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"Gli assist che servono alla Merkel", di Stefano Lepri

Come si fa a sostenere che è normale se a una impresa italiana sana il credito costa più caro che a una impresa tedesca in difficoltà? A che serve condividere l’euro se, come ci informa la Reuters, su un mutuo casa la famiglia finlandese media paga un tasso di interesse che è meno della metà di quello che è richiesto alla famiglia spagnola?
Non è solo questione di salvare i debiti degli Stati. Tutto il funzionamento delle economie dei Paesi euro è distorto dal rischio che l’unione monetaria si spacchi. Gli stessi spread sui titoli pubblici dipendono più da questo fattore che dalle scelte dei governi o dalle incerte prospettive politiche di alcuni Paesi. Questo hanno inteso dire ieri il capo del governo italiano e il presidente della Repubblica francese riaffermando il loro pieno appoggio a Mario Draghi.

Eppure il compito di tenere insieme l’euro per il momento resta tutto affidato al presidente della Banca centrale europea. Ha dalla sua i governi, tedesco compreso; ma la riunione del consiglio Bce di domani e la successiva conferenza stampa richiederanno grandi dosi di coraggio, inventiva, abilità di manovra. I mercati sono pronti ad afferrare ogni pretesto per sentirsi delusi e riprendere a giocare al ribasso.

Se non si concretizzerà presto la «nuova spinta politica» sulla «tabella di marcia» per rinsaldare la zona euro, di cui ieri Monti e Hollande hanno discusso, la battaglia che divide la Germania potrebbe essere perduta per gli europeisti. Peggio, c’è da domandarsi che cosa possa uscir fuori da un Paese come la Germania nel caso prevalgano coloro che un giorno denigrano i meridionali dell’Europa, un altro ignorano le critiche di Barack Obama attribuendole alla campagna elettorale, un altro giorno ancora sostengono che il Fondo monetario sbaglia tutto perché è guidato da due francesi e influenzato dagli americani, e così via.

Dipende soprattutto dalla Francia se Angela Merkel potrà tranquillizzare i tedeschi con meccanismi chiari di condivisione politica delle responsabilità economiche. Ma non dipende soltanto dalla Francia. La Spagna se ha bisogno di aiuto deve calare il tono del suo orgoglio nazionale, accettare che altri occhi guardino nei conti delle sue banche e delle sue regioni. I partiti politici italiani possono contribuire con un po’ più di chiarezza su che cosa avverrà nel 2013. Se i giochi della politica interna tedesca fanno premio sulla sorte dell’Europa, come ha lamentato il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, i non tedeschi potrebbero cominciare a dare il buon esempio.

Non sarebbe nemmeno tanto difficile, per Draghi, rimettere le cose a posto, se il progetto della politica europea fosse chiaro. Domare i mercati non è impossibile, anche se sono oggi forti come mai prima. Se esistono le distorsioni di cui si diceva – esistono pur se i dogmatici della Bundesbank si rifiutano di vederle – è compito della Banca centrale europea contrastarle. Ovvero occorre restringere all’interno dell’area euro il divario tra i tassi di interesse.

Si potrebbe discutere all’infinito di quanto sia la parte «giusta» dello spread (quella che punisce la minore affidabilità dei debiti pubblici, ovvero dei sistemi politici che li governano) quanto invece quella «sbagliata» secondo Monti e Hollande sulla scia di Draghi. Tra gli esperti circola una ipotesi di intervento coraggioso e innovativo per tagliare il nodo: la Bce potrebbe acquistare titoli di Stato italiani e spagnoli e per lo stesso ammontare vendere allo scoperto titoli tedeschi, olandesi, finlandesi. Se i tedeschi temono che si stampi moneta per pagare i debiti dei Paesi deboli, questo è un modo di evitarlo. Per molte ragioni, è difficile che si faccia. Speriamo nella fantasia di Draghi.

La Stampa 01.08.12

"Lo strano volo del calabrone euro", di Paul Krugman

La settimana scorsa il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha dichiarato che il suo istituto è «pronto a fare il necessario per mantenere l’euro» e i mercati hanno esultato. In particolare i tassi di interesse sui bond spagnoli sono fortemente diminuiti e tutte le borse sono volate.Ma davvero l’euro si salverà? La questione resta molto dubbia.
Innanzitutto la moneta unica europea ha molte pecche e a Draghi va dato merito di riconoscerle. «L’euro è come un calabrone», ha dichiarato. «È un mistero della natura, non potrebbe volare eppure vola. E l’euro ha volato benissimo per parecchi anni». Ora però ha smesso. Che fare? Deve imparare a trasformarsi in ape, dice Draghi.
La metafora è imperfetta, ma il messaggio chiaro. Nel lungo periodo l’euro potrà funzionare solo se l’Unione europea assumerà le caratteristiche di un Paese unificato.
Prendiamo ad esempio la Spagna e la Florida. Entrambe hanno vissuto i drammi dello scoppio della bolla immobiliare. Ma la Spagna vive una crisi ben più intensa. Perché? Perché nel momento del bisogno la Florida ha potuto contare su Washington per continuare ad erogare le prestazioni sociali e sanitarie, per garantire la solvenza delle sue banche, per concedere sussidi ai suoi disoccupati e quant’altro. La Spagna non disponeva di una simile rete di sicurezza e nel lungo periodo la questione va risolta.
Ma se mai si arriverà alla nascita degli Stati Uniti d’Europa, non sarà certo in tempi brevi, e l’euro è in crisi oggi. Cosa si può fare per salvarlo? Per quale motivo il calabrone per un po’ è riuscito a volare? Perché nei primi otto anni o giù di lì l’euro all’apparenza ha funzionato? Perché le magagne strutturali della moneta unica sono state nascoste dal boom del Sud d’Europa. L’introduzione
dell’euro rassicurò gli investitori convincendoli a prestare denaro a Paesi come Grecia e Spagna, precedentemente considerati a rischio. Così il denaro affluì soprattutto, detto per inciso, per finanziare prestiti privati più che pubblici, fatta eccezione per la Grecia.
E per un po’ furono tutti contenti. Nel Sud Europa la bolla immobiliare portò a una impennata dell’occupazione nel settore delle costruzioni, mentre l’industria perdeva man mano competitività. Intanto l’economia tedesca che languiva si riprese grazie al rapido aumento delle esportazioni verso le economie meridionali. L’euro, apparentemente, funzionava. Poi la bolla è scoppiata. I posti di lavoro nelle costruzioni svanirono nel nulla e nel sud la disoccupazione crebbe a dismisura, ora supera abbondantemente il 20 per cento sia in Spagna che in Grecia. Al contempo i redditi sono crollati. In massima parte i grandi deficit di bilancio sono l’effetto, non la causa della crisi. Ciò nonostante gli investitori si sono dati alla fuga, provocando l’aumento del costo del credito. Nel tentativo di tranquillizzare i mercati finanziari i Paesi interessati hanno imposto durissime misure di austerità che hanno peggiorato la crisi. E l’euro nel complesso si mostra pericolosamente vacillante .
Come porre rimedio a questa rischiosa situazione? La risposta è abbastanza chiara: le autorità dovranno adoperarsi per far diminuire il costo del credito in Europa meridionale e concedere ai debitori europei l’opportunità di uscire dai guai grazie alle esportazioni come già la Germania negli anni d’oro, ossia creare in Germania un boom simile a quello verificatosi nel Sud Europa tra il 1999 e il 2007. Certo, comporterebbe un temporaneo aumento dell’inflazione tedesca. Il problema è che i policymaker europei sembrano restii rispetto alla prima ipotesi e totalmente contrari alla seconda.
Draghi — che a mio avviso comprende tutto questo — ha lanciato l’idea dell’acquisto da parte della banca centrale dei bond del Sud Europa con il fondamentale obiettivo di abbassare i costi del credito. Ma nei giorni successivi i tedeschi hanno gettato acqua sul fuoco. Draghi in teoria potrebbe semplicemente respingere le obiezioni tedesche, ma davvero sarà intenzionato a farlo?
L’acquisto dei bond è la cosa semplice. Non si può salvare l’euro se la Germania non è disponibile ad accettare un sostanziale aumento dell’inflazione nei prossimi anni e finora i tedeschi non hanno dato segno di voler neppure discutere di quest’ipotesi, figuriamoci accettarla. Invece, a dispetto dei passati insuccessi (ricordate quando l’Irlanda sembrava avviata a una rapida ripresa?), continuano ad insistere che tutto andrà bene se i debitori metteranno diligentemente in atto i programmi di austerity.
È possibile salvare l’euro? Probabilmente sì. Va salvato? Sì, anche se ora come ora averlo introdotto sembra un grosso errore. Perché il crollo dell’euro non provocherebbe solo un disastro economico, sarebbe un colpo micidiale per il più ampio progetto europeo, che ha portato pace e democrazia in un continente dal tragico passato.
L’euro si salverà davvero? Per quanto Draghi si mostri determinato, questo, come ho detto, resta in forte dubbio.

