ad alta densità occupazionale. Il governo, d’intesa con le amministrazioni interessate, sta lavorando ad una soluzione che provi a dare risposte ai due bisogni fondamentali ed è necessario che tutti i soggetti in campo, a partire dall’azienda, cooperino lealmente e responsabilmente, nella stessa direzione. Anche la magistratura, a cui tocca un compito difficile dopo tanti ritardi e sottovalutazioni, è chiamata a scelte che si muovano nella stessa direzione. Evitare la chiusura dell’impianto, e definire contestualmente un piano di investimenti in grado di intervenire sui fattori di inquinamento per l’ambiente e le persone, è l’unica via razionale per provare a dare una soluzione accettabile al problema e salvaguardare livelli diretti e indiretti di lavoro e di occupazione. Ogni volta che si è provato a fare il contrario, chiudere gli impianti e poi successivamente operare il risanamento necessario, ha portato infatti ad una doppia sconfitta: aziende che non si sono più riaperte e fattori di nocività ambientali che non sono stati più rimossi. C’è poi una ulteriore questione. Siamo diventati un Paese spaventosamente disattento alla politica industriale e negli ultimi dieci anni nulla si è fatto per avere un indirizzo in grado di arrestare il declino produttivo e la marginalità tecnologica a cui stiamo andando incontro. Le aziende che ce l’hanno fatta ci sono riuscite da sole, innovando prodotti ed internazionalizzandosi verso i mercati a più alto tasso di crescita. Ma sono enormemente di più i settori in cui stiamo perdendo possibilità e futuro: l’auto innanzitutto, e il suo indotto, i settori strategici della difesa, le tecnologie della green economy e dell’Ict, le catene commerciali ed una parte di quelle agro-alimentari. Tutti presi oggi dall’altalena degli spread, abbiamo smarrito ogni altra attenzione e dedizione ai temi dell’economia reale, quasi che anche qui fosse possibile una politica dei due tempi: prima il risanamento, obiettivo ovviamente necessario e imprescindibile, e poi dopo tutto il resto. Il governo di centrodestra, che ha governato otto degli ultimi dieci anni, non ha fatto solo danni sull’aumento della spesa corrente, la riduzione della spesa in investimenti e l’aumento del debito, ma ha insieme trascurato qualsiasi progetto e strategia di sviluppo per il sistema Paese. Per questo siamo messi così male. Per questo se vogliamo provare ad uscire dalle nostre difficoltà abbiamo bisogno di farlo tenendo assieme le due prospettive: il risanamento dei conti e la riqualificazione del nostro sistema produttivo. E dalla Germania proviamo ad imparare non soltanto l’etica della responsabilità fiscale, ma anche come si fa impresa e come si sostiene l’interesse nazionale.

