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"Le donne politiche sono bellissime (e non intendo la Carfagna)", di Daniela Tazzioli

Appello a Bindi, Finocchiaro, Franceschini, Bersani

Domenica, io, il nonno e la Chicchi siamo andati alla lasagnata di Cervarolo, una festa paesana dove, si capisce, il piatto forte sono le lasagne preparate in tanti modi diversi.
Cervarolo è un paesino che dista pochi chilometri da Fontanaluccia ed è a noi tristemente noto per i racconti che i nostri familiari ci hanno tramandato sul truce eccidio che i nazisti lì compirono il 20 marzo 1944. Ventiquattro uomini furono adunati e uccisi insieme al parroco in un’aia del paese mentre le case, le stalle, i fienili venivano dati alle fiamme.
Il mio papà, che all’epoca aveva solo cinque anni, si ricorda ancora la visione di quel fumo e l’odore di carne bruciata che da Fontanaluccia si poteva sentire. Da qui partì Don Mario, insieme a Bacìn che possedeva un somaro, per andare a vedere cos’era successo. Trovarono un ammasso di cadaveri e la disperazione di un paese così ferocemente colpito perché sospettato di aver fornito ricovero e coperture ai partigiani nascosti fra i boschi.
Cervarolo è un paese piccolo. D’estate conta adesso forse 150 abitanti, in inverno trenta, quaranta, all’epoca dell’eccidio circa 200. Ventiquattro uomini, seppur non più giovani, sottratti a un paese di così piccole dimensioni, è una cifra enorme.
Siamo andati nell’aia perché volevo che la Chicchi vedesse e mi ha fatto una certa impressione pensare che queste aie erano per me e i miei cugini da piccoli luoghi di magia e divertimento assoluto. Adesso sono diventate quasi tutte cortili di case vecchie restaurate per chi viene qui in vacanza, ma anche solo trent’anni fa erano utilizzate dai nostri nonni come fienili, stalle o ricoveri di attrezzi ed era per noi uno spasso potercisi intrufolare e nasconderci, saltare nel fieno o spiare le cugine più grandi che lì si appartavano per amoreggiare.
Quella di Cervarolo è una delle “piccole” stragi che non hanno avuto la risonanza mediatica di altri eventi simili come Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto forse perché il numero delle vittime non è altrettanto importante, ma qui, fra le nostre montagne, è un evento di cui si tramanda il ricordo tra le generazioni.
C’è una lapide con una frase commemorativa nel solito italiano retorico che contraddistingue ceppi e marmi della memoria e c’è una frase in tedesco in cui si dice che qui vennero, nel 1985, da Berlino i discendenti degli artefici dell’eccidio per chiedere perdono e riconciliazione.
Non c’è rabbia nella memoria che ci è stata trasmessa, quanto piuttosto serena rassegnazione, come se il miracolo della riconciliazione qui fosse avvenuto davvero. Nei ricordi della nostra famiglia, ad esempio, è sempre stata fatta la distinzione fra i “tedeschi”, che erano quelli buoni dell’esercito regolare e che si fermavano per settimane, per mesi, nelle nostre borgate, e i nazisti che compivano le loro marce lugubri dentro i boschi e nei paesi a caccia dei partigiani e dei loro protettori.
Il mio papà racconta che lui e gli altri bambini giocavano a calcio con l’elmetto dei soldati buoni, che, anche se facevano un po’ paura per le loro divise, erano tristi e malinconici perché pensavano ai loro paesi e alle loro famiglie.
Così, grazie ai racconti di mio padre, io sono cresciuta con l’idea che bisogna sempre distinguere, che non tutti i tedeschi erano nazisti e che i cow-boys non erano affatto degli eroi.
Durante il mese di luglio, qui in montagna, dal lunedì al venerdì, nelle nostre case ci siamo solo io, la Sandra, i vecchi e i bambini. E’ pace assoluta. Dormiamo, leggiamo, parliamo, mangiamo. Nel fine settimana invece arrivano tutti i cugini e gli zii che lavorano giù in pianura e può capitare che nel cortile siamo in cinquanta, settanta persone. Spesso si intavolano discussioni che riguardano questioni familiari, politiche o religiose. Io vorrei solo parlare di letteratura, ma i miei parenti sono in genere più interessati a scambiare opinioni sulla situazione attuale dell’Italia o internazionale. Della Svizzera c’è poco da dire, perché lì non succede mai niente, ma quest’anno, siccome io sono coinvolta in prima persona, sono tutti interessati alle mosse che vari esponenti del PD svizzero hanno messo in atto per rimpatriare gli insegnanti statali impegnati sui corsi di lingua e cultura a vantaggio di enti privati definiti “associazioni di genitori” o “enti pubblici-privati” (…ma sono pubblici o privati?!) a cui starebbe a cuore unicamente la diffusione della lingua e della cultura italiana fra i pargoli discendenti dei nostri emigrati.
In sostanza, il PD, che in Italia è il primo sostenitore della scuola pubblica, in Svizzera sostiene enti e scuole private gestite da cittadini italiani ivi residenti perché, si dice, forniscono servizi essenziali alle italiche comunità locali meglio di noi. Siccome i governi degli ultimi anni si sono abbattuti con scure pesante sui fondi che lo Stato italiano destina al mantenimento di questi enti, un senatore PD eletto in Svizzera ha pensato di chiedere insistentemente il ritiro degli insegnanti statali impegnati nei corsi di lingua e cultura italiana per destinare i fondi così risparmiati a questi enti o scuole di “associazioni di genitori”. L’ultimo tentativo è di questi giorni, in occasione del taglio già pesante preventivato dalla spending review. Va bene il taglio di 400 insegnanti su 997 proposto dal governo, dice il senatore in questione, ma che sia a partire da quelli impegnati sui corsi di lingua e, con i risparmi ottenuti, si girino alcuni milioni di euro a questi enti “pubblici-privati”.
Per convincere i suoi colleghi senatori, il senatore eletto in Svizzera ha costruito e diffuso un dossier con lettere di genitori di alunni dei corsi di lingua italiana che si lamentano del cattivo operato degli insegnanti statali impegnati su tali corsi.
Di queste lettere, cinque provengono da un piccolo paesino dei Grigioni che, per ragioni familiari, conosco benissimo. Delle cinque spedite dal cantone di Zurigo due provengono da un paesino e due da un altro. Una arriva dal canton Svitto (non ridete: è l’italianizzazione di Schwyz), una dal cantone di Neuchâtel, una da un ente di Berna che sta per fallire e due dalla Germania.
