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Bersani-Vendola intesa sul progetto. Sfida alle primarie", di Simone Collini

L’intesa tra Pd e Sel è stata raggiunta, ed è il primo passo del nuovo centrosinistra, quello che si presenterà alle prossime elezioni politiche senza l’Idv, e che dovrebbe siglare un «patto di legislatura» con l’Udc. Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola ieri si sono visti, alla sede del Pd, ed è bastato un colloquio di poco più di un’ora per sancire l’alleanza e per concordare sul fatto che le primarie per scegliere il candidato premier dovranno servire a cementare questa operazione, a riorganizzare il fronte progressista, ad approfondire un confronto sui contenuti e a definire la piattaforma programmatica da presentare agli elettori. La sfida ai gazebo si farà all’inizio di dicembre e Vendola parteciperà. Al momento i candidati in campo sono quindi due, il leader Pd e quello di Sel, che diventeranno tre oggi: con una conferenza stampa a Montecitorio, annuncerà che sarà della partita anche Bruno Tabacci. Ancora niente di ufficiale, invece, da parte di Matteo Renzi.

ALTERNATIVA ALLE DESTRE

È stato un incontro molto buono, molto utile – dice Bersani al termine dell’incontro – abbiamo parlato dell’Italia, dei problemi sociali del Paese, abbiamo parlato di come profilare un’alternativa di governo alle destre, insieme si possono fare dei passi in avanti». Punto di partenza della discussione è stata la «carta d’intenti» presentata da Bersani mercoledì, che per Vendola è in larga parte condivisibile, anche se per lui il testo definitivo dovrà essere aperto ad altri contributi. Come il documento presentato ieri da Sel col titolo «È tempo di cambiare».
Bersani non ha niente in contrario, e anzi dopo quello di ieri con Vendola proseguirà gli incontri con esponenti del mondo dell’associazionismo, con personalità delle liste civiche, con le parti sociali. Oggi tocca a una delegazione del Terzo settore. «Naturalmente non vogliamo arruolare soggetti della società civile, ma siamo interessati ad ascoltare il loro punto di vista», spiega Bersani. La lista stilata prevede un centinaio di associazioni, mentre sul fronte politico non ci saranno molti altri colloqui (uno è previsto col leader socialista Riccardo Nencini, che sta riflettendo se candidarsi alle primarie).

La rottura con Antonio Di Pietro sembra infatti ormai sancita. «Ha fatto la sua scelta da un po’ di tempo», ha detto Bersani facendo riferimento agli attacchi mossi non solo contro il suo partito ma anche contro il Quirinale, «ha scelto un’altra strada». Anche Vendola, che fino a non molto tempo fa ha provato a tenere in piedi il modello di Vasto, ammette che «Di Pietro non sta dimostrando molto interesse nei confronti della proposta di coalizione che avevamo immaginato insieme»: «A me spiace molto, ma le sue continue polemiche e il suo propagandismo esagerato rischiano di portarlo alla deriva».

NESSUN VETO ALL’UDC
La discussione tra Bersani e Vendola ora andrà avanti sulle proposte programmatiche, che per entrambi è il modo migliore per costruire quello che il leader di Sel chiama il futuro «polo della speranza» (il leader Pd lo definisce «un bel titolo» ma non sarà questo il nome della coalizione) e per aprire poi un confronto con l’Udc al fine di siglare un «patto di legislatura».
L’asse tra progressisti e moderati per assicurare la governabilità è strategico per Bersani, e anche su questo fronte Vendola non ha chiuso la porta. «Penso che il centrosinistra è il soggetto coalizionale fondamentale, e un centrosinistra che ha le idee chiare, cha ha una sua bussola ferma e un orizzonte netto non deve avere paura di portare con sé chi intende arricchire la coalizione». Nessun «veto» a Casini insomma, anche se dopo che i siti web hanno iniziato a titolare sull’«apertura di Vendola all’Udc» e i commenti negativi hanno iniziato a fioccare, il leader di Sel ha precisato in una conferenza stampa che da parte sua non c’è stata «nessuna apertura» ai centristi. «Penso sia molto difficile per me sentirmi alleato di Rocco Buttiglione e penso sia improbabile per Rocco Buttiglione sentirsi alleato mio. Ma non dirò mai “mai con Buttiglione, mai con Casini”. Dico che bisogna discutere nel merito dell’agenda del cambiamento. Il campo del centrosinistra è il campo del centrosinistra. La buona notizia di oggi è che il centrosinistra c’è e può ancora arricchirsi, ma può proporre un’egemonia nuova di solidarietà e di libertà».

