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Terremoto, Senato approva decreto "Misure urgenti per le terre colpite"

Il provvedimento passa con 247 sì, 11 no e 4 astenuti. La Lega non partecipa al voto in aula: “Il governo doveva fare di più”. L’Idv vota no: “Decreto lacunoso approvato con urgenza per evitare lo scollamento della maggioranza”. L’aula di Palazzo Madama ha approvato il decreto che prevede misure urgenti in favore delle popolazioni colpite dai terremoti del 20 e 29 maggio 2012 nelle province di Bologna, Modena, Ferrara, Mantova, Reggio Emilia e Rovigo. Il testo, sul quale il governo ha posto la fiducia, è stato approvato con 247 sì, 11 no e 4 astenuti ed è stato convertito in legge.

La Lega non ha partecipato al voto: “Abbiamo deciso di non partecipare al voto di fiducia che al Senato coincide anche con quello sul provvedimento, per non votare contro il decreto sul terremoto”, ha spiegato Federico Bricolo, capogruppo della Lega Nord, “anche se nei confronti delle popolazioni colpite il governo avrebbe dovuto fare molto di più a cominciare dal sostegno alle imprese”.

Il gruppo dell’Italia dei Valori, invece, si è espresso con un ‘no’ alla conversione in legge degli aiuti alle popolazioni terremotate, dopo che alla Camera aveva invece votato a favore del provvedimento. Questo perché al Senato il voto di fiducia e di merito sul testo è unico e, dovendo scegliere, Idv ha scelto il voto contrario: “Il gruppo Idv alla Camera ha votato a favore del provvedimento, ma in Senato non possiamo esprimerci allo stesso modo perché il governo ha deciso di porre l’ennesima questione di fiducia” ha detto, durante le dichiarazioni di voto, Nello Di Nardo, capogruppo dell’Italia dei valori in commissione Ambiente e Territorio a Palazzo Madama. “Avevamo già annunciato – ha aggiunto – la nostra intenzione di ritirare gli emendamenti e trasformarli in ordini del giorno, ma a causa dell’assurda decisione di blindare il provvedimento non potremo dare alcun contributo”.

da repubblica.it

"Legge elettorale, intesa possibile ma la destra rallenta", di Andrea Carugati

L’unica cosa certa è che il clima tra i partiti della “strana maggioranza”, in tema di riforma della legge elettorale, è meno pesante. Parlare di distensione, dopo che il Pdl aveva vagheggiato un colpo di mano con la complicità della Lega, sarebbe un azzardo. Ma il nuovo appello del Capo dello Stato per uno «sforzo responsabile» sembra aver allontanato l’idea del blitz in Senato dell’asse forzaleghista, e rimesso in moto il lungo e defatigante dialogo tra Pd e Pdl per arrivare a una riforma condivisa del Porcellum. Una tessitura complicatissima, sempre soggetta ai repentini strappi del Cavaliere, che però è faticosamente ricominciata. Difficile, quasi impossibile che si arrivi a un’intesa su un testo prima della pausa estiva. Ma il comitato ristretto del Senato (gli 8 esperti incaricati di trovare una bozza condivisa) ha deciso di provarci. Almeno a fissare un percorso, una road map, per arrivare a un accordo in Aula per ottobre. Si vedranno oggi pomeriggio, e poi «altre due o tre volte» nel giro di pochi giorni, prima di andare in ferie.

La base di lavoro resta quella delle ultime settimane: un proporzionale con sbarramento al 5%, con una quota intorno al 30% di parlamentari eletti con liste bloccate e un 70% scelto con collegi o preferenze. Anche l’ipotesi di mediazione resta quella di cui si è parlato: il Pd potrebbe accettare un premio di seggi al primo partito (ma solo se superiore al 10%) e il Pdl rinunciare alle preferenze e accettare i collegi uninominali proposti dai democratici. A corroborare l’ipotesi di una retromarcia del Cavaliere ci hanno pensato ieri il presidente del Senato Schifani e Gaetano Quagliariello, uno dei mediatori del Pdl. Il primo ha fatto due passi indietro rispetto alle sue parole di venerdì, quando ipotizzando un via libera «a maggioranza» sembrava aver dato il suo timbro all’ennesimo strappo Pdl-Lega. «Io non tifo per una legge scritta da una stretta maggioranza», ha detto Schifani alla tradizionale cerimonia del Ventaglio. E ha aggiunto: «Auguro un accordo tra i partiti di maggioranza sulla legge elettorale per evitare ripercussioni sul governo». Ancora più chiaro Quagliariello: «Il Pdl non ha alcuna intenzione di cercare maggioranze alternative sulla legge elettorale a quella che sostiene il governo Monti».

Ieri il Pdl ha comunque depositato in Senato la sua proposta, che prevede il premio del 10% al primo partito, e tre preferenze (di cui almeno una a una donna, pena la nullità delle preferenze espresse dopo la prima). Nella proposta Pdl, oltre allo sbarramento al 5% per la Camera, ce n’è uno all’8% a livello regionale per il Senato e la clausola salva-Lega, che consente di avere deputati anche alle forze che non arrivano al 5% su base nazionale, purché superino il 10% in 5 circoscrizioni.