A parte che certe affermazioni rasentano la diffamazione, tipo che noi perdiamo continuamente alunni e gli insegnanti degli enti no, che noi per completare la cattedra rubiamo le ore a loro (ma il privato non interviene nella scuola solo laddove non può arrivare il pubblico? se c’è un insegnante statale che deve completare la cattedra, perché lo Stato deve continuare a pagare un privato al suo posto?); a parte il fatto che c’è da chiedersi se in un paesino del canton Zurigo e in uno dei Grigioni non siano finiti dei colleghi particolarmente incapaci, ma si può verificare e, nel caso non fosse così, segnalare il danno alla loro reputazione; a parte che, averlo sospettato, ci mettevamo veramente poco a costruire anche noi un bel dossier di lamentele sull’operato degli enti e dei loro docenti (ma non si fa! non si fa! non siamo mica la Stasi o il Giornale, su!) e comunque lo avremmo fatto il più possibile completo, ad ampio raggio cioè, prendendo da tutti e cinque i continenti, non solo dalla Svizzera; a parte tutto questo, insomma, io mi chiedo come sia possibile che tanti illustri senatori, fra cui, naturalmente, quelli dell’ala riformista-veltroniana del PD, si siano bevuti la bufala che quindici lettere su un gruppuscolo di insegnanti statali di stanza nella Svizzera nord-orientale rappresentino un dato epidemiologico significativo dell’inettitudine dell’intera categoria dei docenti statali all’estero.
Eppure, a quanto pare, lo sdegno ha attraversato per giorni le aule sinistre del Senato della Repubblica, visto che, a più riprese, la Commissione Bilancio, incaricata di esaminare la spending review, ha pensato di prendere in considerazione la proposta di rimpatriare dapprima tutti i docenti statali dei corsi e destinare milioni di euro a tutti quelli che –assunti in loco dai privati- dovrebbero sostituirli.
Mi sono battuta in questi mesi contro questo disegno volto a smantellare quel poco di istruzione pubblica rimasto all’estero per diversi motivi. Molti penseranno che l’ho fatto per salvare, in primis, la mia pelle. Non è così. Innanzi tutto, per fortuna o mio malgrado, io me la salvo comunque, dal momento che la cittadinanza svizzera e i titoli e i diplomi di cui dispongo mi permetterebbero di rimanere in quella che è la mia seconda patria, nel caso volessi. In secondo luogo, chi conosce la mia storia sa bene che effetto ha su di me la constatazione di un’ingiustizia: lotte e vittorie contro ospedali, case automobilistiche, nonostante in partenza io mi sentissi sempre come Davide che sfida Golia.
Ma contro il Golia della Svizzera ovvero il più grande partito italico di maggioranza relativa nei suoi apparati e dirigenti e parlamentari, la lotta è stata da subito impari. Nel PD però non tutti sono, per fortuna, riformisti-veltroniani, qualcuno è rimasto comunista, e così si è creata una questione che ha portato quelli che già si impegnano concretamente e attivamente per sostenere l’istruzione pubblica in Italia a difendere, coerentemente, anche quella all’estero.
Il governo Monti –che, lo dico subito mi è quasi più antipatico di quello Berlusconi perché preferisco un nemico riconoscibile come il burlesque al potere che uno infido come il sérieux di banchieri e professori-, allora il governo Monti, così supponente in materia economica da voler impartire lezioni a tutti e così ignorante in materia scolastica da far pensare che nessuno dei suoi membri abbia mai frequentato una scuola pubblica, ha sfruttato la litigiosità interna del PD per cassare le proposte dei sostenitori della scuola pubblica che ci volevano salvare tagliando il 10% dell’indennità di tutti i dipendenti del Ministero degli Esteri (di tutti, compresi gli insegnanti) e sarebbe stata una proposta ragionevole che avrebbe portato il governo a risparmiare molti più milioni di euro di quelli dati dal rimpatrio dei 400, ma vallo a spiegare a Terzi che vuoi tagliare i 20.000 euro che guadagna un ambasciatore, lui che fino a pochi mesi fa era ambasciatore a Washington… Il governo Monti, visto che il PD litigava con sé stesso, ha sfruttato quest’ennesimo dissidio interno per cassare anche le proposte del senatore che dicevano sì al rimpatrio ma con priorità sui docenti dei corsi di lingua e poi girare i soldi agli enti “privati-associazioni di genitori”.
Io non so perché questo senatore ce l’abbia tanto con noi e non capisco come possa avercela con noi un signore la cui consorte è stata per tantissimi anni insegnante statale in Svizzera, quando ancora il mandato era pressoché illimitato e i privilegi di cui godeva questa categoria degli insegnanti statali all’estero erano ben più consistenti di quelli attuali. Mi dispiace che un senatore di un partito di sinistra voglia sostenere il privato a discapito dell’istruzione pubblica. Non ce l’ho con lui, anche se non capisco perché sia arrivato al punto di costruire un dossier contro di noi per suffragare le sue tesi. Io, per esempio, un dossier su di lui non lo costruirei mai perché, innanzi tutto, non saprei proprio da dove cominciare e poi, ripeto, per me è una cosa che non si fa o non si dovrebbe fare perché mi sembra quasi un’indecenza rivelare a tutti i senatori della Repubblica le carenze professionali di due o tre maestri. Non ho mai sentito che il caso di un maestro assenteista fosse finito in Senato. Di solito, in questi frangenti, si informa il dirigente scolastico, il quale poi eventualmente prende provvedimenti.
Ma la cosa che in tutta questa vicenda mi fa star più male, da prof. emiliana di sinistra che ha pure votato alle primarie del PD, è quella di constatare l’ennesima figura meschina che ci fa un partito che annovera, al suo interno, anche persone rette, oneste, che si spendono per la cosa pubblica con una dedizione che rasenta la fede delle claustrali o l’abnegazione di Madre Teresa di Calcutta. Io non riuscirei mai ad impegnarmi così tanto in nessuna causa al mondo e per questo nutro un’ammirazione sconfinata per chi, nel marcio della politica italiana, riesce a farlo, attirandosi magari anche le ingiurie di tutti quelli che superficialmente sbraitano che i politici sono tutti uguali. No, non è vero che i politici sono tutti uguali, ma il PD che continua a fare tutte queste figuracce, a me che sono una prof. emiliana di sinistra e ho avuto la Bastico come sindaco, mi fa proprio star male.
Allora vorrei dire semplicemente alcune cose ai suoi capi, per vedere se, almeno sfogandomi, mi passa un po’ la delusione.
Cara Anna Finocchiaro, caro Dario Franceschini, caro Pierluigi Bersani, cara Rosy Bindi, che continuate a sostenere un “governo-salva-chi?” e voterete la fiducia sul decreto che ci decurta del 40%, potete anche rimpatriarci tutti, ma ci dovete spiegare perché permettete che alcuni vostri compagni di partito continuino a sostenere che, con i soldi dei tartassatissimi contribuenti italiani, si debbano finanziare questi enti privati di diritto svizzero che assumono insegnanti locali con criteri di pura cooptazione, con contratti di diritto svizzero e quindi con retribuzioni non certo inferiori a quelle di noi docenti inviati dall’Italia che le tasse le paghiamo in Italia.
Ci dovete spiegare perché le tasse dei succitati supertartassati contribuenti italiani debbano finire nelle casse di enti di diritto svizzero che poi le tasse le pagano all’erario dei vari cantoni svizzeri in cui operano. Personalmente, mi dà alla testa pensare che un solo centesimo dei contribuenti modenesi non venga destinato alla ricostruzione delle nostre scuole o a risanare i bilanci dissanguati dei nostri comuni, ma speso per rimpinguare le casse dei cantoni di uno degli Stati più ricchi del mondo.
