Le intenzioni dell’amministrazione comunicate ai sindacati: solo lievi ritocchi al ribasso. In arrivo il decreto per 20mila prof prima di Ferragosto. Conferme anche per dirigenti e educatori. Le 5.300 immissioni in ruolo di amministrativi, tecnici ed ausiliari minacciate dall’assorbimento di inidonei e Itp: se ne riparla dopo Ferragosto.
Ancora una buona notizia per docenti, educatori e dirigenti scolastici che aspirano all’immissione in ruolo: nell’incontro del 2 agosto con i direttori generali del ministero dell’Istruzione, i sindacati hanno appreso che l’amministrazione è sul punto di emanare i decreto di autorizzazione per la loro assunzione. Il contingente totale dovrebbe essere quello prospettato nei giorni scorsi, al massimo verrebbe ritoccato lievemente in difetto. Un piccolo decremento che i rappresentanti del Miur avrebbero legato alla politica di razionalizzazione delle spese introdotta attraverso il decreto sulla spending review.
In particolare, possono passare un ferragosto decisamente tranquillo i candidati docenti ben posizionati nelle graduatorie di accesso ai ruoli: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta delle GaE, poiché i vincitori del concorso a cattedre sono stati quasi già tutti assunti a tempo indeterminato nel corso dell’ultimo decennio. Per loro si prospettano, alla luce delle ultime notizie, circa 20mila assunzione. A cui dovrebbero aggiungersi un migliaio di dirigenti scolastici. Oltre ad alcune decine di educatori da assegnare ai convitti (il basso numero è dovuto al forte ridimensionamento di queste strutture, portato a termine proprio nelle ultime settimane).
Chi rimarrà col fiato sospeso sono invece gli aspiranti al ruolo come amministrativi, tecnici ed ausiliari: i direttori generali hanno spiegato che il loro numero potrebbe essere ritoccato in modo sensibile (si parte da un richiesta di oltre 5.300 unità) poiché l’assorbimento di inidonei e Itp potrebbe ridurre in modo tutt’altro che trascurabile: se ne riparlerà, quindi, dopo Ferragosto. Probabilmente non prima che si concretizzino le utilizzazioni ed assegnazioni provvisorie degli Ata: quindi il 23 agosto.
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Bersani a Monti: «Ora si apra la fase due», di Simone Collini
Un messaggio al governo: con l’approvazione della spending review, la prossima settimana, i «compiti a casa» sono stati tutti fatti, si chiude la fase delle manovre e si deve aprire la stagione dello sviluppo, del sostegno all’economia reale. E un messaggio a chi lavora per impedire a chi vincerà le prossime elezioni di governare e quindi per rendere obbligata anche nella prossima legislatura la strada delle larghe intese: «Vedo che in molti ci stanno provando, ma resteranno vittime delle loro macchinazioni».
Chi ha parlato in queste ore con Bersani ha trovato il leader del Pd da un lato preoccupato per la situazione economica, dall’altro soddisfatto per l’intesa siglata con Vendola per un nuovo centrosinistra, «di governo», disponibile a promuovere con l’Udc un «patto di legislatura».
Il buon risultato con cui ieri ha chiuso la Borsa e il calo dello spread hanno fatto tirare il fiato, però dall’Europa arrivano ancora «parole forte e fatti deboli» e secondo il leader democratico, che in questo fine settimana si sta muovendo tra Feste del Pd a Pisa, Cassano Magnago, Varese, anche in Italia il rischio di un «avvitamento tra rigore e recessione» rimane alto. Per questo Bersani è convinto che il governo ora debba da un lato avviare un’iniziativa politica a livello comunitario per applicare le decisioni assunte a Bruxelles, dall’altro aprire anche in casa nostra una fase nuova.
Incontri a breve a Palazzo Chigi non ci saranno, ma i contatti con il governo sono costanti. E il messaggio indirizzato a Monti dal leader Pd è questo: «Non si possono chiedere altri sacrifici, i compiti a casa li abbiamo fatti. Con l’approvazione della spending review va chiusa la fase delle manovre e aperta quella del sostegno allo sviluppo, delle politiche industriali per dare un po’ di lavoro, senza trascurare il fatto che senza un welfare efficiente non ci può essere crescita».