Oggi nella seduta del comitato ristretto anche Enzo Bianco, relatore in quota Pd, presenterà un «documento di lavoro». Non batterà i pugni sull’ipotesi ufficiale dei democratici (il doppio turno alla francese), ma farà un ragionamento su un modello di tipo ispano tedesco, su cui c’era stato accordo nella scorsa legislatura (la cosiddetta “bozza Bianco”) e su cui avevano lavorato nei mesi scorso Violante e Quagliariello; un «mix di uninominale e proporzionale» aperto a vari approdi.

Nel Pd non si sono ancora del tutto dissipati i dubbi sull’affidabilità del Pdl. Anzi, c’è il sospetto che non si voglia arrivare all’intesa neppure in autunno, e che gli stratagemmi e i diversivi non siano finiti. Prima il tentativo di blitz con la Lega, ora la nuova apertura al dialogo. «Tutti mezzucci per prendere tempo e non cambiare il Porcellum», spiega una fonte Pd. E tuttavia stavolta i democratici vogliono costringere il Pdl a scoprire le carte. Mostrandosi più «flessibili», anche sul premio al primo partito. «In questo modo il Cavaliere non avrà più alibi…». Il vicesegretario Enrico Letta ha esplicitato questa linea ieri a un convegno sul tema promosso dal Forum di Todi, cui hanno partecipato anche Quagliariello e Casini: «Siamo pronti a ragionare anche su ipotesi diverse dalle nostre su premio e preferenze: ma bisogna fare in fretta, anche tenendo aperte le Camere in agosto. Schifani non usi tattiche dilatorie…».

L’Unità 01.08.12

"Al governo, non con tutti. Bersani detta le condizioni", di Andrea Tognotti

I progressisti si candidano alla guida del paese ma non da soli: per la svolta serve «un patto di legislatura con forze liberali, moderate e di centro, d’ispirazione costituzionale ed europeista». Pier Luigi Bersani ha presentato laCarta d’intenti del Pd nella magnifica cornice del Tempio di Adriano, scenografia sobria dominata da un cartellone rosso con lo slogan dell’iniziativa: «Italia bene comune, per la ricostruzione e il cambiamento».
Un discorso di oltre mezz’ora rivolto a una platea fatta soprattutto di parlamentari, dirigenti, e qualche militante che ha notato con soddisfazione ciò che il portavoce del Pdl Daniele Capezzone ha usato invece in chiave polemica: il cartellone rosso, appunto. Nell’immediato, il Pd ha confermato una volta di più il «sostegno al governo Monti, perché questo significa dare una mano al paese», con un traguardo fissato alla «fine della legislatura», ma è tuttavia «pronto a ogni evenienza» – tradotto, al voto – nel caso la situazione precipiti. Un sostegno «in quel che ci piace e in quel che non ci piace, a cominciare dalla vicenda degli esodati cui va trovata una soluzione».
Ai potenziali alleati Bersani ha mandato un messaggio chiaro, noto da tempo ma al quale si annette un’importanza decisiva per non ripetere la triste esperienza dell’Unione di prodiana memoria, divisa e paralizzata su tante cose. «La risoluzione di controversie relative a singoli atti o provvedimenti rilevanti sarà rimessa a una votazione a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari convocati in seduta congiunta». Maggioranza qualificata, non unanimismo. E pensando a un possibile fronte critico, quello delle missioni militari all’estero, Bersani ha chiarito che un eventuale governo di centrosinistra dovrà «assicurare il pieno sostegno fino alla loro eventuale rinegoziazione degli impegni internazionali già assunti dal nostro paese». Ancora, sul piano internazionale, Bersani ha chiarito che si dovrà fare tutto il necessario per «difendere la moneta unica e procedere verso il governo politico-economico dell’Eurozona».
Bersani ha delineato un percorso di alternativa «non a Monti ma alle destre, che in dieci lunghi anni hanno esposto il nostro paese alla frontiera della crisi e ne hanno sfibrato nel profondo le energie». La prospettiva è quella di «proporre un’alternativa ed una sfida: uscire dall’eccezionalismo italiano». Fare riforme «liberali che la destra non può fare, contro le posizioni dominanti e i conflitti di interesse». Direttrici generali, ma anche un’opzione dichiarata fin da subito: «C’è da alleggerire il peso fiscale sul lavoro e caricarlo su grandi patrimoni e rendite, se non c’è il coraggio di farlo non si abbasseranno mai le tasse». La patrimoniale, insomma. Cioè un «ridisegno profondo del sistema fiscale che alleggerisca il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla rendita dei grandi patrimoni mobiliari e immobiliari».
Un’altra discriminante, l’Europa. Starci, senza dubbio. Ma come? La versione del segretario guarda a sinistra: «Noi contestiamo il liberismo finanziario che ci ha portato a questa crisi, denunciamo come abbia disarmato sovranità e democrazia nei paesi». Per venire poi ai diritti civili. Sulla questione delle coppie gay il Pd si impegna a dare «sostanza normativa al principio riconosciuto dalla corte costituzionale per il quale una coppia omosessuale ha diritto a vivere la propria unione ottenendone il riconoscimento giuridico».