L’Unità 03.08.12

"Teppisti, non contestatori", di Sergio D'Antoni

Ladri di diritti. Sabotatori. Nemici dei lavoratori Ilva. I responsabili del blitz che ieri ha tentato di rovinare la manifestazione unitaria possono essere chiamati in molti modi, ma non “contestatori”. Chi contesta, anche duramente, usa gli strumenti della dialettica e della democrazia. Sostiene tesi e propone alternative, rimettendole al voto e al giudizio dei più. Quando la protesta si riduce ad azione violenta e si rivolge contro quegli operai che si pretenderebbe persino di rappresentare, allora diventa puro teppismo. O, peggio, deliberata e destabilizzante strategia antisistema.
Piena solidarietà, dunque, ai leader dei tre sindacati, che hanno coraggiosamente deciso di concludere i loro interventi, dando forza agli strumenti del confronto alla rappresentanza democratica. E, soprattutto, pieno sostegno alle migliaia di lavoratrici e lavoratori che hanno dato forma a una lotta puntuale, pacifica, composta, ma non per questo meno dura. La responsabilità di queste persone conferisce una forza formidabile ai loro argomenti. A cominciare dal fatto che l’Ilva non può e non deve assolutamente chiudere. Serrare quei cancelli metterebbe per strada oltre 20mila lavoratori, tra dipendenti e addetti dell’indotto, causando un danno incalcolabile per quella terra, per il Mezzogiorno e per tutta l’Italia. È evidente che non è ammissibile alcuno scambio tra lavoro e salute pubblica. Ma è altrettanto chiaro che se esistono – come sembra che esistano – possibilità di coniugare i processi di bonifica con la continuità produttiva, queste devono essere colte ad ogni costo. Vuol dire, per essere chiari, non interrompere le colate a caldo prima di aver fatto ogni verifica su possibili soluzioni alternative. Dopo Termini Imerese un altro pezzo fondamentale dell’industria meridionale rischia di trovarsi al bivio tra la sopravvivenza e la scomparsa.
La chiusura di una della più importanti realtà produttive meridionali determinerebbe una desertificazione industriale e sociale difficilmente reversibile nell’attuale contesto congiunturale.
Causando danni all’economia di tutto il paese e producendo ripercussioni inimmaginabili sul sistema-Mezzogiorno. Basti pensare, per fare solo un esempio, al rischio di dissipazione pressoché irreversibile del capitale umano che opera nell’impianto. Un vero e proprio tesoro fatto di specializzazione e professionalità, che ha protetto il territorio da un destino di emigrazione collettiva.
In questa fase cruciale, il governo deve farsi protagonista e garante della immediata attuazione del protocollo di risanamento definito con le parti sociali. Buone notizie sono arrivate ieri dal ministro dell’ambiente Corrado Clini e da quello dello sviluppo Corrado Passera, che hanno annunciato l’intenzione di sottoporre al consiglio dei ministri di oggi un decreto che consenta di accelerare le bonifiche necessarie all’avvio della produzione eco-compatibile. Un passo importante, che deve trasformarsi in un cammino verso concreti strumenti di sostegno nazionale. Vuol dire realizzare investimenti pubblici, ripristinare fiscalità di sviluppo e attivare contratti di programma, ma anche formare quadri normativi rigorosi e coerenti, che impongano il reimpiego di una quota del profitto su tecnologie capaci di ridurre l’impatto ambientale.
Azioni in parte già avviate dall’amministrazione regionale pugliese che, negli anni del berlusconismo e in perfetta solitudine, ha imposto all’Ilva misure che abbassano drasticamente i limiti di inquinamento, inducendola a investire circa un miliardo di euro in innovazione ambientale. Questo confronto, sfociato più volte in vero e proprio scontro con l’azienda, ha già determinato l’abbattimento del 90 per cento dei livelli di diossina prodotti. È un risultato sufficiente? Probabilmente no. Tuttavia è impossibile non riconoscere in questo traguardo l’avvio di un cammino virtuoso. Forte del sostegno e del ritrovato impegno del governo nazionale, questo percorso va ora accelerato e non certo fermato.

da Europa Quotidiano 03.08.12

"Prima vittoria "Quota 96". Pensioni negate ai docenti, Ministero condannato per abuso di potere", da orizzontescuola

Il tribunale di Oristano ha dato ragione a quei docenti che si sono visti negare la pensione a causa della riforma Fornero che non prendeva in considerazione le peculiarità del sistema pensionistico per i docenti, che segue l’anno scolastico e non solare. Ringraziamo l’avvocato Naso per averci fornito la sentenza. I ricorrenti hanno chiesto al giudice del lavoro di annullare gli effetti della legge Fornero relativamente a quanti avrebbero conseguito l’età pensionabile il 1 settembre 2012 e ai quali era stato impedito di andare in pensione a causa della riforma pensionistica.

Infatti, il Decreto del Presidente della Repubblica del 28 aprile 1998, numero 351, dispone che il collocamento a riposo del personale scolastico decorra dall’inizio dell’anno scolastico accademico successivo alla data di presentazione della domanda amministrativa di collocamento a riposo.

I ricorrenti lamentavano che per effetto della riforma pensionistica veniva pregiudicato il loro diritto al collocamento in quiescenza subendo l’applicazione delle nuove più gravose disposizioni. E chiedevano la disapplicazione, in quanto illegittima, della circolare ministeriale n. 23 del 12 marzo 2012 emanata dal MIUR.

Il giudice ha sottolineato che il citato articolo del Decreto del Presidente della Repubblica numero 351 è tuttora vigente, di conseguenza, la decorrenza del trattamento pensionistico e per legge differita all’inizio dell’anno scolastico successivo a quello nel quale la domanda è stata presentata e che la circolare Ministeriale numero 23 appare viziato da eccesso di potere (sub specie di illogicità e ingiustizia manifesta), se non da “vera e propria violazione di legge”. Il personale della scuola viene, secondo i giudici, discriminato “irrazionalmente”.