Ora si deve voltare pagina e non a caso, nell’ambito delle attività del Pd, Bersani ha conferito a Marco Minniti l’incarico di «Responsabile per la verifica dell’attuazione del programma del governo».
Ora serve un cambio di fase, è il ragionamento del leader Pd, perché altrimenti si lascia girare a pieno ritmo anche da noi quella «macchina infernale» vista all’opera in Grecia e Spagna, che «devono stringere sulla finanza pubblica, sul welfare e approvare manovre e ancora manovre, che provocano recessione e fanno crescere i fenomeni di rifiuto, di ribellione e i populismi di chi ritiene che non c’è più destra e sinistra».
A complicare le cose, da noi, c’è anche il fatto che a fianco di questi «populismi» si vedono all’opera movimenti per obbligare alle larghe intese anche nella prossima legislatura. Di fronte a un Pdl allo sbando e a una Lega che fatica a risollevarsi, sono questi fautori della grande coalizione anche nel 2013 i veri avversari da battere.
Dopo l’«eccezionalità» del governo Monti, sostiene Bersani, si deve tornare a un confronto bipolare, e dopo le prossime elezioni, «serve una maggioranza politica univoca, che prenda una strada e la percorra fino in fondo». Tanto che a chi gli domanda se ritenga possibile un Monti-bis, il leader Pd risponde in questo modo: «Se Monti fa outing e dice “sono del Pd”, ammazziamo il vitello grasso».
E gli impegni europei? «Non servono le larghe intese per mantenerli, non c’è bisogno di un governo di unità nazionale. Una destra che parla di ritorno alla lira non dà alcuna garanzia. È il centrosinistra che è sempre stato un pilastro del patto europeo».
La strategia di Bersani per sbarrare la strada alle larghe intese passa per l’approvazione di una legge elettorale che garantisca la governabilità con un premio sostanzioso, ma anche per la definizione di una coalizione «non settaria» e chiamata a rispettare impegni vincolanti in Parlamento.
Da qui l’intesa con Vendola e il lavoro per arrivare a un «patto di legislatura» con Casini, le primarie per dare una forte investitura popolare al candidato premier, l’apertura al mondo dell’associazionismo laico e cattolico che ora si gioca sul piano della discussione della «carta d’intenti» e poi in una rappresentanza nelle liste elettorali.
l’Unità 04.08.12
Ma siccome vincere le elezioni non basta per avere la certezza di «percorrere la strada fino in fondo», Bersani chiede anche ai futuri alleati di siglare precisi impegni vincolanti: sostenere per tutta la legislatura l’azione del premier, affidargli la responsabilità di formare il governo, decidere con un voto a maggioranza come dovranno esprimersi in Aula i gruppi che sostengono l’esecutivo.
"“Quota 96”: per il tribunale di Roma competente sarebbe la Corte dei conti", di Pasquale Almirante
Dopo la sentenza del giudice del lavoro di Oristano, che intima al Miur di mandare in pensione il personale della scuola spostando i benefici al 31 agosto 2012, a Roma si rimanda la decisione alla Corte dei conti. Per il giudice del lavoro di Roma, ci ha fatto sapere l’avvocato patrocinante i diritti del Comitato “Quota 96”, la competenza giurisdizionale a decidere in relazione alla controversia deve essere demandata alla giurisdizione della Corte dei Conti. Il Tribunale di Roma, con propria ordinanza, ha infatti stabilito oggi che la competenza a conoscere e a decidere la materia del personale della scuola va demandata alla giurisdizione della Corte conti. La stessa decisione, peraltro, è stata presa dal tribunale di Milano. Non si tratta di un motivato rigetto ma di una incompetenza funzionale del giudice adito nonostante quanto affermato dal Tar del Lazio nella propria sentenza. Infatti il Tar aveva rimandato al Giudice del Lavoro la competenza per risolvere la questione posta dal Comitato “Quota 96”, quella cioè di avere riconosciuto il diritti alla pensione derogando al 31 agosto 2012 i benefici concessi al resto del pubblico impiego al 31 dicembre 2011, sulla base dell’unica finestra di uscita concessa ai lavoratori della conoscenza, e ora il Giudice del lavoro rimanda alla Corte dei Conti.