da Europa Quotidiano 01.08.12

"Disoccupazione, un altro record. I sindacati accusano l'esecutivo", di Giuseppe Vespo

Medaglia d’oro alla disoccupazione, che segna un nuovo record a giugno e si posizione a quota 10,8 per cento. Un primato che vale solo in casa nostra e non basta ancora a sbaragliare la media dell’Eurozona, dove in diciassette Paesi con la moneta unica il tasso dei senza lavoro è di 0,4 punti più alto di quello italiano e si contano diciotto milioni di braccia conserte. Di questi, quasi tre – 2 milioni e 800mila per l’esattezza – hanno residenza in Italia e spesso sono donne e giovani. Ma anche gli uomini non scherzano: col tempo la crisi cerca di livellare le discriminazioni di età, genere e provenienza (geografica). Una cifra mai vista I ritmi di crescita della disoccupazione, dice l’Istat, segnano aumenti di tre decimi percentuali da maggio a giugno e di 2,7 punti in un anno: in termini assoluti si trasforma in un record storico assoluto, una cifra mai vista almeno da quando sono cominciate le rilevazioni statistiche, cioè dal lontano 1992. Unica nota positiva, se così può dirsi, è che il mostruoso 35 per cento di giovani (15-24 anni) disoccupati nel mese di maggio a giugno si è ridotto di un punto. In seicentomila restano in giro per agenzie di lavoro in cerca di un’occupazione, che è sempre più precaria (otto assunzioni su dieci). Complessivamente i disoccupati sono aumentati di 760mila unità in un anno. In un quadro del genere c’è chi riprende le parole del premier, che ieri ha iniziato a vedere la luce in fondo al tunnel. Luigi Angeletti, per esempio: «Se per uscire dalla crisi si intende il tentativo di salvare l’euro – dice il segretario Uil – credo forse l’operazione è raggiungibile. Se per la crisi si intende quella vera, ovvero la perdita di posti di lavoro e la recessione, allora non siamo per nulla all’uscita del tunnel». Dalla Uil alla Cgil, che imputa lo stallo del mercato del lavoro alle scelte del governo tecnico. E nell’evidenziare «l’urgenza dell’adozione di un piano straordinario per il lavoro», la segretaria confederale Serena Sorrentino punta il dito contro la ministra Fornero: «Il provvedimento sul lavoro – dice la sindacalista – con l’annessa diminuzione delle coperture sugli ammortizzatori, combinato con l’allungamento dell’età pensionabile ha determinato un corto circuito nel mercato del lavoro». «È troppo presto per vedere gli effetti della riforma», sostiene per contro Giorgio Santini, segretario Cisl, che vede con timore un possibile nuovo record, quello dei tre milioni di senza occupazione. «Ridistribuire il carico fiscale a tutela dei redditi più bassi e delle famiglie e attuare politiche di rilancio», è l’unica via che vede il sindacato di Raffaele Bonanni per uscire dal tunnel del (non) lavoro. Un concetto ripreso dal democratico, ex sindacalista proprio della Cisl, Sergio D’Antoni, che chiede al governo di non commettere «l’errore più grave che si può fare in questo momento: distinguere la questione economica dalla questione sociale». Per il resto, il fronte politico – opposizione e maggioranza – punta quasi tutto il governo. Al palo Tornando ai numeri, l’altro lato della medaglia è l’occupazione. L’Istat sostiene che a giugno di quest’anno gli occupati sono diminuiti di un decimo di punto rispetto al mese precedente. In Italia, questa primavera, lavoravano quasi 23 milioni di persone (22,9). Lavoravano spesso in imprese e industrie che, secondo l’ultimo rapporto di Mediobanca sulle cinquanta maggiori società quotate italiane, hanno perso da qualche parte gli ultimi quattro anni. Dal 2008, il margine operativo netto delle società analizzate è salito del 3,8 per cento solo grazie alle acquisizioni all’estero, come quella di Enel sulla spagnola Endesa e di Fiat sulla americana Chrysler. Mentre in casa «l’attività nazionale langue».

l’Unità 01.08.12

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“IN ITALIA QUASI TRE MILIONI DI SENZA-LAVORO”, di Luisa Grion