E poi, dopo che avrete votato il decreto “spacca-tutto” del “governo-salva-chi?”, come spiegherete ai 22.000 umiliati dell’Ergife ovvero tutti quei docenti statali che, dopo anni di precariato, ruolo, abilitazioni, concorsi, hanno sostenuto, a proprie spese, un concorso durato una settimana nel bunker dell’Ergife, con modalità al limite della legalità, unicamente mossi non dalla speranza, ma dalla disperazione di volersene andare dall’Italia, paese in cui la scuola è ormai da anni politicamente e concretamente disprezzata, che quel concorso è stato davvero una farsa perché, con i tagli, non potranno mai partire? La Francia invia all’estero 6.500 docenti, noi 1.000 e adesso 600. Che cos’ha la Francia di cultura da esportare in più dell’Italia? Forse che la patria di Molière è un prodotto meglio esportabile della patria di Dante? No, c’è chi dice, meglio far ricorso a “insegnanti locali” perché anche se non padroneggiano perfettamente la lingua di Dante, sono comunque in grado di esportarla, insegnarla, promuoverla, unicamente perché sono cittadini italiani che parlano abbastanza bene l’italiano e, perfettamente, il dialetto basilese.
Distinguiamo pure: ci saranno enti buoni e enti cattivi, ma voi ci credete davvero alla storia che questo personale assunto in loco sia in grado di insegnare meglio una lingua e una cultura di chi la insegna per mestiere e la vive in un contesto vivo e attuale? E poi vi sembra credibile che un insegnante che si reputi tale, nato e cresciuto in Svizzera, abbia bisogno, per svolgere il proprio mestiere, di dipendere dai fondi dello Stato italiano? Sapete che il tasso di disoccupazione in Svizzera è del 3,1% e che c’è una tale carenza di insegnanti che le scuole li cercano con annunci via internet o sui giornali? Ma il fatto è che per insegnare nelle scuole svizzere non è sufficiente sapere la lingua del luogo, altrimenti tutti i miei parenti contadini e pecorai grigionesi sarebbero immediatamente assunti nelle scuole locali per insegnare retoromancio o tedesco, considerata la carenza di docenti che anche lì si registra. Ci vogliono titoli e diplomi anche in Svizzera, non basta l’esperienza maturata lavorando per enti italiani di “associazioni di genitori”.
Cari Finocchiaro, Franceschini, Bersani e Bindi, venite, per favore, a conoscere chi ci sostituirà, dopo che ci avrete rimpatriati. Venite a Basilea, da dove è partita tutta questa bella storia, vi ospito io, non c’è bisogno che spendiate soldi del partito o dei contribuenti. Vi posso anche portare a mie spese a prendere l’aperitivo a Les Trois Rois, se volete concedervi un po’ di svago estetico-déluxe. Oppure, se vi piace l’arte, l’architettura, il design, vi posso accompagnare alla Fondation Beyeler, al Vitra, al Kunstmuseum se avete gusti più classici. Se vi piacciono le bestie posso portarvi allo zoo, che è un magnifico parco, o in Alsazia sulla montagna delle scimmie dove vivono centinaia di scimmie in libertà oppure a vedere le cicogne che lì ce ne sono moltissime. Te, Rosy, poi, ti porterei magari anche a visitare la “libera chiesa di Sant’Elisabetta”, gestita insieme da cattolici e protestanti, dove c’è un bar nel campanile e qualche tavolino nella navata di sinistra e il sabato sera spostano tutti i banchi per farci una serata disco anni ’70. Non ti scandalizzare, Rosy. Il Vaticano non solo è al corrente e tollera che qui si facciano culti per persone a lutto oppure per gay e lesbiche. La chiesa cattolica partecipa attivamente con preti, diaconi e consulenti spirituali e finanzia questa libera chiesa perché sa che se non vuole perdere quei pochi fedeli rimasti sul suolo elvetico è meglio che si allei con i protestanti per offrire uno spazio di dialogo ecumenico, di incontro reale ai bisogni delle persone. Tu non sei una che andrebbe volentieri nella chiesa di Sant’Antonio, dove celebrano la messa in latino secondo il vecchio rito tridentino, credo. Ma se vuoi fare anche quell’esperienza lì, io ti ci accompagno, perché a Basilea c’è anche questo, uno spazio religioso per i cattolici conservatori, ma, ripeto, te non mi sembri fatta di quella pasta lì.
C’è anche la parrocchia italiana, se vuoi, che, anche se ha tratti un po’ folcloristici, piace molto al mio papà. Magari potresti incontrarci alcuni tuoi compagni di partito e se proprio vuoi andare a prender messa lì, non mi tiro indietro anche se, secondo me, volendo un po’ fare un’esperienza diversa, sarebbe meglio concentrarsi su ambienti nuovi.
C’è anche la chiesa riformata italiana a Basilea, che è legata a quella valdese, e il presidente della comunità è un italiano egittologo rettore dell’università. Vedi che chi ha capacità e titoli, seppur esperto di un argomento così specialistico come la coptologia, in Svizzera non fatica a far carriera anche ai massimi livelli? Senza bisogno dei fondi dello Stato italiano ovviamente.
Lo sai che a Basilea c’è la più antica università della Svizzera e lì ci hanno insegnato Erasmo, Nietzsche e anche Karl Barth? Erasmo è sepolto in cattedrale e ti ci accompagno volentieri a rendergli omaggio, se vuoi.
Insomma, cari Anna, Dario, Pierluigi e Rosy, venitemi a trovare e vi farò conoscere anche tanti italiani onesti e di sinistra che, siccome si son disamorati del PD locale, sono passati a SEL. Magari, a vedervi in una veste così informale e meno istituzionale, si riaffezionano e li convincete a tornare a votare PD.
Intanto io qui in montagna, proprio perché sono convinta che il qualunquismo sia la linfa che alimenta gli albori delle dittature, discuto con i miei cugini perché anche se non siamo più cattolici, non possiamo identificare l’anima nera del Vaticano con il cattolicesimo tout court. Così come i nostri padri, nonostante il fumo di Cervarolo, ci hanno insegnato che non tutti i tedeschi erano nazisti, in tutta questa vicenda abbiamo avuto modo di constatare che sì, è vero, il PD assomiglia proprio un po’ alla chiesa cattolica, con quella vocazione universale ad accogliere tutte le anime, da quelle più conservatrici ai dissenzienti, ma è un partito i cui rappresentanti sono anche persone perbene, che vivono ed intendono la politica come servizio alla collettività, senza sperperarne i denari faticosamente raccolti, in nome di un’idea che si richiama all’equità e alla giustizia sociale, alla trasparenza, alle pari opportunità, e non sempre si riempie la bocca di parole che andrebbero impiegate in tutt’altri contesti, come “rottamazione”, “enti pubblici privati” o “bellezza”.
Leggete prima Virginia Woolf e andate a vedervi il faro di Gita al faro se volete avere un’adeguata visione di bellezza, cari Anna-Dario-Pierluigi-Rosy! Fatevi un giretto per le vie di Modena di questi giorni, se volete vedere che cos’è una civiltà bellissima.
