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"La doppia sfida per il Professore", di Guido Crainz

Non è possibile nessuna discussione sul presente e sul futuro, nessuna valutazione sul governo Monti e sul “dopo Monti”, se non vi è un giudizio condiviso su due aspetti centrali. Vi è da un lato la situazione economica internazionale, la più grave conosciuta dalle generazioni cresciute dopo la guerra: forse mai, neppure nella crisi petrolifera degli anni Settanta, l’incertezza per il futuro è stata così forte, le incognite così dense, e così presente il rischio di un precipitare disastroso degli eventi. Evi è d’altro lato un rifiuto della “politica esistente” che non è stato così radicale neppure nell’inabissarsi della “prima Repubblica”.
Sul primo versante appare sempre più decisiva la capacità del governo di ridare al Paese quella credibilità e quel prestigio internazionale che Berlusconi aveva mandato in cenere. E di trasformare progressivamente non solo modi di governare ma anche modi di essere profondamente radicati: entrambi gli elementi sono alle origini dell’abnorme debito pubblico che da vent’anni incombe come un macigno, pesantissima eredità dei dissennati anni Ottanta.
Il poco dignitoso sfaldarsi del Popolo delle Libertà e della Lega rende ancora più evidente l’irresponsabilità e l’inconsistenza politica di un centrodestra che ha largamente improntato di sé la “seconda Repubblica”. E che talora tenta ancora di impartire lezioni dal basso dei suoi fallimenti e delle sue demagogie. Non si dimentichi che all’indomani delle elezioni ammini-strative di un anno fa sia Berlusconi che Bossi pensarono perfino di trovare l’“antidoto” alla propria sconfitta in misure fiscali “popolari”: destinate — se attuate — ad accelerare il disastro.
In questo ignorare o sottovalutare la gravità della bufera internazionale, in questo prescindere dalle dure pregiudiziali che sono obbligatorie per avviare la ripresa, il centrodestra purtroppo non è sempre solo. Si pensi ad esempio a taluni aut aut che Di Pietro e Vendola pongono talora al Partito democratico. L’aut aut vero lo ha imposto l’emergenza drammatica cui il centrodestra ha portato il Paese: il banco di prova è stato costituito dal governo Monti e dalle scelte da compiere di fronte ad esso. Il Partito democratico ha deciso di sostenerlo, pur conoscendo i limiti inevitabilmente posti da un Parlamento nato con una forte maggioranza di centrodestra. L’Italia dei valori e Sinistra e libertà — sia pure in forme molto differenti — hanno compiuto sostanzialmente un’altra scelta, e oggi la ribadiscono senza riflessioni autocritiche: hanno messo cioè al primo posto la propria identità e la propria parzialità. Si sono ispirate alla stessa logica che portò la Rifondazione di Bertinotti ad affondare il primo governo Prodi, di gran lunga il miglior governo della “seconda Repubblica”. Qui c’è un discrimine vero, e fa bene il Partito democratico a tenerlo fermo, ma proprio la gravità della crisi impone al tempo stesso di dare alimento alla speranza e di fornire risposte reali a quelle esigenze di equità sociale che non hanno trovato sin qui lo spazio necessario. In altri termini, rende sempre più urgente passare dall’emergenza alla costruzione di futuro e mettere in campo proposte limpide di buona politica, capaci di mettere in moto energie nuove. E giovani.