È in questa stessa conferenza stampa che il governatore pugliese ha annunciato la sua candidatura alle primarie per scegliere il candidato premier. «Avevo detto che se le primarie del centrosinistra fossero state una sorte di congresso del Pd non mi interessavano. Ma se sono una gara di idee all’interno di un centrosinistra rinnovato allora mi interessano e quindi sciolgo la riserva. Lo faccio sulla base di una spinta larga, che non viene solo da parte del mio partito». Il fatto che corra anche Vendola non impensierisce Bersani, anzi. La sfida ai gazebo servirà per arrivare alle elezioni con un impianto programmatico condiviso e un candidato premier riconosciuto dagli alleati e forte di un’investitura popolare.

l’Unità 02.08.12

"Sicilia, via al gioco degli specchi. E il peggio deve ancora venire", di Marcello Sorgi

Anche se si ostina a ripeterlo con chiunque glielo chieda, sembra davvero difficile che il governatore dimissionario della Sicilia Raffaele Lombardo si ritiri a fare il Cincinnato. Lo farà, inevitabilmente, se le accuse sui suoi rapporti con la mafia dovessero essere confermate nel processo che lo attende di qui all’autunno. Ma nel caso, non impossibile, di un proscioglimento, sarà di nuovo in campo. Le elezioni regionali anticipate ad ottobre rafforzano il ruolo, che la Sicilia ha avuto altre volte nella politica italiana, di laboratorio anticipatore, nel bene e nel male, di quel che sta per accadere a livello nazionale. Sono lontani i tempi in cui si sperimentavano a Palermo il primo centrosinistra o i governi di unità nazionale Dc-Pci. Più di recente, e assai più mediocremente, l’Assemblea Siciliana s’è trasformata in un’enorme provetta di ogni tipo di trasformismo e di frammentazione, con ben cinque maggioranze diverse che si sono trovate a sostenere Lombardo nelle sue giravolte, e un’infinità di scissioni e micro-fratture dei partiti, refrattari ormai a qualsiasi indicazione stabilita a livello nazionale. Al punto che, se i suoi guai giudiziari e il dissesto del bilancio siciliano non lo avessero travolto, il governatore avrebbe potuto continuare all’infinito il suo gioco, che prevedeva di mettersi in mezzo alla girandola impazzita dei novanta membri dell’Ars, per combinare ogni mese un nuovo governo appoggiato da una nuova maggioranza.

Eppure, malgrado la sua immagine arcilogorata, e i risultati catastrofici della sua gestione, politicamente Lombardo resta la prima, forse la principale incognita delle elezioni siciliane, ai cui nastri di partenza già s’affollano una decina di candidati alla successione. Il governatore può tentare di accordarsi con il centrodestra o con il centrosinistra, entrambi usciti scottati dalle precedenti alleanze con lui, ma interessati alla rete di clientele costruita ininterrottamente in questi anni e in grado mobilitare ancora un gran numero di voti. Oppure Lombardo potrebbe decidere di ricollocarsi al centro, per impedire a ciascuna delle due (o più) coalizioni di raggiungere la maggioranza. La legge elettorale siciliana agevola allo stesso modo l’aggregazione e la distinzione tra un partito e l’altro. E come s’è visto, il potere assoluto di sciogliere l’Assemblea e mandare a casa i deputati, fa del governatore (quello che c’è ancora per poco, e quello che verrà) l’unico vero dominus dei giochi politici nella regione. Alla luce di questo, il gioco degli specchi siciliano è appena cominciato. E purtroppo, c’è da temere, il peggio deve ancora venire.