La Repubblica 01.08.12

La Carta d'intenti per il patto tra democratici e progressisti

L’Italia ce la farà se ce la faranno gli italiani. Se il paese che lavora, o che un lavoro lo cerca, che studia, che misura le spese, che dedica del tempo al bene comune, che osserva le regole e ha rispetto di sé, troverà un motivo di fiducia e di speranza. L’Italia perderà se abbandonerà l’Europa e si rifugerà nel suo spirito corporativo, se prevarrà l’interesse del più ricco o del più arrogante. Se speranza e riscatto non saranno il capitale di un popolo ma scialuppe solo per i furbi e i meno innocenti.

Questa Carta d’Intenti vuole descrivere l’Italia che ce la può fare, che ce la può fare ricostruendo basi etiche e di efficienza economica; che ce la può fare con uno sforzo comune in cui chi ha di più dà di più.

Sappiamo che la politica ha le sue colpe. E che quanto più profonda si manifesta la crisi, tanto più le classi dirigenti devono testimoniare il meglio: nella competenza, nella condotta, nella coerenza. Questo sarà il nostro impegno e la bussola per il nostro compito. Con la stessa sincerità, diciamo che non siamo tutti uguali. Non sono uguali i partiti, le persone, le responsabilità. Gli italiani sono finiti dove mai sarebbero dovuti stare perché a lungo sono stati governati male. Noi vogliamo chiudere quella pagina e aprirne un’altra.

L’Italia, come altre grandi nazioni, è immersa nella fine drammatica di un ciclo della storia che ha occupato l’ultimo trentennio. La gravità del quadro elimina molte certezze. Ma sono proprio le grandi rotture a dettare le regole del futuro. Nel senso che da una crisi radicale – dell’economia e della democrazia – non si esce mai come si è entrati. Le crisi cambiano il paesaggio, le persone, il modo di pensare. La sfida è spingere quel mutamento verso un progresso e un civismo più solidi, retti, condivisi. Davanti a noi, adesso, c’è una scelta di questo tipo: se batterci per migliorare tutti assieme o rinunciare a battersi. Se credere nelle risorse del Paese o affidarsi – e sarebbe una sciagura – alle risorse di uno solo. Se unire le energie disponibili e ripensare assieme l’Europa, o attendere che altri scelgano e dicano per noi.

Questo è il momento di decidere cosa vogliamo diventare. Quale ruolo dare a una nazione con la nostra tradizione, situata nel cuore di un Mediterraneo che le rivolte giovanili stanno modificando come mai era accaduto. Quale democrazia rifondare, dopo una crisi che ha corretto i confini della sovranità dei singoli stati. Insomma questo è il momento di ricostruire l’Italia che lasceremo a chi verrà dopo.

Il prossimo Parlamento e il governo che gli elettori sceglieranno avranno tre compiti decisivi. Dovranno guidare l’economia fuori dalla crisi rimettendola salda sulle gambe. Dovranno ridare autorità, efficienza e prestigio alle istituzioni e alla politica, ripartendo dai principi della Costituzione. Dovranno rilanciare – in un gioco di squadra con le altre nazioni e i loro governi – l’unità e l’integrazione politica dell’Europa.

Vogliamo dunque proporre la traccia di una discussione aperta sull’Italia attorno ad alcune idee fondamentali. Cerchiamo un patto con le forze politiche democratiche, progressiste e di una sinistra di governo, con movimenti e associazioni, con amministratori, con ogni persona e personalità che voglia contribuire a un progetto per uscire da una crisi senza eguali nella nostra memoria. Una crisi che affrontiamo con la zavorra di un debito pubblico da ridurre drasticamente e che richiederà scelte

responsabili, di rigore e allo stesso tempo di enorme coraggio. Bisogna vedere i problemi e insieme cogliere le occasioni. L’Italia è in grado di farlo ma deve avere più fiducia nei suoi mezzi e meno paura del viaggio che dobbiamo fare. Non è più tempo di “contratti”, promesse, sogni appesi a un filo. Adesso è tempo di ripartire. Perché il peggio può essere alle nostre spalle. Se lo vogliamo.

Visione

Noi non crediamo all’ottimismo delle favole, quello venduto nel decennio disastroso della destra. Crediamo, invece, in un risveglio della fiducia e soprattutto nel futuro degli italiani, a cominciare dai più giovani e dalle donne. I problemi sono enormi e il tempo per aggredirli si accorcia. Le scelte da compiere non sono semplici né scontate. Ma la speranza che ci muove vive tutta nella convinzione che si possano combinare rigore e cambiamento. Che si possa agganciare la crescita in un quadro di equità.

Il nostro posto è in Europa. Lì dove Mario Monti ha avuto l’autorevolezza di riportarci dopo una decadenza che l’Italia non meritava. Noi collocheremo sempre più saldamente l’Italia nel cuore di un’Europa da ripensare e, in qualche misura, da rifondare. Lo faremo assieme a quelle forze progressiste che cercano in un tempo difficile di non tradire il sogno di un’Europa unita nell’impronta della sua civiltà.

In “casa” dovremo colmare la faglia che si è scavata tra cittadini e politica. Qui non bastano le parole. Serviranno i comportamenti, le azioni, le coerenze. Cercheremo di andare nella direzione giusta: di fare in modo che la buona politica e una riscossa civica procedano affiancate. Il traguardo è ricostruire quel patrimonio collettivo che la destra e i populismi stanno disgregando: la qualità della democrazia, la dignità di ciascuno, legalità, cittadinanza, partecipazione. La realtà è che mai come oggi nessuno si salva da solo. E nessuno può stare bene davvero, se gli altri continuano a stare male: è questo il principio a base del nostro progetto, sia nella sfera morale e civile che in quella economica e sociale.

