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"Ci vuole coraggio, l’inerzia non basta", di Claudio Sardo

Buone notizie da Bersani e Vendola. c’è una sinistra disposta ad assumersi responsabilità di governo, a mettersi in discussione, ad affrontare la crisi sociale più drammatica del dopoguerra, a parlare di uguaglianza e democrazia laddove prevalgono ancora le vecchie e fallimentari ricette economiche, a combattere il populismo e la demagogia che purtroppo annidano anche dalle nostre parti.
Siamo in un passaggio storico. Dal quale dipenderà il futuro dei nostri figli e la stessa democrazia europea. Usciremo dalla crisi cambiati. Ma i progressisti non possono limitarsi ad esprimere un disagio impotente. Nel cambiamento devono giocarsi le loro carte. Devono garantire la tenuta del Paese, e dunque gli impegni internazionali dell’Italia, condizione per giocare la partita in Europa.

Ma devono anche trasformare in azione di governo il loro pensiero critico e la loro speranza di giustizia sociale. Abbiamo un vantaggio: senza maggiore uguaglianza, senza maggiore mobilità sociale, senza maggiore innovazione resteremo schiacciati dalla competizione globale. Le destre hanno fallito. I nazionalismi sono figli della paura e negano il futuro. Solo una svolta a sinistra dell’Europa può consentirci di uscire davvero dal tunnel.
Anche una sconfitta, però, avrebbe oggi una portata storica. Non solo per la sinistra. Sotto le macerie potrebbe finire la stessa politica democratica, a vantaggio di tecnocratici e oligarchi oppure di populisti e demagoghi. È un impresa difficile e rischiosa. Guai a illudersi che l’inerzia del dopo Berlusconi conduca inesorabilmente a un governo di centrosinistra in Italia. L’inerzia non porta cambiamenti positivi. Ci vuole coraggio. Il coraggio di rischiare e di percorrere, controcorrente, anche i territori conosciuti.
Non era scontato ciò che ha fatto Bersani, accettando la sfida di nuove primarie e proponendo quella Carta d’intenti come base di un programma dei progressisti. Non era scontato che Vendola facesse propria la sfida del governo, rompendo lo schema dell’Unione, cioè dell’alleanza indifferenziata, più attenta ai numeri preventivi che non agli impegni verso il Paese. Costruire una vera, credibile alternativa di governo non sarà gratis. Bisognerà fare i conti con pigrizie, resistenze, opportunismi. Ma è arrivato il momento della verità.
O l’alternativa di governo avrà una forza e una coerenza, oppure sarà sconfitta. E, anche se la destra non fosse per nulla competitiva alle elezioni, questa sconfitta potrebbe arrivare come un boomerang, come purtroppo avvenne al tempo del secondo governo Prodi. La strada della sinistra di governo non può non dividersi, da subito, da quella del propagandismo di Di Pietro. Vada con Grillo, se coltiva lo stesso disprezzo per le istituzioni e se non intende assumersi una responsabilità nazionale di fronte alle cancellerie europee. Riformare la politica vuol dire correggere le tante storture ma anche difenderne la ragione fondativa: la politica e le istituzioni democratiche servono a chi ha di meno, perché della politica i ricchi possono farne a meno (tanto è vero che strizzano l’occhio ora ai tecnici, ora a Grillo).
Certo, le primarie del centrosinistra in questa contingenza sono un azzardo. Al di là delle buone intenzioni, possono portare i democratici e i progressisti fuori dalla sintonia con il Paese qualora la crisi finanziaria dovesse aggravarsi. Tuttavia, ora che sono in agenda, devono diventare un’occasione di ricomposizione sociale e di rilancio politico. Non le primarie del 2005, dunque, che sancirono aree di rappresentanza separata tra Prodi e i suoi sfidanti (Bertinotti, Mastella, Di Pietro, non a caso protagonisti della dissoluzione successiva). Sembra che, accanto a Bersani e Vendola, siano ora intenzionati a candidarsi Renzi, Nencini e Tabacci. Personalità con storia diverse, rappresentative di una ricca pluralità. Come negli Usa speriamo che queste primarie servano a produrre sintesi, a rafforzare, non indebolire, il vincolo e l’impegno reciproci.
Ieri Bersani e Vendola hanno detto che è ancora fantapolitica la lista unitaria alle elezioni. Lo schema di gioco attuale purtroppo è ancora il Porcellum, con annesso premio di coalizione. E le primarie che il centrosinistra sta per affrontare sono anch’esse di coalizione. In questo contesto è difficile dar torto a Bersani e Vendola. Ma è possibile sperare ancora che il Porcellum venga cambiato e che pure da noi, come in tutti i Paesi democratici, la competizione possa svolgersi tra partiti, in modo che il più votato possa formare attorno al proprio leader un governo di legislatura. E se una riforma elettorale ci riportasse finalmente in Europa, forse, non sarebbe più fantapolitica immaginare una forza unitaria dei democratici e dei progressisti, un Pd più forte, più largo, più aperto ai movimenti civici, una sinistra di governo capace di superare lo schema (perdente) delle due sinistre. Le primarie potrebbero diventare così non solo la sanzione di una alleanza politica ma, di più, la generazione di un nuovo patto, persino di una nuova progettualità organizzativa. Il consenso e la forza sono necessari a governare la crisi. E un patto robusto darebbe maggiore forza anche all’incontro con i moderati che vogliono chiudere la stagione di Berlusconi e della seconda Repubblica.
Non sarà facile. Ma nei momenti migliori della sua storia la sinistra di governo è già stata capace di mettersi al servizio dell’Italia.