Qui vi è l’altro, drammatico versante della nostra crisi: l’esplodere di un rifiuto della “politica esistente” che ha trovato soprattutto in se stesso le proprie ragioni. Non ha avuto bisogno di alimentarsi con ansie e pulsioni “territoriali”, come è stato vent’anni fa nel successo leghista. E non ha avuto il supporto della “demagogia del miracolo” del Cavaliere. Né ha dovuto ricorrere a un programma convincente e a proposte credibili: anzi, è sembrato affermarsi proprio grazie a questa duplice assenza e grazie a un leader esplicitamente “non candidabile” alla guida del Paese. Le difficoltà del “movimento cinque stelle” all’indomani del suo primo trionfo non lo hanno certo frenato, e non devono comunque far rimuovere il drammatico problema di disaffezione e di sfiducia che è alla base di esso. O i tracolli anche etici della “seconda Repubblica”.
Da molti mesi è sempre più evidente e urgente la assoluta necessità di una radicale riforma della politica, dei suoi “costi” e del suo modo di essere, eppure nulla o quasi è stato fatto. È gravissima l’inconcludenza dei partiti su questo tema, ed è ancor più grave la pochezza delle proposte prese faticosamente e lentamente in considerazione. Vi è qui un vero abisso fra il loro orizzonte e quello che il Paese si attende: due linguaggi e due modi di pensare lontani anni luce. Ma qual è oggi il punto di vista decisivo? A quale è necessario riferirsi per ritessere il rapporto lacerato fra gli italiani e i loro rappresentanti? Fra i cittadini e le istituzioni? A questa domanda è sempre più necessario rispondere, perché senza un rinnovamento profondissimo su questo terreno non è possibile rimettere in moto il Paese. Non è possibile riformare le sue strutture e al tempo stesso taluni modi di essere ampiamente diffusi.
I mesi stessi che sono trascorsi dalla fine del governo Berlusconi fanno oggi sembrare davvero fuori stagione le proposte precedenti: a partire da un “nuovismo” già invecchiato che sembra quasi prescindere dalle incognite reali che incombono. Sarebbe altrettanto inadeguato del resto — o meglio, impraticabile e suicida — un centrosinistra capace di mettere in campo solo una sommatoria di esponenti di partito. Una riforma radicale della politica e delle sue dinamiche si basa anche sulla capacità di proporre una forte innovazione e un forte ricambio generazionale. E di indicare al tempo stesso una possibile squadra di governo che non prescinda dall’esperienza di questi mesi ma prenda avvio da essa per andare oltre. Essa esige cioè che il gruppo dirigente del centrosinistra si assuma per intero le sue responsabilità: e forse ci si potrebbe anche chiedere se in questo percorso le primarie siano davvero la via unica e decisiva, o comunque sufficiente. Una domanda, solo una domanda: ad essa ciascuno può rispondere secondo le proprie valutazioni e le proprie riflessioni ma forse non andrebbe rimossa.