Vogliamo che il destino dell’Italia sia figlio della migliore civiltà dell’Europa e che insieme riscopriamo la necessità di sentirci vicino a chi nel mondo si batte per la libertà e l’emancipazione di ogni essere umano. Lo scriviamo nella coscienza che la grandezza e la tragedia del ‘900 in Europa si misurano in una sola parola: la pace. La conquista faticosa di un continente che, con la tragica eccezione dei Balcani, ha conosciuto nella seconda metà del secolo la sua riconciliazione. Oggi, in un mondo in subbuglio, pace, cooperazione, accoglienza, devono ispirare di nuovo il discorso pubblico. Nella coscienza dei singoli come nella diplomazia degli Stati.

Con questa visione noi, democratici e progressisti, ci candidiamo alla guida del Paese.

Democrazia

Dobbiamo sconfiggere l’ideologia della fine della politica e delle virtù prodigiose di un uomo solo al comando. E’ una strada che l’Italia ha già percorso, e sempre con esiti disastrosi. In democrazia ci sono due modi di concepire il potere. Usare il consenso per governare bene. Oppure usare il governo per aumentare il consenso. La prima è la via del riformismo. La seconda è la scorciatoia di tutti i populismi e si traduce in una paralisi della decisione.

Per noi il populismo è il principale avversario di una politica autenticamente popolare. In questi ultimi anni esso è stato alimentato da un liberismo finanziario che ha lasciato i ceti meno abbienti in balia di un mercato senza regole. La destra populista ha promesso una illusoria protezione dagli effetti del liberismo finanziario innalzando barriere culturali, territoriali e a volte xenofobe. Anche

quando questo populismo ha pescato il suo consenso all’interno di un disagio diffuso e reale, il suo esito è sempre stato antipopolare.

La sola vera risposta al populismo è in una partecipazione rinnovata come base della decisione. E questo perché la crisi della democrazia non si combatte con “meno” ma con “più” democrazia. Il che significa più rispetto delle regole, una netta separazione dei poteri e l’applicazione corretta e integrale di quella Costituzione che rimane tra le più belle e avanzate del mondo. In questo senso siamo convinti che il suo progetto di trasformazione civile, economica e sociale sia vitale e per buona parte ancora da mettere in atto.

Vogliamo dare segnali netti all’Italia onesta che cerca nelle istituzioni un alleato contro i violenti, i corruttori e chiunque si appropri di risorse comuni mettendo a repentaglio il futuro degli altri. Per noi ciò equivarrà alla difesa intransigente del principio di legalità, a una lotta decisa all’evasione fiscale, al contrasto severo dei reati contro l’ambiente, al rafforzamento della normativa contro la corruzione e a un sostegno più concreto agli organi inquirenti e agli amministratori impegnati contro mafie e criminalità, vero piombo nelle ali per l’intero Paese. Sono questi gli impegni inderogabili e le coerenze richieste alla politica se vogliamo che i cittadini abbiano di nuovo fiducia nella democrazia.

Sulla riforma dell’assetto istituzionale, siamo favorevoli a un sistema parlamentare semplificato e rafforzato, con un ruolo incisivo del governo e la tutela della funzione di equilibrio assegnata al Presidente della Repubblica. Riformuleremo un federalismo responsabile e bene ordinato che faccia delle autonomie un punto di forza dell’assetto democratico e unitario del Paese. Sono poi essenziali norme stringenti in materia di conflitto d’interessi, legislazione antitrust e libertà dell’informazione, secondo quei principi liberali che la destra italiana disconosce. Bisogna attuare a tutti i livelli la democrazia paritaria nell’idea che autonomia e responsabilità delle donne siano una leva essenziale della crescita. Ma soprattutto daremo vita a un meccanismo riformatore che dia finalmente concretezza e certezza di tempi alla funzione costituente della prossima legislatura.

Infine, ma non è l’ultima delle priorità, la politica deve recuperare autorevolezza, promuovere il rinnovamento, ridurre i suoi costi e la sua invadenza in ambiti che non le competono. Serve una politica sobria perché se gli italiani devono risparmiare, chi li governa deve farlo di più. A ogni livello istituzionale non sono accettabili emolumenti superiori alla media europea. Ma anche questo non basta. Va approvata una riforma dei partiti, che alla riduzione del finanziamento pubblico affianchi una legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, e bisogna agire per la semplificazione e l’alleggerimento del sistema istituzionale e amministrativo. Occorrono piani industriali per ogni singola amministrazione pubblica al fine di produrre efficienza e risparmio. Riconoscere il limite della politica e dei partiti significa anche aprire il campo alle richieste d’impegno e mobilitazione che maturano nella società ed alle competenze che si affermano. Tutto ciò dovrà essere messo al concreto a cominciare dalle nomine in enti, società pubbliche e autorità di sorveglianza e da criteri di selezione nelle funzioni di governo.

Europa

La crisi che scuote il mondo mette a rischio l’Europa e le sue conquiste di civiltà. Ma noi siamo l’Europa, nel senso che da lì viene la sola possibilità di affrancare l’Italia dai guasti del collasso liberista, e quindi le sorti dell’integrazione politica coincidono largamente col nostro destino. Insomma non c’è futuro per l’Italia se non dentro la ripresa e il rilancio del progetto europeo. La prossima maggioranza dovrà avere ben chiara questa bussola: nulla senza l’Europa.

Per riuscirci agiremo in due direzioni. In primo luogo, rafforzando la piattaforma dei progressisti

europei. Se l’austerità e l’equilibrio dei conti pubblici, pur necessari, diventano un dogma e un obiettivo in sé – senza alcuna attenzione per occupazione, investimenti, ricerca e formazione – finiscono per negare se stessi. Adesso c’è bisogno di correggere rotta, accelerando l’integrazione politica, economica e fiscale, vera condizione di una difesa dell’Euro e di una riorganizzazione del nostro modello sociale.

La sfida – e questa è la seconda direzione da imboccare – è portare a compimento le promesse tradite della moneta unica e integrare la più grande area commerciale del pianeta – perché questo siamo, e tuttora – in un modello di civiltà che nessun’altra nazione o continente è in grado di elaborare.

Salvare l’Europa nel pieno della crisi significa condividere il governo dell’emergenza finanziaria secondo proposte concrete che abbiamo da tempo avanzato assieme ai progressisti europei. Tali proposte determinano una prospettiva di coordinamento delle politiche economiche e fiscali. E dunque nuove istituzioni comuni, dotate di una legittimazione popolare e diretta. A questo fine i progressisti devono promuovere un patto costituzionale con le principali famiglie politiche europee. Anche per l’Europa, infatti, la prossima sarà una legislatura costituente in cui il piano nazionale e quello continentale saranno intrecciati stabilmente. Una legislatura nella quale dovrà rivivere l’orizzonte ideale degli Stati Uniti d’Europa. Qui vive la ragione che ci spinge a cercare un accordo di legislatura con le forze del centro moderato. Collocare il progetto di governo italiano nel cuore della sfida europea significa essere alternativi alle regressioni nazionaliste, anti-europee e populiste, da sempre incompatibili con le radici di un’Europa democratica, aperta, inclusiva.