L’Unità 02.08.12

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“La triplice intesa”, di Paolo Natale

È probabile che ora Antonio Di Pietro non sappia più bene cosa fare, nel prossimo futuro. Dopo essersi auto-escluso dal proseguimento del cammino unitario con il Pd, suo alleato nel 2008. Dopo aver tentato, inutilmente, di coinvolgere Beppe Grillo in una improbabile corsa comune; dopo svariati attacchi, anche pesanti, alle alte cariche dello stato. Ora l’unica sua vera chance di entrare in parlamento, con una certa forza competitiva, potrebbe essere rappresentata dall’accordo con l’ala sinistra della ex-Rifondazione comunista. Una soluzione di difficile praticabilità. Viceversa, se la novella triplice intesa tra Udc, Pd e Sel non fosse soltanto una soluzione estiva provvisoria, le possibilità di questa coalizione (certo abbastanza eterogenea, allo stato attuale) di conquistare la maggioranza elettorale e quella parlamentare sarebbero parecchio elevate. Quasi indifferentemente dal tipo di sistema elettorale che venisse adottato.
Ovvio: le reazioni degli italiani di fronte a questa ipotetica nuova proposta sono ancora da testare in maniera più approfondita. Mentre l’antico accordo di Vasto sarebbe stato capace di convogliare sulla sinistra anche gli elettori delle forze minori, vicine a quell’area, tentare di affiancare i centristi, i “sinistri” moderati e quelli più radicali rappresenta una vera scommessa sulle capacità della popolazione di comprendere questa alleanza, che alcuni punti di divergenza renderebbero senz’altro maggiormente difficoltosa.
Ma è nel contempo una scelta di fondo che ha spesso trovato il favore della popolazione: la richiesta cioè di cercare una possibile inedita governabilità del paese, nel tentativo di uscire dalle vecchie logiche di riferimento delle epoche belusconiane. E se a questi tre partiti si aggiungessero anche alcuni tecnici attualmente al governo, tra quelli più in sintonia con il paese, le possibilità di costruire in Italia un nuovo polo di riferimento, attento alle questioni economiche ma anche a quello sociali, troverebbero un livello di consensi crescente. Se ovviamente si evitasse il consueto tasso di litigiosità presente nel passato tra le diverse anime dei partiti (Prodidocet).
Ipotizzare risultati parlamentari è certo arduo, viste le considerazioni fatte e l’aleatorietà dei sistemi elettorali in cui si dovrà andare a votare. Ma è possibile, sulla base delle più recenti rilevazioni sugli orientamenti di voto, costruire un paio di scenari, legati alle più probabili regole della competizione. Il primo scenario ipotizza il mantenimento dell’attuale Porcellum (nella sua versione meno contraddittoria, quella della camera). In questo caso le stime più probabili vedrebbero primeggiare, con un margine abbastanza elevato, le tre forze della nuova intesa, che avrebbero dunque la maggioranza dei seggi alla camera dei deputati, seguite dal centrodestra, dal M5S e dalla probabile alleanza di sinistra e Di Pietro. A livello dei singoli partiti, il Pd si avvarrebbe di circa 230 seggi, seguito in questo caso dal M5S, con poco più di 100 e dal Pdl con 80. Quindi Sel e Udc, entrambi con circa 50 seggi, Idv (35) e Lega (20); chiuderebbero La Destra e la Federazione di sinistra (10). Come si nota, un parlamento del tutto sconvolto rispetto all’attuale, con la presenza comunque significativa del movimento che fa capo a Grillo.
Nel secondo scenario, una sorta di proporzionale alla tedesca (così gettonato dall’Udc di Casini), l’assenza del premio di maggioranza presente nel Porcellum renderebbe certo più difficoltosa la formazione di una maggioranza formata dai nuovi partiti della triplice intesa. Pd, Udc e Sel avrebbero probabilmente a disposizione soltanto pochi seggi di margine per poter governare in maniera semplice, e senza l’aiuto di altre forze, a meno che la percezione degli elettori di formare un parlamento inutile, sul modello delle recenti elezioni greche, non convinca i supporter dei partiti più deboli a concentrarsi su quelli che hanno qualche chance di governare.
Un’alleanza che potrebbe dunque convincere i cittadini italiani a tentare nuove strade per uscire dalla crisi di rappresentanza, ma anche abbastanza pericolosa, se si utilizzasse un sistema elettorale “troppo” proporzionale. Resta infine l’incognita del comportamento di Fini, che gli elettori di Pd e in particolare quelli del Sel non troverebbero gradito come alleato. Allargando la triplice al Fli, i risultati elettorali potrebbero non essere così favorevoli.