Sempre secondo il giudice, si è determinata una illegittima disparità di trattamento tra i dipendenti del settore scolastico e il decreto ministeriale nella circolare del MIUR debbano essere, in sede cautelare salvo l’esito del giudizio del merito, provvisoriamente disapplicate.

Una vittoria che giunge dopo il fallimento della politica di cercare di riequilibrare l’irrazionale accanimento nei confronti del personale docente attraverso degli emendamenti da far applicare nella cosiddetta Spending review.

"Ferie negate ai precari, il Miur temporeggia ma i sindacati fanno blocco", di Alessandro Giuliani

Viale Trastevere, su ordine del Mef, attende l’esito del dl sulla spending review: nel frattempo la liquidazione delle ferie resta sospesa in via prudenziale. I rappresentanti dei lavoratori pronti a ricorrere in tribunale: leso l’art. 36 della Costituzione. È bene che Governo e ministeri di competenze sappiano che l’intenzione di rendere retroattiva la norma che blocca il pagamento delle ferie maturate dal personale precario, in via di approvazione definitiva assieme al decreto sulla spending review, costerà all’avvocatura dello Stato una notevole mole di tempo e di lavoro. Tutti i sindacati si stanno infatti muovendo, con l’intenzione di dare battaglia sino in fondo. A costo di portare la questione davanti ai giudici dei tribunali.
Il paradosso, sostengono i rappresentanti dei lavoratori e anche gli addetti ai lavori , è che per coloro che hanno svolto una supplenza sino al termine delle lezioni o al 30 giugno scorso si profilerebbe uno scenario beffardo: non usufruire dei due giorni e mezzo, circa, accumulati ogni mese e non percepire il corrispettivo economico, come avvenuto sino ad oggi. Mentre per gli altri supplenti, sia i temporanei sia gli annuali su posto vacante, il problema non si porrebbe: nel primo caso perché le ferie gli sono state già liquidate; nel secondo perché ne fanno uso (come il personale di ruolo) nei mesi di luglio e agosto. Si verrebbe quindi a creare una sensibile differenza di trattamento tra personale precario che opera nelle stesse scuole e nelle stesse condizioni.
A dare il là alle proteste era stata l’Anief alcuni giorni fa, annunciando diffide, che si sarebbe rivolato “ ai giudici per ottenere la liquidazione delle somme spettanti ai precari della scuola ”. E sostenendo che se fosse passato l’emendamento proposto al Senato dallo stesso sindacato, si sarebbe evitata, “ nel rispetto delle recenti sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di giustizia europea, l’apertura di una procedura d’infrazione nei confronti dello Stato italiano per la palese violazione della direttiva comunitaria che impone la monetizzazione delle ferie per il personale che non ha potuto usufruirne durante il servizio ”. Il sindacato di Pacifico è tornato alla carica nelle ultime ore parlando “ di errore sia di forma, sia di sostanza ” e confermando la linea dell’impugnazione perché “ nell’intento di fare ‘cassa’ sulla pelle dei precari, stiamo assistendo ad un tentativo di oltraggiare un diritto dei lavorativi e persino quanto previsto dalla Costituzione italiana ”.
Sul mancato pagamento ai supplenti delle ferie non godute si sono mosse anche la Flc-Cgil, a sua volta annunciando una dura lotta, anche legale, la Cisl Scuola e la Uil Scuola. Il sindacato di Di Menna, in particolare, ha contestato a voce il provvedimento, durante l’ultima riunione tenuta al Miur, reputando inapplicabile “ la retroattività della norma che vieta il pagamento delle ferie e ne impone la fruizione durante il servizio ”. E sottolineando che adottandola da subito “i supplenti con contratto fino al termine delle lezioni o fino al 30 giugno ” non potrebbero “ fruire delle ferie e, nello stesso tempo ” si vedrebbero “ negato il pagamento delle stesse. Con queste motivazioni la Uil ha chiesto il ritiro della circolare ”.
Non è rimasta a guardare nemmeno la Gilda degli insegnanti. Che prima ha definito “ inaccettabile ” la decisione dell’amministrazione “ in quanto nel dettato costituzionale le ferie sono per tutti un diritto irrinunciabile ”. Poi, attraverso il coordinatore nazionale, Rino Di Meglio, ha inviato una lettera ai presidenti di Camera e Senato ed al Ministro Profumo per chiedere un intervento di modifica, a questo punto a Montecitorio, del decreto legge 95/2012 dell´art. 5, comma 8: nella lettera Di Meglio spiega che “ c onsiderato che l´art. 36 della Costituzione recita: ‘Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi’, così come ribadito anche dal Codice Civile, riteniamo opportuno che in sede di conversione in Legge del D.L. 95/2012 l´art. 5, comma 8, venga modificato. Ci permettiamo di suggerire che, in particolare, al personale a tempo determinato sia garantito il diritto al pagamento delle ferie o in alternativa – conclude il coordinatore della Gilda – al prolungamento del contratto per un numero di giorni pari alle ferie maturate ”.
I sindacati, insomma, stanno facendo il massimo. Ognuno attraverso le strade che ritiene più opportune e convincenti. Se però le cose dovessero rimanere così, ipotesi tra l’altro molto probabile, visto che alla Camera il dl viene considerato praticamente “blindato” o comunque emendabile solo per contenuti di alta entità, la partita si sposterà sicuramente nelle aule di giustizia.
Il ministero dell’Istruzione, dal canto suo, ha fatto sapere che, in considerazione dell’esito degli emendamenti, la liquidazione delle ferie resta sospesa in via prudenziale, rinviando ulteriori interventi all’emanazione del testo definitivo del DL n.95/12. Ufficialmente quindi, tutto rimane fermo alle indicazioni espresse dal Miur il 2 4 luglio scorso, quando il Mef, sulla base della nota del Miur, ha dato ordine alle Ragionerie Territoriali di sospendere i pagamenti delle ferie ” in attesa della conversione in legge del decreto legge 95/2012 “.