Lavoro

La nostra visione assume il lavoro come parametro di tutte le politiche. Cuore del nostro progetto è la dignità del lavoratore da rimettere al centro della democrazia, in Italia e in Europa. Questa è anche la premessa per riconoscere la nuova natura del conflitto sociale. Fulcro di quel conflitto non è più solo l’antagonismo classico tra impresa e operai, ma il mondo complesso dei produttori, cioè delle persone che pensano, lavorano e fanno impresa. E questo perché anche lì, in quella dimensione più ampia, si stanno creando forme nuove di sfruttamento. Il tutto, ancora una volta, per garantire guadagni e lussi alla rendita finanziaria. Bisogna perciò costruire alleanze più vaste, oltre i confini tradizionali del patto tra produttori. La battaglia per la dignità e l’autonomia del lavoro, infatti, riguarda oggi il lavoratore precario come l’operaio sindacalizzato, il piccolo imprenditore o artigiano non meno dell’impiegato pubblico, il giovane professionista sottopagato al pari dell’insegnante o del ricercatore universitario.

Il primo passo da compiere è un ridisegno profondo del sistema fiscale che alleggerisca il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari. Quello successivo è contrastare la precarietà, rovesciando le scelte della destra nell’ultimo decennio e in particolare l’idea di una competitività al ribasso del nostro apparato produttivo, quasi che rimasti orfani della vecchia pratica che svalutava la moneta, la risposta potesse stare nella svalutazione e svalorizzazione del lavoro. Il terzo passo è spezzare la spirale perversa tra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti, aiutando le produzioni a competere sul lato della qualità e dell’innovazione, punti storicamente vulnerabili del nostro sistema. Quarto passo è mettere in campo politiche fiscali a sostegno dell’occupazione femminile, ancora adesso uno dei differenziali più negativi per la nostra economia, in particolare al Sud. Farlo significa impegnarsi per sradicare i pregiudizi sulla presenza delle donne nel mondo del lavoro e delle professioni. A tale scopo è indispensabile alleggerire la distribuzione del carico di lavoro e di cura nella famiglia, sostenendo una riforma del welfare e varando un piano straordinario per la diffusione degli asili nido. Anche grazie a politiche di questo tipo sarà possibile sostenere concretamente le famiglie e favorire una

ripresa della natalità. Insomma sul punto non servono altre parole: bisogna fare del tasso di occupazione femminile e giovanile il misuratore primo dell’efficacia di tutte le nostre strategie.

Infine, il lavoro è oggi per l’Italia lo snodo tra questione sociale e questione democratica. Fondare sul lavoro e su una più ampia democrazia nel lavoro, la ricostruzione del Paese non è solo una scelta economica, ma l’investimento decisivo sulla qualità della nostra democrazia. Questo se pensiamo – e noi ne siamo convinti – che il lavoro non sia solo produzione, ma rete di relazioni, equilibrio psicologico, progetto e speranza di vita; la possibilità offerta a ciascuno di noi di trasformare la realtà.

Uguaglianza

L’Italia è divenuta negli anni uno dei Paesi più diseguali del mondo occidentale. La crisi stessa trova origine – negli Stati Uniti come in Europa – da un aumento senza precedenti delle disuguaglianze. E dunque esiste, da tempo oramai, un problema enorme di redistribuzione che investe il rapporto tra rendita e lavoro, mettendo a rischio i fondamenti del welfare.

Sull’altro fronte, la ricchezza finanziaria e immobiliare è diventata sempre più inafferrabile, capace com’è di sfuggire a ogni vincolo fiscale e solidale. E però non si esce dalla crisi se chi ha di più non è chiamato a dare di più. In altre parole, è la crisi stessa a insegnarci che la giustizia sociale non è pensabile come derivata della crescita economica, ma ne fonda il presupposto. Ciò significa che la ripresa economica richiede politiche di contrasto alla povertà, anche in un Paese come il nostro dove il fenomeno sta assumendo caratteri nuovi e dimensioni angoscianti. I “nuovi poveri”, per altro, continuano ad assistere allo scandalo di rendite o emolumenti cresciuti a livelli indecenti, a ricchezze e proprietà smodate che si sottraggono a qualunque vincolo di solidarietà. A tutto questo bisogna finalmente mettere un argine.

Per noi parlare di uguaglianza significa guardare la società con gli occhi degli “ultimi”. Di coloro che per vivere faticano il doppio: perché sono partiti da più indietro o da più lontano o perché sono diversamente abili. Se poi guardiamo alle generazioni più giovani, il tema dell’uguaglianza si presenta prima di tutto come possibilità di scelta e parità delle condizioni di accesso alla formazione, al lavoro, a un’affermazione piena e libera della loro personalità. Superare le disuguaglianze di genere è l’altra grande sfida per ricostruire il Paese su basi moderne e giuste. Non a caso, ancora una volta, il simbolo più forte di una riscossa civica e morale è venuto dal movimento delle donne. Su questo piano la politica, il Parlamento e il governo devono assumere la democrazia paritaria come traguardo della democrazia tout court.

Nessun discorso sull’uguaglianza sta in piedi se non si rimette il Mezzogiorno al centro dell’agenda. Le disuguaglianze territoriali, infatti, sono sempre anche disuguaglianze nei diritti e nelle opportunità. L’Italia è cresciuta quando Sud e Nord hanno scelto di avanzare assieme. Viceversa quando la forbice si è allargata, l’Italia tutta si è distanziata dall’Europa. Sostenere, come la destra ha fatto per anni, che il Nord poteva farcela da solo è stato un modo ipocrita di blandire una parte del ceto produttivo. Tutt’altra cosa è combattere sprechi e inefficienze con una nuova strategia nazionale d’intervento. Il punto è farlo assieme al senso di responsabilità di tante amministrazioni e movimenti meridionali impegnati a correggere le storture di vecchi regionalismi e localismi clientelari e a promuovere legalità, civismo e lavoro.

Infine, al capitolo dell’uguaglianza è legata a filo doppio la questione di una giustizia civile e penale al servizio del cittadino. Su questo piano è superfluo ricordare che gli anni della destra al governo hanno sprangato ogni spiraglio a un intervento riformatore. Diciamo che si sono occupati pochissimo dello stato di diritto e molto del diritto di uno soltanto che si riteneva proprietario dello

Stato. Ma così a pagare due volte sono stati i cittadini più deboli: quelli che hanno davvero bisogno di una giustizia civile e penale rapida, imparziale, efficiente. Nella prossima legislatura il tema dovrà essere affrontato dal punto di vista della dignità e dei diritti di tutti e non più dei potenti alla ricerca d’impunità.

Sapere

La dignità del lavoro e la lotta alle disuguaglianze s’incrociano nel primato delle politiche per l’istruzione e la ricerca. Non c’è futuro per l’Italia senza un contrasto alla caduta drammatica della domanda d’istruzione registrata negli ultimi anni. E’ qualcosa che trova espressione nell’abbandono scolastico, nella flessione delle iscrizioni alle nostre università, nella sfiducia dei ricercatori e nella demotivazione di un corpo insegnante sottopagato e sempre meno riconosciuto nella sua funzione sociale e culturale.