Nell’incertezza dell’attuale situazione, ci fa sapere l’avvocato, proseguiranno comunque le azioni a difesa dei diritti del Comitato “Quota 96” innanzi al Tribunale del Lavoro per la fase di merito, innanzi alla Corte dei Conti, innanzi al Consiglio di Stato e in tutte le altre sedi opportune per avere giustizia.
Bisogna anche prendere in considerazione la possibilità che la Corte dei Conti, a sua volta, si dichiari incompetente e in questo caso bisognerà proporre ricorso in Cassazione per il regolamento di giurisdizione, mentre la sentenza del Giudice del lavoro di Oristano è comunque un punto fermo a fovare.
In ogni caso siamo nella fese iniziale di una battaglia legale che si prevede lunga ma non priva di colpi di scena anche perché la Flc-Cgil, la Uil Scuola, la Cisl Scuola e Gilda sono a loro volta impegnati a sostenere questo personale della scuola in altre sedi giudiziarie e con altri giudici del lavoro. Personale che comunque ha subito una evidente e ignominiosa ingiustizia perché non è stata riconosciuta la specificità del proprio apporto di lavoro con lo Stato. Il Miur infatti imponendo la continuità didattica (ricordiamo che i nuovi immessi in ruolo potranno chiedere trasferimento solo dopo 5 anni) stabilisce pure una sola finestra di uscita per la pensione coincidente con la fine dell’anno scolastico, il 31 agosto appunto.
E se quella è l’unica data utile per la quiescenza tutti i benefici fermi al 31 dicembre devono essere spostati per la scuola al 31 agosto. Non si può infatti solo chiedere senza nulla dare, come se a salvare la nazione debba essere solo questo manipolo di docenti.
La TEcnica della Scuola 04.08.12
"Ilva, oltre l'emergenza il futuro dell'industria", di Patrizio Bianchi
Si è detto mille volte in questi giorni: con l’Ilva è in gioco non solo il più grande impianto siderurgico europeo e la più grande fabbrica di lavoro del Sud, dopo lo Stato, ma un pezzo fondamentale dell’industria italiana. Il 45% della domanda di acciaio del sistema manifatturiero nazionale è soddisfatta da questo stabilimento, che rifornisce, dalle lamiere per le grandi casi automobilistiche europee (Fiat e Volkswagen) sino ai tubi per gli oleodotti siberiani. Eppure c’è un altro tema che l’intricata questione solleva con forza. Quello di ripensare quale debba essere il ruolo dello Stato, conseguente a scelte della politica, nel gestire la transizione dell’industria. Nessuna esperienza come quella dell’Ilva permette di leggere come proprio le scelte della politica, nel bene e nel male, abbiano determinato le diverse fasi della sua lunga storia. Lo stabilimento è un gigante che ha attraversato la storia industriale e politica italiana: che è stato prima fiore all’occhiello dell’industrializzazione di Stato, poi è sopravvissuto alle inefficienze della fase conclusiva delle Partecipazioni Statali e che, infine, con la privatizzazione e il passaggio agevolato al gruppo Riva, è riuscito a ristrutturarsi e a rientrare nel mercato. Una ristrutturazione irrisolta, che ha consentito all’azienda di riprendere a creare profitti e posti di lavoro ma che non ha diradato le nubi nere, non solo metaforiche, di una irrisolta questione ambientale. Seguendo un principio, già smentito dalla crisi finanziaria, del «too big to fail» – troppo grande per essere chiusa – una simile questione, la cui gravità è stata già da tempo evidenziata dalla magistratura, è stata trascurata e lasciata alla sola iniziativa delle comunità locali e, negli ultimi anni, della Regione. Solo in un Paese come il nostro, dove la foga liberalizzatrice ha cancellato dal perimetro delle politiche pubbliche la politica industriale, si può essere messi di fronte al bivio terribile e inaccettabile tra diritto alla salute e lavoro. Non c’è e non ci può essere scambio tra salute e occupazione, ma occorre, e si può, rendere compatibile la sopravvivenza di un grande