da Europa Quotidiano 02.08.12

"Uomo-donna, il divario dei redditi continua anche in pensione: 14mila l'anno contro 8.500 (-40%)", di Claudio Tucci

Le donne si confermano più longeve degli uomini. Ma l’importo dell’assegno pensionistico resta comunque inferiore, e di molto, rispetto a quello dei pensionati uomini. Nel 2010, ha evidenziato l’Istat (su dati Inps), le donne, pur rappresentando il 53% dei pensionati totali (8,8 milioni su 16,7 milioni complessivi) e più della metà delle pensioni, percepiscono solo il 44% degli oltre 258 miliardi di euro erogati. Mentre il restante 56% è destinato agli uomini. E ciò si riflette, gioco forza, sull’importo medio annuo delle prestazioni: per gli uomini si viaggia a quota 14.001 euro, contro gli 8.469 euro delle donne (e cioè oltre il 35% in meno). Le disuguaglianze più marcate si osservano tra le regioni del Nord, sia con riferimento agli importi medi delle singole prestazioni sia in relazione al reddito pensionistico dei beneficiari.

Le differenze del reddito medio pensionistico
Lo studio evidenzia poi come oltre la metà (il 54,8%, per la precisione) delle donne percepisce meno di mille euro al mese, contro un terzo (34,9%) degli uomini. La differenza, ancora, tra uomini e donne in termini di importo medio delle pensioni – 14.001 euro per gli uomini e 8.469 euro per le donne – si riflette anche nella distribuzione del reddito pensionistico medio, pari a 18.435 euro per gli uomini e a 12.840 euro per le donne. Mentre il numero degli uomini (597mila unità) che percepiscono un reddito pensionistico mensile pari o superiore ai 3mila euro è di oltre tre volte più elevato di quello delle donne, ferme invece a quota 180mila.
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Spesa pensionistica, divario crescente
Complessivamente, ricorda la ricerca, la spesa per le pensioni erogate agli uomini è stata, nel 2010, pari al 9,33% del Pil, ed è ovviamente maggiore di quella per i trattamenti erogati alle donne (7,32 per cento). Nel tempo, all’andamento crescente della spesa complessiva sì è inoltre accompagnata una crescita del divario tra uomini e donne (con la sola eccezione dell’anno 2008): per gli uomini dall’8,08% del 2000 si è, infatti, passati al 9,33% del 2010, per le donne dal 6,52% al 7,32 per cento.