La Stampa 02.08.12

"Una svolta riformista", di Miguel Gotor

L’incontro tra Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola ha avuto un esito positivo perché è riuscito a definire le condizioni di base intorno alle quali nascerà il nuovo centrosinistra italiano. La riunione è avvenuta all’indomani della presentazione da parte di Bersani della Carta di intenti del patto dei democratici e dei progressisti con cui il leader del Pd ha proposto ad altre forze politiche, associazioni e movimenti civili una tavola dei principi e delle regole necessarie per candidare il centrosinistra in modo credibile e rinnovato alla guida del Paese. Dall’incontro sono scaturite due novità importanti che segnano una decisa accelerazione del dibattito politico nel campo progressista. La prima è che Vendola non ha posto veti al disegno strategico di Bersani di lavorare a un patto di legislatura con forze liberali, moderate e di centro. Alla base di quest’idea è il convincimento che l’Italia non si governa con una logica frontista che vede opporre seccamente la destra alla sinistra, ma necessita di un impegno ulteriore teso a favorire l’amalgama tra diversi. Se guardiamo al passato della storia italiana, dobbiamo riconoscere che le stagioni migliori sul piano dello sviluppo e delle riforme, o nella capacità di reagire a sfide drammatiche come quella del terrorismo, sono coincise con i momenti in cui si è raggiunto un incontro tra forze distinte lungo l’asse tra moderati e riformisti. È stato così nella fase della Costituente tra De Gasperi e Togliatti, negli anni Sessanta con il centrosinistra di Moro e Nenni, nella stagione della solidarietà nazionale tra il 1976 e il 1979 e ai tempi del governo Ciampi e dell’Ulivo di Prodi. Nel nostro Paese gli ideali
progressisti per affermarsi devono porsi l’obiettivo strategico di separare i moderati dalla destra, che non a caso ha vinto ogni qualvolta è riuscita a tenerli insieme. Per questa ragione la sinistra deve fare il massimo per elevare il suo profilo riformista e riformatore, contenendo, ma al tempo stesso interloquendo, con le spinte al radicalismo e al settarismo che esistono al suo interno e che hanno sempre finito per favorire la vittoria del fronte più conservatore.
La seconda novità è che questo centrosinistra non si presenterebbe come una carovana di sigle, ma in un formato molto più coeso che in passato. Ciò ha significato fare da subito i conti con l’antipolitica e il populismo presenti anche in quello schieramento e, concretamente, chiudere i ponti con Di Pietro. A questo proposito è importante che Vendola abbia condiviso questo distacco riconoscendo nella scriteriata politica portata avanti negli ultimi mesi dell’ex magistrato una deriva non recuperabile. Non bisogna credere che questa rottura non sia costata al Pd, anzi essa costituisce la migliore prova che Bersani fa sul serio perché è stato disposto a rinunciare a una vittoria elettorale facile, quella che con l’attuale legge gli sarebbe stata garantita dalla cosiddetta «foto di Vasto», per provare ad assumere in modo responsabile la sfida del governo dell’Italia. Questo passaggio conferma che il principale avversario dell’incontro tra moderati e progressisti sono i populismi al plurale che, alimentandosi a vicenda, caratterizzano lo scenario italiano: quello plebiscitario di Berlusconi, quello etnico della Lega,
quello antipartitico di Grillo e quello giustizialista di Di Pietro. Un ultimo elemento rafforza la nascita del nuovo centrosinistra. Al di là dei valori e dei principi contenuti nella Carta d’intenti, che saranno oggetto di ulteriori riflessioni e dell’arricchimento di quanti vorranno partecipare all’elaborazione di questo percorso comune, il punto più significativo del testo è il decimo, quello dedicato alla Responsabilità. Vendola, accettando di allearsi con il Pd, si è impegnato a sostenere in modo leale e per l’intero arco della legislatura l’azione del premier che sarà scelto con il metodo delle primarie. Di affidare a chi avrà il compito di guidare la maggioranza la composizione di un governo ispirato a criteri di competenza, rinnovamento e credibilità interna e internazionali, che sono diventati criteri ineludibili alla luce dell’esperienza del governo Monti e dopo la fallimentare stagione berlusconiana. Di vincolare la risoluzione di controversie relative a singoli atti del futuro governo a una votazione a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari convocati in seduta congiunta. Di sostenere infine gli impegni internazionali dell’Italia, presenti e futuri, fino alla loro eventuale rinegoziazione.
Si tratta di prerequisiti che costituiscono la premessa necessaria per dare vita alla nuova alleanza del centrosinistra. Solo se verranno rispettati si potranno mantenere le promesse contenute nella Carta di intenti ed era bene dirselo prima di mettersi in cammino: patti chiari, amicizia lunga.