Un esercito di 2 milioni 792 mila persone con molti giovani, molte donne, ma dove anche gli uomini risultano in aumento; un esercito in crescita. E’ così che i dati Istat di giugno descrivono la platea dei disoccupati italiani: le cifre sono da record, in termini assoluti non siamo mai andati così vicini al tetto dei tre milioni, non almeno da quando – nel 1992 – è iniziata la nuova serie storica di rilevazioni statistiche sul tema. Il tasso dei senza lavoro ha raggiunto quota 10,8 per cento (mai così alto dal 2004), in aumento dello 0,3 per cento sul precedente mese di maggio e del 2,7 su giugno 2011. In un solo anno le persone che non hanno lavoro e ne stanno cercando uno sono aumentate di 761 mila unità (più 37,5 per cento sul 2011), di cui 73 mila solo fra maggio e giugno: segno evidente che, per quanto riguarda l’occupazione, non stiamo uscendo dal tunnel.
C’è semmai una sorta di riposizionamento in corso: resta a livello allarmante la disoccupazione giovanile nella fascia compresa fra i 15 e i 24 anni. Il tasso tocca ora il 34,3 per cento e i ragazzi e le ragazze in cerca di lavoro sono 608 mila. Guardando al genere, è pari al 10 per cento la disoccupazione maschile e al 12 quella femminile (entrambe in crescita, ma con una maggiore velocità della prima sulla seconda). Sono invece in decisa flessione gli inattivi, ovvero quelle persone che non hanno un lavoro, ma nemmeno lo cercano più: questa platea di delusi e rassegnati è diminuita, in un
anno, di ben 752 mila unità. Segno che il perdurare della crisi sta comunque spingendo le persone a provarci: peccato che all’aumento nell’offerta non corrisponda un aumento nella domanda.
Non è confortante, in realtà, nemmeno il quadro europeo. Nei Paesi dell’area euro, a giugno, il tasso di disoccupazione ha toccato l’11,2 per cento, il livello più alto dal 1999, ovvero dalla creazione dell’Eurozona. Un anno fa era fermo al 10 per cento: i senza lavoro sono 17,8 milioni. Si va dal 6,8 per cento, dati di luglio, della Germania (6,6 un anno fa), ai picchi drammatici di Spagna e Grecia (24,8 e 22,5 per cento secondo le rilevazioni Eurostat di giugno).
Un quadro che – nonostante il raffreddamento dell’inflazione passata, a luglio, al 3 per cento sul 3,3 di giugno (ma sale a 4 tenendo conto solo del carrello di beni acquistati con maggior frequenza) – preoccupa molto i sindacati. Per la Cgil la riforma del lavoro «con l’annessa diminuzione delle coperture sugli ammortizzatori, combinata all’allungamento dell’età pensionabile, ha determinato un corto circuito nelle dinamiche del mercato del lavoro». Secondo la Cisl dietro a tale risultato ci sono invece «anni di politiche sbagliate »: ora – per innescare la svolta – è necessario «ridistribuire il carico fiscale a tutela dei redditi più bassi e delle famiglie e attuare politiche di rilancio degli investimenti». Per la Uil, i dati Istat dimostrano «che non siamo riusciti a fare una politica del rigore aumentando la capacità produttiva del Paese; se per la crisi si intende quella vera, ovvero la perdita di posti di lavoro e la recessione, allora non siamo per nulla all’uscita del tunnel».

La Repubblica 01.08.12

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“IL LAVORO NON C’È PIÙ LA DISOCCUPAZIONE SALE AL 10,8%”, di Giampiero Di Santo

Si rotola nel fango della recessione. E i posti di lavoro continuano a diminuire. Nel mese di giugno i disoccupati, secondo gli ultimi dati dell’Istat, hanno toccato in Italia il livello di 2,8 milioni, 2,792 per le precisione, qualcosa come il 10,8% della forza lavoro. È il peggiore risultato dal primo gennaio del 2004, fa sapere l’Istituto nazionale di statistica. Che segnala anche come l’aumento percentuale rispetto al maggio del 2012 sia dello 0,3%, mentre rispetto al giugno dell’anno precedente il peggioramento è addirittura del 2,7%. L’Italia, insomma, è tornata a fare registrare tassi di disoccupazione record, come era già accaduto nel 1984, quando appunto fu toccato il 10.8% replicato in giugno. Nel complesso il numero dei disoccupati è aumentato di 73mila persone e la crescita su base annua, pari al 37,5%, segnala che ben 761.000 sono gli italiani restati senza lavoro nell’ultimo anno. Meglio, si fa per dire, è andata per la disoccupazione giovanile: l’incidenza dei senza lavoro tra i 15 e i 24 anni è calata dal 35,3% di maggio al 34,3% Secondo l’Istat i giovani disoccupati rappresentano il 10,1% della popolazione di questa fascia di età, e sono 608mila quelli in cerca di occupazione.Le cifre parlano di un aumento dei senza lavoro sia tra le donne, sia tra gli uomini. Anzi i senza lavoro maschi sono aumentati di più, del 2,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre le donne sono cresciute del 2,5% su base annua. In confronto a maggio, invece, il peggioramento è stato dello 0,3% sia per la componente maschile sia per quella femminile della forza lavoro. Ma le percentuali sono rimaste diverse, rispettivamente del 10% e del 12%. Cifre comunque estremamente preoccupanti,che hanno spinto il segretario della Lega Nord, Roberto Maroni, ad alzare il tiro sul premier Mario Monti, accusato di «pensare alla riforma elettorale piuttosto che al lavoro». Una analisi rafforzata dai sindacati, in particolare dalla Cgil. Che attraverso il segretario confederale Serena Sorrentino ha attribuito al «provvedimento sul lavoro, con l’annessa diminuzione delle coperture sugli ammortizzatori, combinato con l’allungamento dell’età pensionabile deciso dalla riforma Fornero», il «corto circuito nelle dinamiche del mercato del lavoro». Il segretario generale aggiunto della Cisl, Giorgio Santini, ha chiesto «un piano straordinario per il lavoro» per evitare «di alimentare una spirale recessiva che avrà nuovi, pesanti effetti». Altrettanto allarmati i commenti di Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, e di Paolo Varesi. pari grado nell’Ugl. Ma a essere allarmati su quella chge è ormai un’emergenza mondiale sono un po’ tutti. Secondo Eurostat La disoccupazione nell’eurozona in giugno è rimasta ferma all’11,2% registrato in maggio, ma rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, quando era stata pari al 10%, l’aumento è netto. E anche la Germania, con il suo tasso del 6,8% registrato in luglio, è in difficoltà.