Io non c’ero quando la nostra terra ha tremato e adesso passeggio per le vie del centro di una città vuota e bellissima, spaventata ma non piegata dai crolli e dalle crepe che qui solo in parte l’hanno ferita e a pochi chilometri più a nord duramente colpita.
Finale, San Felice, Cavezzo, Medolla, Mirandola, San Possidonio, Concordia, Novi, Rovereto, persino Carpi: non ci sono pascoli e boschi ad ammorbidire la superficie della terra che è così piatta e così arsa da far quasi trovare normali le crepe che in questi mesi l’hanno lacerata. Non c’è un’altura, uno scudo di colline che possa delimitarne i confini, ma solo barriere atmosferiche di nebbia fitta in inverno e canicola di linee gialle insopportabili alla vista in estate. Per questo a noi modenesi della Pedemontana la Bassa è sempre sembrata una terra depressa: lo era economicamente in passato rispetto alla più prospera cintura industriale delle nostre colline e lo era per quei paesi desolati costruiti intorno a aride stradine, con basse case senza pretese e cumuli di pietre antiche trasformate in castelli e torri della memoria. La Bassa era depressa ma era sicura, mentre noi eravamo abituati a terreni più fragili e sconnessi. Ma una notte di maggio, a Finale, la torre dei Modenesi, il baluardo dei nostri confini, attraverso il quale i Veneziani facevano il loro ingresso ufficiale nelle terre del ducato, si è accartocciata e si è sbriciolata. E la gente della Bassa si è ritrovata senza più storia e senza un tetto sulla testa e quell’antica saggezza di saper vedere la realtà al di là delle apparenze (questo ci insegna la nebbia) improvvisamente dissolta.
Le case dure con i muri di pietra e mattoni e i tetti di tegole non hanno retto all’onda d’urto dell’imprevisto. Meglio le palafitte dei nostri antenati terramaricoli, piantate su un terreno instabile e insidioso, ma meno minaccioso di quello bonificato da secoli di cura e sudore.
Osservo la mia terra che trema e la gente che non crolla. Osservo le immagini della mia terra scossa e mi stupisco quasi perché, ancora una volta, la gente sopravvive, si rimbocca le maniche e “tiene botta”.
Ecco, questo è bello e questo è buono, kalòs kagathòs, cari compagni del PD della Svizzera e del parlamento italiano. La dignità della gente di Carpi e della Bassa, che tira su i ponteggi, ricostruisce, riparte a lavorare e non si lamenta. La tenacia della gente di Cervarolo che cucina lasagne in una domenica di luglio per racimolare quattro soldi perché il paese, sopravvissuto alla ferocia, sopravviva ora all’oblio e all’abbandono.
Questa è la bellezza senza retorica della poetica di Virginia Woolf, dei volti operosi della mia gente che traballa ma non crolla, di una città svuotata perché impaurita ma che sa conservare, anche se ferita nella sua integrità fisica, la sua integrità morale.
Altro che i miti kennedyani, anglicizzanti o eleveticizzanti di cui si alimenta una certa retorica riformista di partito che vorrebbe farci credere che sarà questo tipo di bellezza importata a salvarci! Per favore, Anna-Dario-Pierluigi-Rosy, stiam bene attaccati alle nostre radici e a questo tipo di bellezza che, in politica, non può che tradursi in gesti buoni, onesti, limpidi e concreti.
Comunque, adesso la smetto di appellarmi a questi vertici perché mi sembra quasi di essere un devoto che si raccomanda ai santi in paradiso e questi politici non sono affatto dei santi e la politica non è un paradiso.
Ma vorrei dire a tutti i qualunquisti, che siano miei fratelli, cugini, parenti o colleghi, che, in questi mesi in cui la politica che si fa a Roma mi ha sfiorato solo di striscio ma mi ha lasciato qualche segno come mai mi era capitato nella vita, io, che già sapevo che non è vero che i politici sono tutti uguali sennò non avrei scelto Massimo Mezzetti come presentatore di Puro amore o l’Adriana Querzè per le Fiabe dal nord, in questo giro ho avuto la conferma che non è vero che i politici del PD sono tutti uguali.
Ho conosciuto un Omino Politico con cui ho animatamente discusso perché lo ritenevo cieco e succube dei disegni di chi voleva farci la pelle, mentre ho scoperto una protervia, una forza morale al servizio dell’idea che, nel suo operato politico, vuole affermare al limite dell’utopia, che mi ha sorpreso e fatto capire come sia difficile lavorare per chi, in un partito, è incaricato di mediare, ricomporre fratture, cercare di far ragionare l’irragionevole.
Gli ho detto l’altra sera al telefono che, in tutta questa vicenda, ho conosciuto un volto marcio della politica e un volto buono e il suo è uno di questi volti buoni. Che io li ammiro, questi politici, (diciamo soprattutto le donne), che si fanno in quattro per servire, anche nelle più oscure e modeste vicende, il nostro povero paese e che, proprio perché non sono una qualunquista, gli raddoppierei lo stipendio a quei parlamentari (forse pochi, non lo so) che lavorano venti ore al giorno al servizio del paese. Non è riducendo i compensi dei parlamentari che si risana il bilancio di uno Stato così malandato, ma è distinguendo i buoni dai cattivi. Non è rimpatriando quei pochissimi insegnanti statali all’estero che si fa spending review, ma rilevando e decurtando con precisione gli sprechi. Non tutti i tedeschi erano nazisti e non tutti i politici sono brutti e cattivi. Le Donne Politiche della mia terra, per esempio, sono tutte bellissime e sono loro che, in questi mesi, mi hanno mostrato, insieme all’Omino, il volto buono della politica.
Resistere, resistere, resistere, informarsi, impegnarsi, discutere, distinguere, agire anche quando sembra impossibile che un bene piccolo piccolo possa vincere su un male più grande. Mai rassegnarsi alla Svizzera come destinazione finale. La Svizzera è un miraggio che abbaglia i poveri di tutto il mondo, ma soprattutto i poveri in spirito. Tutto è monetizzato, persino il diritto al suicidio che è legalizzato non per ragioni umanitarie ma per evitare i costi sociali che un atto incontrollato comporterebbe. Paghi le tasse e lo Stato ti dà gratis la droga, paghi e hai diritto alla migliore assistenza sanitaria del mondo, paghi e hai diritto al suicidio. In una recente classifica sul tasso di suicidi in quaranta paesi d’Europa, la Svizzera risulta essere al nono posto, l’Italia al ventisettesimo, la Grecia al trentacinquesimo. A forza di vivere in Svizzera si rischia di illudersi che tutto si possa comprare, ma io non so se poterci permettere di pagare il diritto al suicidio ci renda umanamente migliori o solo più disperati.
Adesso però mi fermo e riprendo a scrivere di Angelica, nella speranza che il PD la smetta di litigare e di avallare decisioni che vanno contro i suoi ideali di partito di sinistra e di non essere infine io costretta a scegliere fra la mia terra e un paese che è in grado di garantire un futuro a mia figlia, ma nel quale io non vorrei vivere né morire.

