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"Bersani presenta la carta d’intenti. Vendola apre", di Tullia Fabiani

Un patto fondato sul lavoro, sull’equità, sul riequilibrio del carico fiscale e sulla redistribuzione. Un patto che parla di beni comuni, sviluppo sostenibile; di conflitto di interessi, e orizzonte europeo. Un patto sulla parità di genere, sui diritti civili e di cittadinanza. È quello che oggi il segretario del Pd Pier Luigi Bersani presenta al Paese, destinato non solo «alle forze politiche di ispirazione democratica e progressista, ma ad associazioni e movimenti, agli amministratori, alla cittadinanza attiva e alle personalità che intendano concorrere a un progetto di governo in grado di affrontare la grande crisi che stiamo vivendo». È la «Carta d’intenti per il patto dei democratici e dei progressisti» da cui partire. La base per definire il programma di governo del candidato premier e dell’alleanza di centrosinistra; chi vuole essere parte della coalizione e partecipare alle primarie dovrà discuterla e sottoscriverla.

Una proposta dunque che il Pd è pronto a discutere non solo con le altre forze politiche e con i rappresentanti di liste civiche sparse sul territorio nazionale, ma anche con associazioni, movimenti, parti sociali. Una decina di pagine che non vogliono certo essere un completo programma di governo; c’è ancora il nodo della legge elettorale da sciogliere, ci sono le primarie da fare e resta poi da definire il disegno delle alleanze. Nelle intenzioni di Bersani il documento indica il percorso; dà le coordinate dei valori cui il centrosinistra deve fare riferimento per provare a governare e cambiare il Paese. Si parte dal lavoro, che è «il cuore del progetto»; come recuperare competitività; come «redistribuire e ricchezze e attuare il riequilibrio fiscale». L’ipotesi è una patrimoniale sulle rendite dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari, una soluzione che il Pd aveva già suggerito per far fronte alla crisi e in vista delle varie manovre volute dall’Europa. Inoltre, quali politiche industriali adottare, come garantire uno sviluppo sostenibile. L’orizzonte europeo cui guardare perché: i destini dell’Italia e dell’Europa sono «strettamente intrecciati». Poi il conflitto d’interessi, l’idea di trovare una soluzione definitiva al problema. La difesa della libertà d’informazione. I diritti civili: il riconoscimento per le coppie di fatto e quello della cittadinanza ai figli degli immigrati, perché c’è un «concetto di eguaglianza» imprescindibile.
L’obiettivo dunque è quello di una «riforma della politica» con la consapevolezza che la prossima legislatura possa essere una «legislatura costituente», senza però mettere in discussione il principio di una «democrazia saldamente costituzionale».

Temi importanti su cui ovviamente si prevede un confronto ampio e approfondito. All’interno del Pd la notizia della presentazione del decalogo ha provocato qualche polemica tra chi, come Paolo Gentiloni, lamentava una mancata discussione «all’interno di organismi di partito», e chi ha difeso Bersani ricordando che «le sue intenzioni programmatiche sono state presentate sia nell’ultima Direzione, sia all’Assemblea nazionale». La Carta, nell’intenzione del leader democratico, ha l’ambizione di riuscire a trovare punti di incontro e di consenso ampi. Alcuni aspetti sono stati già trattati incontrando associazioni e movimenti della società civile. Altri appuntamenti ci saranno con i sindacati e gli imprenditori. E, naturalmente, con i partiti.

Il primo incontro in agenda, mercoledì, è con Nichi Vendola, leader di Sel, che ha espresso il suo interesse a «sapere qual è la bussola». Vendola è convinto che «abbiamo di fronte una strada in salita, quella di un paese angosciato, smarrito, devastato. Dobbiamo dare speranza all’Italia della precarietà, la giustizia sociale non è semplicemente custodire diritti delle persone ma è anche l’ingrediente fondamentale per la ripresa economica». E sulla composizione della coalizione aggiunge: «Dirò a Bersani che dobbiamo essere un centrosinistra aperto, inclusivo, plurale. Il Pd è il soggetto fondamentale». E Vendola lo ha ricordato anche ad Antonio Di Pietro protagonista ieri dell’ennesimo violento attacco al Quirinale.

L’Unità 31.07.12

La “specificità” perduta, di Pippo Frisone

Ci mancava anche la “spending revew” a rendere più problematico l’avvio del nuovo anno scolastico. Respinti tutti gli emendamenti in commissione e posta la fiducia al Senato , il governo come uno schiacciasassi sta procedendo all’ennesimo appiattimento in pejus di tutti i settori della conoscenza, scuola in testa, a tutto il resto del pubblico impiego. Tagli lineari in stile Tremonti su tutto il pubblico impiego senza guardare in faccia nessuno. Inidonei, esuberi, ferie dei precari, dimensionamenti e sottodimensionamenti delle scuole, per non parlare degli esodati della scuola le prime vittime di una parificazione cieca e assoluta senza se e senza ma.