ItaliaOggi 01.08.12

"Il bilancio di Don Raffaele", di Sebastiano Messina

È la battaglia per diventare l’uomo di cui nessuno potrà fare a meno se vorrà governare l’isola o conquistare la maggioranza dei seggi per il Parlamento nazionale. Fino a ieri, con meticolosa e instancabile tenacia, il governatore ha piazzato le sue pedine su tutte le caselle libere del potere regionale, dalle autostrade agli ospedali, dall’Istituto Vini e oli all’Irfis, più di 130 nomine in due mesi con una media di due investiture al giorno, collocando ovunque i fedelissimi dell’Mpa e lasciando qualche avanzo agli ultimi alleati che gli sono rimasti accanto, i luogotenenti siciliani di Gianfranco Fini. Ma da oggi questi personaggi che sono stati miracolati in zona Cesarini, queste pedine che sono state messe in campo quando il potere di Arraffaele sembrava al tramonto, dovranno restituire con gli interessi alla politica ciò che la politica ha dato loro: a uno a uno saranno chiamati a trasformare in voti il potere che hanno avuto, e Lombardo deciderà il loro destino politico dal numero di preferenze che ciascuno di loro porterà all’Mpa.
Lombardo aspettava questo momento, il momento di tirare le reti, dal giorno in cui ha varcato il portone di Palazzo d’Orleans. Era entrato nelle stanze del potere siciliano – stanze che conosceva già alla perfezione, essendo stato il più fedele alleato di Totò Cuffaro, fino al giorno in cui decise di tenere per sé tutta la torta – annunciando grandi novità per questa terra.
Prometteva il Ponte, una riforma radicale della vecchia burocrazia, una cura di austerità e di efficienza per la Regione, la fine degli sperperi nel business malato della formazione professionale, una terapia radicale per la sanità, il sostegno alle imprese siciliane sane e lavoro, finalmente un lavoro senza dover emigrare, per i giovani più bravi. Sono passati più di quattro anni e non si è visto nulla di tutto questo. Il Ponte non si è fatto e forse non si farà mai. La riforma della burocrazia regionale è consistita finora in un una sola novità: tutti gli atti importanti devono passare dalla scrivania del governatore, che li firma se e quando vuole ui. Invece di velocizzare, ha accentrato, paralizzando tutto. La formazione professionale è ancora lì, con qualche lifting piemontese, tenuta in piedi con i miliardi che l’Europa si è già stancata di gettare in quel pozzo senza fondo, per la gioia dei non pochi deputati regionali dalla faccia di bronzo che hanno i loro soldi, le loro mogli o i loro figli in qualche ente dove «formatori » senza un mestiere fingono di insegnare qualcosa a dei «formandi » che fingono di impararla. Gli sperperi sono continuati, la Regione non ha fatto nessuna cura dimagrante, anzi: a furia di «sanare» le posizioni di migliaia di precari, lo stipendificio della Regione è diventato ancora più affollato, e viene da ridere assistendo alla sceneggiata dell’assessore Armao che, avendo promesso al governo Monti il taglio degli organici, ora deve far finta di farlo per davvero, sapendo lui per primo che nessun taglio sarà mai fatto in Sicilia finché al potere ci sarà Lombardo.
Invece dello sviluppo abbiamo avuto una crisi feroce, che ha tagliato migliaia di posti di lavoro, e tutto ciò che ha saputo fare il governatore, validamente assistito da Armao che è diventato il suo braccio finanziario, è stato mettere insieme delle improbabili cordate per l’acquisto della Siremar e sponsorizzare candidature imbarazzanti per Termini Imerese.
Quanto alla sanità, i conti sono certamente migliori di quattro anni fa, e alcune cose – pochissime, purtroppo per tutti noi – sono cambiate negli ospedali siciliani. Quello che non è affatto cambiato è il metodo: le aziende sanitarie sono rimaste delle succursali della politica, dove i direttori ma anche i primari e i capisala vengono scelti per meriti ben diversi dalla competenza e dai meriti professionali – non un solo manager senza la bandierina dell’Mpa o dei suoi alleati è mai stato scelto dall’assessore Massimo Russo, zelante esecutore della lottizzazione lombardiana – e i risultati sono quelli che ogni siciliano può constatare di persona quando gli capita la disavventura di varcare la soglia di un ospedale.
Con le sue dimissioni, Raffaele Lombardo chiude dunque un bilancio fallimentare, almeno dal punto di vista della Sicilia. Dal suo punto di vista, invece, il bilancio è nettamente in attivo: ha schierato una gran quantità di portaordini nelle caselle del potere siciliano, e alla fine di ottobre conterà i voti. Resta solo da vedere, da qui ad allora, chi deciderà di affiancarlo in questa spregiudicata operazione, e chi troverà il coraggio e la forza di opporsi ad «Arraffaele» e alla sua armata di clientes.
Un’ultima considerazione la meritano le parole di Lombardo in aula. Il governatore ha teorizzato un oscuro calcolo politico, quello di sganciare il voto siciliano dai partiti nazionali, motivazione che gli consente di non dire che si dimette per evitare di trovarsi, come il suo predecessore Cuffaro, nell’imbarazzante condizione di presidente e imputato per mafia.
Eppure non è riuscito a separare la vicenda politica da quella giudiziaria, dichiarandosi vittima di una «aggressione mediatica criminale ». Quelle parole erano rivolte a Repubblica, colpevole di aver dato per prima la notizia dell’inchiesta per mafia che lo riguardava, e di aver dato puntualmente conto ai suoi lettori degli episodi che i magistrati della Procura di Catania gli hanno contestato. Noi lo abbiamo invitato – venendo tardivamente ascoltati – a rispondere puntualmente e pubblicamente alle pesanti accuse che gli venivano rivolte. Forse il governatore avrebbe preferito che questo giornale, così come ha fatto qualcun altro, sostenesse che si trattava di accuse inconsistenti e infondate, ma il compito della libera stampa è quello di dare le notizie, anche e soprattutto le notizie scomode per i potenti.
Vedremo come si concluderà il processo. Oggi possiamo solo dire che di criminale, in questo momento, ci sono solo le storie dei personaggi che Raffaele Lombardo incontrava per ottenere l’unica cosa alla quale lui dà valore: i voti.