da La Tecnica della Scuola 03.08.12

"Cassaintegrati, boom a luglio: in un anno +44%", di Melania Di Giacomo

Siamo già a 640 mila ore di cassa integrazione autorizzate quest’anno, con luglio che registra un vero record con 115 milioni di ore: viaggiamo sui livelli dell’anno nero 2010, quando fu sfondata quota un miliardo e duecentomila ore di cassa richieste dalle aziende. Il bollettino dell’Inps sugli ammortizzatori sociali è uno degli strumenti più veritieri per misurare lo stato di salute del nostro sistema economico. E i dati, che fanno il paio con quelli sulla disoccupazione al 10,8%, segnalano una grande sofferenza. Con la recessione che — secondo le stime aggiornate ieri dalla Confcommercio — si protrarrà anche al prossimo anno: in conseguenza di un andamento peggiore dei consumi, al -2,8%, e della «caduta profonda» degli investimenti (-6,5%), quest’anno il prodotto interno lordo segnerà il -2,2% (dal -1,3% delle previsioni di marzo), mentre nel 2013 calerà ancora la ricchezza prodotta, allo -0,3% (dallo zero).
«Il sistema produttivo — dice il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua — mostra ancora forti segni di debolezza; si poteva sperare che il 2010 fosse stato il punto più basso della crisi», infatti nel 2011il ricorso alla cig è leggermente calato, ma «nei primi sette mesi di quest’anno dobbiamo registrare un incremento». L’8,7% in più. E nel solo mese di luglio + 21,3% rispetto a giugno (95,4 milioni di ore) e +44,2% rispetto a luglio scorso (80,3 milioni). Cui si aggiungono oltre 92 mila richieste di disoccupazione, e 7.700 mobilità. Rispetto a un anno fa cala la cassa ordinaria del 71%, quella straordinaria del 36% e quella in deroga del 33%.
Una batteria di cifre che nasconde, secondo la Cgil , oltre 2 miliardi di reddito in meno per le loro famiglie e oltre mezzo milione di persone in cassa integrazione a zero ore, vicine quindi a perdere il lavoro. In un circolo vizioso che si traduce in meno consumi, crisi aziendali e licenziamenti. Infatti i dati dell’Inps fanno il paio con quelli della Confcommercio sulla spesa delle famiglie, con «la caduta più forte almeno dal dopoguerra». In questo modo il Pil in Italia «sta raggiungendo i suoi minimi storici», spiega il direttore dell’ufficio studi, Mariano Bella: tradotto in termini pratici per il commercio significa che tra aperture e chiusure nel 2012 c’è «un saldo negativo di oltre 20 mila esercizi, ma forse la stima è ottimistica».

Il Corriere della Sera 03.08.12