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Il centrosinistra in Italia è la stabilità della prospettiva europea

Il Segretario del PD Bersani, il leader spagnolo del Psoe, Alfredo Pérez Rubalcaba e la vicesegretaria Elena Valencian, hanno tenuto un incontro e una conferenza stampa congiunta, presso la sede nazionale del Partito, per discutere sulla crisi economica che accomuna i due Paesi fratelli, Italia e Spagna. “Per affrontare la crisi è necessario che la politica rialzi la voce, altrimenti non ne veniamo fuori”, ha dichiarato il Segretario del PD Pier Luigi Bersani , parlando delle risposte da dare alla crisi dopo l’incontro con il leader socialista spagnolo del Psoe, Alfredo Perez Rubalcaba e la vicesegretaria Elena Valenciano , presso la sede nazionale del Partito. “Siamo Paesi fratelli e Partiti fratelli e siamo molto preoccupati”.

Bersani durante la conferenza stampa, assieme al segretario del Psoe, ha commentato l’ esito della riunione del board della Bce . “L’andamento della riunione della Bce ci lascia preoccupati perchè temiamo e abbiamo la percezione che la opinione pubblica europea e internazionale abbia inteso parole forti ma decisioni precarie e deboli. L’unica strada – ha proseguito il Segretario democratico – è quella di affrontare la crisi mettendo in comune le risposte e la politica fiscale ed economica , per poi arrivare agli Stati Uniti d’Europa . Può sembrare utopico – ha aggiunto – ma se non si danno risposte politiche faremo passi rapidissimi in una prospettiva di disarticolazione dell’Europa. Non è democratico il meccanismo dove la Banca Centrale non può fare la Banca Centrale perchè non c’è una politica economica e fiscale coordinata”.

Il leader del PD ha quindi garantito sulla linea filoeuropeista del PD. ” Il centrosinistra in Italia rappresenta la stabilità della prospettiva europea . Abbiamo fatto sforzi per far entrare l’Italia in Europa e con i governi Prodi , Amato e D’Alema sforzi per rispettare gli accordi europei ed internazionali. Mi spiace però – ha affermato – che il mondo debba vedere che un pezzo d’Italia ha qualche dubbio sull’Euro. E’ pericoloso per l’Italia. Le ricette in casa nostra le facciamo noi ma l a fedeltà all’Europa è una garanzia “.

Bersani ha chiesto “che vengano attuate le decisioni prese a Bruxelles”, ma ha chiesto anche ” un’iniziativa politica per rafforzare l’Europa perchè la messa a rischio dell’Euro finisce per creare un arretramento politico culturale e di civilizzazione di questa area del mondo”.

Per il Segretario del PD insomma questo ” è un tema politico, non delle banche . A questo punto riteniamo che ormai la questione non può più essere affidata solo ai ministri del Tesoro, alla Bce e così via, perchè è in gioco il destino dell’Europa , non è più solo un tema economico ma della prospettiva europea. Riteniamo e ribadiamo – ha concluso – come ha detto il governatore della Banca d’Italia, che solo una parte dell’andamento dello spread è dovuto al deficit di competitività, ma che la gran parte dell’andamento dello spread è riferibile all’attacco in atto all’Euro e se continuasse questa politica di avvitamento tra austerità e recessione, i Paesi che stanno al margine potrebbero solo aumentare”.

Molto preoccupato è apparso anche il Segretario del Partito Socialista Spagnolo, Rubalcaba, per il quale ” la situazione economica spagnola è difficile ma è vero che la Spagna e l’Italia sono finite nel mirino degli speculatori che attaccano l’Euro “.

In fine Bersani ha risposto con una battuta ad un giornalista spagnolo che gli ha chiesto se il PD abbia risolto il nodo delle coppie di fatto anche omosessuali. “Abbiamo individuato un riconoscimento giuridico come in Germania, non siamo arrivati alla Spagna. Siamo, su questo, filotedeschi. Sullo spread meno” .

www.partitodemocratico.it

"Quello spread tra regole e speranze", di Franco Bruni

Ieri Draghi ha deluso i mercati. C’è stato qualcosa di troppo nelle aspettative suscitate dalle sue affermazioni della settimana scorsa, oppure c’è stata qualche inadeguatezza nelle decisioni di ieri. Forse un po’ di entrambe le cose: nel discorso di Londra non è stata ascoltata l’insistenza con cui sottolineava che Francoforte sarebbe intervenuta con forza ma rimanendo «nell’ambito del suo mandato»; ma è possibile che lo stesso Draghi sperasse di ottenere maggior consenso, subito, attorno a qualche prima mossa concreta, che confermasse le intenzioni combattive antispread che aveva preannunciato. Comunque, fra l’impazienza dei mercati e i tempi delle decisioni politico-economiche rimane troppa distanza: i mercati dovrebbero farsi meno nervosi e la politica più spedita.