Che ci fossero pregiudizi duri a morire nei confronti del lavoro pubblico e della scuola in particolare, s’era capito sin dall’inizio di questa legislatura nel 2008.

La legge n.133/08 col famigerato art.64 ha comportato tagli lineari nella scuola per 135mila unità, i cui effetti si fanno sentire ancor oggi come limite invalicabile a qualsiasi innovazione nella scuola, quale l’organico funzionale dell’autonomia e a qualunque incremento di posti.

Le sanzioni disciplinari col decreto Brunetta n.150/09 han completato l’opera, togliendo ai docenti ogni organismo collegiale di garanzia e mettendo a serio rischio la libertà d’insegnamento e l’autonomia professionale degli insegnanti.

Quanto al riconoscimento del merito non si è andati oltre, per fortuna, ad una minisperimentazione molto limitata. La mancanza di risorse ha fatto il resto, rinviando il tutto sine die.

L’altra specificità contrattuale della scuola , quella sui gradoni e gli scatti d’anzianità, prima bloccati da Tremonti assieme ai contratti, poi ripristinati per il 2010, sono stati nuovamente bloccati per mancanza di risorse.

La riforma Fornero sul mercato del lavoro non ha sciolto il nodo dell’applicabilità dell’art.18,così come riscritto sui licenziamenti facili anche nel pubblico impiego, sulla mobilità coatta e quindi sul destino di quasi 10mila esuberi della scuola.

I docenti inidonei in via permanente, oltre 3mila,vengono dirottati a coprire i posti vacanti nelle segreterie delle scuole anche contro la loro volontà. La speranza di mandarli in altra amministrazione è legata alla volontà del governo di far proprio un emendamento passato in commissione.

Ma quel che più stupisce è il riutilizzo in supplenze dei cosiddetti temporanei, vale a dire di quei docenti dichiarati inidonei alla funzione docente in via provvisoria e rivedibili, di solito da 1 a 3 anni.

In questo caso, funzionalità, qualità, sicurezza, diventano optional di cui si può fare a meno.

Inoltre, nessun ripescaggio del personale della scuola che avrebbe maturato i requisiti di età e di anzianità ai fini pensionistici tra il 1 settembre e il 31 dicembre del 2012.

Un altro duro colpo a quel che resta della “specificità” docente.

Specificità e non privilegi come ebbe a riconoscere più volte il Parlamento italiano quando per la prima volta riconobbe coi decreti delegati nel 1974 , a seguito di storiche battaglie politiche e sindacali, uno “stato giuridico” al personale della scuola, distinto e separato dal resto del pubblico impiego( Dpr.n.3/57).

Riconoscimenti che proseguirono, coi processi di privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro prima col D.L.29/93, poi con l’autonomia del 1999 e col D.L.165 del 2001.

Ferie, permessi, festività, congedi, anno sabbatico, assunzioni e cessazioni , ogni istituto giuridico e contrattuale prendeva forma e sostanza per anno scolastico e non più per anno solare come avveniva nel resto del pubblico impiego, fatta eccezione per i comparti AFAM e Università.

Rimanevano tuttavia identici nelle procedure e nella tempistica, vale a dire per anno solare, tutti gli aspetti amministrativi contabili e i relativi i controlli, legati alla formazione e all’approvazione dei bilanci delle istituzioni scolastiche.

Ora col cedolino unico e la tesoreria unica gestiti centralisticamente dal MEF anche nel pagamento delle supplenze brevi, si registra un arretramento e una mortificazione ulteriore di quel che rimane dell’autonomia scolastica.

Un’autonomia senza risorse, si sa , è solo una finta autonomia.

Le uniche buone notizie di questi giorni riguardano le preannunciate assunzioni in ruolo chieste per il 2012/13 dal Miur al Mef: 21.112 posti docenti e 5.336 posti Ata.

Questa è l’ultima “specificità” di un certo peso, ancora riconosciuta alla scuola , stante il blocco delle assunzioni sul resto del pubblico impiego.

E’ più o meno la copertura del turn over, tenuto anche conto dei quasi 10mila esuberi. Ma tant’è.

Basteranno le 26mila assunzioni a invertire la rotta e a restituire al mondo della scuola la”specificità” perduta ?