Pensionati over 80, la prevalenza delle donne
Da segnalare, infine, come analizzando i beneficiari di pensione per genere e classe di età, l’Istat abbia evidenziato come le donne siano di gran lunga più presenti nelle classi di età più elevate, coerentemente con la più elevata speranza di vita che caratterizza il genere femminile: il 27,3% delle pensionate ha più di 80 anni, contro il 16,7% dei pensionati. In entrambi i casi, comunque, la classe di età in cui si concentra la maggior parte dei beneficiari è quella compresa tra i 70 e 79 anni, in cui ricadono 2.572.199 pensionati (pari al 32,7%) e 2.817.084 pensionate (pari al 31,8%). La classe di età in cui si riscontrano le maggiori differenze di genere rispetto all’importo medio delle pensioni e dei redditi pensionistici è quella tra i 60 ed i 64 anni: il reddito medio delle donne è pari al 62% di quello degli uomini (13.788 euro a fronte di 22.356 euro) e l’importo medio delle pensioni è il 59% di quello tipico dei maschi (11.400 euro contro 19.363 euro).

Il Sole 24 Ore 02.08.12

"Ricostruzione: i soldi direttamente ai cittadini", da gazzetta.it

I soldi per la ricostruzione post-sisma di case e imprese saranno a disposizione dei cittadini in banca, a costo zero. E’ quanto ha comunicato oggi il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, al governatore dell’Emilia-Romagna e commissario per la ricostruzione, Vasco Errani, impegnato nel pomeriggio in una riunione con i sindaci delle zone terremotate alla presenza del direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera. Nella lettera, Grilli spiega che grazie all’emendamento al decreto sulla spending review, convertito in legge proprio questa mattina al Senato, “vengono di fatto messi a disposizione fino a un massimo di sei miliardi di euro per le sole esigenze di interventi di riparazione, ripristino o ricostruzione di immobili di edilizia abitativa e per macchinari e immobili ad uso produttivo”.

Questi fondi, assicura il ministro, “potranno essere attinti direttamente dai soggetti danneggiati nella forma di contributo a fondo perduto, senza oneri, interessi o altri costi, con procedure particolarmente snelle, negli importi che saranno loro riconosciuti secondo i criteri fissati” dal commissario straordinario.

I cittadini e le imprese, continua Grilli, “avranno disponibili queste risorse a decorrere dall’1 gennaio 2013, immediatamente dopo il riconoscimento del contributo da parte del commissario, e avranno il vantaggio di poter governare personalmente i processi di loro impiego e monitorare i tempi di utilizzazione delle risorse per le finalità di ricostruzione autorizzando gli stati di avanzamento dei lavori”.

In realtà, precisano sia Errani che Befera, “stiamo lavorando per costruire un ponte, in modo che i fondi siano già disponibili dal prossimo 1 settembre. Non vogliamo che ci sia una frattura tra la fase di emergenza e quella di ricostruzione”, afferma Errani. Il presidente della Regione ha voluto convocare la stampa per spiegare il meccanismo del finanziamento, in modo da “fugare tutti gli interrogativi sorti”.

Un cittadino o un’impresa che ha subito un danno a causa del terremoto del 20 e 29 maggio scorso, con la certificazione di inagibilità e il riconoscimento del danno economico da parte del commissario, si reca in banca dove subito viene acceso in suo favore un finanziamento “a costo zero”, che sarà “erogato nei tempi e nei termini dell’avanzamento” dei cantieri direttamente alle imprese scelte dal cittadino per i lavori, che così si vedranno pagate regolarmente le loro fatture. La Regione deve ancora definire le modalità di verifica e controllo sulla legalità delle aziende coinvolte, che potrebbe essere fatta tramite le stesse banche a cui verrà comunicata dal cittadino la ragione sociale della ditta che sara’ pagata per i lavori.

“La procedura di finanziamento resta interna al rapporto fra istituti di credito, Cassa depositi e prestiti e Stato”, precisa ancora Grilli nella lettera. In altre parole, con i sei miliardi a disposizione lo Stato accende una sorta di maxi-mutuo di 25 anni, le cui rate (annuali) vengono pagate dalla Cassa depositi e prestiti. Solo le prime due rate saranno a carico del commissario, che utilizzerà i circa 2,5 miliardi già erogati dal Governo col decreto 74 per l’emergenza e la ricostruzione.