La Bce vuole muoversi con indipendenza, ma in un quadro di rafforzato coordinamento con la Commissione e con i fondi intergovernativi salva-Stati. A ciascuno il suo compito.

La Bce userà il suo bazooka per comprimere quella parte degli spread che si può attribuire al fatto che i mercati pensano possibile una rottura dell’euro e un ritorno alle monete nazionali: eventualità che la Bce esclude risolutamente, mettendo in gioco tutta la sua credibilità. Ma per far ciò vuol essere sicura che, in parallelo, gli organi comunitari e i fondi salva-Stati intergovernativi disciplinino quella parte degli spread che non dipende dal rischio di rottura dell’euro ma dai rischi di illiquidità e insolvenza causati dai difetti del governo dell’economia europea nel suo insieme, dai suoi squilibri e dall’eccessiva lentezza con cui alcuni Paesi «mettono la propria casa in ordine».

La novità che, in un certo senso, spiega il tono del discorso di Draghi della settimana scorsa, è che negli ultimi vertici europei ci si è convinti davvero che gli spread non sono solo colpa delle «case in disordine» e che per difendere l’integrità dell’euro servono anche interventi possenti della banca centrale. Ma è un consenso che ora deve tradursi in coordinamento tecnico e la Bce non può e non vuole fare la superpotente che salva tutti senza condizioni e supplendo all’inazione altrui. E nemmeno vuole tornare a fare come quando cominciò a comprare i titoli italiani l’anno scorso e fu lei, irritualmente, a scrivere le condizioni dell’aiuto, in una lettera dove giunse a chiederci di riformare il diritto del lavoro. A ognuno il suo mestiere: i Paesi che vogliono aiuto per ridurre lo spread lo chiedano e rispettino le condizioni che concorderanno con gli organi comunitari a ciò preposti; questi organi siano intelligenti, tempestivi ed efficaci; dopodiché la Bce farà senz’altro tutto il necessario («e, credetemi, sarà sufficiente») per sradicare dal mercato la paura che qualcuno cerchi di uscire dai guai spezzando l’euro. Lo farà in modo trasparente, ha detto Draghi; e lo farà con convinzione, perché è evidente che la rottura dell’euro non guarisce nessun guaio: prima o poi, bontà loro, lo capiranno anche i mercati e lo spread da rischio di cambio tenderà a svanire.

In sostanza ieri la Bce ha aggiunto un suo progetto di intervento alle misure decise dal Consiglio di fine giugno. Anche il suo progetto, come le misure del Consiglio, richiede qualche tempo per essere messo a punto e Draghi ha elencato i comitati che lo dettaglieranno. Nel frattempo, il Consiglio potrebbe affidare alla Bce una nuova responsabilità che, sempre nell’ambito del suo mandato, la impegnerebbe nella supervisione unitaria e accentrata dei sistemi bancari dei Paesi dell’area dell’euro, la cui vigilanza è ancora nelle mani opache e protezioniste dei governi nazionali. Il che diffonde sospetti di trattamenti poco rigorosi e di inadeguata solvibilità di alcune banche e distorce la circolazione internazionale della liquidità, che tende a concentrarsi nei Paesi considerati meno rischiosi. Ragion per cui, fra l’altro, non ci si sarebbe potuta attendere grande efficacia da rinnovate violente iniezioni di liquidità che la Bce avesse deciso ieri: a che pro rendere ancor più liquida la Germania? Con un’euro-area meno segmentata e più uniforme, gli interventi della Bce potranno diventare più diversificati e potenti, capaci persino di tornare a mirare a facilitare la crescita, cosa che oggi non riesce nemmeno a tassi di interesse minimi, quali quelli che pratica la Bce, il cui impatto sul costo effettivo del credito è stravolto dai premi al rischio che allargano gli spread.