impianto moderno con le ragioni dell’ambiente. Ciò richiede non fughe o chiusure di imprese, ma il reimpiego del valore prodotto attraverso il lavoro in investimenti pubblici e privati in tecnologie e ricerca (politiche industriali, insomma) che migliorino la qualità dei prodotti e riducano le emissioni inquinanti. In un clima difficile e in un contesto nazionale distratto, la Regione Puglia in questi ultimi anni, attraverso interventi normativi che prevedevano limiti di inquinamento assai più severi di quelle vigenti, ha reso possibile, in un confronto anche aspro con l’azienda, sensibili miglioramenti nelle emissioni di diossina (abbattute del 90%), inducendo l’Ilva ad investire oltre 1 miliardo di euro per l’innovazione in campo ambientale. Occorre ora capire se il gruppo Riva sia intenzionato a proseguire in questa direzione. L’intervento emergenziale, pur necessario, del governo che ieri ha stanziato 336 milioni di euro per la riqualificazione ambientale, non appare sufficiente. Non modifica lo scambio ineguale tra azienda che fa profitti e lo Stato che ripara i danni di uno sviluppo insostenibile. La sfida ora è più alta e più difficile. La rilevanza strategica per l’intero comparto manifatturiero nazionale dello stabilimento e il suo peso sull’economia locale è tale da richiedere un progetto a lungo termine per quest’area. Un progetto che può arrivare anche alla sperimentazione di forme di cogestione pubblico-private. Una nuova fase in cui si potrebbero sperimentare esperienze, diffuse in altri Paesi, a partire dalla Germania, in cui si realizzino forme di intesa tra capitale e lavoro, sempre più necessarie in un economia globalizzata. Il sindacato, a Taranto come in altre aree del Paese, si è dimostrato pronto a rispondere alla domanda di responsabilità. Ora sta alla politica riuscire a trovare i contenuti di una strategia che preveda interventi di politica industriale e anche queste forme di cogestione. Le prospettive di sopravvivenza e sviluppo di Taranto sono legate alla costruzione di un cammino virtuoso e sostenibile che poggi su uno sviluppo industriale in grado di creare risorse per investimenti tecnologici per la riduzione dei costi ambientali, e su un sistema normativo che alzi l’asticella della compatibilità ambientale con meccanismi di controllo pubblico severi e trasparenti a tutela della salute dei cittadini. Sta dunque alla politica in primo luogo, superando l’emergenza determinatasi con l’intervento della magistratura, creare le condizioni per un nuovo protagonismo pubblico che, senza richiamare esperienze passate, riassuma la permanenza delle nostre imprese in settori strategici con la tutela del diritto al lavoro e quello della salute dei cittadini
L’Unità 04.08.12
"Berlusconi, trattativa per la versione di Lavitola", di Dario Del Porto
«La salvezza di Valter Lavitola è la salvezza del mio cliente», disse uno degli avvocati dell’ex premier Silvio Berlusconi per sostenere la necessità di incontrare in Argentina Valter Lavitola. In quel momento l’ex direttore ed editore dell’Avanti! era latitante nell’inchiesta sui soldi versati all’imprenditore barese Giampaolo Tarantini per conto dell’allora presidente del Consiglio. E stava cercando di spillare al Cavaliere 5 milioni attraverso l’uomo d’affari italo-argentino Carmelo Pintabona, facendo leva sul timore che Berlusconi aveva di possibili segreti custoditi da Lavitola. Ora nei confronti di Lavitola e Pintabona è stata emessa, su richiesta della Procura di Napoli, un’ordinanza cautelare per estorsione aggravata ai danni di Berlusconi. Ma nell’inchiesta, con l’accusa di induzione dell’imputato a mentire (senza essere destinatari di richieste di provvedimenti restrittivi) entrano anche due penalisti: Eleonora Moiraghi, sostituto processuale di uno dei difensori di Lavitola, e Alessandro Sammarco, uno dei legali storici di Berlusconi.