Befera, infine, ha annunciato che saranno prorogati di altri sei mesi gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate nelle zone del sisma. “A partire dal 31 marzo, poi, vedremo di riprendere con un minimo di gradualità”, spiega il direttore.

www.gazzetta.it

"Tasse, la lobby dell'università è uscita allo scoperto", di Walter Tocci

Non si può scaricare sugli studenti il conto della crisi. Come vorrebbe fare l’establishment universitario, costituito dai ministri – con i politici e consiglieri che li sostengono – dalle burocrazie accademiche e da molti professori che scrivono sui giornali. Questa lobby è uscita allo scoperto col governo tecnico, dopo aver sostenuto dietro le quinte le leggi Moratti e Gelmini che hanno portato l’università al collasso. È pronta a difendere i propri interessi colpendo gli anelli deboli del sistema. 1. Dopo i condoni fiscali di Tremonti arrivano i condoni accademici di Profumo. Viene infatti sanata l’illegalità, già sanzionata dal Tar di Pavia, degli atenei che hanno superato per colpa dei tagli la soglia del 20% delle tasse universitarie rispetto ai fondi statali. E viene sanata anche l’illegittima proroga dei rettori oltre il mandato elettivo, già autorizzata dal ministero, ma bocciata dal Tar di Perugia. Sono norme scritte contro le sentenze dei Tribunali e chiaramente incostituzionali per estraneità di materia con la spending review. Per giustificare lo status quo l’establishment ha sempre bisogno dell’agnello sacrificale. E gli studenti fuori corso sono diventati i nuovi untori da mettere in castigo nella prima pagina del Corriere della Sera. Secondo i dati di Almalaurea, invece, il ritardo negli studi è di circa tre anni per i lavoratori che studiano, di un anno e mezzo per gli studenti con lavori occasionali o stagionali e solo nove mesi per quelli a tempo pieno nello studio. I commentatori nostrani non sanno che il ritardo nelle università americane è molto più ampio. Molti nostri giovani accettano lavoretti occasionali per mantenersi agli studi, anche se questo ne ritarda la conclusione, tanto pensano che la laurea non cambierà di molto la condizione precaria e quindi non c’è motivo di sbrigarsi. Servirebbe il part-time per impegnare lo studente su un tempo definito anche superiore alla durata nominale, come prevede una legge quasi inapplicata dagli atenei. Inoltre, il ritardo per gli studenti che non lavorano si produce quasi tutto nel primo anno, a causa di ben note carenze nell’orientamento degli studi, nei servizi e nel tutoraggio. Invece dei tagli, bisognerebbe spendere di più per gli studenti allo scopo di aumentare il numero dei laureati, secondo l’impegno già preso in Europa. Se, però, gli impegni europei sono cogenti per le pensioni e i licenziamenti, ma non per i laureati, allora rimane solo da tartassare i fuori corso in modo da convincerli a lasciare gli studi. E ancora peggio aumentare le tasse anche agli studenti al passo con gli esami, e meno male che il Pd è riuscito a tutelare i redditi sotto i 40mila euro. Tutto ciò è benzina sul fuoco mentre crollano le immatricolazioni, meno 10% solo nell’ultimo anno. Le risorse necessarie si potevano trovare alzando l’asticella per i professori iscritti agli albi professionali che oggi sono impegnati a tempo parziale nell’università pur essendo pagati con lo stipendio intero. Secondo dati del Sole-24-Ore si risparmierebbero circa 400 milioni di euro ripristinando le rigorose norme del tempo pieno cancellate dalla Gelmini. Ma certo è più facile prendersela con gli studenti. 2. Altri segnali negativi vengono dal taglio ingiustificato agli Enti di ricerca per il 2013, nonostante i successi internazionali del bosone di Higgs. Questo è l’unico settore della spesa pubblica sottoposto alla valutazione dei risultati e la spending review avrebbe dovuto solo prenderlo ad esempio. E non si doveva smantellare l’Istituto di ricerca sull’alimentazione, proprio mentre il Paese si candida alla leadership su Nutrire il Pianeta con l’Expo di Milano. Per evitare i tagli bastava sottrarre qualche decina di milioni di euro all’IIT, l’unico ente di ricerca non sottoposto a valutazione e super finanziato, tanto da non riuscire a spendere i fondi, che infatti distribuisce discrezionalmente ai rettori, senza bandi pubblici. E anche il ministro Grilli, come ex presidente dell’IIT, avrebbe fatto una bella figura. 3. Infine, la norma più grave che chiude le porte all’università ai giovani ricercatori già scoraggiati da cinque di anni di blocco dei concorsi. Per compensare le carenze della didattica le burocrazie accademiche hanno ottenuto dal ministro altri strumenti: maglie più larghe per la chiamata diretta di professori, incarichi gratuiti di insegnamento per i precari, obblighi didattici perfino per i giovani assegnisti. Per un’intera generazione di talenti rimane solo una triste alternativa: lasciare il Paese oppure dimenticare la passione per la ricerca. D’ora in poi però non saranno più tollerate le lacrime di coccodrillo dell’establishment sulla fuga dei cervelli. E toccherà al governo di centrosinistra ripartire da una grande politica per il sapere dei giovani.