Occorre dunque armarsi di pazienza e attendere che l’intenso lavoro europeo di coordinamento politico, tecnico e istituzionale dia i suoi frutti. Forse con qualche slancio in più di quelli che a volte distinguono i banchieri, una briciola concreta del progetto si sarebbe potuta anticipare già ieri, per non frustrare l’onda di entusiasmo suscitata dalle parole di Draghi a Londra. A beneficiarne avrebbero potuto essere proprio i Paesi dove, come in Italia, è maggiore la sproporzione fra lo spread e l’azione di riforma e disciplina finanziaria messa in atto dal governo in accordo con la Commissione.

Ma il tentativo, da molti suggerito o atteso, di soffocare di colpo gli spread e i complicati guai dell’euro-area col bazooka della Bce, avrebbe consentito festeggiamenti per qualche giorno, forse qualche settimana, ma a costo di gravi delusioni successive. Anche perché se la Bce trascurasse i ruoli degli altri organi comunitari ne diminuirebbe la credibilità. E ciò non gioverebbe nemmeno alla sua.

Resta il fatto che, come ha detto chiaramente ieri Draghi, se l’Italia vorrà un aiuto per ridurre lo spread, lo dovrà chiedere, sottoscrivendo le relative condizioni, anche se ritiene di meritarlo molto più basso. Ma c’è un impegno del Consiglio di giugno a far sì che la sua buona dose di «virtù» abbia un riconoscimento: le condizioni saranno definite con celerità e flessibilità e rifletteranno i programmi di riforma e aggiustamento già concordati con la Commissione e che, pasticci partitici permettendo, stiamo realizzando con impegno.

La Stampa 03.08.12

"Per Francoforte è un passo avanti", di Andrea Bonanni

I mercati che hanno reagito così negativamente all’esito del Consiglio Bce sembrano non aver afferrato fino in fondo la portata della nuova mossa di Draghi. Il presidente della Banca centrale europea non ha fatto nessun passo indietro. Semmai ne ha fatti due avanti mettendo con le spalle al muro non solo i tedeschi, ma anche gli italiani e gli spagnoli ai quali chiede un impegno, formale e sostanziale, che li vincoli alla disciplina di bilancio oltre il prevedibile orizzonte politico. Una mossa che ha nel mirino soprattutto l’Italia e le incertezze sul dopo-Monti.
Vediamo in dettaglio il senso delle decisioni prese ieri a Francoforte. Rispetto al discorso di Londra, tanto apprezzato dai mercati, in cui annunciava l’irreversibilità dell’euro e la determinazione a fare «tutto il necessario » per salvaguardare la moneta unica, Draghi ha ottenuto il consenso unanime (non scontato) del board e del Consiglio dei governatori. Rispetto alla prospettiva di un intervento della Banca centrale
sul mercato dei titoli per limitare lo spread, il presidente ha incassato una larghissima maggioranza: hanno votato a favore perfino due “falchi” come i governatori olandese e finlandese (e in questo ci potrebbe essere lo zampino di Monti e della sua visita a Helsinki). La Bundesbank dissente, è ovvio, ma è in nettissima minoranza e anche l’altro esponente tedesco nel board della Bce, Asmussen, designato dalla Cancelliera, ha dato parere positivo. Dunque l’intervento si potrà fare, quando e come la Bce lo riterrà opportuno. In più Draghi ha anche ottenuto un via libera a utilizzare «mezzi non convenzionali», come nuove facilitazioni di credito alle banche, che ora sono allo studio e potrebbero essere messi in campo nelle prossime settimane.
Ma ieri la Bce ha ulteriormente alzato il tiro rispetto al discorso di Londra, coerentemente con le premesse di Draghi secondo cui l’azione di Francoforte deve andare in parallelo con l’impegno dei governi a fare le riforme e a proseguire nel risanamento dei bilanci. In sostanza, la Banca centrale ha lasciato capire che il suo intervento sarà condizionato all’attivazione del meccanismo anti-spread del fondo Efsf, e successivamente dell’Esm. Non è forse quello che avrebbero voluto i politici italiani, che speravano in un intervento della Bce per evitare di chiedere aiuto al fondo europeo e accettarne le condizioni. Ma Monti, probabilmente, aveva già capito da qualche tempo dove si andava a parare e lo ha lasciato intendere quando da Helsinki ha accennato alla possibilità di attivare lo scudo antispread.
In sostanza, la Bce dice: noi siamo pronti a intervenire per ridurre gli spread, conservare la cinghia di trasmissione della politica monetaria e annullare quella parte di divergenza dei tassi che è dovuta alla sfiducia nella sopravvivenza della moneta unica. Ma per farlo vogliamo una garanzia tangibile da parte dei governi a rischio sul fatto che le politiche di risanamento non verranno modificate neppure in futuro.
La richiesta è legittima, soprattutto viste le incertezze del quadro italiano, dove una parte consistente del mondo politico critica, apertamente o velatamente, le scelte del governo Monti e dove i partiti in nove mesi non sono riusciti a varare neppure una riforma elettorale credibile. In questo momento, oggettivamente, l’Italia non è in grado di garantire né all’Europa né ai mercati che la politica di rigore e risanamento continuerà anche nei prossimi cinque-dieci anni, che è l’orizzonte temporale necessario per varare la federalizzazione dei bilanci europei.
Per ottenere garanzie sul futuro, dunque, la Bce chiede che il suo intervento sia preceduto dalla richiesta dei Paesi sotto attacco di attivare il meccanismo anti-spread, con le condizionalità che questo comporta. È proprio ciò che Monti avrebbe forse voluto evitare. Ma, nella sua crociata per salvaguardare una piena sovranità sulle politiche di bilancio, non è certo stato aiutato né dall’opposizione né da una consistente fetta della maggioranza che lo sostiene.
Intendiamoci, grazie alla battaglia condotta dall’Italia al vertice di giugno, l’attivazione dello scudo anti-spread non comporterà nuove condizioni aggiuntive (come era successo per Grecia, Irlanda e Portogallo). Semplicemente Roma si impegnerà a rispettare, ora e in futuro, le stringenti linee guida che ha concordato con Bruxelles. E che dovrà continuare a concordare anno dopo anno, governo dopo governo, nel corso del cosiddetto “semestre europeo” in cui ciascun Paese sottopone i suoi progetti di bilancio all’approvazione di Bruxelles. La garanzia in più per gli europei, e per i mercati, verrà dal fatto che nessun futuro governo potrà ottenere carta bianca per bilanci meno che rigorosi e per politiche economiche che non rilancino la competitività. E che una ipotetica violazione degli impegni assunti sul fronte europeo non sarà solo punita con le procedure di infrazione e le multe, già previste nei trattati, ma verrà immediatamente sanzionata dalla sospensione degli interventi anti-spread che ci esporrebbe ad un rischio imminente di bancarotta.
Porgendoci una cima di salvataggio, Draghi si vuole assicurare che, una volta salvati, non torneremo a far rovesciare la barca europea con comportamenti irresponsabili. Ed è proprio questa mossa che gli ha garantito ieri l’appoggio, tutt’altro che scontato, della Cancelliera e delle banche centrali del Nord.