Una domanda questa che potrà avere una risposta solo con le prossime elezioni politiche, se e quando ci saranno e, buon per ultimo ma non in ultimo, chi li vincerà.

da ScuolaOggi.org

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“Inidonei ricollocabili anche presso gli uffici. Ma va stabilito come, e i tempi previsti non sono credibili”, di Franco Bastianini

Ma quale futuro attende concretamente i 3.500 docenti da anni collocati fuori ruolo perché dichiarati per motivi di salute permanentemente inidonei all’insegnamento ma idonei a svolgere altri compiti? Si tratta di funzioni indicate, a titolo meramente esemplificativo, dall’articolo 3 del contratto collettivo nazionale integrativo sottoscritto il 25 giugno 2008 (servizio di biblioteca e documentazione; organizzazione dei laboratori; supporti didattici ed educativi; supporto nell’utilizzo degli audiovisivi e delle nuove tecnologie informatiche; attività relativa al funzionamento degli organi collegiali, dei servizi amministrativi e ogni altra attività deliberata nell’ambito del progetto di istituto.

La domanda sul loro destino non è meramente accademica ma sorge alla luce di una modifica che, in sede di conversione in legge del decreto legge 95/2012, è stata apportata al comma 13 dell’articolo 14 del medesimo decreto.

Per effetto di tale modifica gli inidonei dovrebbero, infatti, poter transitare oltre che nei ruoli del personale amministrativo, tecnico e ausiliario della scuola con la qualifica di assistente amministrativo o tecnico, anche in quelli presso le amministrazioni pubbliche in cui potrebbero essere meglio utilizzate le professionalità del predetto personale. Si tratta indubbiamente di una modifica che va incontro ad una comprensibile richiesta degli interessati. Perché la modifica possa trovare applicazione sarebbe tuttavia necessario stabilirne le modalità, fissarne i termini per la presentazione della domanda e, soprattutto, indicare le disponibilità dei posti esistenti presso altre pubbliche amministrazioni. Tutte condizioni praticamente irrealizzabili nei termini indicati nel comma 13. Ne consegue che difficilmente l’obiettivo che si prefiggeva il Governo, quello cioè di inquadrare fin dal prossimo 1° settembre tutti gli inidonei nel ruolo degli assistenti amministrativi o tecnici, coprendo in tal modo i posti vacanti ed evitando un pari numero di nomine di supplenti annuali, potrà essere raggiunto.

Un possibile rinvio che potrebbe consentire una più amplia riflessione su quella che dovrà essere la soluzione finale del problema.

L’altra modifica apportata al testo del comma 13 interessa il personale docente che dovesse essere dichiarato temporaneamente inidoneo alla propria funzione, ma idoneo ad altri compiti. Questo personale non potrà essere utilizzato, come prevedeva l’originario comma 13, prioritariamente nella stessa scuola, ma solo nella provincia di appartenenza tenuto conto delle sedi indicate dal richiedente ovvero su posti di altra provincia.

da ItaliaOggi 31.07.12

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“Niente Fornero per gli esuberi. Possibile andare via con i requisiti detenuti al 31 agosto 2012”, di Carlo Forte

I docenti in esubero che risulteranno incollocabili al 1° settembre prossimo, potranno andare in pensione con le vecchie regole. E cioè facendo valere come termine per la maturazione dei requisiti utili alla cessazione dal servizio il 31 agosto prossimo in luogo del 31 dicembre scorso.

Lo prevede un emendamento all’art. 14 del decreto sulla spending review (decreto legge 95/2012) approvato venerdì scorso in commissione bilancio, presentato dai relatori Giaretta e Pichetto Fratin (n. 14.1000). Il nuovo testo è destinato solo ai docenti che non sarà possibile ricollocare su altra classe di concorso (secondo il titolo di studio posseduto e anche senza abilitazione) oppure sul sostegno, oppure, ancora, su spezzoni della classe di concorso di titolarità: non oltre il 10% dell’intera platea, si stima. Tale personale potrà essere collocato in quiescenza dal 1° settembre 2013 nel caso in cui maturi i requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico entro il 31 agosto 2012 in base alla disciplina vigente prima dell’entrata in vigore dell’articolo 24 del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. E cioè prima della riforma Fornero. La liquidazione del Tfr, però, non sarà tempestiva. Fatto salvo il diritto alla pensione con effetti a far data dal 1° settembre prossimo, per il Tfr gli interessati dovranno attendere di maturarne i requisiti seguendo le nuove norme: «Ai fini della liquidazione del trattamento di fine rapporto comunque denominato, recita il nuovo testo, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 11, lettera a) punti 1) e 2)»