In questo caso più che dalle tante indicazioni programmatiche, conviene partire da un principio: nei prossimi anni, se vi è un settore per il quale è giusto che altri ambiti rinuncino a qualcosa, è quello della ricerca e della formazione. Dalla scuola dell’infanzia e dell’obbligo alla secondaria e all’università: la sfida è avviare il tempo di una società della formazione lunga e permanente che non abbandoni nessuno lungo la via della crescita, dell’aggiornamento, di possibili esigenze di mobilità. Solo così, del resto, si formano classi dirigenti all’altezza, e solo così il sapere riacquista la sua fondamentale carica di emancipazione e realizzazione di sé.

A fronte di questo impegno, garantiremo processi di riqualificazione e di rigore della spesa, avendo come riferimento il grado di preparazione degli studenti e il raggiungimento degli obiettivi formativi. La scuola e l’università italiane, già fiaccate da un quindicennio di riforme inconcludenti e contraddittorie, hanno ricevuto nell’ultima stagione un colpo quasi letale. Ora si tratta di avviare un’opera di ricostruzione vera e propria. Nella prossima legislatura partiremo da un piano straordinario contro la dispersione scolastica, soprattutto nelle zone a più forte infiltrazione criminale, dal varo di misure operative per il diritto allo studio, da un investimento sulla ricerca avanzata nei settori trainanti e a più alto contenuto d’innovazione. Tutto ciò nel quadro del valore universalistico della formazione, della promozione della ricerca scientifica e della ricerca di base in ambito umanistico.

Sviluppo sostenibile

Sviluppo sostenibile per noi vuol dire valorizzare la carta più importante che possiamo giocare nella globalizzazione, quella del saper fare italiano. Sarebbe sciocco pensare che nel mondo nuovo l’Italia possa inseguire nazioni molto più grandi e popolose di noi. Se una chance abbiamo, è quella di una Italia che sappia fare l’Italia. Da sempre la nostra forza è stata quella di trasformare con il gusto, la duttilità, la tecnica e la creatività, materie prime spesso acquistate all’estero. O di usare al meglio il nostro territorio, che non è solo arte e bellezza naturale, ma bacino di risorse, creatività, talento.

Il decennio appena trascorso è stato particolarmente pesante per il nostro sistema produttivo. L’ingresso nell’euro e la fine della svalutazione competitiva hanno prodotto, con la concorrenza della rendita finanziaria, una caduta degli investimenti in innovazione tecnologica e nella capitalizzazione delle imprese, con l’aumento dell’esportazione di capitali. Anche in questo caso è tempo di cambiare spartito e ridare centralità alla produzione. Una politica industriale “integralmente ecologica” è la prima e più rilevante di queste scelte. Si tratta di sviluppare prodotti e servizi innovativi in quei settori che, in un mercato globale sempre più attento alle sfide ambientali, rendano l’Italia un punto di riferimento essenziale.

Noi immaginiamo un progetto-Paese che individui grandi aree d’investimento, di ricerca, di innovazione verso le quali orientare il sistema delle imprese, nell’industria, nell’agricoltura e nei servizi. La qualità e le tipicità, mobilità sostenibile, risparmio ed efficienza energetica, le scienze della vita, le tecnologie legate all’arte, alla cultura e ai beni di valore storico, l’agenda digitale, le alte tecnologie della nostra tradizione. Bisogna inoltre dare più forza e prospettiva alle nostre piccole e medie imprese aiutandole a collegarsi fra loro, a capitalizzarsi, ad accedere alla ricerca ed alla internazionalizzazione. C’è molto da fare. Mettere al centro in Italia l’economia reale e le forze che la promuovono, è un grande tema politico e culturale. Una vera svolta, dopo gli anni di una destra che ha lasciato nell’oscurità le prospettive produttive del Paese.

Beni comuni

Per noi sanità, istruzione, sicurezza, ambiente, sono campi dove, in via di principio, non dev’esserci il povero né il ricco. Perché sono beni indisponibili alla pura logica del mercato e dei profitti. Sono beni comuni – di tutti e di ciascuno – e definiscono il grado di civiltà e democrazia del Paese.

Ancora, l’energia, l’acqua, il patrimonio culturale e del paesaggio, le infrastrutture dello sviluppo sostenibile, la rete dei servizi di welfare e formazione, sono beni che devono vivere in un quadro di programmazione, regolazione e controllo sulla qualità delle prestazioni.

Per tutto questo, introdurremo normative che definiscano i parametri della gestione pubblica o, in alternativa, i compiti delle autorità di controllo a tutela delle finalità pubbliche dei servizi. In ogni caso non può venir meno una responsabilità pubblica dei cicli e dei processi, che garantisca l’universalità di accesso e la sostenibilità nel lungo periodo.

La difesa dei beni comuni è la risposta che la politica deve a un bisogno di comunità che è tornato a manifestarsi anche tra noi. I referendum della primavera del 2011 ne sono stati un’espressione fondamentale. È tramontata l’idea che la privatizzazione e l’assenza di regole siano sempre e comunque la ricetta giusta. Non si tratta per questo di tornare al vecchio statalismo o a una diffidenza preventiva verso un mercato regolato. Il punto è affermare l’idea che questi beni riguardano il futuro dei nostri figli e chiedono pertanto una presa in carico da parte della comunità.

In questo disegno la maggiore razionalità e la valorizzazione del tessuto degli enti locali sono essenziali, non solo per la funzione regolativa che sono chiamati a svolgere, ma perché il presidio di democrazia, partecipazione e servizi che assicurano è in sé uno dei beni più preziosi per i cittadini. Superare le duplicazioni, riqualificare la spesa, devono perciò accompagnarsi ad un nuovo e rigoroso investimento sul valore dell’autogoverno locale che, soprattutto nella crisi, non va visto, così come ha fatto la destra, come una specie di malattia, ma piuttosto come una possibile medicina. A sua volta l’autogoverno locale deve offrire spazi e occasioni alla sussidiarietà, alle forme di partecipazione civica, ai protagonisti del privato sociale e del volontariato.

Diritti

Per i democratici e i progressisti la dignità della persona umana e il rispetto dei diritti individuali sono la bussola del mondo nuovo e la cornice generale entro cui trovano posto tutte le nostre scelte di programma.

La storia per altro insegna – e questa crisi lo conferma – che non esiste una gerarchia dei diritti e che l’azione per il loro riconoscimento e la loro affermazione vive di una tensione continua sul piano politico e sociale. In particolare, noi guardiamo oggi nel mondo alla lotta di popoli interi per

la difesa dei diritti umani, a iniziare da quelli delle donne. E crediamo sia compito della politica, dei parlamenti e dei governi affermare l’indivisibilità dei diritti: politici, civili e sociali.

Anche su questo terreno l’Europa è per la politica dei singoli Stati un riferimento essenziale. A partire dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata per la prima volta a Nizza nel 2000 e dal Piano europeo di contrasto alle discriminazioni: di genere, orientamento sessuale, etnia, religione, età, portatori di differenti abilità.