La Repubblica 03.08.12

"La sinistra e i moderati", di Michele Prospero

Le prossime elezioni richiedono alle forze politiche una attitudine alla invenzione strategica. Non basta allestire, con la necessaria duttilità tattica, la coalizione vincente. Dopo la rovinosa caduta del berlusconismo, in gioco sono anche questioni di più lunga durata. Oltre alle alleanze dettate dal calcolo e dalle opportunità, occorre anche una proposta dal respiro strategico, la sola che possa chiudere un ciclo storico fallimentare e aprire i cantieri per un’altra fase della Repubblica.

L’alleanza della sinistra con forze moderate può assumere i caratteri di una soluzione strategica alla crisi italiana. Essa però va declinata non già come una semplice formula di governo dettata dai testardi numeri, ma come una via maestra per guidare la transizione nel solco di un nuovo patriottismo costituzionale. Il nucleo forte del realismo politico risiede proprio in questo assillo per abbozzare una risposta della politica al disfacimento dei rapporti di potere. Le transizioni politiche, cioè le fasi dense di incognite che seguono una caduta di regime, vanno anzitutto governate. Se si lascia scorrere un processo storico di destrutturazione degli antichi equilibri di potenza senza preoccuparsi di fornire il governo politico che scongiuri i vuoti, le sorprese più amare non mancheranno di affiorare favorendo un ripiegamento regressivo.

Accadde così negli anni ’90. Allora fu bistrattato il canone del realismo per inseguire dei velleitari sogni di gloria. Mancò ogni idea di confluenza costituzionale tra gli eredi delle grandi culture politiche. Non fu accolta neanche la disperata richiesta di Gerardo Bianco di spostare solo di qualche mese la data del voto, per dare così la possibilità ai moderati di riorganizzarsi in vista della contesa nei collegi maggioritari. La rottura, consumata in un delicato passaggio di transizione, tra la sinistra e il centro favorì però la scorciatoia plebiscitaria. Quando la sinistra scorda la lezione originaria del «partito nuovo» (ma anche il nucleo vitale del compromesso storico di Enrico Berlinguer), e agevola la migrazione di un’area moderata nel blocco delle forze populistiche, agevola un collasso di portata storica.