L’Unità 02.08.12

"Due diritti da difendere", di Stefano Rodotà

È possibile che entrino duramente in conflitto la salute, diritto fondamentale della persona (art. 32 della Costituzione), e il lavoro, fondamento della Repubblica (art. 1)? Sì, è possibile. E non è la prima volta che, nelle piazze italiane, si pronunciano le terribili parole “meglio morti di cancro che morti di fame”. Quando si è obbligati ad associare il lavoro con la morte, si tratti di produzioni nocive o di infortuni, davvero siamo di fronte a inammissibili violazioni dell’umanità delle persone. Il lavoro si trasforma in condanna quotidiana, che non arriva però da una maledizione biblica, ma dal modo in cui è concretamente organizzato il mondo della produzione.
Da dove cominciare per cercare di comprendere queste vicende? Ancora una volta ci aiuta la Costituzione con il suo articolo 41. Qui si dice che l’iniziativa economica privata, dunque l’attività d’impresa, «non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana». Vale la pena di sottolineare la lungimiranza dei costituenti, che posero la sicurezza prima ancora di libertà e dignità. E la sicurezza riguarda il lavoro, ma è pure sicurezza per i cittadini nell’ambiente e per i prodotti che consumano. Quelle parole nella Costituzione piacciono sempre di meno e si cerca di cancellarle, in nome della legge “naturale” del mercato. In un decreto recente, salvato acrobaticamente dalla Corte Costituzionale, si è messo abusivamente al primo posto il principio di concorrenza, nel tentativo di ridimensionare la portata complessiva di quell’articolo. Lungo è il catalogo dei fatti di cronaca che rendono evidente la mortificazione del lavoro attraverso il sacrificio della salute del lavoratore. Taranto è il nome di un luogo che si aggiunge a Marghera, Casale Monferrato, Val di Chiana, per citare solo i casi più noti. Quando l’attività d’impresa viene organizzata prescindendo dal fatto che la sicurezza dei lavoratori è un obbligo giuridico e un dovere collettivo, sono sempre devastanti le conseguenze umane e sociali.
La soluzione non poteva venire dalla tecnica molte volte usata di monetizzazione del rischio – denaro in cambio di salute. Bruno Trentin sottolineava la necessità di andare oltre l’ottica puramente retributiva e di tutelare nella sua integralità la persona del lavoratore. Né può venire dalla pretesa di un silenzio della magistratura di fronte a violazioni gravi e ripetute di un diritto fondamentale e di specifiche norme di legge.
Sempre più spesso i lavoratori sono vittime di ricatti. Occupazione a qualsiasi prezzo, anche della vita. Occupazione con sacrificio della libertà, come è accaduto con il referendum di Mirafiori sovrastato dalla minaccia della chiusura della Fiat. Questa è la spirale da spezzare. Soluzioni provvisorie possono essere ricercate, ma ad una sola condizione: la restaurazione integrale dei diritti dei lavoratori, che diventa anche la via per tutelare i diritti di tutti, come quello all’ambiente.
Sono tempi duri per i diritti fondamentali, per quelli sociali in specie. In nome dell’emergenza, siamo ormai di fronte a vere e proprie sospensioni di garanzie costituzionali. Si è dimenticato che l’articolo 36 della Costituzione prevede che la retribuzione debba garantire al lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa». Non essere il prezzo della perdita d’ogni diritto.