I requisiti per la pensione

I requisiti necessari per l’accesso al trattamento di pensione di anzianità sono di 60 anni di età e 36 di contribuzione o 61 anni di età e 35 di contribuzione. Fermo restando il raggiungimento della quota 96, i requisiti minimi che inderogabilmente devono essere posseduti entro il 31 agosto dai docenti in esubero incollocabili, senza alcuna forma di arrotondamento, sono di 60 anni di età e 35 di contribuzione. L’ulteriore anno eventualmente necessario per raggiungere la “quota 96” può essere ottenuto sommando ulteriori frazioni di età e contribuzione (es. 60 anni e 4 mesi di età, 35 anni e 8 mesi di contribuzione). I requisiti utili per la pensione di vecchiaia sono di 65 anni di età per gli uomini e 61 di età per le donne, con almeno 20 anni di contribuzione. (15 per chi è in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1992, ai sensi dell’art. 2 c. 3 lettera C del decreto legislativo n. 503 del 30/12/92). Il limite di anzianità contributiva rimane quello di 40 anni. Per le donne che optano per la pensione liquidata con il sistema contributivo rimane in vigore l’art. 1 c. 9 della L. 243/04 che prevede il requisito di almeno 57 anni di età e una contribuzione pari o superiore a 35 anni.

La platea degli interessati

I docenti potenzialmente interessati sono circa 7mila nelle superiori. Complessivamente il dato arriva a circa 10mila se si considerano anche gli altri ordini di scuola. Per tutti i docenti in esubero si applicheranno le disposizioni del contratto sulle utilizzazioni e assegnazioni provvisorie, limitatamente ai movimenti che saranno disposti nell’ambito della classe di concorso di appartenenza o su altre classi di concorso dove gli interessati possiedano l’abilitazione.

Ricollocazione

Se dopo tali operazioni l’esubero dovesse permanere si applicheranno, invece, le nuove norme previste dall’articolo 14, comma 17, del decreto legge 95/2012. E dunque, prima si proverà a ricollocare il docente in altre classi di concorso dove non possiede l’abilitazione ma risulta provvisto del titolo di studio di accesso. Per esempio, i docenti di economia aziendale, se hanno la laurea per insegnare geografia, potranno essere ricollocati su tale classe di concorso. Poi si proverà sul sostegno, se l’interessato possiede la specializzazione oppure abbia almeno frequentato un corso di formazione su tale specialità. Infine, si proverà a ricollocare gli interessati su spezzoni con ore a disposizione. Se nemmeno così sarà possibile ricollocare i docenti in esubero interessati, saranno esperibili due soluzioni. La prima è il pensionamento con le vecchie regole (sempre che il testo emanato venga confermato anche alla camera e che gli interessati ne abbiano titolo) la seconda, alternativa alla prima, è l’utilizzazione degli interessati su posti che dovessero rendersi disponibili in corso d’anno oppure per le supplenze brevi e saltuarie in ambito provinciale.

da ItaliaOggi 31.07.12

"Un registro delle aree bruciate così si fermano i criminali", di Mario Tozzi

Lo spaventoso incremento degli incendi di quest’anno rispetto al 2011 non deve sorprendere per almeno due motivi. L’anno scorso si era ben al di sotto delle consuete medie nazionali, circa 50.000-100.000 ettari bruciati all’anno nei decenni passati. E non tutti prendono contro il fuoco quei provvedimenti dimostratisi utili, perché con gli incendi c’è ancora chi ci guadagna, considerandoli un modo di «controllare» il territorio. Già il fatto che si parli ancora di piromani la dice lunga sulla vera e propria affezione che c’è verso il fuoco da parte dell’uomo: in realtà qui i piromani non esistono, esistono, invece, i criminali del fuoco che appiccano incendi per ottenere un guadagno che è manifesto. Dove passa il fuoco non c’è più pregio ambientale, dunque non c’è più ragione di imporre vincoli alle costruzioni e alle infrastrutture spesso inutili. Anzi, il fuoco è più comodo, non devi chiedere lunghi permessi né attendere controlli. La prima ragione del fuoco è sempre la speculazione. Poi ci sono le ragioni tribali, le dispute territoriali, i dispetti, la distrazione. E per fortuna nessuno parla più di autocombustione, fenomeno rarissimo nelle foreste incontaminate, figuriamoci attorno ai centri abitati.

C’era un tempo in cui gli incendi erano indispensabili agli ecosistemi: il fuoco permetteva il rinnovamento e il ringiovanimento di specie e habitat, pur con delle perdite qualche volta ingenti. Ma oggi, in ecosistemi malati l’incendio provoca un doppio danno: da un lato la perdita di biodiversità, paesaggio e godimento anche culturale. Dall’altro gli effetti sui versanti si percepiscono con le piogge autunnali: senza protezione di radici e arbusti il dissesto idrogeologico si incrementa esponenzialmente.