La Repubblica 30.07.12

"Due aziende su tre riaperte dopo il sisma", di Francesco Alberti

Due su tre sono tornati. E se il bicchiere mezzo vuoto è quel 39% di imprenditori che ancora non si sono rialzati e non dormono la notte al pensiero di quanti mesi dovranno passare prima di poter riaccendere i motori, è su quel 61% di «risorti» che trae linfa la ricostruzione emiliana: un’avanguardia di sopravvissuti che a forza di domeniche e ferie cancellate, a testa bassa, notte e giorno, inventandosi soluzioni in una sorta di «fai da te» creativo quanto coraggioso, ha riallacciato i fili con il mercato, recuperato fornitori e clientela, alla faccia di chi parlava di inevitabile desertificazione, dando per spacciato il modello industriale di questa porzione d’Emilia, miracoli annessi. La strada è in salita. La crisi non fa sconti a nessuno, figurarsi ai terremotati. E gli eterni mali italiani (estenuante burocrazia, legislazione farraginosa, crediti con il contagocce, una politica spesso inconcludente), visti e vissuti dall’epicentro, fanno ancora più male, oltre che rabbia. Però sono tornati: grandi imprenditori e piccoli artigiani, botteghe e multinazionali, commercianti e bancarelle. Con una grinta quasi sfacciata. Più del 50%, provando ad immaginarsi tra 5 anni, si dice certo di «potersi ricollocare ai livelli di produttività di prima del terremoto». E, addirittura, c’è un 25% che, forse per farsi coraggio o perché davvero ci crede, la spara grossa: «Nel 2017 saremo più forti di prima».
Oggi sono due mesi dalla seconda scossa, quella che diede il colpo di grazia. Era il 29 maggio scorso e fu una frustata del 5.8. Appena un decimo inferiore a quella del 20 maggio (5.9) e leggermente più potente di quella del 3 giugno (5.1). Una mitragliata sismica che uccise 26 persone, ne ferì più di 300, si lasciò dietro quasi 20 mila sfollati, mandando in tilt uno dei forzieri economici del Paese (35 mila aziende per 120 mila addetti). I morsi della terra addentarono brandelli di Emilia (Modena, Ferrara, Reggio Emilia, Bologna), Lombardia (Mantova) e Veneto (Rovigo), provocando danni per 13 miliardi (quantificati due giorni fa dalla Protezione civile alla Ue) e azzoppando comparti economici (biomedicale, meccanica, agroalimentare) pari al 10% del Pil regionale e all’1,5% di quello nazionale. Due mesi dopo non è ancora tempo di bilanci, c’è ancora tanto da fare (si pensi solo all’emergenza scuole in vista dell’autunno), ma un punto fermo era necessario e la Cna nazionale ha affidato alla società Ipsos Pubblic Affairs il compito di infilare la sonda nella pancia del sisma. Un lavoro di una settimana (18-25 giugno) su un campione di 200 imprese, 120 direttamente colpite dal terremoto, 80 situate nelle vicinanze.
Finale Emilia, Cavezzo, Medolla, Mirandola, Sant’Agostino, Cento, Bondeno, Moglia e tanti altri. Ognuno con il suo simbolo di distruzione: un capannone, un campanile, un intero centro storico. È una foto a luci e ombre quella che emerge dall’indagine Ipsos. Grinta e ottimismo a parte, gli imprenditori non fanno sconti a nessuno. Se l’emergenza viene complessivamente giudicata in termini positivi (con Protezione civile, volontari e forze dell’ordine promossi su tutta la linea), il dopo lascia a molti l’amaro in bocca: lungaggini burocratiche, speculazioni, scarsa comprensione del danno, inadeguatezza nei rapporti con le banche, incertezza legislativa. A parte il volontariato e i mille rivoli in cui si è incanalata la solidarietà, il maggiore sostegno alle imprese è giunto, stando ai risultati del report, dalle organizzazioni di categoria, seguite a distanza dalla clientela, dai fornitori e quindi dallo Stato. Più distante, questa almeno la percezione, l’apporto dei Comuni e delle banche, mentre Regione e Camere di commercio sono relegate in coda. Tra i rischi futuri, i principali riguardano i tempi dei risarcimenti e la difficoltà di ottenere l’agibilità sismica al 60% prevista dalla legge. Le richieste? Aiuti finanziari, credito e garanzie per la ripresa, sospensione di mutui e scadenze fiscali. Ieri Roma ha battuto un colpo: 6 miliardi di fondi agevolati dalla spending review e la sospensione per 6 mesi dei pagamenti di luce, gas e acqua. Avanti così.

"L'estate calda della scuola fra tagli di spesa e disservizi", di Salvo Intravaia

Tagli alla scuola, aumento delle tasse universitarie 1,caos nei test 2 per accedere ai corsi per l’abilitazione all’insegnamento, ferie dei supplenti “cancellate” per calmare lo spread e allarme delle province 3 per l’avvio dell’anno scolastico. Per trovare un’estate più calda, non solo dal punto di vista meteorologico, di quella che il mondo della formazione sta vivendo in questi giorni occorre andare indietro di qualche anno: quando il governo Berlusconi nel 2008 annunciò una serie di interventi su scuola e università. Questa volta la revisione della spesa riguarda anche la ricerca scientifica, motore per l’economia di qualsiasi Paese. Le due uniche buone notizie sembrano le oltre 26 mila assunzioni 4 a tempo indeterminato nella scuola a partire da settembre e il possibile dietrofront del governo sui tagli alla ricerca.