L’esperienza della seconda Repubblica conferma i guasti del connubio tra le destre e i moderati. Solo le dure repliche avute dalla farsa berlusconiana hanno restituito al centro la ragione politica smarrita, che svela l’impossibilità per i moderati di convivere in una condizione subalterna entro la coalizione di destra. Dopo la distruzione della seconda Repubblica non emerge una normalizzazione per cui un responsabile partito di centro ha l’opportunità di creare un polo alternativo alla sinistra. Il centro resta una porzione minoritaria che si è distaccata dalla destra favorendo l’implosione del potere berlusconiano che ora cerca però di riemergere cavalcando le componenti populistiche variegate in circolazione.

In futuro l’area moderata potrà aspirare ad occupare uno spazio politico alternativo a quello della sinistra. Ma nella transizione che si è aperta, e nel bel mezzo di sovversivismi mai sopiti, un esplicito patto costituzionale con la sinistra è un atto di grande responsabilità storica, cui il moderatismo non potrà sottrarsi. Il centro attuale non è l’area cattolica progressista erede di Moro e del dossettismo, e che solo per una vicenda originale della storia italiana abitava in un partito ad egemonia moderata. È un soggetto di ispirazione cattolico-liberale che rigetta il codice del populismo e respinge ogni seduzione plebiscitaria. In un momento di crisi, non si può certo trascurare questa positiva realtà di un centro provvisto di una lealtà costituzionale e di una cultura parlamentare.

Quella inaugurata nel 1994 si è rivelata una transizione (verso un altro sistema di partito) senza consolidamento (con regole condivise, con la legittimazione reciproca degli attori). La prospettiva attuale deve essere quella di trovare un rapido consolidamento (per rafforzare l’efficacia del regime parlamentare) alla transizione inaugurata con il crepuscolo del populismo. Per quanto la cecità degli avversari costringa a giocare una partita nuova con regole arrugginite, bisogna mantenere saldo il proposito di edificare argini contro la frantumazione. Il consolidamento della transizione chiede di porre rimedi alle coalizioni liquide attraverso una recuperata funzione di grandi partiti (capaci di supportare una leadership altrimenti sotto ricatto malgrado i gazebo). L’alleanza con il centro non si risolve in una scena trasformista purché la sinistra, così traspare nella carta di intenti, ritrovi i resti delle sue antiche cose (identità, radicamento, partecipazione).

l’Unità 03.08.12

Due agosto, Bologna in piazza "Non hanno vinto loro, abbiamo vinto noi", di Rosario Di Raimondo e Micol Lavinia Lundari

Il silenzio. Le gerbere bianche indossate dai parenti delle vittime. I gonfaloni. Lo striscione “Bologna non dimentica”. Gli applausi. Un orologio fermo sulle 10:25. Il dolore, la rabbia e la speranza, negli occhi di chi c’era, di chi è troppo giovane ma vive ogni anno, sulla sua pelle, l’emozione di ricordare. Bologna non dimentica e non l’ha fatto nemmeno oggi, 32esimo anniversario della strage alla stazione. Ottantacinque i morti, oltre 200 i feriti, una città in ginocchio e una nazione ferita. Bologna non dimentica, i bolognesi non lo faranno mai, scandisce il sindaco Virginio Merola. “Ognuno di noi porta nel cuore una cicatrice. Ma sappiamo che non hanno vinto loro, abbiamo vinto noi”. “Hanno perso, e si sono persi, i terroristi fascisti”. Hanno vinto i bolognesi, che come ogni anno, hanno sfilato in corteo e riempito piazza Medaglie d’oro, alla stazione. Per chiedere verità completa: che si conoscano, finalmente, i mandanti della strage.

Oggi, come 32 anni fa, Bologna scende in piazza per ricordare quel sanguinoso sabato d’estate. Torna il Governo, assente da due anni alla commemorazione. E torna nella veste dell’ex commissario prefettizio della città, Anna Maria Cancellieri, oggi ministro dell’Interno. Prima un incontro in Comune con il sindaco Merola, Paolo Bolognesi – presidente dell’associazione che riunisce i familiari delle vittime – e i cittadini. Poi il corteo lungo via Indipendenza, che scandisce lo slogan: “Bologna non dimentica”. Infine, il minuto di silenzio davanti alla stazione, in piazza Medaglie d’oro, dove il sindaco e Bolognesi parleranno dal palco davanti a quell’orologio che è, è sarà per sempre, fermo alle 10.25.