Nella ricostruzione della Procura, gli avvocati Moiraghi e Sammarco «avrebbero tentato di avere contatti con il Lavitola e addirittura di raggiungerlo quando era a Buenos Aires». Appuntamento destinato a un «interrogatorio difensivo» di Lavitola ma che, secondo i pm, aveva «l’evidente scopo di far desistere Lavitola dal suo proposito estorsivo» o a fargli rendere dichiarazioni false. La sorella di Lavitola, sentita come teste, racconta di aver appreso dall’avvocato Gennaro Fredella, difensore del giornalista insieme all’avvocato Gaetano Balice, che l’avvocato Sammarco «qualificandosi quale legale di Berlusconi gli riferì che aveva la possibilità di offrire la salvezza a Valter Lavitola perché la salvezza di Lavitola era la salvezza del suo cliente». Circostanza che, a giudizio dei magistrati, è stata «sostanzialmente confermata» dall’avvocato Fredella, sentito come teste. Gli avvocati Balice e Fredella si opposero al viaggio in Argentina, dove poi si sarebbe recato il solo avvocato Moiraghi anche se l’avvocato Sammarco aveva acquistato entrambi i biglietti pagando 6 mila euro in contanti. Di che cosa aveva paura Berlusconi? «Non si può escludere che Lavitola effettivamente ritenga, sulla scorta dei segreti di cui è depositario, di poter ricattare Berlusconi ». E la sorella di Lavitola, sentita come teste, racconta di un messaggio inviato a Berlusconi via mail o per fax: un biglietto aereo per l’Italia con scritto: «Torno e ti spacco il culo». Agli atti è allegata poi una lettera estratta dal computer di un altro testimone, il manager Marco Velocci, che sarebbe stata scritta da Lavitola per Berlusconi. «Carissimo dottore, in primis le confermo che può contare sulla mia amicizia e lealtà come sempre», si legge. Poi prosegue: «Quando questa storia sarà chiarita, qualcuno me la pagherà sul serio…. l’unica cosa che non consentirò è che anziché essere considerato un amico disposto a sacrificarsi senza aver mai ottenuto nulla, venga qualificato come un piccolo truffatore che approfittava della sua fiducia».
A Lavitola l’ordinanza è stata notificata nel carcere di Poggioreale dove è rinchiuso dal 16 aprile.
Pintabona è stato arrestato a Palermo, dove ieri i pm Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock, titolari con il procuratore aggiunto Francesco Greco dell’indagine della Guardia di Finanza, hanno incontrato anche il procuratore aggiunto Antonio Ingroia.
La Repubblica 04.08.12
"Donne toste dietro quei veli", di Giulia Zonca
Gli integralisti che ancora cercano di spaventare le donne con il velo spedendo insulti via twitter forse dovrebbero guardarle meglio in azione. Non si spaventano più. Sono sicure, consapevoli del messaggio che mandano, determinate e abbastanza furbe da fare la rivoluzione senza danni collaterali. Un centimetro alla volta. Date un’occhiata alla sprinter afghana Tahmina Kohistani, ultima nei 100 metri ma da una vita nella corsia di sorpasso. Lo stadio di Londra era pieno e lei non si è distratta, è abituata al pubblico perché a Kabul, dove si allena, ci sono sempre centinaia di persone a vederla. A fischiarla. Sperano di metterle paura, spostarla dalla pista e confinarla a casa. Lei corre, li semina e quasi sempre li stanca. Chissà che faccia ha fatto il tassista che una volta si è rifiutato di portarla fino al campo quando l’ha vista alle Olimpiadi. E lei non si è limitata a gareggiare, ha pure girato uno spot: «Scusate per il tempo, migliorerò. Ma le ragazze afghane devono aiutarmi. Non voglio essere sola nel 2016».