Aumento delle tasse universitarie. A dare l’allarme, dopo l’approvazione del decreto-legge sulla Spending review è stata l’Unione degli universitari. Rivedendo il meccanismo di calcolo del cosiddetto 20 per cento – la quota di pressione fiscale universitaria che, secondo una legge del 1999, gli atenei non possono superare rispetto al finanziamento statale – il Fondo di finanziamento ordinario – le università avrebbero avuto la possibilità di aumentare le tasse, sia per gli studenti in corso sia per i fuori corso. Ma, dopo le proteste degli studenti, in sede di conversione in legge, è arrivata una mezza marcia indietro che alimenta le polemiche. Gli atenei, potranno aumentare le tasse fino al 100 per cento, in base al reddito, soltanto ai fuori corso. E col gettito aggiuntivo incrementare il welfare studentesco. Ma, secondo Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil, “l’idea che si possano recuperare i fuori corso attraverso l’aumento delle tasse universitarie è semplicemente assurda e pericolosa”. “Dietro i fuori corso – continua Pantaleo – ci sono molteplici ragioni non sempre documentabili. Il rischio è di penalizzare sempre i più deboli, perché chi è ricco potrà tranquillamente continuare a frequentare l’università anche con l’aumento delle tasse”.

Tagli alla scuola. Dopo la cura da cavallo imposta dal governo Berlusconi, la revisione della spesa interviene ancora sul personale docente e Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario). A settembre saranno 15 mila, secondo le prime stime dei sindacati, i supplenti che non troveranno più un posto e uno stipendio. Il perché è presto detto. I 10 mila docenti in soprannumero saranno costretti a settembre a fare da tappabuchi nelle scuole anche per piccole supplenze, quelle che erano appannaggio dei precari. A questi, occorre aggiungere 3.565 insegnanti inidonei all’insegnamento per ragioni di salute che, questa volta, verranno spediti nelle segreterie scolastiche, come assistenti amministrativi, o nei laboratori, come assistenti tecnici. Ci sono poi altri 430 insegnanti all’estero che saranno costretti a rientrare in Italia e 900, tra ex docenti tecnico pratici della C555 e coloro che sono transitati dagli enti locali allo Stato con una qualifica che non trovava corrispondenza nella pianta organica statale (C999), che diventeranno assistenti amministrativi o collaboratori scolastici. In tutto, 14.905 posti che fra un mese verranno meno ai supplenti.

L’odissea dei Tfa. Doveva lanciare l’era dell’insegnamento a numero chiuso, ma si sta trasformando in un vero pasticcio. Nell’occhio del ciclone, ancora una volta, i test di ammissione ai Tirocini formativi attivi, che dovrebbero consentire a laureati non in possesso di abilitazione di conseguirla dopo un anno di esperienza sul campo. La nuova formazione iniziale per gli insegnanti, lanciata dalla Gelmini, prevede un corso universitario quinquennale e un anno di tirocinio attivo che si conclude con un esame abilitante. In questa prima fase di transizione tra il vecchio e il nuovo ordinamento, per coloro che sono già in possesso di una laurea, è possibile partecipare al solo tirocinio, che però è a numero chiuso. A gestire la selezione e i corsi ci pensano gli atenei italiani. Ed ecco i test messi a punto dal ministero dell’Istruzione per individuare i 20 mila fortunati che potranno conseguire l’abilitazione all’insegnamento. I primi esiti pubblicati dal Cineca (il consorzio universitario che gestisce il test) e le prime proteste degli interessati, tuttavia, non sono affatto incoraggianti. Per insegnare francese alla media e al superiore sono riusciti a superare il quizzone soltanto in 96, i posti disponibili erano ben 765. I partecipanti lamentano l’eccessivo nozionismo e l’ambiguità di alcune domande. Una circostanza confermata dallo stesso Cineca, che comunica agli interessati il “bonus” di tre domande, considerate a tutti corrette, a prescindere dalla risposta data. Una ammissione di “colpevolezza” abbastanza esplicita che si ripete per sette delle 11 graduatorie pubblicate. Ma anche quando non vengono riscontrati “errori” ufficiali restano parecchi dubbi che daranno vita a migliaia di ricorsi. Nella classe di concorso A047 – matematica – per il ministero è andato tutto bene, ma l’Umi – l’Unione matematica italiana – non sembra essere d’accordo. E segna con la matita blu errori in ben cinque domande: quelle contrassegnate con in numeri 12, 24, 38, 39 e 47.