Napolitano. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato un messaggio a Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime: “Nel trentaduesimo anniversario della strage rivolgo il mio pensiero commosso alle ottantacinque vittime di quel vile atto terroristico e agli oltre duecento feriti, rimasti indelebilmente segnati dall’orrore di quella mattina, e sono vicino ai famigliari delle vittime e dei feriti. Il decorrere del tempo non lenisce il loro dolore e rinsalda in essi l’impegno nel perpetuare la memoria di uno dei più tragici fatti della storia del nostro paese”.
In Consiglio comunale. Come da programma, la prima parte della giornata prevede l’incontro in Consiglio comunale tra il Sindaco Virginio Merola, il presidente dell’Associazione familiari delle vittime del Due agosto Paolo Bolognesi e il ministro Anna Maria Cancellieri. “Anna maria, è un vero piacere che sia proprio tu a rappresentare il governo per quello che ti lega a questa città”.
Cancellieri. “Dobbiamo arrivare alla verità e qualunque passo sarà necessario fare per arrivare alla verità noi lo faremo. Perchè noi dobbiamo andare al di là della verità giudiziaria” ha detto il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. Rivolgendosi ai familiari, nella Sala Rossa di Palazzo d’Accursio, ha aggiunto: “L’unica ragione di Stato è la verità e la trasparenza. Molti interrogativi sono ancora senza risposta, io sono con voi. Cari mamme, papà, figli, avete pagato un prezzo assurdo”.
L’ipotesi di un commissario. “E’ in corso un’evoluzione positiva in materia di accesso agli atti”, conferma Cancellieri. “Ieri – aggiunge – è stato approvato un provvedimento che amplierà i poteri del parlamento sul controllo del segreto di Stato”. Il ministro mette a disposizione i suoi uffici per “superare le difficoltà di interpretazione della legge” che riconosce benefici alle vittime del terrorismo e delle stragi. E se non dovesse bastare, il ministro si dice disponibile a nominare “una sorta di commissario straordinario per risolvere quei nodi”.

La soddisfazione dei parenti delle vittime. Quello del ministro “sulla legge 206 e l’impegno ad andare avanti per risolvere il problema interpretativo (sui risarcimenti alle vittime, ndr), eventualmente anche con un commissario straordinario, va bene, è nella direzione delle nostre richieste”. Lo ha detto Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime della strage del 2 agosto.

Il corteo. Dopo l’incontro in consiglio comunale, un corteo formato da autorità, cittadini e gonfaloni ha percorso tutta via Indipendenza fino al piazzale della Stazione. In testa al corteo, lo striscione “Bologna non dimentica”. Poi, in piazza Medaglie d’oro, il commosso minuto di silenzio alle 10.25, ora dello scoppio della bomba il 2 agosto 1980.

Sul palco. Parla Paolo Bolognesi, presidente dei familiari delle vittime, che attacca il deputato finiano Enzo Raisi: “Merita solo disprezzo”, dice, dopo che negli scorsi giorni il finiano ha detto che Mambro e Fioravanti, esecutori materiali della strage, sono innocenti, e dopo aver definito Bolognesi un abusivo.

Il sindaco Merola. “Non hanno vinto loro, abbiamo vinto noi”: il sindaco di Bologna, Virginio Merola, dal palco della stazione di Bologna dove è stato commemorato il 32esimo anniversario della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, ha voluto sintetizzare così l’impegno dell’intera città a far sì che la verità storica sulla strage, accertata dai processi già passati in giudicato, non venga mai dimenticata. “Abbiamo tramandato una storia terribile e seria – ha detto ancora il sindaco – per 32 anni non abbiamo smesso di raccontare questa storia e non smetteremo mai di raccontarla”.