La Repubblica 02.08.12

"Non solo Indicazioni…", di Manuela Ghizzoni

Ora che il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (CNPI) ha espresso il suo parere sulla bozza revisionata delle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo (25 luglio 2012), ci sono tutte le condizioni perché il documento assuma il carattere di testo programmatico giuridicamente definito e stabile per le scuole dell’infanzia, elementari e medie del nostro Paese, a far tempo – ma con gradualità – dal prossimo anno scolastico 2012-13. Si pone così fine ad un periodo di incertezze che si protrae ormai da molto tempo, per le molte forzature che sono state imposte alla vita delle scuole in questi ultimi anni. Dopo le turbolenze di un decennio caratterizzato dall’alternarsi di diverse ipotesi transitorie di Indicazioni (De Mauro, Moratti, Fioroni, Gelmini…), bene ha fatto il Ministro Francesco Profumo a prendere sul serio la delega, contenuta nel regolamento del primo ciclo (DPR 89/2009), che consentiva al Governo a dare stabilità agli indirizzi culturali e curricolari della scuola di base entro il 31 agosto 2012. E bene ha fatto a ripartire dal testo che più aveva raccolto le adesioni del mondo della scuola, cioè le Indicazioni del 2007 (firmate dal Presidente della Commissione Mauro Ceruti), stante l’esito del sondaggio tra le scuole effettuato dal Ministero dell’istruzione nel novembre-dicembre 2011 (CM 101/2001).

Si è così evitata l’affannata ricerca di una improbabile armonizzazione ed assemblaggio tra testi troppo diversi e si è scelta la strada maestra, ben impersonata dal Sottosegretario Marco Rossi-Doria e dai suoi collaboratori, di inserirsi nell’alveo delle parole-chiave della scuola di base degli ultimi 25 anni: curricolo, ambiente di apprendimento, inclusione, valore formativo delle discipline, classe e laboratorio, qualità delle relazioni educative.

Apprezzabile è stato anche il metodo scelto che, nonostante si fosse ormai agli sgoccioli del periodo utile alla revisione (ma di chi il ritardo, se non del precedente dicastero?), ha visto procedere per bozze pubbliche successive, con il coinvolgimento “discreto” di numerosi esperti di scuola e con un passaggio di consultazione con oltre 5.000 scuole che hanno risposto – in modo articolato ma positivo – ad un questionario elaborato dall’apposito gruppo redazionale.