Le province protestano. E’ sempre la revisione della spesa al centro della polemica, questa volta con le province. E non per il taglio delle stesse ma per la riduzione dei trasferimenti dallo Stato. Secondo il presidente dell’Upi (l’Unione delle province d’Italia), Giuseppe Castiglione, i tagli ai bilanci delle province metteranno a rischio l’avvio dell’anno scolastico al superiore. Le province assicurano il pagamento delle bollette telefoniche, della luce e dell’acqua, ma anche la sicurezza e la manutenzione degli edifici scolastici. Ma con i tagli, di 500 milioni per il 2012 e un miliardo per il 2013, gli enti locali non potranno più, secondo Castiglione, garantire tutti i servizi. “Il governo – spiega – considera come spesa corrente anche una serie di servizi che eroghiamo ai cittadini che, a nostro parere, non possono essere contratti. Tra questi quelli scolastici”.

Le ferie dei supplenti. Il ministero dell’Economia, in questi giorni, ha invitato le segreterie scolastiche a sospendere il pagamento delle cosiddette ferie non godute al personale docente fino al termine delle lezioni. Una norma del decreto legge 95 stabilisce che le ferie non sono più monetizzabili. Ma ai 90 mila supplenti fino al termine delle lezioni, finora, non potendole fruire in estate, sono state sempre pagate. E intervenendo in estate il decreto non potranno neppure fruirle durante le lezioni. La prospettiva, anche adombrata dai sindacati, è una palese lesione del diritto alle ferie e si intravedono altri ricorsi all’orizzonte.

Il taglio delle presidenze. A settembre saranno 2.221 le presidenze in meno in Italia. La cura dimagrante è frutto del dimensionamento scolastico – meno 1.080 istituzioni scolastiche – e del decreto sulla stabilità emanato dal governo Berlusconi poco prima di passare la mano a Mario Monti, che prevede solo un “reggente” – un preside che è già titolare in un’altra scuola – per i 1.141 istituti sottodimensionati: cioè con meno di 600 alunni o 400 nelle piccole isole e nei comuni montani. Gli addetti ai lavori, per questa ragione, intravedono un ulteriore calo della qualità del servizio. A queste si aggiungono le difficoltà che sta incontrando il ministero a portare a termine il concorso per 2.386 per nuovi dirigenti scolastici. E lo stop imposto dal Tar in Lombardia, a pochi giorni dalla nomina dei vincitori di concorso, perché le buste dove sono stati conservati i compiti erano semitrasparenti e non garantivano l’anonimato durante la correzione.

Immissioni in ruolo nella scuola. E’ una delle poche buone notizie di questa estate rovente della scuola. Il ministero ha avanzato al dicastero dell’Economia la richiesta per assumere entro settembre 26.448 unità di personale scolastico (21.112 unità di personale docente e 5.336 di personale Ata). La comunicazione è stata data alla Camera, pochi giorni fa, durante un’interrogazione parlamentare dei deputati del Pd, Maria Coscia e Tonino Russo, che chiedevano lumi sul piano triennale di assunzioni varato dal precedente esecutivo. Nei prossimi giorni, il ministro Francesco Profumo dovrà emanare il relativo decreto con i posti per provincia e i provveditorati saranno costretti a un tour de force per garantire tutti i docenti in cattedra per l’avvio delle lezioni.