Cosa si dovrebbe fare è noto da anni. Prendiamo il caso dell’isola d’Elba: fino ai primi anni del Duemila gli incendi dolosi bruciavano centinaia di ettari e arrivavano a uccidere persone. Ma un criminale del fuoco fu assicurato alla giustizia e i Comuni compilarono finalmente il censimento delle aree incendiate, facendo valere il principio che così vengono certificate e che in quelle aree nessuna attività costruttiva è più possibile. Di colpo, gli incendi all’Elba sono diminuiti di oltre il 90%. Perché non si provvede a un censimento nazionale delle aree incendiate, magari affidandolo alle prefetture, visto che i Comuni sono restii a farlo? E la legge 353/2000, che impedisce di costruire nelle aree incendiate, che fine ha fatto nel resto d’Italia? Ci sarebbero poi le nuove tecnologie, in grado di individuare una scintilla. Servirebbero anche più uomini e mezzi, perché non è tanto un problema di Canadair: quando interviene un mezzo aereo si può essere sicuri che quel fuoco ha vinto.

La Stampa 31.07.12

"Il bivio davanti al Centro", di Michele Prospero

Dopo aver ottenuto in dote lo scalpo di un bipolarismo rozzo, il Centro appare in crisi di identità. Fin quando si trattava di demolire l’edificio malconcio di una seconda Repubblica densa di narrazioni fiabesche e priva di ogni capacità di governo, i suoi colpi affondavano nel ventre molle di un populismo che assumeva le sembianze ridicole del comico. Ma dopo che quella macchina bipolare è stata rottamata per manifesta inadeguatezza dinanzi agli scenari drammatici della crisi, il Centro si trova a corto di una valida strategia politica.

C’è molta ambiguità nell’area moderata. Una volta si spinge fino ad indicare un percorso di medio termine condiviso con la sinistra, e in un’altra occasione essa si aggrappa ai tecnici nell’illusoria volontà di abitare a lungo nella casa indistinta della grande coalizione. Non c’è, in questo ondivago procedere, solo il riflesso di un tatticismo fisiologico nella condotta di una forza minore che deve condurre una inevitabile lotta per la sopravvivenza. Si nasconde anche uno strabismo sulle caratteristiche da conferire al nuovo sistema politico.

Il pessimo rendimento mostrato dal bipolarismo ai tempi di Berlusconi non significa che si possa archiviare impunemente la forma più matura di una democrazia competitiva per rannicchiarsi entro una periferica zona protetta in cui dorme per sempre il gioco dell’alternanza. Il Centro, quando non intende decidere da che parte stare e si rivolge con estasi al soccorso della tecnica, auspica in sostanza una riedizione della vetusta soluzione trasformista. E cioè sogna di allestire una grande area centrale che si riveli in grado di attrarre le forze più responsabili costringendole a stare insieme per un irrinunciabile senso del dovere. La metamorfosi di un ritrovato contingente dettato dalla emergenza in un dato sistemico permanente allontanerebbe però l’Italia dalle caratteristiche di fondo visibili nei sistemi politici europei.

Il fallimento del bipolarismo meccanico non può certo comportare la mesta restaurazione del passato spirito consociativo. La nostalgia trasformista, che si impadronisce dell’area moderata, sollecita una costante operazione chirurgica per effettuare il taglio delle ali. Il pareggio elettorale è visto come un miracolo per difendere la fortezza assediata della democrazia abitata solo da forze che per un perenne stato di necessità convergono verso il centro e rinunciano a costruire delle chiare alternative programmatiche lungo l’asse destra-sinistra.
Lo scenario di una demarcazione netta tra spezzoni (di destra, di centro e di sinistra) affidabili, e quindi legittimati a governare, e schegge eterogenee da mantenere al di fuori dei giochi che contano, preclude ogni sbocco modernizzatore all’enigma italiano. Un sistema che si divide a lungo tra formazioni serie, costrette a governare tutte insieme, e soggetti antisistema, relegati ai margini della contesa politica, è condannato all’instabilità, alla chiusura difensiva, alla paralisi legislativa, all’incapacità di innovazione.

Il Centro non può pensare di aggrapparsi ai tecnici e al pareggio nelle urne per restaurare l’antico ordine consociativo che risparmia la fatica della scelta. In fondo il tentativo dei moderati è quello di cavalcare un’onda antipartito che diffida dell’alternanza in quanto tale e perciò ingessa a scopo precauzionale la battaglia politica, imponendo un blindato stato di necessità che richiede la confluenza di tutti sotto lo stesso ombrello. È evidente che a sognare questo esito di spoliticizzazione il Centro è indotto anche dai sommovimenti ben visibili tra i gruppuscoli liberisti e le fondazioni d’imprenditori che minacciano all’unisono il loro ingresso in politica.