Bologna calcio, un minuto di silenzio in ritiro. Fuori città, ma col cuore in piazza Medaglie d’oro. Il bologna Fc, in ritiro a Sestola, Appennino modenese, durante la seduta di allenamento mattutina al campo alle 10:25 ha osservato un minuto di silenzio, come voluto dall’allenatore Stefano Pioli.

da repubblica.it

"Sisma emiliano, scosse inglesi", di Stefano Pitrelli

Imprenditori pronti a rimetterci per tenersi il cliente. Per quanto?. «Può il battito d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?», chiedeva il matematico americano Edward Lorenz. Certo è che in questi giorni le crepe del sisma emiliano stanno lambendo le sponde inglesi, perché quella sotto i piedi dell’industria biomedica italiana – che trova il suo cuore nella devastazione di Mirandola – è un’unica grande e minacciosa faglia. Che l’Italia sta ignorando, a suo rischio e pericolo.
Tutto comincia in Inghilterra, con l’allarme lanciato dal ministero della salute britannico – riportato lunedì dal Financial Times e dal Telegraph– e da tre importanti ospedali londinesi: due designati per le Olimpiadi e uno pediatrico. Qui i macchinari per la dialisi, tutti firmati dall’americana Baxter, per funzionare adoperano indispensabili tubicini di gomma monouso. Parti che la multinazionale – con sedi in ogni continente – produce solo a Mirandola. Interpellata da Europa, la Baxter ora “corregge” quanto scritto in una lettera pubblica alla sanità d’Oltremanica, garantendo che i suoi due fornitori emiliani, la Bellco e l’Haemotronic, alla fine saranno comunque in grado di coprire il temporaneo buco di fornitura paventato dagli inglesi.
La vicenda testimonia la tenacia emiliana degli imprenditori del settore: pur di servire – e conservarsi – il cliente, confidano più fonti, «ci rimettiamo senza sapere quanto resisteremo». Disposti a produrre presso – o comprare da – i competitor di un tempo, imparentati nella disgrazia. Oppure ad uscire dalla regione, come ha dovuto fare l’Haemotronic attivandosi in Veneto per l’occasione (lo dicono dalla Baxter).
La storia londinese funge pure da termometro di quella febbre che sta colpendo, postsisma, la punta d’eccellenza del polo biomedicale mirandolese, dove delle 150 aziende (con un giro d’affari stimato intorno agli 800 milioni), almeno il 70 per cento, solo a fine maggio, aveva subito danni.
«Chi è venuto qui nei primi giorni non può saperlo: prima molti edifici da fuori parevano intatti – ci spiega Maria Gorni, presidente di Consobiomed – ora le facciate sono crollate. Il 98 per cento del biomedicale, fra Mirandola, Medolla e Cavezzo, ha dovuto dislocare la produzione. Non c’è praticamente un immobile agibile. Io ho finito di spostarmi a Brescia, chi a Bologna, chi a Modena o Rovigo». Tutti in cerca delle cosiddette “camere bianche”, i delicati e specialissimi ambienti di lavoro sterili in cui le aziende del settore fabbricano i propri prodotti. Ambienti resi inutilizzabili dal sisma. Così affittano corriere e ci trasportano i lavoratori.
Altri problemi invisibili ma concreti sono le macchine specialistiche adoperate. «Attendo una taglierina da due mesi – continua la Gorni – perché l’azienda che la produceva non può farmela.
Anche i tempi di riparazione degli apparecchi sono esplosi.
Da 15 giorni a tre mesi. Infine i nostri prodotti, essendo usa e getta, vanno imbustati, e la più grande delle aziende di Mirandola che lo faceva è crollata».
Anche da Assobiomedica, la Confindustria di settore, la diagnosi è seria. Come ci racconta Fernanda Gellona, «al momento c’è un solo problema: un’azienda terremotata non è stata in grado di portare avanti il rifornimento di un ospedale, e quindi è subentrato un concorrente». Gli industriali non sembrano però tentati da eventuali fughe all’estero. Dall’estero invece – e in particolare dagli Usa – la concorrenza si sta muovendo eccome: «Se entro settembre la filiera non risponderà alle attese, i clienti se ne andranno altrove», avverte Ermes Ferrari del centro studi della Cna. Anche il FT lo fa ben capire: «Agli ospedali è stato chiesto di considerare l’acquisto di macchinari che adoperino tubi diversi». Cioè non italiani. Sulle soluzioni possibili Assobiomedica parla chiaro: «Chiediamo alle banche un occhio di riguardo». Ma meglio di tutti lo diceva Mauro Mantovani, l’imprenditore del settore vittima della prima scossa sotto il suo capannone: le piccole aziende hanno come cliente primario la sanità italiana, e «i tempi di pagamento sono esasperanti».