La Repubblica 01.08.12

"Gli studenti universitari sommersi dalle tasse", di Laura Matteucci

I giovani democratici bocciano i contenuti della spending review annunciando un «university pride». Quelli di Link, il coordinamento delle associazioni universitarie, se la spiegano così: «All’inizio – dice uno dei loro rappresentanti, Luca Spadoni – il testo prevedeva il taglio dei fondi all’università per 200 milioni, poi hanno stralciato questo punto, ma hanno introdotto l’aumento delle rette». Al momento, si salvano solo gli studenti a reddito basso e al pari con gli esami. Tutti gli altri finiscono sommersi dalle tasse. Il decreto sulla spending review, nella sua ultima versione passata ieri in Senato col voto di fiducia, prevede rincari delle rette per tutti gli universitari: l’unica eccezione riguarda gli studenti in corso con un reddito Isee fino a 40mila euro, per i quali, almeno fino al 2016, l’incremento delle tasse non può superare quello dell’inflazione. Per le altre fasce di reddito non è previsto un blocco, quindi gli studenti potrebbero vedersi aumentare le rette anche se in regola con gli esami. Aumenti pesanti per chi è fuoricorso, ovvero il 40% circa della totalità degli studenti: le tasse potranno crescere fino a +25% per chi ha un reddito familiare sotto i 90mila euro, fino a +50% per chi ha reddito tra 90mi- la e 150mila euro, e fino a +100% per chi ha un reddito oltre i 150mila euro. Gli introiti dovrebbero essere destinati, per il 50%, alle borse di studio e per il resto a interventi di sostegno a servizi abitativi, di orientamento, di ristorazione e di assistenza. Nel decreto si dice che si terrà conto della condizione degli studenti lavoratori, ma non si specifica in che modo.