I tagli alla ricerca. La Spending reviw non ha risparmiato neppure gli enti di ricerca italiani. L’allegato 3 del decreto declina tutti i tagli imposti nel triennio 2012/2014 agli enti di ricerca, compreso quello imposto all’Infn (l’Istituto nazionale di fisica nucleare) che ha contribuito alle ricerche sul bosone di Higgs, una scoperta che se confermata può aprire scenari rivoluzionari nello studio della fisica delle particelle. E dopo le ennesime proteste il governo ha fatto una mezza marcia indietro: il taglio del 2012, pari a 19 milioni spalmati su tutti gli istituti che dipendono dal Miur, è stato cancellato. Ma il colpo di scure è soltanto rinviato: per il 2013 e per il 2014 resta un taglio di 51 milioni per anno.

da repubblica.it

L'ira di Bersani sul Pdl: «Così sarà rottura», di Simone Collini

«Un colpo di mano da parte del Pdl sarebbe un atto di rottura irrimediabile». Irritato è dir poco. Tanto che la prima stesura della nota scritta da Pier Luigi Bersani era molto più dura, molto più esplicita nel delineare le conseguenze derivanti da un blitz di Pdl e Lega a Palazzo Madama sulla legge elettorale, per di più avallato dal presidente del Senato Renato Schifani nell’evocare un’approvazione a maggioranza. La versione poi data alle agenzie di stampa dal leader Pd è stata smussata, ma fino a un certo punto: «Come si vede anche dalle dichiarazioni del presidente del Senato Schifani, il Pdl sulla legge elettorale oscilla tra pratiche dilatorie ormai estenuanti e la suggestione di un colpo di mano in Parlamento. Quanto alla ipotesi del colpo di mano, è evidente che se si ripetesse per la legge elettorale quel che si è visto proprio in Senato per la riforma costituzionale, sarebbe un atto di rottura irrimediabile».

Un monito che, chiaramente, non riguarda soltanto le trattative in corso per arrivare a un testo condiviso sulla legge elettorale. Il leader del Pd lo ha anche detto pochi giorni fa al presidente del Consiglio, nel corso del colloquio a Palazzo Chigi, che il riemergere della vecchia maggioranza Pdl-Lega avrebbe indebolito il governo e minato il seguito della legislatura.

Una preoccupazione diffusa nel Pd (Massimo D’Alema in un’intervista a l’Unità a inizio settimana aveva parlato di «situazione sempre più insostenibile») ma condivisa anche dai vertici dell’Udc, di fronte al comportamento «ambiguo» del Pdl. Nessuna doppia maggioranza, ha assicurato Angelino Alfano quando è stato il suo turno a Palazzo Chigi, sosterremo l’esecutivo fino al 2013. Poi però il Pdl ha fatto saltare l’accordo trovato con Pd e Udc sulla nuova legge elettorale e, dopo un colloquio tra Silvio Berlusconi e Roberto Maroni, ha annunciato la presentazione al Senato di una proposta non condivisa dalle altre forze che sostengono Monti: sistema proporzionale con eletti scelti per il 30% con liste bloccate e il 70% con preferenze, sbarramento al 5% e premio di governabilità tra il 10 e il 15% al primo partito.

LEGISLATURA A RISCHIO
La capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro sente «puzza di bruciato» e definisce questa «ennesima forzatura di Pdl e Lega» un atto «irresponsabile», mentre il vicepresidente di Palazzo Madama Vannino Chiti dice puntando il dito contro la «doppia maggioranza»: «Quanti sono interessati seriamente alla tenuta del governo, a cominciare dal presidente del Consiglio, non si limitino a osservare indifferenti o a fingere di non vedere. Una legge elettorale come quella proposta dal Pdl, e comunque approvata contro le forze che lealmente sostengono il governo Monti, porrebbe le condizioni per la fine della legislatura». Enrico Letta dice che «se il Pdl sceglie la Lega sulla legge elettorale ovviamente si assume la responsabilità della fine della “strana maggioranza”».

E se Beppe Fioroni fa notare che «Pdl e Lega preparano l’ultimo strappo non per fare la legge elettorale ma per mandare a casa Monti» e che di fronte a questa «follia pura» Casini non può «stare a guardare», anche il leader dell’Udc auspica la rapida approvazione di una nuova legge elettorale «senza furberie o rinvii», al di là di quando saranno le prossime politiche: «Capisco che ci sia chi cerca di inquinare i pozzi, ma non mi sembra il momento giusto per fare giochini». Il Pdl si difende dicendo che vuole solo proseguire il confronto partendo da un testo base (il proprio) e Schifani, tramite il portavoce, parla di «tendenziose interpretazioni», visto che il presidente del Senato, «nel solco di una autorevole precisazione del capo dello Stato, si è limitato a osservare che, teoricamente, la nuova legge elettorale potrebbe anche essere votata a maggioranza, nel pieno rispetto delle regole della democrazia parlamentare».