I problemi che restano

Dunque, tutto bene quel che finisce (per ora) bene? Non vogliamo anticipare giudizi nel merito dei contenuti culturali, compito che spetta pienamente alla scuola ed ai suoi operatori. Qui vogliamo solo segnalare la migliore leggibilità del testo, la maggiore chiarezza di traguardi ed obiettivi (a volte quasi la loro puntigliosità), la scelta della prospettiva della verticalità del curricolo (alla luce della generalizzazione dei comprensivi), lo scenario europeo di riferimento. Certo faranno discutere i richiami ad una più sicura padronanza degli alfabeti, della lingua italiana (dall’ortografia alla grammatica) e delle altre conoscenze fondamentali, quasi un segnale alle scuole (ma anche ai genitori) a non rassegnarsi di fronte ad una certa fragilità delle competenze dei ragazzi. Questioni su cui ritornare, nella consapevolezza che un testo di Indicazioni non sia “per sempre”, ma debba essere quotidianamente fatto vivere nel rapporto tra scuola reale, comunità scientifiche, mondo della politica e dell’amministrazione.

E qui si innesta una domanda per la politica, proprio per rispondere a quelle domande che scaturiscono dagli interrogativi delle scuole di fronte ad un progetto culturale, tutto sommato condiviso. Se i traguardi sono più ambiziosi, se le competenze delineate sono da raggiungere e da valutare, se la scuola di base non deve lasciare indietro nessuno (apprezzabile quel richiamo chiaro all’art. 3 della Costituzione nell’incipit delle finalità), allora occorre rispondere alle seguenti domande: quali sono le condizioni in cui la scuola si trova ad operare? Quali i mezzi (umani, finanziari, di tempo) a disposizione? Quali i rapporti e gli impegni che ogni comunità – e il nostro Paese in generale – sapranno esprimere verso le proprie scuole?

Domande non semplici, soprattutto in tempi di crisi finanziaria, di spending review, di sfiducia della società civile nei confronti dei nostri servizi pubblici, di sottile diffidenza che a volte coinvolge la nostra scuola, i nostri insegnanti. Costretti negli ultimi anni a far fronte ad una riduzione consistente di risorse (con un vistoso – 4,86% certificato dai tecnici) che ha colpito indistintamente realtà virtuose e zone grigie, bisogni effettivi o richieste aleatorie, buona amministrazione o ritardi inammissibili.

Tempo di scelte politiche

Occorre cambiare passo, risolvendo gli annosi problemi di governance all’interno delle scuole: ecco perché è urgente un ripensamento delle funzioni di governo, di partecipazione e di valutazione di sistema, come abbiamo cercato di delineare nelle proposte di riforma degli organi collegiali che la Camera, in prima lettura, è in procinto di approvare. Bisogna superare difficoltà e ritardi nella governance complessiva del sistema, nel rapporto tra Stato centrale, ruolo delle Regioni e degli Enti locali ed iniziativa responsabile delle autonomie scolastiche.

Ci sono decisioni politiche da prendere, risorse da predisporre, leggi da portare avanti. Le Indicazioni nazionali certamente faranno fatica a conquistare la priorità nella difficile agenda d’autunno, però sarebbe un bel segnale se, una volta tanto, fosse la scuola – ed in particolare la scuola dei piccoli, la scuola di tutti – a diventare il parametro di quello sviluppo di cui tutti a parole dicono di volersi preoccupare:

– rinnovamento qualitativo del parco-scuole (e messa in sicurezza totale);

– eliminazione delle liste d’attesa per la scuola dell’infanzia e risposta alle istanze di tempo pieno;

– formazione iniziale degli insegnanti;

– turn-over del personale e stabilità da raggiungere nel reclutamento (questione aperta, ma non chiusa, con il provvedimento sull’organico funzionale, previsto dalla legge 35/2012);

– innovazione nella didattica e nelle tecnologie.