La Repubblica 02.08.12

"Bologna, la verità è a portata di mano", di Roberto Scardova

Sul finire degli anni 70 tutto era pronto. La P2 aveva posto sotto controllo buona parte dell’Arma dei Carabinieri ed i servizi di sicurezza dello Stato. Con l’appoggio di Michele Sindona e dei massoni americani (la «banda dei texani») Licio Gelli aveva esteso la propria influenza sulle logge siciliane reclutando i principali boss mafiosi. I movimenti neofascisti, Avanguardia Nazionale ed Ordine Nuovo, avevano stabilito un comune piano d’azione accordandosi anche con militari e criminalità. Nelle Forze armate si era avviata la ricostituzione clandestina dei «Nuclei di difesa dello Stato», cellule armate ed addestrate costituite da militari e neofascisti, appartenenti in particolare ad Ordine Nuovo. Tutto era pronto. La strage a Bologna avrebbe innescato una reazione tale da determinare una svolta autoritaria al governo del Paese. Anche la data era stata individuata: fine luglio, primi di agosto. Morti e feriti avrebbero insanguinato l’Italia delle vacanze, spazzato via gli ultimi brandelli della «solidarietà democratica» su cui avevano lavorato Enrico Berlinguer e Aldo Moro. I nostri servizi segreti sapevano tutto. Avevano avuto da più fonti precise informazioni sul fatto che la strage era in preparazione, su chi la progettava, chi avrebbe fornito l’esplosivo. Ma tacquero. Obbligarono al silenzio anche il ministro Antonio Bisaglia, che era stato informato dell’imminente attentato per le confidenze raccolte dal fratello, sacerdote a Rovigo.
I servizi piduisti predisposero invece il depistaggio che avrebbe dovuto far attribuire alla sinistra la bomba alla stazione: cosa che avrebbe moltiplicato il disorientamento della gente. Il neofascista Marco Affatigato già in marzo era stato «prestato» dal Sisde alla Cia perché fosse infiltrato tra i terroristi mediorientali, e gli era stato suggerito di rilasciare interviste circa presunte complicità con le Brigate Rosse, di scrivere documenti in cui si annunciasse un futuro governo militar-popolare. Subito dopo la strage, Affatigato fu arrestato in Francia come autore dell’eccidio. Una trappola. Dalla quale i giudici bolognesi riuscirono a districarsi soltanto per aver potuto disporre del lavoro di un giudice, Mario Amato, assassinato a Roma dai Nar di Valerio Fioravanti poco più di un mese prima. Amato aveva indagato su Fioravanti e sugli altri fascisti romani, sui loro padrini e sulle loro alleanze, ed aveva capito ciò che si stava preparando: «Siamo sull’orlo di una guerra civile» aveva dichiarato al Csm. Quell’allarme gli costò la vita.
La trappola Affatigato, così, non scattò. I veri autori delle strage furono catturati, e condannati. Con loro, i depistatori: Licio Gelli (l’inventore della teoria dell’esplosione causata da un mozzicone di sigaretta), e poi Francesco Pazienza con gli ufficiali del servizio segreto militare, Musumeci e Belmonte. Di questi ultimi oggi conosciamo l’appartenenza ad un organismo clandestino supersegreto, definito l’Anello: creato nell’immediato dopoguerra dai superstiti dei servizi di spionaggio di Mussolini, e la cui esistenza era stata taciuta per decenni. Lo si è scoperto grazie alle indagini condotte nell’ambito dell’ultimo processo per la strage di Brescia: ed alcuni di coloro che ne hanno fatto parte hanno sostenuto di aver agito, per anni, sotto la silente protezione di Giulio Andreotti.
L’Anello avrebbe costituito lo strumento operativo per le operazioni sporche: ad esempio la fuga del criminale nazista Herbert Kappler, la trattativa sulle carte di Aldo Moro prigioniero delle Br, il rapimento del figlio del leader socialista Francesco De Martino. Ed anche, ora sappiamo, i depistaggi per nascondere la verità sulla strage di Bologna, ed impedire che si potesse giungere ad individuarne autori e mandanti, ed il progetto eversivo che l’aveva determinata.
Sono questi alcuni degli elementi di novità che la Associazione tra i familiari delle vittime della strage del Due Agosto ha sottoposto alla attenzione della Procura di Bologna. Essi scaturiscono dalle inchieste condotte dai magistrati di Brescia, Milano, Venezia, Firenze e Palermo: atti, deposizioni e consulenze sono stati in gran parte digitalizzati grazie all’opera dell’Archivio della Memoria. Ciò consente di collegare ogni singolo episodio o personaggio al contesto complessivo, e valutare di ogni indizio rilevanze che possono risultare rivelatrici. Gli investigatori, sino ad oggi costretti ad inchieste limitate e parcellizzate, hanno la possibilità di allargare il proprio orizzonte all’intera storia delle stragi e della strategia delle tensione, ed ai suoi protagonisti da Portella della Ginestra ad oggi. La verità è a portata di mano: purché alla giustizia si consenta di lavorare.