In verità Napolitano, nella lettera scritta a Fini e Schifani 20 giorni fa, parlava sì della auspicabile presentazione di «una o più proposte di legge elettorale, anche rimettendo a quella che sarà la volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva», ma chiudeva il passaggio sottolineando la necessità che questi «rimanessero quindi aperti ad un confronto conclusivo». Confronto, che mal si concilia con un blitz e un’approvazione a maggioranza.

L’Unità 29.07.12

"Fuoricorso, è polemica sull’aumento delle tasse", di Salvo Intravaia

Scoppia la polemica sull’aumento delle tasse per gli universitari fuoricorso. Dopo l’approvazione dell’emendamento sulla spending review, che consente agli atenei di aumentare le tasse fino a raddoppiarle, gli studenti minacciano di scendere in piazza. Per Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil, «l’idea che si possano recuperare i fuori corso attraverso l’aumento delle tasse universitarie è assurda e pericolosa».
«Dietro il fenomeno dei fuoricorso — continua Pantaleo — ci sono molteplici ragioni non sempre documentabili. Il rischio è la penalizzazione dei più deboli, perché chi è ricco potrà tranquillamente continuare a frequentare l’università anche con l’aumento delle tasse». Luca Spadon, portavoce di Link-Coordinamento universitario, aggiunge: «Il governo deve sapere che se continuerà a scaricare sugli studenti
il peso dei tagli, a settembre torneremo in piazza». La sola ipotesi di un incremento delle tasse fa saltare dalla sedia Giuseppe Del Barone, presidente nazionale del Sindacato medici italiani, che definisce il provvedimento in questione «un attentato allo studio, alla cultura e, in particolare, alla medicina: ci incateneremo all’ingresso del Quirinale, se è il
caso. Il percorso di studi in medicina — continua Del Barone — ha delle difficoltà oggettive. In quanti potranno permettersi di pagare 3mila euro all’anno per far studiare un figlio?». Luigi Frati, rettore dell’università La Sapienza di Roma, garantisce che nel suo ateneo «non ci saranno aumenti, ma il provvedimento rischia, mentre il Paese soffre, di buttare gente
fuori dall’università e consegnarla non al lavoro, ma alla malavita ».
In difesa del provvedimento si schiera Michel Martone, viceministro del Lavoro, celebre per avere definito “sfigati” proprio i fuoricorso, «ma lo direi ancora» — commenta — è stato un incentivo a spronare i giovani». La misura, secondo Martone «evita gli sprechi e spinge a laurearsi presto. Non riguarderà quelli che studiano e lavorano o che hanno avuto difficoltà per laurearsi». Anche Marco Meloni, responsabile Università della segreteria Pd, benedice l’iniziativa. «L’emendamento cancella la norma del decreto legge che avrebbe consentito quasi il raddoppio delle tasse agli studenti in corso e un aumento senza limite né criterio orientativo per i fuoricorso. Inoltre, tutte le risorse derivanti dagli incrementi delle tasse ai fuoricorso sono destinate a diritto allo studio e welfare studentesco».