Una volta le atlete infagottate scatenavano l’applauso triste, quello che sembra partecipe e in realtà sottolinea la diversità. Ieri Tahmina è passata inosservata, Londra è multietnica e certo non si sorprende però sono proprio i Giochi, il mondo, che hanno assorbito il concetto. Esistono realtà differenti, donne che scattano dai blocchi con il foulard e la tuta lunga vicino a quelle con la mutanda sgambata e il micro body mostra ombelico. Tahmina sa che 100 metri in diretta tv non bastano per evitare i buu dentro la pista di casa: «Comunque il governo mi ha appoggiato, la mia famiglia non mi ha mai proibito nulla e siamo tutti musulmani osservanti. Ci saranno sempre difficoltà, bisogna solo continuare a muoversi». Bello slogan, con tanti saluti a chi pensava che non avrebbe retto la contestazione.
Wojdan Ali Seraj Abdulrahim Shaherkani fa più fatica a integrarsi nell’universo a cinque cerchi, lei è la prima saudita che ha l’accesso ai Giochi. Ha un nome che suona come una filastrocca e il capo coperto, nel judo ancora un inedito. Un minuto per farsi eliminare e un giorno per ripetere: «Sono fiera di rappresentare il Regno dell’Arabia Saudita», esserci è già trasgressivo, non serve sbagliare il copione con appelli alla libertà. La sua foto sul tappeto parla da sola. Come lo sguardo di Bahia Al Hamad tiratrice del Qatar, portabandiera di una nazione che ha sempre bandito le donne e ora si lascia rappresentare da una che spara. Tosta, porta il velo tirato e mira aggressiva. Chissà cosa vede nel bersaglio, magari il futuro che costruisce un colpo dopo l’altro: «Emozionata no, solo felice di esserci». Come se cambiare la storia fosse naturale. Invece ogni volta cade un altro confine: entrare, esistere, integrarsi. La prossima frontiera è vincere.
La Stampa 04.08.12
"Un’estate sull’ottovolante", di Tito Boeri
Dobbiamo prepararci ad un’altra estate sull’ottovolante con forti fluttuazioni degli indici di Borsa e dello spread e poi ad un autunno di campagna elettorale anticipata, con il rischio di un ritorno della peggiore politica, quella fatta di promesse vuote quanto anacronistiche. Speriamo che i media ci risparmino le interpretazioni, spesso tra di loro contraddittorie, di ciò che fanno mercati isterici nelle loro reazioni. Perché l’attesissima riunione del board della Banca Centrale Europea di giovedì 2 agosto ci ha consegnato tre messaggi che non possono che lasciare le aspettative volare prive di alcun ancoraggio. Primo, malgrado le dichiarazioni di Draghi di una sola settimana fa, non c’è oggi un garante, un’autorità in grado davvero di “fare qualunque cosa per preservare l’Euro”. La Bce sta ancora decidendo cosa fare e, in ogni caso, interverrà solo dopo un accordo tra governi che fissi impegni cogenti per il beneficiario in termini presumibilmente di politiche ulteriormente restrittive. Questo significa che i mercati continueranno ad assegnare un’alta probabilità all’evento di una fuoriuscita dall’Euro di paesi come la Spagna e l’Italia, valutando il rischio paese in base a questa prospettiva. È la logica che oggi permette alla Francia di indebitarsi offrendo rendimenti negativi, pur avendo chiuso il 2011 con un deficit superiore al a6% e un debito vicino al 90% e senza che nell’orizzonte di programmazione del governo transalpino sia previsto anche un solo anno di pareggio di bilancio. L’Italia, al contrario, continua a pagare tassi vicini al 6% pur avendo conseguito un avanzo primario nel 2011 ed essendo in corsa per il pareggio di bilancio nel 2014. Il fatto è che i mercati non prendono neanche in considerazione l’ipotesi di un’uscita della Francia dall’Euro, rischio invece contemplato seriamente per il nostro Paese.