Così il Centro si trova in un bivio. O cede alle lusinghe di soggetti economici, e quindi lavora per spegnere una moderna democrazia bipolare, nella quale l’area moderata deve indicare agli elettori in modo trasparente con chi allearsi. Oppure rivendica l’autonomia di una formazione che da sé svolge il complesso mestiere della mediazione degli interessi plurali, e quindi non si rassegna a ricevere le consegne da aziende e rami tecnocratici. In gioco è l’autonomia della politica minacciata da populismi irriflessivi e da poteri tecnici e imprenditoriali che intendono appaltare in forme nuove lo spazio pubblico. Non è accettabile, dinanzi alla tenaglia micidiale di populismo e tecnocrazia, che il Centro si rifugi nella saggezza dell’ostrica che immagina di schivare i pericoli di una eutanasia del politico facendo finta di non vederli.

l’Unità 31.07.12

"La distruzione di Venezia tra mega-navi e grattacieli", di Salvatore Settis

C’è una nuova moda tra i potenti: profanare Venezia. In barba alle leggi e asservendo le istituzioni. Tre eventi in sequenza non lasciano dubbi in proposito. Atto primo: dopo l’incidente della Costa Concordia naufragata al Giglio con gravi perdite umane e disastro ambientale, da tutto il mondo venne la richiesta che si stabilissero :«Nuove regole per quei colossi». Specialmente nel punto più prezioso e fragile, Venezia. E infatti il decreto è arrivato in marzo, e vieta “inchini” e passaggi a meno di due miglia nautiche dalla costa (quasi quattro chilometri). Con una sola eccezione: Venezia, dove enormi navi, da 40.000 tonnellate e oltre, sfiorano ogni giorno Palazzo Ducale, incombono sulla città, inquinano la laguna, oltraggiano lo skyline di Venezia e i suoi cittadini. Venezia dunque “fa eccezione”, ma non perché è più protetta, come il mondo si aspetta, bensì perché non lo è affatto (due incidenti evitati per pochi metri negli ultimi sei mesi).
Secondo atto: Benetton compra il Fondaco dei Tedeschi, prezioso edificio di primo Cinquecento ai piedi del ponte di Rialto, per farne «un megastore di forte impatto simbolico». Accettabile, vista l’antica destinazione commerciale di quella fabbrica illustre. Ma Rem Koolhaas, l’architetto incaricato della ristrutturazione, disegna un neo-Fondaco con sopraelevazione, mega-terrazza con vista su Rialto e scale mobili che violentano da lato a lato l’armonioso cortile. Dopo la denuncia di questo giornale (“Quel centro commerciale che ferisce Venezia”, 13 febbraio) e di molti altri, dopo il parere negativo della Soprintendenza, Koolhaas insiste: «Faremo il progetto, al diavolo il contesto, è quello che paralizza la nuova architettura». Profanare un edificio storico è dunque parte del “forte impatto simbolico” commissionato da Benetton.
Il terzo atto è di questi giorni: Pierre Cardin, memore delle sue origini venete, a 90 anni vuol lasciare un segno in Laguna. Costruendo a Marghera un Palais Lumière da un miliardo e mezzo, alto 250 metri, superficie totale 175mila metri quadrati. Tre torri intrecciate, 60 piani abitabili, un’università della moda e poi uffici negozi, alberghi, centri congressi, ristoranti, megastore, impianti sportivi. Una città verticale, un’occasione unica per il recupero di un’area industriale in degrado. Ma la Torre di Babele targata Cardin, coi suoi 250 metri di altezza, sarebbe alta 140 metri in più del campanile di San Marco, e svettando su Marghera segnerebbe duramente lo skyline di Venezia, in barba a tutte le norme urbanistiche: impossibile non vederla da piazza San Marco, anzi da tutta la città. Specialmente di notte, perché il mastodonte, illuminatissimo, meriti il nome di Palais Lumière.
Non solo: sarebbe sulla rotta degli aerei, e violerebbe di ben 110 metri i limiti di altezza imposti dall’Enac (Ente nazionale aviazione civile). Ma se l’Enac risponde picche, Cardin non demorde: o un sì integrale al progetto, o il suo palazzo emigrerà in Cina.
Che cos’hanno in comune questi tre episodi? Sono tre occasioni per Venezia. Ma perché, se vogliamo portare turisti a Venezia per mare, va fatto con meganavi superinquinanti che s’insinuano in città come altrettanti grattacieli? Perché, se vogliamo recuperare all’uso commerciale il Fondaco dei Tedeschi, dobbiamo violarne l’architettura? Perché Cardin non può, nei 250mila metri quadrati del parco che avrebbe a disposizione, edificare due, tre torri più basse, con la stessa superficie totale? C’è una sola risposta: in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del progetto. E’ essenziale profanare questa città gloriosa che infastidisce i sacerdoti della modernità quanto una vergine restia può irritare un dongiovanni che si crede irresistibile. La profanazione, anzi la visibilità della profanazione, ha una forte carica simbolica, è uno statement di iper-modernità rampante e volgare, che si vuol prendere la rivincita sul passato, umiliare Venezia guardandola dall’alto di una mega-nave o di una superterrazza a piombo su Rialto, o di un grattacielo a Marghera. Pazienza se (lo ha scritto Italia Nostra) l’Unesco dovesse cancellare Venezia dalle sue liste, dato che nel 2009 lo ha fatto con Dresda, dopo la costruzione di un ponte visibile dalla città barocca.
Ma c’è un altro denominatore comune: i soldi. In tutti e tre i casi, il ricatto è lo stesso: senza le mega-navi calano i turisti; per avere la mega-torre di Marghera e la mega-terrazza del Fondaco bisogna ubbidire al committente senza fiatare. E le istituzioni? Prone ai voleri del dio Mercato, sono pronte a tutto: nel caso del Fondaco, il Comune ha accettato da Benetton una sorta di “bonus” di 6 milioni promettendo in cambio di permettere (e far permettere) tutto; il sindaco Orsoni dichiara che «è assurdo mettersi di traverso a Cardin». Intanto il presidente della regione Zaia incensa lo stilista paragonandolo a Lorenzo il Magnifico (forse non ricordava il nome di nessun doge), e chiede «che il ministro Passera si metta una mano sul cuore» e induca l’Enac a chiudere un occhio: anche la sicurezza dei voli dovrà pur inchinarsi al Denaro. In questa squallida sceneggiata, due sono le vittime: non solo Venezia (e i veneziani), ma anche la legalità, sfrattata a suon di milioni.
E intanto Pierre Cardin ha già messo in vendita gli appartamenti del
Palais Lumière, con un annuncio diffuso a Parigi, in cui lo si vede torreggiare sullo sfondo di una Venezia ridotta a miniatura. La legalità può aspettare, la Costituzione può andare in soffitta.