Nel nostro caso questo significa l’impegno a perseguire il contrasto verso ogni violenza contro le donne e a una legge urgente contro l’omofobia. Sul piano dei diritti di cittadinanza l’Italia attende da troppo tempo una legge semplice ma irrinunciabile: un bambino, figlio d’immigrati, nato e cresciuto in Italia, è un cittadino italiano. L’approvazione di questa norma sarà simbolicamente il primo atto che ci proponiamo di compiere nella prossima legislatura.

Daremo sostanza normativa al principio riconosciuto dalla Corte costituzionale, per il quale una coppia omosessuale ha diritto a vivere la propria unione ottenendone il riconoscimento giuridico

Su temi che riguardano la vita e morte delle persone, la politica deve coltivare il senso del proprio limite e il legislatore deve intervenire sempre sulla base di un principio di cautela e di laicità del diritto. Per evitare i guasti di un pericoloso “bipolarismo etico” che la destra ha perseguito in questi anni, è necessario assumere come riferimento i principi scolpiti nella prima parte della nostra Costituzione e, a partire da quelli, procedere alla ricerca di punti di equilibrio condivisi, fatte salve la libertà di coscienza e l’inviolabilità della persona nella sua dignità.

Responsabilità

L’Italia ha bisogno di un governo e di una maggioranza stabili e coesi. Di conseguenza l’imperativo che democratici e progressisti hanno di fronte è quello dell’affidabilità e della responsabilità. Per questa ragione, nel momento stesso in cui chiamiamo a stringere un patto di governo movimenti, associazioni, liste civiche, singole personalità e cittadini che condividono le linee di questo progetto, vogliamo assumere insieme, dinanzi al Paese, alcuni impegni espliciti e vincolanti.

Le forze della coalizione, in un quadro di lealtà e civiltà dei rapporti, si dovranno impegnare a:
– sostenere in modo leale e per l’intero arco della legislatura l’azione del premier scelto con le primarie;
– affidare a chi avrà l’onere e l’onore di guidare la maggioranza, la responsabilità di una composizione del governo snella, sottratta a logiche di spartizione e ispirata a criteri di competenza, rinnovamento e credibilità interna e internazionale;

– vincolare la risoluzione di controversie relative a singoli atti o provvedimenti rilevanti a una votazione a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari convocati in seduta congiunta;
– assicurare il pieno sostegno, fino alla loro eventuale rinegoziazione, degli impegni internazionali già assunti dal nostro Paese o che dovranno esserlo in un prossimo futuro;
– appoggiare l’esecutivo in tutte le misure di ordine economico e istituzionale che nei prossimi anni si renderanno necessarie per difendere la moneta unica e procedere verso un governo politico- economico federale dell’eurozona.

I democratici e i progressisti s’impegnano altresì a promuovere un “patto di legislatura” con forze liberali, moderate e di Centro, d’ispirazione costituzionale ed europeista, sulla base di una responsabilità comune di fronte al passaggio storico, unico ed eccezionale, che l’Italia e l’Europa dovranno affrontare nei prossimi anni.

Abbiamo alle spalle il decennio di una destra impregnata di promesse e parole che hanno reso più confuse e opache la politica e l’azione del governo. Mentre davanti a noi l’ansia del cambiamento si sente con più forza. Noi – i democratici e i progressisti – questa volta non inviteremo a sognare. Insieme con il Paese che resiste e vuole ripartire apriremo bene gli occhi e ascolteremo. Assumeremo degli impegni. Discuteremo con la società consapevole i traguardi di un’Italia da rifare. Siamo pronti e non siamo soli. Siamo convinti di avere cose da dire, e soprattutto molte cose da fare. Per l’Italia, bene comune.

Ricerca: Ghizzoni, purtroppo cammino ancora lungo

In Commissione Cultura riconoscimento agli scienziati italiani. “Con l’audizione degli scienziati italiani, che hanno avuto recentemente un successo a livello internazionale, la Commissione Cultura della Camera dei Deputati ha voluto onorare chi rappresenta vanto e orgoglio del nostro Paese, della nostra scuola, della nostra ricerca. – Lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione alla Camera dei Deputati, al termine dell’audizione con Marcella Diemoz, coordinatrice di Cms, esperimento che ha rivelato il bosone di Higgs, Filippo Frontera, astrofisico di Ferrara premiato con il Marcel Grossman Award, Alessio Figalli, premiato dall’European Mathematical Society e già professore ordinario presso l’Università del Texas a soli 28 e Fernando Ferroni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. –

Ho fortemente voluto la loro presenza in Commissione non solo per esprimere un riconoscimento alla qualità del loro lavoro, ma anche per riportare l’attenzione sul valore dell’attività di ricerca, sul significato della ricerca libera per lo sviluppo della conoscenza a vantaggio dell’umanità e del Paese.

I nostri scienziati hanno fatto emergere tutta l’incapacità del sistema italiano di trattenere i giovani e dare loro la possibilità di esprimere al meglio le proprie potenzialità e le proprie intuizioni scientifiche e hanno indicato i problemi che necessitano di risposte urgenti. È un dato di fatto – spiega Manuela Ghizzoni – che la politica, in questi ultimi anni, non è stata in grado di avere quella capacità strategica e visionaria necessaria a dare risposte adeguate e a permettere una programmazione di ampio respiro.

Questa audizione ha rappresentato solo un primo momento di riflessione, che, peraltro, coincide con l’approvazione al Senato della Spending Review, provvedimento che prevede una contrazione delle risorse per gli Enti di Ricerca Pubblici e il blocco del turn over per il sistema della conoscenza. Purtroppo – ha concluso la Presidente Ghizzoni – si tratta della testimonianza che per riportare la ricerca in primo piano nel nostro Paese il cammino da compiere è ancora lungo.”