LIEVITANO LE SPESE

I tagli, peraltro, ci sono già stati: se nel 2009 il Fondo per l’università e la ricerca era dotato di 7,4 miliardi, oggi a bilancio c’è un miliardo in meno tondo tondo, per un investimento statale fermo allo 0,8% del Pil, contro una media europea dell’1,5%. Al momento la media nazionale delle tasse sfiora i 1.100 euro annui, con differenze anche abissali sia in base all’ateneo che al reddito (a Milano, per dire, si arriva fino a 2.500 euro). Cui vanno aggiunte le spese per i libri, i trasporti e gli eventuali (carissimi) affitti dei fuorisede. «È sbagliato scaricare il peso dell’istruzione sulle famiglie – dice Spadoni di Link – tra l’altro rischiando un sempre più massiccio abbandono delle immatricolazioni». Per i giovani democratici «la modifica dei criteri per calcolare le tasse ai fuoricorso mette fine alla nenia secondo cui il governo dei tecnici assume scelte neutre. Le conseguenze di questa scelta – dichiarano Fausto Raci- ti, segretario nazionale dei giovani Democratici e Federico Nastasi, portavoce della Run, Rete Universitaria nazionale – sono chiare: salve le università che fino adesso hanno praticato una tassazione illegale, sforando il tetto del 20% del finanziamento statale, salvi i rettori, salvi i Cda. Moratti, Gelmini e Profumo hanno tutti contribuito al racconto bugiardo dell’istituzione universitaria. Mentre tagliavano risorse, bloccavano il turnover dei docenti, affamavano i ricercatori e cancellavano il welfare studentesco, erano accompagnati dai cantastorie dell’establishment, secondo cui l’università è luogo di malaffare e spreco». «Per noi – aggiungono – è esattamente il contrario: l’accesso al sapere è il primo strumento per combattere le ingiustizie, la conoscenza deve diventare la priorità nel paese delle diseguaglianze. L’autunno potrà essere il blocco di partenza per lanciare la volata al nuovo corso italiano». Secondo Gd-Run, per l’università «va costruita un’operazione verità, che metta in piazza il vero volto degli studenti e dei giovani ricercatori che insegnano senza essere retribuiti». «Una giornata dell’orgoglio universitario – dicono Raciti e Nastasi – La norma d’aumento delle tasse non ha nulla a che fare con la revisione della spesa pubblica, a questo punto l’obiettivo di rivedere la contribuzione studentesca su criteri di equità deve essere nell’agenda del prossimo governo eletto dai cittadini».

Contro la norma è anche la Cgil, che annuncia nelle scuole e nelle università un autunno «molto caldo per contrastare la privatizzazione dei saperi e l’allargamento delle disuguaglianze». «L’Italia – dice il segretario generale Flc, Mimmo Pantaleo – rischia di essere in Europa il Paese con le più alte tasse universitarie e con il peggiore sistema di diritto allo studio». «Il governo Monti – conclude – utilizza la crisi per cancellare diritti sociali e di cittadinanza fondamentali, ma presto dovrà fare i conti con un duro conflitto sociale».