Secondo, questo garante non c’è perché l’architettura dell’Euro difetta di una qualsiasi istituzione sovranazionale. La Bce ha dimostrato in questi giorni di non esserlo. Non è bastato a Draghi isolare la posizione della Bundesbank ai vertici della Banca Centrale Europea perché, al momento delle decisioni, non ha voluto o, peggio ancora, non ha potuto fare a meno di tenere conto dell’opposizione della banca centrale tedesca. Anziché annunciare il varo di un programma incondizionato di acquisti di titoli di stato dei paesi dell’Euro, si è così messa di fatto in attesa delle decisioni dei governi, prendendo tempo in attesa “dei lavori esplorativi di una commissione che ne definisca gli aspetti tecnici”. Questo significa che non c’è chi possa ovviare all’insostenibile lunghezza dei processi decisionali europei. Avremo perciò crisi vicine al punto di rottura e misure tampone chissà ancora per quanto tempo, speriamo senza che si arrivi mai alla deflagrazione. Per fortuna il Tesoro ha deciso di sospendere ad agosto le aste dei nostri titoli di Stato. Questo significa che gli aumenti estivi dello spread non avranno effetti sul costo del debito,
sempre che i rendimenti dei nostri titoli di Stato calino alla ripresa a settembre. Il che ci porta al terzo messaggio consegnato dal board di giovedì.
Il Mario di Francoforte questa volta ha messo in seria difficoltà il Mario di Palazzo Chigi. Per beneficiare dei programmi di sostegno della Bce, per abbattere in modo significativo lo spread, il nostro governo avrà, infatti, bisogno di chiedere l’aiuto del fondo salva-Stati e sottostare ad un Memorandum di Intesa. Questo significa, di fatto, commissariamento e un governo tecnico non può essere commissariato senza perdere credibilità nei confronti degli elettori e prestarsi ancora di più ai ricatti dei partiti. Per questo, al di là delle scelte sulla data delle elezioni, ci aspetta un autunno di campagna elettorale. Ne abbiamo già le avvisaglie con la costituzione dei vari schieramenti e i primi documenti programmatici. Non sarebbe necessariamente un male se questi documenti si confrontassero coi veri problemi. Sin qui abbiamo soltanto un piano clandestino (impossibile averne copia a diversi giorni dall’annuncio della sua presentazione) di abbattimento del debito da parte del PdL, cioè di chi in dieci anni di governo non ha dismesso alcun bene pubblico. E poi c’è la carta di intenti del Pd di cui sorprende non tanto la vaghezza, scontata in programmi elettorali, quanto l’incapacità di fare i conti con l’Europa. Oggi il Paese non ha bisogno di europeisti e antieuropeisti, ma di proposte per ridisegnare l’Europa, perché l’unione monetaria così com’è, come prova la riunione di giovedì, non può reggere. Non c’è affatto bisogno di ribadire la vocazione europeista perché questa unione monetaria non può andarci bene. C’è bisogno perciò di prefigurare un sentiero per raggiungere maggiore integrazione nelle politiche fiscali, nella supervisione bancaria e nella politica, pensando a nuove istituzioni davvero paneuropee. Perché è solo questa la condizionalità che può permettere di conciliare la solidarietà dei paesi forti con l’assenza di comportamenti opportunistici da parte di chi riceve aiuto. Ci vuole una rinuncia alla sovranità, una condizionalità costituzionale, con un bilancio federale in graduale ma costante crescita, che legittimi anche l’adozione di vincoli al bilancio in pareggio nei singoli paesi dell’Unione. Quella proposta sin qui dall’Europa e accettata giovedì dall’Eurotower è, invece, una condizionalità contrattuale. Bisogna negoziare e sottoscrivere, di volta in volta, un accordo programmatico che rischia di essere di breve respiro, di indurre un consolidamento fiscale troppo rapido e di concentrarsi sui simboli anziché sugli ingranaggi che possono far ripartire l’economia dei Paesi interessati.