"“Quota 96" un gioco che è durato anche troppo", di Giuseppe Grasso

La mannaia dell’ingiustizia si è abbattuta, per una seconda e inesorabile volta, sui lavoratori della scuola del 1952, calpestati nel loro diritto da una tremenda spending review, una riforma congegnata dal governo Monti più in termini ideologici che di effettiva utilità per il nostro paese. Dopo l’appoggio incondizionato delle due onorevoli del Pd Mariangela Bastico e Manuela Ghizzoni – che si sono spese tantissimo a favore della battaglia di questi professionisti e delle loro giuste rivendicazioni, che hanno partecipato a ben due manifestazioni nazionali assicurando loro l’appoggio di tutto il partito – il Comitato Civico «Quota 96», da sempre agguerrito nell’affermazione dei diritti al pensionamento con le regole ante Fornero, non ha mai smesso di lottare e di ingegnarsi con ogni rimedio, sia esso giudiziario o politico, per arrivare dritto allo scopo.
La speranza si è riaccesa alcuni giorni fa, dopo la fallita votazione nel «mille proroghe» dello scorso febbraio, con la presentazione al Senato, da parte della senatrice Bastico, di un emendamento, il 22.45, che comprendeva, per i lavoratori della conoscenza che avessero maturato il diritto a pensione entro il 31 agosto 2012, la possibilità di uscire dal lavoro con la cosiddetta quota 96, parametro dato dalla somma del requisito anagrafico e del requisito contributivo.
La votazione dell’emendamento è stata respinta inverosimilmente, nonostante le promesse dei tre maggiori partiti che appoggiano l’attuale esecutivo, da tutti i componenti della Commissione a causa del parere negativo sia dei relatori sia del governo, rappresentato da quell’inflessibile sottosegretario Polillo che, pur riconoscendo la specificità del settore della scuola e la fondatezza del suo sacrosanto diritto ad andare in pensione il 1 settembre di ogni anno, ha continuato a ripetere, ossessivamente, il solito ritornello sulla mancanza della copertura finanziaria. Non stiamo parlando di una o due defezioni. C’è stato, a dirla tutta, un aprioristico veto consociativo contro questi lavoratori che lottano da più di sei mesi per il riconoscimento del loro diritto. E, malgrado l’appoggio assicurato per il tramite delle due deputate democratiche in questione, nulla è stato fatto, concretamente, dal gruppo dirigente del Pd che sostiene, come fosse il gran salvatore della patria, Mario Monti. È inutile affermare il contrario, nascondersi dietro una lampante ipocrisia o, peggio, gettarsi la sabbia sugli occhi per far finta di essere ciechi. Il cronista, che è anche un docente, ha il dovere di dire le cose come stanno, di chiamarle col loro nome e senza infingimenti.
Il governo Monti – appoggiato incondizionatamente dai poteri forti, da Eugenio Scalfari e da un partito che ha rinnegato il proprio tradizionale mandato di portavoce dei lavoratori – ha compiuto un misfatto di cui l’Italia repubblicana dovrà vergognarsi amaramente, da qui alle prossime elezioni e forse anche oltre, come di un’onta che esige una riparazione immediata, quanto meno alla Camera. I deputati, che sono pagati profumatamente e che dovrebbero rappresentare il popolo, non sono i servi dell’esecutivo, soprattutto se si è leso un diritto e non un privilegio. Non hanno forse la loro autonomia di giudizio e di scelta? Vadano ora a spiegare alle famiglie di questi lavoratori della scuola – istituzione sempre più tartassata e umiliata dalle politiche economiche messe in atto da un governo iniquo e retrivo – gli effetti nefasti di una simile scelta.
Per quale motivo si dovevano prima blandire 3.000 poveri cristi quando poi, alla resa dei conti, se ne dovevano disattendere le aspettative? Perché mai si dovevano nutrire illusioni per farle srotolare come sabbia fra le dita? E non ci vengano a dire i governanti, pretestuosamente, che i 24.000 dipendenti pubblici che potranno invece essere collocati a riposo, con minor diritto di quelli, non dovranno essere rimpiazzati dai precari. L’alibi – dopo ben due bocciature al Senato e dopo la presentazione di ben due disegni di legge, il 3361 e il 5293, ad opera della Bastico e della Ghizzoni – non è più sostenibile e anzi insensato, frutto di una bieca alchimia politica. Il diritto di questi lavoratori sessantenni che non sono certo, giova ricordarlo, dei baby-pensionati, diritto formalmente riconosciuto dai due ddl citati, non potrà più essere speso né ripresentato in futuro. Ormai non sarà più possibile, a meno di un provvido e sperabile dietrofront, mandarlo avanti in parlamento stante la chiusura categorica di governo e ragioneria, sordi e irremovibili ad ogni decisione che concerne le politiche scolastiche, sacrificate sull’altare della solita tetragona filosofia aziendalistica. È incredibile che il Pd, mischiatosi promiscuamente ad altri partiti di segno opposto in questo governo delle destre bancarie e tecnocratiche, in questo governo che sa fare cassa solo con i poveri e mostrarsi generoso solo con i ricchi, in questo governo che ha smantellato come mai era accaduto lo stato sociale e che non conosce nemmeno cosa sia la parola equità, tanto gratuitamente sbandierata; è incredibile, dicevamo, che il Pd abbia potuto abbandonare 3.000 persone, fra docenti e personale Ata, che avevano creduto, forse ingenuamente, nella veridicità delle sue promesse.
Riteniamo che il segretario Bersani dovrebbe avviare un lungo e serrato outing in tal senso, un severissimo esame di coscienza che eviti però di scivolare demagogicamente nel tormentone, del resto già pronto in vista delle prossime elezioni e più volte sciorinato, che promette maggior gradualità nell’innalzamento dell’età pensionabile solo DOPO questa legislatura. Ci sarebbe ancora tempo per farlo PRIMA, magari alla Camera, per i lavoratori della conoscenza di Quota 96. Sarebbe il segno di un ravvedimento tardivo, certo, ma pur sempre dignitoso.
Come spiegare ragionevolmente al vasto mondo degli educatori che il partito dei lavoratori, erede del magistero di Gramsci e di Berlinguer, abbia potuto tradire così smaccatamente – dopo aver mandato avanti due sue degnissime esponenti, una già vice-ministro dell’Istruzione nel governo Prodi II e l’altra oggi Presidente della Commissione Cultura alla Camera – una fetta piccola, ancorché rispettosa, del suo elettorato? Perché criticare l’operato del governo e poi continuare, in modo doppio e menzognero, a dargli la fiducia? Perché non fare cassa, ad esempio, con gli aerei da guerra anziché con i tagli alla scuola? Perché questo – si ribatterà – è l’oscuro, tramato e insidioso gioco della politica, di una politica, però, sempre più avulsa dalla base e che magari si meraviglia, guarda caso, se sorgono partiti come il Movimento 5 stelle a intercettare i reali malesseri del popolo. Questo gioco demagogico del Pd ai danni della legione di Quota 96 – di cui la Bastico e la Ghizzoni sono le sole, oggi, a portare sulle spalle tutto il peso – è durato anche troppo e bisognava che qualcuno lo denunciasse.
Il governo Monti dovrebbe smetterla di anteporre i numeri agli esseri umani. E la verità ha sempre il dovere di essere riconosciuta. La riforma delle pensioni targata Fornero – lo abbiamo scritto fin dallo scorso gennaio – non si doveva fare in questo modo drastico e brutale, come ha più volte segnalato l’ex ministro del Lavoro Damiano, con una simile andatura, cioè, da smantellamento sociale e tale da attentare alle progettualità di vita di chi, alle soglie dell’agognata pensione, se l’è vista soffiare dalle mani. Tutte le precedenti riforme previdenziali erano state concordate con i sindacati e diluite negli anni come è accaduto con il sistema delle quote. E tutte prevedevano, anche quella a firma Damiano, un articolo ben preciso che riconosceva che i tempi della scuola sono legati all’anno scolastico il quale non coincide, come tutti sanno, con l’anno solare. Ma che bella figura hanno fatto i tecnici dell’attuale esecutivo! Prima hanno commesso l’errore di omettere un articolo che prevedesse la specificità del collocamento a riposo del comparto scuola, che avviene sempre il 1 settembre di ogni anno, e poi hanno rifiutato di sanarlo senza peritarsi di chiedere scusa per la stortura commessa. È proprio il caso di dire – scomodando Esiodo – che è stolto essere giusti quando chi è ingiusto ottiene migliore giustizia.
Ma tant’è. Nessuno, tranne le summenzionate deputate del Pd, ha preso davvero a cuore questo spinoso problema del pensionamento dei professionisti della scuola del 1952, penalizzati con 4 e anche 5 anni di lavoro in più rispetto agli stessi lavoratori del 1951 sempre di Quota 96. Speriamo che almeno i Giudici del Lavoro delle moltissime città italiane presso cui sono stati depositati i ricorsi degli interessati possano riscattare le loro sorti e vendicarli di tanta insensibilità e di tanto inspiegabile ostracismo. L’ultimo auspicio, qualora nemmeno i tribunali dovessero bastare, è che si torni a votare presto, magari a ottobre, e che si mandi finalmente a casa questo governo illiberale e conservatore, un governo che è frutto dell’inciucio di comodo imbastito da Pd, Pdl e Fli con l’avallo del supremo regista.