Sull’eccidio di Cervarolo segnalo il film “Sopra le nuvole” di Riccardo Stefani e Sabrina Guigli.

da http://www.dtazzioli.blogspot.it/2012/07/le-donne-politiche-sono-bellissime-e.html

"Contrattazione di scuola: disposizioni minuziose della Ragioneria Generale", da La Tecnica della Scuola

Contrattazione di scuola: disposizioni minuziose della Ragioneria Generale
Emanata una circolare molto dettagliata che impone la redazione di due minuziose relazioni da allegare all’ipotesi contrattuale: relazione illustrativa e relazione tecnico-finanziaria. Non si potranno inserire nei contratti disposizioni relative alla organizzazione del lavoro. Una nuova incombenza amministrativa sta per abbattersi sulle scuole.
Il problema si porrà già nei primi giorni di settembre, con l’apertura del nuovo anno scolastico.
La novità riguarda la contrattazione integrativa di istituto per la quale la Ragioneria generale dello Stato ha emanato una minuziosa circolare applicativa.
In pratica al contratto di scuola dovranno essere allegate una dettagliata “Relazione illustrativa” ed una ancor più analitica “Relazione tecnico-finanziaria”.
Su entrambe le relazioni dovrà essere espressamente acquisito il parere favorevole dei revisori dei conti in assenza del quale il contratto non potrà essere sottoscritto.
Le due relazioni (molto ampie ed estremamente analitiche) passano al setaccio tutte le possibili variabili del contratto.
“La redazione della relazione illustrativa e della relazione tecnico-finanziaria – chiarisce nella circolare la Ragioneria – deve essere effettuata in modo da rendere comprensibile, anche al cittadino, e verificabile, in particolare dall’Organo di controllo chiamato alla certificazione, ogni modulo, sezione, voce o sottovoce di cui è composta. Si raccomanda perciò un linguaggio semplice, chiaro e con riferimenti verificabili oggettivamente”.
Ovvii e scontati alcuni aspetti soprattutto quelli di natura economica, ma non mancano riferimenti che – quasi certamente – provocheranno le rimostranze delle organizzazioni sindacali.
Per esempio, la Ragioneria sottolinea che “ai fini di validazione del contratto integrativo l’organo di controllo deve attestare norma per norma la compatibilità legislativa e contrattuale dell’ipotesi di contratto” , in altre parole se l’ipotesi di contratto contiene anche una sola disposizione considerata illegittima non sarà possibile sottoscrivere il contratto definitivo.
Ma, a scatenare il contenzioso, sarà di sicuro questo passaggio: “Va rammentato che a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 150/2009 sono disapplicate le disposizioni dei CCNL che demandano alla sede integrativa la contrattazione degli istituti relativi all’organizzazione del lavoro ed alla gestione del rapporto di lavoro. Di tali istituti è peraltro consentita esclusivamente l’informazione (es. formazione, articolazione dell’orario di lavoro, aspetti non retributivi legati alla turnazione o alle posizioni organizzative, sistemi di valutazione, profili professionali, eccetera)”.
Stupisce, piuttosto, che le organizzazioni sindacali del comparto scuola non si siano ancora fatte sentire, visto che la circolare è stata diramata più di una settimana fa.

La Tecnica della Scuola 30.07.12

"Sanità, strutture da ripensare e ricoveri brevi", di Umberto Veronesi

Penso che le liste d’attesa in sanità siano un problema strutturale che non può essere risolto con interventi regolatori estemporanei: decreti e ingiunzioni che stabiliscono tempi massimi non servono. Bisogna intervenire sulle cause e le condizioni che creano nelle strutture ospedaliere l’impossibilità di rispondere al bisogno reale di salute dei cittadini. Da tempo affermo che è necessaria una ristrutturazione profonda del sistema ospedaliero, che rifletta più fedelmente la medicina moderna. Il ruolo dell’ospedale va ripensato nel suo insieme . Innanzitutto la diagnostica deve essere separata dalla terapia e deve essere accessibile «sotto casa», per fare in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di ottenere una diagnosi tempestiva, senza dover affrontare grandi spostamenti. L’ospedale deve svolgere due funzioni : l’ approfondimento diagnostico e la terapia. Deve essere altamente tecnologizzato e contemplare ricoveri brevi per avere un ricambio frequente di pazienti, che devono restare in ospedale lo stretto tempo necessario per ricevere le cure adatte alla fase «acuta» della loro malattia.

E qui sta la chiave per risolvere il problema delle liste d’attesa : la degenza media in ospedale, dai sei/sette giorni attuali deve ridursi a tre/quattro giorni. Per ottenere questo e dimettere i pazienti precocemente, dovrebbe sorgere nelle vicinanze dell’ospedale una struttura di «accoglienza protetta», dove i pazienti possono restare il periodo che occorre per una buona ripresa, senza occupare un letto necessario per chi si deve sottoporre ad un intervento terapeutico. Questa è la soluzione adottata dai sistemi sanitari più avanzati a livello internazionale ed ha dimostrato di essere ottima per una efficienza globale del sistema ospedaliero. Con una rete diagnostica territoriale e la riduzione drastica della degenza media, il problema delle liste d’attesa per esami e ricoveri si annullerebbe automaticamente.

La liste d’attesa sono un problema quasi ovunque e non credo siano influenzate dalla Spending Review. Stiamo parlando di riorganizzare e razionalizzazione un sistema complesso, in fase di profonda trasformazione in tutto il mondo. Bisogna anche sottolineare che questa trasformazione è difficoltosa, ma estremamente positiva per i malati e i loro familiari. Il principio fondante della concezione di ospedale moderno è infatti, accanto all’eccellenza della cura, l’ attenzione alla qualità di vita della persona, un parametro fino a ieri inesistente nella progettazione ospedaliera. Certo, la soluzione strutturale profonda ai problemi sanitari richiede un investimento pubblico che in questo momento sembra un’utopia. Al contrario, proprio ora, io credo che sia un dovere investire nel rilancio dei lavori pubblici – in particolare in un’area strategica come la sanità che possono fare da volano a molti settori e contribuire a ridarci il bene più prezioso che la temporanea situazione di crisi ci ha sottratto : la fiducia nel futuro.