Sono solo alcuni dei nodi da aggredire con più convinzione, con un programma politico di respiro, che partendo dall’emergenza di oggi, sappia guardare all’indispensabile speranza di un futuro migliore (non solo per la scuola). Solo così una vicenda apparentemente tutta interna alla scuola, come è la riscrittura dei programmi didattici, potrà trasformarsi in una occasione di risveglio e di riscatto per un ruolo più centrale e rispettato della scuola nella vita del paese. E’ ciò che tutti auspichiamo e che cercheremo di fare, ognuno con le sue possibilità e le sue energie, nelle aule scolastiche e nelle aule parlamentari.

da Educazione&scuola 01.08.12

"La grave scelta del governo", di Stefano Semplici

Il governo ha infine deciso di aumentare le tasse universitarie per tutti. È una scelta grave, prima di tutto per una questione di metodo. Si era partiti con un comma del decreto legge sulla «revisione della spesa» che, con un artificio tecnico da addetti ai lavori, rendeva possibile un incremento della «contribuzione studentesca» che avrebbe potuto anche superare il 50 per cento per gli studenti in corso ed era teoricamente illimitato per i fuori corso. Di fronte alle ovvie reazioni, i relatori in commissione Bilancio al Senato avevano messo a punto un emendamento, che correggeva radicalmente la prospettiva dell’intervento. I n sostanza, l’intervento veniva limitato ad una sorta di disincentivo «punitivo» per gli studenti in ritardo nella tabella di marcia, e comunque fissando un tetto del 25 per cento di aumento per la stragrande maggioranza degli interessati. Il ritardo nel conseguimento della laurea è spesso motivato da ragioni diverse dalla pigrizia degli studenti, a partire dal diffuso disinteresse di troppi docenti per le loro responsabilità didattiche, ma il segnale acceso su quella che resta una evidente patologia del nostro sistema universitario era opportuno e lo strumento, per quanto discutibile, non assomigliava comunque a una scure. Ma poi in Aula è arrivata la sorpresa. Nel suo maxi-emendamento il governo ha cambiato una parola e, così facendo, ha cambiato tutto, tornando sostanzialmente all’impostazione originaria. Tutti gli «importi» a carico dei fuori corso, e non più solo gli «incrementi» rispetto alla contribuzione prevista per gli studenti «in regola», sembrano nuovamente esclusi dal calcolo della cifra complessiva delle tasse che le università possono far pagare ai loro studenti. Un confronto che è stato serrato, ma sincero e nel quale il governo aveva ribadito l’intenzione di non voler scaricare sui giovani il costo del progressivo definanziamento dell’università pubblica, è risultato alla fine inutile. Ci saranno più tasse – potenzialmente molte più tasse – per tutti coloro il cui Isee familiare supera i 40 mila euro. Con l’aggravante che le parole per spiegare e giustificare arriveranno solo ora che il Senato ha approvato un testo che è radicalmente diverso da quello, sul quale era stato raggiunto un ragionevole consenso e che è passato così quasi di soppiatto. Il tema delle tasse universitarie va affrontato senza preclusioni ideologiche e senza dimenticare che l’attuale sistema ha anche perversi effetti redistributivi a vantaggio di chi meno ne avrebbe bisogno. Ma non si può accettare che provvedimenti di questa portata vengano varati senza aver percorso fino in fondo la strada di parole chiare e distinte, pronunciate a viso aperto, che sono le uniche delle quali la politica italiana ha bisogno in questo difficilissimo momento. Si può solo sperare che il governo ritrovi subito il coraggio di queste parole, che pure ha saputo usare in questi mesi in diverse occasioni, insieme alla misura che caratterizzava anche il testo uscito dalla commissione Bilancio del Senato e che è purtroppo ormai perduto. Resta, per il momento, anche la perplessità sul merito, sulle conseguenze di questo provvedimento. Si trasmette l’idea che lo Stato continuerà a ridurre il suo impegno anche in questo settore, il che può apparire inevitabile quando tutti sanno che rivedere la spesa significa in questo momento semplicemente tagliarla, e non spendere meglio e magari di più riducendo gli sprechi. Ma è proprio per questo che sarebbe necessario almeno uno sforzo di rilancio dell’idea di università. Uno sforzo che, purtroppo, non si vede, come non si è visto il provvedimento per la valorizzazione della capacità e del merito, ma anche della responsabilità educativa e sociale nella scuola e nell’università che il governo aveva annunciato come imminente. Anche intorno a quel testo si era subito acceso un dibattito di forti argomenti e passioni. Ma è da quell’obiettivo che occorre ripartire. È triste aver rinunciato a far crescere il livello della responsabilità educativa e sociale nelle nostre università per accontentarsi di aumentare quello delle tasse.