da www.tecnicadellascuola.it

Giornalisti: Ghizzoni, indispensabile legge equo compenso

Solo così ci saranno le basi per la libertà di informazione. “Un provvedimento legislativo sull’equo compenso del lavoro giornalistico, già approvato all’unanimità in sede legislativa nella Commissione che presiedo alla Camera, è indispensabile e deve essere varato al più presto, come auspicato anche dal Presidente della Repubblica. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati – Solo un compenso equo e congruo può garantire la libertà di un giornalista, altrimenti vessato dal “caporalato” dell’informazione operato da editori che non rispettano le norme. Risulta, infatti, che il 62% dei giornalisti freelance non guadagna più di cinquemila euro l`anno e non è pensabile non imporre una sanzione specifica a imprenditori senza scrupoli. Alla Ministra Fornero vorrei precisare che il precariato giornalistico ha delle specificità e, dunque, – spiega Ghizzoni – deve essere trattato attraverso un provvedimento specifico. L’approvazione della norma è la risposta di civiltà che il Parlamento deve dare – conclude la Presidente Ghizzoni – per porre le basi per la libertà d’informazione e di autonomia del giornalismo troppo invocata e poco praticata.”

"Giusva e Vincenzina", di Mario Adinolfi

Oggi non è il 2 agosto. Meglio. Il 2 agosto saremo intasati di ricostruzioni, ritratti, momenti rituali. Chissà se ci saranno le solite paginate innocentiste e santificanti per Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, condannati con sentenza passata in giudicato come esecutori materiali della strage di Bologna Di sicuro ci saranno strizzatine d’occhio dei giornalisti amici a Giusva. Di sicuro non ci sarà neanche una riga per Vincenzina.
Rimediamo oggi. Oggi che non è il 2 agosto. Negli scorsi giorni si è discusso (poco, pochissimo, quasi per niente) delle dichiarazioni di Fioravanti rese in un documentario, rivolte contro il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Bologna, Paolo Bolognesi, che secondo il capo dei Nar avrebbe perso nella strage «solo la suocera e si sa che la suocera non è una vera perdita». Una frase che sarebbe ignobile anche se detta da chiunque di noi al bar, figuriamoci se a dirla è in tutta libertà (perché Giusva, ricordiamolo, è libero) l’esecutore materiale della strage. Fioravanti è poi stato intervistato in diretta alla Zanzara su Radio24 da David Parenzo e Giuseppe Cruciani, che per questa intervista si sono beccati anche una denuncia all’Ordine dei giornalisti.
Mai denuncia fu più sbagliata perché i dieci minuti dello stragista alla Zanzara sono un documento decisivo. Grazie alla confidenza improvvida dei conduttori e al loro essere impreparati sull’argomento Bologna, Fioravanti inanella incontrastato una serie di frasi incredibili in cui non solo conferma il concetto della differenza di “peso” emotivo delle diverse vittime della strage («perdere una suocera non è come perdere un figlio»), ma aggiunge capolavori di cinismo assoluto come quando precisa che la suocera di Paolo Bolognesi «non è affatto morta nella strage, è una delle persone rimaste ferite, morta molto tempo dopo». E ancora: «Il predecessore di Bolognesi, Torquato Secci, ha perso un figlio. Chi ha vissuto lo sfracellamento di un figlio è autorizzato a dire delle cose senza ragionare, chi semplicemente qualche anno dopo la strage ha perso la suocera per i postumi delle ferite e per lo stress, non parla in nome di un dolore incontrollabile, ma è mosso dall’ideologia».
Tenetele bene a mente queste frasi di Giusva Fioravanti, terrorista, condannato come esecutore materiale della strage di Bologna all’ergastolo. Non l’unico della sua carriera criminale. Tenetele a mente perché nessuno le ha riportate e durante l’intervista alla Zanzara nessuno le ha contestate. Il giorno dopo le edizioni cartacee di Repubblica e del Giornale non avevano neanche una riga sulla questione, il Corsera e Libero dedicavano un trafiletto neutro evitando di citare gli insulti di Fioravanti alla suocera di Paolo Bolognesi. Che si chiamava Vincenzina. Vincenzina Sala.
Aveva 50 anni. Vincenzina è la nonna di Marco, 6 anni, il figlio di Paolo Bolognesi. Nonna e nipotino il 2 agosto 1980 vanno alla stazione di Bologna ad accogliere Paolo e la moglie Daniela di ritorno da un viaggio in Svizzera. Quando scoppia la bomba entrambi vengono travolti dall’onda d’urto dell’esplosione. Marco è devastato, ricoverato in condizioni gravissime all’ospedale, riceve poche ore dopo la visita del presidente Pertini che ne esce sconvolto, in lacrime e davanti alle telecamere regala la sua umanità a un paese intero: «Ho appena visto due bambini che stanno morendo».
Uno dei due bambini è Marco, il padre Paolo lo riconoscerà solo per una voglia che ha sulla pancia. Sopravviverà, alla fine, grazie alla tenacia dei medici, portando per tutta la vita impressi addosso i segni evidenti della strage. Vincenzina viene cercata dai familiari per tutto il giorno, con la disperazione che cresce ora dopo ora. Non si trova negli ospedali, alle due del mattino in una sala marmorea dell’obitorio il marito ne riconoscerà il corpo privo di testa grazie alla doppia fede nuziale che porta al dito. La testa non sarà mai recuperata. Il nome di Vincenzina Sala è uno degli ottantacinque nomi delle vittime della strage di Bologna impressi sì su una lapide di marmo, ma per niente nella nostra mente. Ho atteso una settimana sperando che qualcuno replicasse all’insulto alla memoria rivoltole dal terrorista libero Giusva Fioravanti. Non c’è stata neanche una riga, su nessun giornale. Nessuno che avesse trovato osceno che lo stragista dicesse «è morta per i postumi molto tempo dopo», nessuno che abbia avuto la curiosità di controllare se fossero vere o meno le sue affermazioni.
Ma questo è un paese così, dove il terrorista è divo e libero, la vittima è nell’oblio e esposta pure al ludibrio. E il giornalismo italiano? Riposi in pace, tanto c’è sempre una terrazza dove prendere l’aperitivo con Giusva e Francesca, che gli assassini si portano bene in società, come una borsa molto costosa.
Vincenzina Sala, 50 anni: madre, moglie e nonna. Morta decapitata alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. Insultata dal terrorista condannato come esecutore materiale della strage, amico dei giornalisti che contano e da loro protetto, messo in libertà dopo appena 16 anni di carcere vero e pieno, senza che ci abbia raccontato la verità. Tutte cose che solo in questo incredibile paese senza memoria e senza rispetto possono accadere.

da Europa Quotidiano 31.07.12