La Repubblica 31.07.12

"La risorsa sprecata del turismo culturale", di Vittorio Emiliani

Chiusure festive, orari ridotti, l’umiliazione dei biglietti rimborsati. Notizie dai nostri beni culturali lasciati a sé stessi. Con la perdita di importanti introiti La Galleria Barberini, restaurata con 24 milioni di spesa, non si può visitare la domenica, iI turismo culturale è una delle poche voci che continuano a “tirare”, ma l’Italia sembra fare di tutto per spegnerla. Anche questo governo e il ministro Lorenzo Ornaghi lesinano somme molto modeste perdendo introiti importanti e sfregiando la nostra immagine nel mondo. La domenica rimane clamorosamente chiusa quella Galleria Nazionale di Arte antica del colossale Palazzo Barberini che, dopo anni di lavori e 24 milioni di spesa, con le sue 37 sale rinnovate, fresche, munite di audio-guide in più lingue, col favoloso salone affrescato da Pietro da Cortona, dovrebbe essere fra le formidabili novità di Roma e d’Italia. Mancano i fondi per un paio di custodi, si perde la faccia, si fanno imbestialire i turisti, si rinuncia ad un incasso non trascurabile.

Non ci si poteva mettere attorno ad un tavolo e studiare un tipo di orario meno oneroso di quello su tre turni? Non c’è addirittura una Direzione generale per la Valorizzazione creata per Mario Resca, ex McDonald’s, ex Casinò di Campione, che ora la lascia senza glorie particolari per l’Acqua Marcia? E al Polo Museale di Roma l’articolo non interessa? «Il MiBAC (ministero dei Beni e le attività culturali) è imbottito di burocrati, per giunta bizantini», si commenta, «mentre i direttori generali regionali sono dei “nominati” di fatto dalla politica». Con scarsa capacità di controllo se il funzionario addetto agli appalti nel Lazio, Luigi Germani, ha potuto sparire nel nulla, mesi fa, con 5 milioni di euro.

Minacciata di chiusura è la stessa Galleria Borghese, museo unico al mondo, dove la malattia di un custode già provoca drammi e dove si operano umilianti chiusure parziali col rimborso di parte del biglietto. Inoltre due mostre attraenti, per le quali c’erano già gli sponsor, sono già saltate nel 2012 perché la direttrice del Polo Museale romano, Rossella Vodret, bocciata in due concorsi, non ha ritenuto di doverle autorizzare. E il Collegio Romano? E il ministro? Tacciono. «Almeno Bondi si scusava di non poter fare granché», si osserva. Lorenzo Ornaghi ha tacciato di «valori grossolani» “Italia Nostra” contraria all’ultima “esportazione” a Pechino di opere d’arte come articoli-civetta, comprese tavole delicatissime che viaggiare non dovrebbero proprio. Poi si è chiuso nel solito mutismo. Del resto, non ha sostituito col suo giovane segretario nel consiglio di amministrazione della Scala il finanziere-musicofilo Francesco Micheli, suscitando l’ira di Giulia Maria Crespi e del sindaco Giuliano Pisapia? Siamo alla desertificazione della cultura.