L’Unità 01.08.12

Bersani ai bolognesi: Le vostre ragioni sono le ragioni dell'Italia. 32° Anniversario della strage di Bologna

“Sono trascorsi 32 anni dalla strage di Bologna, ma è necessario ribadire l’impegno affinché la verità emerga nella sua interezza. La magistratura ha svolto il suo compito ed è arrivata a sentenze definitive, tuttavia continuano i tentativi di delegittimare il suo lavoro. Voglio dirti che noi faremo da argine al tentativo di inquinare l’esito dei processi. Resta da capire chi fossero i mandanti occulti e quali forze abbiano realmente operato per arrivare ad un esito non democratico della vicenda italiana”. Lo scrive il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani in un messaggio a Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime in occasione del 32esimo anniversario della strage di Bologna che cade domani 2 Agosto.

“Una strage – prosegue Bersani – che ferì al cuore Bologna e l’Italia intera. L’immagine dell’orologio della stazione fermo alle 10.25 resta nella memoria collettiva come il segno più drammatico di un evento che provocò la morte e il ferimento di tanti innocenti. Voi familiari chiedete legittimamente che le ombre siano diradate e che il segreto di Stato non impedisca di ricomporre ogni aspetto di una vicenda così importate e dolorosa per la nostra storia”.

“Voglio garantirti ancora una volta che il nostro impegno non verrà mai meno: sia per fare chiarezza sui lati oscuri della strage; sia per fare in modo che le vittime e i familiari vedano riconosciuti i loro diritti dal punto di vista previdenziale. E’ necessario, pur nella difficile congiuntura che stiamo attraversando, mettere in atto le norme di legge in vostro favore che sono state già approvate. Continueremo a sollecitare il Governo che, da parte sua, ha dato un segnale molto positivo tornando, dopo due anni di assenza, a prendere parte alla commemorazione in ricordo delle vittime della strage”.

“Nel ricordo di quelle vite innocenti lavoreremo per difendere la democrazia, per renderla forte e radicata nei sentimenti degli italiani. Perché le minacce non sono mai terminate e la strage di Bologna è un ammonimento a mantenere alta l’attenzione, a lavorare affinché la democrazia non deperisca e trovi la forza per rinnovarsi nel segno della fedeltà alle nostre radici costituzionali. Senso di giustizia e bisogno di verità ci spingono a chiedere allo Stato di fare la propria parte e a sostenere le vostre ragioni che sono le ragioni dell’Italia”.

www.partitodemocratico.it

"Bologna trentadue anni dopo. Il ricordo viaggia in un tweet", di Giuliana Sias

«Mia zia avrebbe dovuto iniziare a lavorare in Stazione, quella mattina, ma non andò. Fu inserita nella lista dei dispersi». Questione di mezz’ora, di un piede rotto oppure di uno sciocco imprevisto. Storie al condizionale passato che sono sospiri di sollievo strozzati verso la fine, visto che «pensarci è un dolore riflesso, per chi non ebbe la nostra fortuna». A trentadue anni dalla strage di Bologna, la sfida è quella al ricordo indotto, al racconto del racconto che scivola da una generazione all’altra e lentamente diventa Storia. In occasione dell’anniversario dello scoppio della bomba fascista alla stazione Centrale, sotto le Due Torri ci si è domandati in quale modo continuare a raccontarlo, quel 2 agosto. Quello del 1980 in cui rimasero uccise 85 persone. Quello delle 10.25, che chiunque passi da qui può ancora vederlo, fermo, inchiodato all’orologio che si affaccia su Piazza Medaglie d’Oro.