L’Unità 01.08.12

"La nuova idea di unione politica europea", di Andrea Manzella

Che fare per il 2014, quando si voterà per il Parlamento europeo? Quale prospettiva si darà al popolo degli elettori, unificato dalla stessa stretta che grava sul “mestiere di vivere” quotidiano? “Titoli neri come temporali”: la grande crisi riporta alla mente la fulminea sintesi che Cesare Pavese faceva dei giornali in altri tempi d’ansia. Allora, al fondo del tunnel europeo c’era la speranza della pace. Oggi, c’è la speranza di una cosa che sembra più vicina, e invece si rivela ogni giorno più sfuggevole e astratta, quella che si chiama “unione politica”. La chiedono i governanti, gli economisti, i giuristi. Si moltiplicano gli appelli degli intellettuali. Ma nessuno fa una cosa, una sola cosa che dichiari apertamente quel fine. Dominano ancora quei tabù che hanno fatto sbianchettare dai Trattati parole come costituzione, federazione, legge (persino).
Tutti sanno, però, che lo scenario è mutato.
I vincoli sempre più stringenti dei Trattati annullano di fatto la sovranità nazionale degli Stati, condizionando i diritti più legati alla loro identità. I diritti sociali, così diversi nelle tradizioni di comunità di ciascuno Stato. I diritti di bilancio, così legati alla dualità dei parlamenti nei confronti dei governi. I diritti di scelta politica, perfino, ora che la scelta si è fatta stretta tra esecuzione e dissesto fiscale: l’alternativa del diavolo.
Si è formato così uno “spazio pubblico europeo”. Ma non è quello, di coesione e di opinione pubblica comune, perseguito dai federalisti custodi della grande tradizione. È ora uno spazio segnato da una percezione negativa di vincoli e balzelli in favore degli “altri”: i più poveri o i più ricchi, a seconda che si sia al nord o al sud. È l’arena residuale concessa da un nuovo jus publicum europaeum dove i diritti appaiono solo il riflesso affievolito del potere. Non vi è da meravigliarsi se in questo spazio cresca la prosperità politica di chi parla contro l’Europa e le sue istituzioni: non come cattivo scudo contro la crisi, ma come se la crisi l’avessero creata loro.
Grandi sforzi si erano fatti per modellare le istituzioni europee secondo il figurino degli Stati nazionali: per colmare il loro deficit democratico, si diceva. Ora ci si accorge che privazioni e riduzioni di spesa hanno aperto, al di là della loro necessità, la strada a movimenti politici che, nella lotta contro “questa” Unione, travolgono anche il suo patrimonio costituzionale. È quel che accade nelle prese di potere in Ungheria, in Romania. Ma il morso dei movimenti populisti anti-sistema europeo si avverte dappertutto, dalla Germania all’Italia. Un deficit democratico indotto.
È questo rischio democratico comune che dovrebbero avvertire i giudici tedeschi che si sono assunti (con le ulteriori pesanti conseguenze che sappiamo) la responsabilità di rinviare a settembre il giudizio sull’entrata in vigore delle ultime regole di solidarietà, già approvate dal Bundestag.
La consapevo-lezza, cioè, che il giudizio di costituzionalità sulle ultime norme europee, rispetto ai poteri del parlamento tedesco non può limitarsi al sistema democratico della Repubblica federale. Così come del resto vuole la stessa Costituzione tedesca: che all’articolo 23 stabilisce la responsabilità della Germania per lo sviluppo di una Unione “vincolata al rispetto dei principi democratici”.
La speranza è allora che parametri formali e procedurali non offuschino questa intelligenza delle cose. Un pericolo sempre presente nella interpretazione delle costituzioni.
Questa volta, infatti, la ragione è dalla parte dei parlamenti che capiscono di dover legittimare lo “stato d’eccezione” (accade nel Bundestag come nel parlamento italiano). “Si appropriano” come diceva un grande giurista tedesco, dello stato d’eccezione. E questo non solo per la pressione dei mercati (tanto più aggressiva quanto più avverte che la politica sta ormai preparandosi ad una rivolta culturale contro il determinismo dei moltiplicatori finanziari) ma perché vedono finalmente nelle ultime mosse dell’Unione un cambio di passo.
Vedono che è iniziato un processo che punta non più solo sulle regole e la loro osservanza ma sulla forza dell’intreccio di istituzioni.
Naturalmente, è un processo pieno di ostacoli e passi laterali e resistenze: eppure ci sono già fatti impensabili fino a poco tempo fa. Come il condizionamento reciproco del potere di bilancio (il potere su cui sono nati i parlamenti) con il “semestre europeo”: avvio ad una Unione di bilancio. Come la cooperazione interparlamentare: un parlamentarismo dell’Unione che supera la contrapposizione tra Parlamento europeo e i parlamenti nazionali e ne fonda, al contrario, l’operare congiunto in “conferenze” per materie. Come l’abbandono dell’unanimità per l’entrata in vigore di nuove regole comuni: che ora divengono effettive con la ratifica di una maggioranza degli Stati contraenti. Ma tutto questo acquista senso solo se viene inserito in una convincente narrazione per gli elettori del 2014. L’idea cioè che si voterà per una Europa diversa, capace di affrontare la crisi non solo con un set di regole ma con meccanismi istituzionali unitari: l’euronazionalismo.
Non c’è tempo – e forse neppure spazio, in un clima che si è fatto plumbeo – per grandi ingegnerie costituzionali che implicherebbero incertissimi mutamenti dei Trattati. Ma c’è tutto il tempo che si vuole per fare alcune cose essenziali.
Gli Stati, senza cambiare i Trattati, potrebbero adottare una “procedura elettorale uniforme” che consenta lo scambio di candidature e la presentazione di capolista unici tra Paese e Paese da parte dei grandi partiti europei e che dia senso ad uno spazio non fatto di paure ma di speranze politiche non solo domestiche.
Gli Stati, con dichiarazione comune preelettorale, potrebbero impegnarsi a nominare anche come presidente del Consiglio europeo, il presidente della Commissione eletto dalla maggioranza nel Parlamento europeo. Una unione presidenziale, anche qui, fattibile senza cambiare i Trattati.
Gli Stati potrebbero cambiare le regole (non costituzionali) che ora disperdono e rendono invisibile e spesso sprecata la massa dei fondi di coesione europei tra le regioni. E potrebbero riassumerne la gestione centrale, sotto gli stretti controlli che vincoleranno i bilanci statali, come strumenti di politica economica comune.
I parlamenti (europeo e nazionale) potrebbero assieme dichiarare di accettare la prospettiva di un futuro lavoro “per conferenze” e “per convenzioni” euronazionali sulle grandi questioni dell’Unione: facendo capire agli elettori che indirizzi e controlli e indagini di ogni Camera rappresentativa hanno un senso solo se acquistano il respiro dell’interdipendenza dei problemi. E che quindi la cooperazione interparlamentare, già prevista nei Trattati, è l’unica forma di parlamentarismo all’altezza dei tempi.
Insomma: da una catena di solidarietà istituzionali, potrebbe nel 2014, nel centenario della originaria tragedia europea, prendere primi concreti contorni quella “unione politica” così citata. E assicurare i cittadini che il loro voto per l’Europa avrà l’efficacia di una scelta politica piena. Perché un astensionismo di massa sarebbe di tutte le crisi, la più grave.

La Repubblica 01.08.12