La situazione operativa è drammatica ovunque si fa tutela e valorizzazione con musei e siti archeologici strepitosi, difesi dall’impegno personale di chi se ne occupa. Archeologi, storici dell’arte, architetti, archivisti, bibliotecari costretti a usare i loro cellulari, a spendere del loro, visto che “godono” del lauto stipendio (meno della metà delle medie europee) di 1.700 euro che a chi va in pensione frutterà il “grasso” mensile di 1.400, dopo decenni. Dal 2011 sono scomparsi anche i 120 euro al mese del Fondo Unico per l’Amministrazione e, dal 2010, gli incentivi. E i concorsi per la progressione economica da quegli abissi? In cronico ritardo. Il 12 maggio scorso centinaia di funzionari, fra cui le direttrici delle Gallerie Borghese, Barberini, Corsini, di Palazzo Massimo, Colosseo, Appia Antica hanno inviato alle più alte cariche dello Stato una drammatica lettera-appello dove denunciano la follia suicida dello stato in cui sono lasciati beni culturali invece essenziali per rilanciare cultura ed economia. Qualcuno ha loro risposto? Nessuno. O meglio, indirettamente ha replicato un sociologo del tempo libero ritenuto importante. Sul “Corriere della Sera” romano li ha così ritratti: «La gestione storico-artistica è affidata ai soprintendenti: persone colte, topi di biblioteca, che di mestiere dovrebbero scrivere libri. Li attornia uno stuolo (sic!) di addetti, creativi mancati, che avrebbero voluto fare i pittori o gli architetti: gente frustrata, che si mette sempre di traverso “. Volete commentare?

L’Unità 30.07.12

"Le preferenze penalizzano le donne", di Vittoria Franco

La discussione sulla legge elettorale si va facendo sempre più sfuocata. Con il formarsi di una doppia maggioranza, una che sostiene il governo e l’altra che procede parallelamente sulle riforme, sono saltati i contorni entro i quali potevano prendersi decisioni condivise su ogni aspetto dell’attività istituzionale. Il sospetto è che questa maggioranza parallela abbia già apparecchiato per il ritorno a un proporzionale che non fa vincere nessuno agitando il totem delle preferenze come la soluzione definitiva della crisi politica. Sa davvero di ritorno all’antico. Si mette fra parentesi un ventennio di ricerca di una strada per garantire la stabilità e la governabilità senza avere la capacità di inventare qualcosa di nuovo e di più avanzato. Il tutto condito con un preteso rafforzamento del potere di decisione degli elettori, mentre appare sempre più chiaro che alcune forze politiche cercano non il sistema migliore per garantire la governabilità, ma lo strumento che consenta loro di contare anche in caso di sconfitta, non importa se si crea incertezza e instabilità al Paese. Il Pd fa bene a difendere il principio della governabilità e a dire di no alle preferenze.

Ci sono innumerevoli ragioni per questo no. Primo. In un momento nel quale il bisogno del cittadino che deve decidere a chi destinare il suo voto è sapere che cosa i diversi partiti propongono per affrontare la crisi e per mettere il Paese nelle condizioni di ricominciare a crescere, che cosa si vuole fare per diminuire la disoccupazione giovanile, e tutto il resto, i candidati devono invece cominciare la questua delle preferenze, concentrare la campagna su di sé anziché sui programmi del partito. Prevale la concorrenza interna a ciascuna lista invece dei contenuti, con costi economici enormi che spesso sono la ragione della corruzione e del voto di scambio. Essendo venuti meno i grandi partiti capaci di selezionare la classe dirigente e di indirizzare le preferenze, si ricreerebbe una prateria nella quale vince chi ha più soldi e più clientela; chi può scambiare un potere di cui già dispone. È ovvio che non si rinnova niente e nessuno. I giovani, le donne, personalità indipendenti non hanno spazio vero e non saranno neanche tanto attratti da una corsa costosa e senza speranza.

Le donne sarebbero le più penalizzate, perché sono poche quelle che hanno un curriculum istituzionale di rilievo (le sindache sono solo 1’11% e per lo più di comuni medio piccoli, una sola donna presidente di Regione), perché una campagna con la preferenza diventa molto costosa in collegi così grandi. D’altronde, i numeri delle elette con la preferenza parlano chiaro: le consigliere comunali arrivano al 19%, le consigliere regionali sono 125 su un totale di 1056, con regioni come la Calabria e la Basilicata dove non c’è nessuna donna eletta e il civile Friuli dove sono 3 su 59! È evidente che qualcosa non funziona.

La legge sulla doppia preferenza per i consigli comunali e regionali in discussione al Senato (sperando che vada in porto) è per questo molto importante come lo è una premialità ai partiti che promuovono il riequilibrio della rappresentanza di genere. Ma non è un caso che chi dice sì alle preferenze dica no alla norma antidiscriminatoria.

L’Unità 30.07.12