da Europa Quotidiano 02.08.12

"Taranto può rinascere. Occorrono scelte rapide", di Vittorio Emiliani

Morire di diossina o morire di fame? a Taranto molti vivono così il lacerante dilemma creatosi dopo che la magistratura ha deciso di chiudere le aree «a caldo» del più importante centro siderurgico italiano. La gravità dei dati tarantini sulle malattie respiratorie, sulla diffusione dei tumori è incontestabile. Ma le alternative occupazionali all’Ilva (gruppo Riva) – 12.000 dipendenti diretti e altri 6.000 nell’indotto – sono per ora quasi inesistenti. Il vecchio Arsenale è ormai ridotto ai minimi termini. Il sogno di un porto-containers strategico nel Mediterraneo – per il quale si era speso Prodi – è impallidito mesi fa col trasferimento al Pireo di alcune grandi navi di Evergreen e di Hutchison. L’agro-industria e il turismo, balneare e culturale, sono stati ridimensionati dalla «nuvola di smog» che grava sul territorio (la Regione ha proibito il pascolo nel raggio di 20 Km dall’enorme fabbrica). C’è «allarme rosso» per coltura dei mitili: tonnellate di cozze «alla diossina» sono state gettate. Un cortocircuito. Operai e sindacati difendono disperatamente la grande fabbrica, in origine Italsider, nata male, purtroppo. L’industria di Stato reclutò alcuni dei migliori cervelli per pianificarla. Per la parte urbanistica un maestro come il torinese Giovanni Astengo. La pianificazione deragliò subito però davanti alla scelta, fondamentale, dell’area. La proposta del tarantino ingegner Nino Mignogna che collocava il colosso sul fiume Tara a 7 Km. dalla città fu battuta per la fortissima, sconsiderata pressione operata sulla politica dai proprietari fondiari locali che lo volevano in una zona loro, disastrosamente vicina alla città, senza risorse idriche sufficienti. Per cui anche ora l’Ilva deve captare acqua dal Mar Piccolo devastato sul piano ambientale. Ed erano luoghi esaltati in antico da Virgilio e da Orazio che avrebbe voluto finire la propria vita qui, in riva al fiume Galeso. Le crisi mondiali dell’acciaio hanno ridimensionato in passato il centro siderurgico, poi privatizzato, gettando su piazza centinaia di disoccupati. Braccia di disperati per la malavita locale divenuta molto aggressiva col clan dei Modeo (160 morti ammazzati in pochi anni) e tuttavia debellata, sia pure con grande rischio e fatica, da giudici e forze di polizia. Una storia scritta con incisività dal magistrato Nicolangelo Ghizzardi e dal giornalista Arturo Guastella in «Taranto tra pistole e ciminiere», Icaro-Città Futura (2010). Una piovra criminale cresciuta proprio sulla disoccupazione di massa. Vicenda terribile che nessuno in città vuole rivivere. Si può risanare, riconvertire lo stabilimento siderurgico di Taranto? Si può preservare una quota di produzione siderurgica fondamentale per l’Italia secondo Federacciai? Il ministro dell’Ambiente, Clini, promette 336 milioni per la riqualificazione ambientale e ritiene possibile un «patto per Taranto», con una cabina regionale di regia. I fondi tuttavia non sembrano sufficienti: sono altamente inquinanti i depositi di minerali, qui scoperti, e in Giappone, invece, previsti in partenza coperti. Copertura molto costosa, certo, ma unico rimedio contro le polveri, contro il micidiale Pm5. Ridurre l’impatto ambientale dunque si può, anche se i costi industriali risultano elevati. Mentre, al momento, è irrealistico mandare a casa migliaia di dipendenti, diretti e indiretti, gettare sul lastrico migliaia e migliaia di famiglie che da quei faticati salari dipendono. Il porto-containers, con Evergreen di Taiwan e Hutchison Wampoa di Hong-Kong, può venire rilanciato sulle banchine di Taranto, ma esige investimenti rapidi, sicuri e consistenti: per fondali più profondi, per vaste aree attrezzate, per una ferrovia Taranto-Bari potenziata, per il quinto sporgente e altro ancora. Dunque anche la potenziale alternativa alla siderurgia costa, richiede scelte di fondo. Napoleone capì per primo l’importanza di questo antico scalo in funzione della rotta per l’Egitto. Tanto più importante oggi per l’oltre-Suez, per l’Oceano Indiano. Da quella scelta militare nacque più tardi l’Arsenale ed ora può rinascere il porto. Ma nessuno regala niente, anche nella concorrenza marittimo-portuale.

l’Unità 02.08.12