La Stampa 30.07.12

"Le pasionarie", di Anais Ginori

«Siamo contro la violenza, non abbiamo rancori verso nessuno. Dietro al nostro sorriso ci sono le lacrime e il nostro sarcasmo è una reazione al caos». Nell’ultima lettera dal carcere, appena qualche giorno fa, le attiviste russe di Pussy Riot rivendicano con orgoglio la loro battaglia. Da oggi le tre ragazze affrontano il processo con l’accusa di “atti vandalici”. In realtà, la loro colpa è aver cantato il 21 febbraio, a pochi giorni dalle elezioni, una preghiera rock dentro alla chiesa moscovita Cristo Salvatore. “Madre di Dio, liberaci da Putin”, era il ritornello. Maria Alekhina, Nadezhda Tolokonnikova e Yekaterina Samutsevich, arrestate a marzo, rischiano fino a sette anni di carcere. In favore della loro liberazione si sono mobilitate star come Madonna e Sting, ma anche intellettuali come Salman Rushdie.
Con i loro volti sbarazzini, le Pussy Riot sono le ultime icone di una contestazione al femminile, ormai globalizzata. Dalla primavera araba ai cortei studenteschi in Cile, dai gruppi dissidenti in Iran e in Cina fino all’opposizione cubana, sempre più spesso la protesta è donna. Non si tratta, come un tempo, di farsi portavoce di rivendicazioni femministe, almeno non solo. Le giovani che lanciano il guanto di sfida contro le dittature lo fanno in nome di diritti e libertà universali. Cavalcano l’onda di Internet, molte di loro sono blogger, ma sanno scendere in piazza, mettersi in gioco fisicamente, usando il proprio corpo, vedi il gruppo ucraino Femen che sfila a seno nudo. Donne contro. Con forza e coraggio, come e più degli uomini. L’esempio che vale per tutte è quello di Aung San Suu Kyi che ha scelto di sacrificare tutto, affetti e famiglia, in nome della sua battaglia democratica. La leader dell’opposizione birmana ha accettato di passare gran parte della vita in prigione costringendo infine il regime dei generali birmani ad ascoltare alcune delle sue richieste. Non è più un’eccezione. Il Nobel per la Pace del 2011 è andato a tre donne: la yemenita Tawakkul Karman e le due liberiane Leymah Gbowee e Ellen Johnson-Sirleaf. Certo, sono casi diversi. Johnson- Sirleaf è stata eletta presidente del suo paese, lavorando alla riconciliazione dopo la guerra civile. Ma tutte rappresentano, secondo il comitato di Oslo, la «lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo
di pace». Un altro volto femminile che coalizza proteste e manifestazioni è quello di Yulia Tymoshenko, guida dell’opposizione in Ucraina, arrestata
un anno fa. Molti i sostegni internazionali che ha ricevuto, per ora senza risultati. Prima ancora, c’era stata la franco-colombiana Ingrid Betancourt, sequestrata dai guerriglieri delle Farc e liberata solo dopo sei anni.
Pasionarie, ribelli, barricadiere. Per ognuna di queste donne c’è la tentazione di dare facili etichette anche se nessuna di loro si assomiglia. Niente collega la studentessa Camila, che con la sua bella faccia ha reso famose le istanze del movimento cileno per la difesa dell’istruzione pubblica, con la cubana Yoani Sánchez che denuncia attraverso il suo blog gli abusi del regime castrista. Spesso sono eroine per caso, come Neda, la ragazza iraniana uccisa tre anni fa e divenuta simbolo dell’opposizione contro il regime degli ayatollah. Al di là dei risultati politici, infatti, la protesta al femminile ha un forte impatto comunicativo. I video online delle Pussy Riot, con i loro blitz colorati e punk contro Putin, Medvedev e altri potenti di Mosca, sono molto più cliccati che qualsiasi comunicato o sito dell’opposizione russa. La loro apparizione al processo, trasmesso in diretta, diventerà un’altra occasione di mobilitazione. Ci sarebbe stata così tanta attenzione dai media se al posto delle tre graziose ragazze ci fossero stati degli imberbi giovanotti?
«Non basta una bella faccia per portare in piazza un milione di studenti e genitori, ed avere il sostegno della maggioranza dei cileni», ha risposto qualche mese fa Camila Vallejo Dowling, 23 anni, quando era al culmine della sua notorietà. Ma c’è anche chi ha deciso di sfruttare questo vantaggio. «Prima sfilavamo normalmente e nessuno ci ascoltava. Per questo abbiamo deciso di spogliarci» raccontano le attiviste ucraine di Femen, che hanno trasformato la nudità in un atto di militanza politica. Hanno lottato (invano) contro la prostituzione e i bordelli organizzati nel paese in vista degli europei di calcio. Sono andate nelle strade di Kiev senza magliette, a volte anche solo con gli slip, e pazienza se faceva freddo. Bionde, magre, bellissime. Una militante di Femen si è buttata addosso al patriarca della chiesa ortodossa russa Kirill, come gesto di solidarietà con le Pussy Riot. “Via da qui!” ha urlato la donna, jeans e petto nudo, sostenuta da un gruppo di nazionalisti. Anche lei è stata arrestata per “atti vandalici”.
Qualche mese fa, la blogger egiziana Aliaa Magda Elmahddy ha postato su Twitter un autoritratto nel quale appariva in bianco e nero, con calze autoreggenti e solo un fiore rosso tra i capelli. Voleva denunciare così la doppia minaccia che subiscono le donne della primavera araba: quella dei militari e quella degli integralisti islamici. In Tunisia, dove pure la rivoluzione contro le dittature è incominciata, un’altra attivista, Hanane Zemali, si è spogliata in Rete contro il maschilismo e il ritorno della sharia. Altre ragazze discinte hanno sfilato nelle strade di Gerusalemme sfidando gli ultraortodossi. L’artista dissidente cinese Ai Weiwei si è fatto fotografare circondato da quattro donne. Tutti svestiti,
con le mani sulle parti sensibili, e un sorriso beffardo.
Il corpo femminile è tornato a essere il medium e il messaggio. L’arma pacifica da scagliare contro l’oppressione e l’ingiustizia. E’ sempre stato così, basti ricordare la leggenda di Lady Godiva, sposa del conte di Coventry che calvalcò nuda per costringere suo marito a rinunciare all’ennesimo balzello. E nell’Ottocento il pittore Delacroix riprendeva Marianne come allegoria della “Libertà che guida il popolo”, una guerriera con il seno parzialmente scoperto. Sono passati quasi due secoli ma il fascino della donna rivoluzionaria, colei che insorge, è intatto. Anzi, nella civiltà delle immagini, è diventato forse ancora più forte. Con le loro minigonne colorate e quel nome ammiccante, le Pussy Riot sono già un simbolo. Amnesty International ne ha chiesto la liberazione, dichiarandole prigioniere politiche. Per loro, si organizzano petizioni, sit-in davanti alle ambasciate, concerti rock. Tre ragazze disarmate, indifese ma molto sexy contro l’onnipotente e virile Putin. Mai sottovalutare la forza di un’icona.