L’Unità 02.08.12

"Bologna una ferita lunga 32 anni", di Giuliana Sias

I bolognesi non vanno mai in vacanza prima del 2 agosto. La città cambia improvvisamente, nell’arco di ventiquattro ore: prima è gonfia di persone, poi, di botto, deserta. Fino al 1980, oggi era semplicemente una giornata di partenze e arrivi, valigie pesanti e bagagli leggeri. Ma da 32 anni a questa parte, invece, il 2 agosto è solo «Strage». 85 morti e 200 feriti. Nessuno parte e nessuno arriva. A Bologna, oggi, si rimane immobili, esattamente come quell’orologio, in piazza Medaglie D’Oro. Che, certo, è rotto, ma in fondo non sono mai riusciti a fermarlo del tutto. Perché almeno per un minuto, ogni giorno e ogni anno, continua a segnare l’ora esatta. Sono le 10 e 25. «Ero al buio e non riuscivo a muovermi. Non ricordavo dove fossi e cosa stessi facendo laggiù». La sua fotografia di quel giorno è questa, e non quell’altra, quella che la ritrae su una barella, mentre i soccorritori la trasportano verso l’ambulanza più vicina. Quella che a lungo ha odiato e che suo malgrado ha fatto il giro del mondo, diventando il simbolo della Strage fascista alla Stazione di Bologna.

I ricordi più nitidi di Marina Gamberini risalgono alla sera precedente. Il suo 2 agosto, quello vivo nella mente e ricchissimo di particolari, inizia lì, a casa con i genitori. Con la madre, che le ha appena regalato un completino, e lei, che decide di indossarlo il giorno dopo, a lavoro. Alla Cigar, il buffet della Stazione. «Dopo mi ero fatta una maglia di cotone, cucivo ai ferri, ma le maniche non le avevo attaccate perché era estate e l’avrei indossata come fosse una canottiera».
Incastrata sotto le macerie e con una frattura al cranio, l’unica consapevolezza che la accompagna per ore, fino a quando qualcuno non arriva a salvarla, è di «non riuscire ad uscire da lì». Per il resto è buio, c’è un buco nella sua memoria, non sa nemmeno chi sia fino a quando un suo superiore non la vede, sulla barella, e grida il suo nome. È solo in quel momento, molto dopo lo scoppio della bomba, che Marina capisce di trovarsi in mezzo ad un disastro. «Qualcuno, a me, l’ha messa sotto al sedere quella bomba» dice ripensando ai «tanti schiaffi» presi in questi anni. Non le interessano le polemiche o le piste fantasiose.

Lei vuole sapere chi ha mandato Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Come scritto anche dal segretario del Pd Bersani al presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi («Voglio dirti che noi faremo da argine al tentativo di inquinare l’esito dei processi. Resta da capire chi fossero i mandanti occulti e quali forze abbiano realmente operato per arrivare ad un esito non democratico della vicenda italiana»).

«Le polemiche ci hanno stancato, sono le solite invenzioni, le solite bugie, le costruzioni false, perché devono coprire quel che è successo e sviare l’opinione pubblica». Anche Lidia Secci, che quel giorno perse il figlio ventiquattrenne, Sergio, guarda il Maestro Venerabile, Licio Gelli, e il terrorista nero, Giusva Fioravanti, e passa. «Con l’Associazione abbiamo tracciato un percorso e resistiamo – spiega – noi insistiamo».

Affianco a lei Sonia Zanotti annuisce: «Evidentemente non sanno più che inventarsi se arrivano ad insultarci personalmente». Sonia nel 1980 aveva 11 anni. Le ultime settimane le aveva trascorse in vacanza sui colli romagnoli e stava per tornare a casa, in Alto Adige. Con lei una cugina più grande, aspettavano il treno delle 11.30. Degli attimi precedenti alla strage ricorda solo che «c’era tanta gente che andava e veniva».

Dell’istante immediatamente successivo, l’inferno: «Il fuoco, la polvere, le sirene, ricordo tutto, la confusione, le grida, il sangue». Dopo 32 anni anche oggi è il 2 agosto, il giorno della «Strage».

L’Unità 02.08.12