La risposta del Comune di Bologna alle negligenze della mente, e dell’Italia e spesso della politica, è stata un blog, visitabile sul web all’indirizzo «dueagosto.tumblr.com». Le immagini di repertorio e i file audio dei giornali radio. Le prime pagine dei quotidiani e le storie di ogni singola vittima. Ma anche quelle di chi, in un modo o nell’altro, sente d’averla scampata. Un racconto lungo e in continuo divenire che assomiglia ad un gioco ad incastro.

Una specie di tetris in cui ad ogni blocco corrisponde la storia di una vita spezzata oppure quella di un sopravvissuto. Blocchi che tuffandosi l’uno nell’altro formano una base solida, compatta, a partire dalla quale costruire una nuova memoria condivisa. Chiara ricorda che il padre fuggì alla strage per una mezz’ora, appena trenta minuti e probabilmente tutto sarebbe stato diverso. Lucio, invece, scrive che il suo, di padre, quel giorno avrebbe dovuto portare un treno a Bologna «ma non partì mai dalla Stazione di Venezia».
Simone da Milano all’epoca aveva solamente tre anni e non ricorda niente. Ma sa che assieme alla sua famiglia si trovava lì, vicino a quei binari maledetti, un’ora prima che scoppiasse l’inferno: «Una coincidenza della quale ho saputo molto più tardi». I messaggi provengono tutti da Twitter, dove nell’ultima settimana numerosi utenti hanno utilizzato gli hashtag «ioricordo» e «2agosto1980», contribuendo in questo modo ad arricchire di racconti spontanei il blog dedicato alla Strage, nel quale vengono quotidianamente linkati.

A scegliere, per tutti, furono il caso, il destino e la sorte. Un appuntamento sbucato fuori all’ultimo minuto, un improvviso cambio di programma. Quel giorno, la differenza tra l’avere un largo anticipo e l’essere arrivati in ritardo fu incolmabile. Fece una differenza enorme, l’essersi allontanati per un momento, solo uno, per andare a prendere un caffè oppure, da tassisti, l’aver timbrato per il turno 8-20.

È questo il filo che lega le storie di chi c’è ancora a quelle di chi non c’è più. Un filo speciale, di quelli che non si spezzano, che racconta al resto del Paese che nel migliore dei casi, alla strage di Bologna e a quella miscela di tritolo e T4 piazzata all’interno di una valigia nella sala d’aspetto di seconda classe, si è sopravvissuti. Ad esempio c’è Gabsy che all’epoca aveva 7 anni e che quel giorno sarebbe dovuta partire in vacanza con la madre, «ma lei si ruppe il piede 3 giorni prima e così rimanemmo a Bologna».

E c’è Simone, che ricorda della moglie Anna, bolognese: «Doveva andare in stazione per fare un biglietto. Ritardò di 30 minuti per un appuntamento mancato». E ancora Marco, che scrive: «Mia madre non prese il solito Bologna – Reggio Calabria perché incinta all’ottavo mese», e Chiara, che invece racconta: «Mia madre doveva prendere quel treno ma poi l’uomo che ora è mio padre si offrì per accompagnarla in auto».

Oppure c’è chi aveva dieci anni ed era partito per le ferie il giorno prima, da quella stessa stazione che «poi era sul giornale, dilaniata». Della maggioranza dei tweet è autore un giovane che si fa portavoce di una storia spesso non vissuta in prima persona ma comunque intima. Lo spiega bene «Warrior» quando scrive che «mia madre quel 2 agosto era in un bar vicino alla stazione, ha assistito a tutto. Per lei, come per tutti qua da me, è un giorno importante». Per lei come per tutti.

www.unita.it