La Repubblica 30.07.12

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L’opinione del sociologo francese Alain Touraine “Sono in prima linea perché è in crisi il modello maschile”

«LE donne stanno diventando motore di un cambiamento politico perché possono immaginare un altro modello sociale dopo che quello maschile, ormai vecchio di secoli, è entrato in crisi». Alain Touraine è convinto che i casi, piccoli o grandi, di leadership femminile nelle contestazioni sono destinati a moltiplicarsi. «Ci sono casi marginali e altri più centrali, ma comunque osserviamo l’apparizione di nuove voci nella scena pubblica» racconta il sociologo francese che ha pubblicato qualche anno fa “Il mondo
è delle donne”.
Anche delle donne che guidano le proteste?
«Intanto bisogna sottolineare che non è un fenomeno completamente nuovo. Una delle rivolte francesi più famose è stata condotta da Giovanna d’Arco. In passato, sono già esistiti molti personaggi femminili di rottura e sfida al potere esistente. Quindi facciamo attenzione a non cadere in facili pregiudizi o stereotipi».
Eppure lei prevede un nuovo protagonismo.
«Siamo in una fase storica propizia alle donne. Nei movimenti studenteschi, per esempio, in Iran come in Cile, le ragazze sono in prima linea perché sono già maggioranza nelle università. Le donne non solo partecipano ma portano dentro a queste proteste anche il tema della parità. E’ un processo che va avanti da decenni in Occidente, mentre altrove è più recente».
C’è una differenza con le rivendicazioni guidate da voci maschili?
«Sono sciocchezze. Non credo a una psicologia femminile predeterminata che possa imprimere una differenza “naturale”. Le caratteristiche semmai sono il frutto di una costruzione sociale, e come tali non devono essere assimilate al sesso ma al contesto nel quale si producono. La vera diversità delle donne viene dall’esperienza di cui sono portatrici».
Di quale esperienza sta parlando?
«Le donne sono state rinchiuse per secoli nel privato. La loro irruzione nello spazio politico è la fine di una vistosa assenza. Sono portatrici, non per caratteristiche psicologiche ma storiche, di un nuovo interesse per la sfera pubblica, proprio in quanto tradizionalmente escluse».
E in nome di questo passato sarebbero oggi più pronte ad alzare le barricate?
«Gli uomini hanno esaurito la loro capacità di immaginare un mondo nuovo, rappresentano un modello politico vecchio. Le donne sono, per così dire, avvantaggiate perché oggi fare politica significa riconciliare pubblico e privato. Le rivendicazioni femminili sono globali, hanno un discorso più inclusivo».
Il mondo sarà cambiato dalle donne?
«E’ un processo lungo e che non dobbiamo valutare con gli occhi del passato. Gli uomini sono rivoluzionari, le donne sono democratiche. Sono capaci di elaborare progetti di riforma di società. S’impegnano sulla difesa di libertà, uguaglianza, solidarietà. Sono anche le prime vittime delle dittature, degli abusi, delle ingiustizie. E come tali hanno più interesse a immaginare un cambiamento. Non per se stesse, ma per tutti».

La Repubblica 30.07.12

"L’ultima trattativa", di Simone Collini

Premio di governabilità al primo partito, ma superiore al 10%, e parlamentari eletti con un sistema misto: una quota maggioritaria scelta attraverso i collegi uninominali e una quota minoritaria attraverso il sistema delle liste bloccate. Un accordo, su tali basi, è possibile. Anche se è chiaro a tutti a questo punto che il problema non è di tipo tecnico, ma politico. E basteranno pochi giorni per capire se Berlusconi voglia soltanto rinsaldare l’asse con la Lega, anche a costo di mettere a rischio la legislatura e andare a un voto anticipato che per lui sarebbe sfavorevole, o se la volontà di superare il Porcellum insieme alle altre forze che sostengono Monti sia reale.

Pd e Pdl sono al muro contro muro, ma i contatti tra i vari sherpa non si sono interrotti e non è neanche escluso che in settimana ci sia l’incontro dei leader della «strana maggioranza» sollecitato da Casini. L’ultima trattativa ha poco tempo per riuscire o fallire, ora che il Pdl presenterà in Senato la sua proposta di legge.

Il testo che domani verrà portato in commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama prevede un sistema proporzionale con eletti scelti per il 70% con le preferenze e il 30% con liste bloccate, uno sbarramento al 5% e un premio di governabilità tra il 10 e il 15% da assegnare al partito che arriva primo. Una proposta che il Pdl dice di voler proporre come base di discussione alle altre forze che sostengono Monti e anche alla Lega. Il Pd porterà in commissione un progetto di legge depositato diversi mesi fa che prevede il doppio turno di collegio alla francese, ma intende anche inserirsi nella discussione sul testo Pdl.

Bersani vuole prima di tutto capire se a muovere Alfano sia la volontà di ricostituire l’alleanza con la Lega in vista delle prossime elezioni. Il Pd vuole vedere allora se il Pdl accoglierà le richieste messe sul piatto da Maroni. Inaccettabile, per i Democratici, sarebbe non tanto la proposta di inserire una clausola salva-Carroccio (se un partito non supera lo sbarramento a livello nazionale può comunque eleggere parlamentari nel caso in cui superi la soglia in almeno tre regioni). La norma su cui preme la Lega e che per il Pd costituisce una vera e propria trappola (proprio come la «porcata» ideata da Calderoli nel 2005 per evitare a Prodi di avere una chiara maggioranza) è quella secondo cui il premio di governabilità possa essere assegnato soltanto nel caso in cui si raggiunga il 45% dei consensi. Sarebbe un modo, dicono al Nazareno, per costringere alle alleanze forzose, oppure condannare all’instabilità, oppure obbligare alle larghe intese anche nella prossima legislatura.

OCCHI PUNTATI SUL SENATO

Nel caso in cui il Pdl dimostrasse nelle prossime ore di voler puntare all’asse con la Lega, il Pd al Senato non solo si metterà di traverso, ben sapendo che il rischio di un’approvazione definitiva a Montecitorio è alto (contrariamente a quello che avverrà col semipresidenzialismo, che riguardando una riforma costituzionale e quindi necessitando di quattro letture tra le due Camere finirà nel nulla): la conseguenza di un voto a maggioranza sulla legge elettorale sarebbe il voto anticipato.

Il Pd ha messo la pistola sul tavolo

sapendo che ci sono pochi giorni per condurre l’ultima trattativa. Il testo che domani viene portato in commissione dal Pdl può effettivamente costituire la base per arrivare a un’intesa. Gli sherpa non hanno chiuso la comunicazione, e hanno ripreso la discussione da dove si era interrotta l’altra settimana: Pd, Pdl e Udc erano arrivati a un passo dall’accordo su un testo che prevedeva un premio sostanzioso al vincitore e parlamentari eletti con un sistema misto. Poi Berlusconi ha fatto saltare tutto.

Ora si riparte da lì. Il Pd, che chiede il premio di governabilità per la coalizione, potrebbe cedere su questo punto accettando che una quota di seggi venga assegnata «alla lista o alle liste apparentate», purché il premio sia superiore al 10%. Il Pdl dovrebbe invece rinunciare alle preferenze, chieste nel partito di Berlusconi soprattutto dagli ex An, a favore dei collegi uninominali. Nei colloqui di queste ore tutti assicurano che una rottura è da evitare. Basteranno pochi giorni per capire se sia proprio così per tutti.

L’Unità 30.07.12

"Crescono i disabili disoccupati "in Italia sono 750 mila"", di Valentina Santarpia

«Le faremo sapere»: la frase, poco incoraggiante per un disoccupato, diventa micidiale per un disabile. In Italia sono 750mila le persone con handicap iscritte alle liste di collocamento obbligatorio: secondo le stime dell’Istat, l’80% dei diversamente abili denuncia di aver cercato lavoro senza trovarlo. Una percentuale più ampia anche di quel 50-70% dei disabili che, in base ai dati Onu, è senza lavoro nei Paesi industrializzati. C’è di più: solo il 17% dei diversamente abili occupati nel nostro Paese afferma di aver trovato lavoro grazie ai centri per l’impiego, mentre il 31% si è affidato alla rete di parenti e amici, il 20% ha partecipato a un concorso pubblico e solo il 16% ha inviato un curriculum in risposta agli annunci. Una situazione pesante per chi si trova tagliato dal mondo della produttività, ma anche un costo sociale per l’intera collettività: lasciando fuori dal mercato del lavoro i disabili si brucia tra l’1 e il 7% del Pil (Prodotto interno lordo) secondo le stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo).
La crisi ha inevitabilmente peggiorato le cose: tra il 2008 e il 2009 l’occupazione di chi è costretto su una sedia a rotelle o vive qualche altra forma di handicap, si è ridotta di oltre un terzo. «La recessione ha aggravato la situazione perché le aziende in crisi possono chiedere la sospensione dagli obblighi di assunzione dei disabili, previsti dalla legge 68 del ’99», spiega la responsabile Politiche per le disabilità della Cgil , Nina Daita. È così che il 25% dei posti da assegnare ai disabili (oltre 65mila nel 2009) nel pubblico come nel privato rimangono scoperti. E ciò nonostante il costo del lavoro per un disabile, come ha notato anche il Wall Street Journal commentando la riforma del lavoro Monti, sia ridotto del 35%.
«La verità è che le aziende approfittano della situazione per non assumere il 7% di portatori di handicap previsto dalla legge», ribatte Pietro Barbieri, presidente dell’Associazione Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap). Qualche esempio? La Sigma Tau quando ha dichiarato lo stato di crisi ha licenziato tutte le persone che avevano permessi lavorativi ai sensi della legge 104, per la disabilità, quindi tutti portatori di handicap oppure parenti di disabili. La nuova Alitalia, che nasceva a conti zero, grazie all’allora ministro Sacconi ha ottenuto una deroga per non assumere disabili. Un ultimo caso: tutte le imprese che usufruiscono dei Tremonti bond, come ad esempio il Monte dei Paschi di Siena, non hanno l’obbligo di assumere diversamente abili. «Il problema quindi non è la legge, che è un ottimo strumento, ma l’applicazione — sottolinea Barbieri —. I controlli dovrebbero svolgerli i centri per l’impiego: che non funzionano bene, e lo dimostra il fatto che il 37% non è accessibile ai diversamente abili».
Qualcosa però potrebbe cambiare: la riforma del lavoro firmata da Elsa Fornero ha acquisito alcune delle proposte delle associazioni. La legge 68 verrà applicata anche ai contratti a somministrazione, oltre che a quelli a tempo indeterminato. Sarà ripristinato l’obbligo, da parte delle aziende sia pubbliche che private, delle posizioni scoperte: così si saprà dove sono i posti di lavoro. E infine il governo si è assunto l’impegno di rivedere le modalità per esonerare le aziende dall’obbligo di assunzione delle persone con handicap. «Perché assumerci non è un rischio — conclude Barbieri —. Io dalla mia carrozzina riesco a dirigere una cooperativa di 60 persone e non mi sembra di rappresentare un problema».

Il Corriere della Sera 30.07.12

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Portatori di handicap esclusi dal mondo produttivo e costretti a vivere nella dipendenza statale. L’Ilo: bruciato quasi il 7% del Pil

Lo slalom tra gli invii di curriculum, i concorsi, i centri per l’impiego e i tanti «le faremo sapere» della ricerca di lavoro diventa una missione impossibile per chi è costretto su una sedia a rotelle o vive qualche forma di handicap. Tra il 50 e il 70% dei disabili nei paesi industrializzati è disoccupato, secondo dati dell’Onu. È una situazione pesante per chi si trova tagliato fuori dal mondo produttivo e costa anche all’intera collettività, che brucia in questo modo tra l’1 e il 7% del Pil, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo).

«Il potenziale di moltissime donne e uomini disabili rimane non sfruttato e non riconosciuto lasciando la maggior parte di loro a vivere nella povertà, nella dipendenza e nell’esclusione sociale», si legge nel rapporto dell’Ilo “L’occupazione per la giustizia sociale e una globalizzazione equa. Disabilità”.

In Italia sono, secondo la Cgil, sono oltre 750 mila le persone con handicap iscritte alle liste di collocamento obbligatorio e dalla prima ondata della crisi, tra il 2008 e il 2009, l’occupazione dei disabili si è ridotta di oltre un terzo. La recessione ha aggravato la situazione perché «le aziende in crisi possono chiedere la sospensione dagli obblighi di assunzione dei disabili previsti dalla legge 68/99, una legge avanzata, solidale e innovativa ma che resta inapplicata perché mancano le ispezioni», spiega la responsabile politiche per la disabilità del sindacato, Nina Daita. È così che il 25% dei posti da assegnare ai disabili (oltre 65 mila nel 2009), nel pubblico come nel privato, rimangono scoperti.

La situazione è tale che la Commissione europea ha citato nel giugno scorso l’Italia davanti alla Corte di Giustizia Ue per l’incompleto recepimento della direttiva 2000/78 sulla lotta alla discriminazione sul lavoro. La normativa comunitaria impone infatti ai datori di lavoro di prendere i provvedimenti appropriati per consentire alle persone disabili di accedere ad un’occupazione e di progredire nella carriera, un obbligo non pienamente previsto, secondo Bruxelles, dalla legge italiana. Solo il 17% dei disabili occupati in Italia afferma di aver trovato lavoro grazie ai centri per l’impiego, secondo l’ultima indagine Istat (2004), mentre il 31% si è affidato alla rete di parenti e amici, il 20% ha partecipato a un concorso pubblico e il 16% ha inviato curriculum in risposta agli annunci. La ricerca è quasi sempre lunga e molto difficile, l’80% dei disabili, per esempio, denuncia di aver cercato lavoro senza trovarlo.

La Stampa 30.07.12