La Repubblica 29.07.12

"Non solo Taranto, sono 131 le vertenze aperte", di Pino Stoppan

La crisi è profonda. E purtroppo non riguarda solo Taranto e la sua Ilva, di Fiat, Alcoa. A luglio è salito a 131 il numero delle vertenze che vengono discusse con maggiore frequenza al ministero dello Sviluppo economico (erano 109 a gennaio 2011) per un totale di 163.152 lavoratori coinvolti (135.839 a gennaio 2011), secondo i dati riportati dallo stesso Mise. Questo quanto emerge da un dossier della Cgil. Cifre è l’allarme della Cgil «che stanno crescendo vertiginosamente, se si considerano gli innumerevoli altri casi di crisi aziendali non ancora giunte al Ministero, ma già avviate a livello territoriale che contribuiscono a mettere in ginocchio il tessuto industriale ed occupazionale di intere Regioni». Per la Cgil «occorre risolvere, al più presto i singoli casi di crisi presenti a partire dai tavoli aperti al Ministero dello sviluppo economico, che non possono concludersi con il solo intervento degli ammortizzatori sociali». Sono tante, troppe, le crisi industriali che in lungo e in largo attraversano tutto lo stivale. «Dal 2009 ad oggi oltre 30mila imprese hanno chiuso i cancelli lasciando a casa intere famiglie» dice ancora la Cgil, in un dossier «Industria: la crisi non va in vacanza». «Siamo ormai al quarto anno di Cassa integrazione, un ammortizzatore sociale del quale ad oggi usufruiscono circa 500mila lavoratori che, in media, hanno visto diminuire il proprio reddito di circa 4mila euro. Dunque, un quadro decisamente preoccupante quello che si è delineato in Italia sotto tutti i punti di vista e che rende necessario e urgente, come ribadito sempre più spesso in questi mesi dalla Cgil «un disegno di politica industriale con al centro gli investimenti e l’innovazione» senza il quale «c’è solo il perdurare della recessione». «Il governo deve cambiare rotta e indirizzarla verso lo sviluppo e la crescita, ossia verso la creazione di lavoro, che rimane la vera emergenza del paese. Al contrario tutti i provvedimenti varati fin’ora dall’esecutivo basati su tagli lineari non hanno fatto altro che colpire lavoratori, giovani e pensionati, ossia quelle persone già messe a dura prova dalla crisi economica». Per la Cgil infatti «il decreto sviluppo non è all’altezza della gravità della crisi, serve un deciso cambio di rotta, in netto contrasto con le politiche rigoriste e recessive fin qui adottate». Non c’è solo Taranto si diceva. Tra le varie vertenze che investono la siderurgia e la metallurgia, tre in particolare meritano attenzione. La prima è quella che coinvolge l’Eurallumina. E per la quale si attende una svolta. Nello stabilimento sardo di Portovesme si aspettano novità per quanto riguarda la realizzazione degli investimenti utili alla riduzione dei costi dell’energia, condizione necessaria per permettere ai 530 lavoratori tra diretti e indiretti di passare dalla cassa integrazione in deroga a quella straordinaria per ristrutturazione, aprendo così una prospettiva occupazionale per gli operai. I maggiori nodi da sciogliere sono quelli riguardanti la produzione di vapore, il piano per la riattivazione degli impianti e gli investimenti. La seconda riguarda sempre la Sardegna e investe Alcoa. Dopo il ritiro delle annunciate procedure di mobilità con l’accordo raggiunto il 27 marzo scorso, si è aperto un percorso per la possibile cessione ad altre società dello stabilimento di Portovesme. Nella vicenda che riguarda circa mille lavoratori tra diretti e dell’indotto, trai nodi da sciogliere affinché possa avvenire la cessione dell’attività ci sono anche i costi delle bonifiche ambientali e quelli dell’energia, oltre alle garanzie occupazionali. E poi c’è tutta la vicenda che riguarda la Lucchini. Attualmente alle acciaierie Lucchini della Severstal per i 1.943 lavoratori si è fatto ricorso ai contratti di solidarietà per 12 mesi. I dipendenti lavorano in media 28 ore settimanali, in alcuni casi limite si arriva a 24. L’80% delle 12 ore non lavorate viene integrato dall’Inps e anticipato in busta paga dall’azienda. Per quanto riguarda l’altoforno di Piombino l’azienda ha annunciato la fermata per tutto il mese di agosto e una più breve a dicembre, che con molta probabilità significherà l’apertura della Cig. Anche in questo caso le criticità sono relative agli effetti finanziari e industriali. Quarto anno di cassa integrazione per circa 500mila lavoratori In media hanno visto diminuire il proprio reddito di circa 4mila euro

L’Unità 29.07.12

"Donne d'Italia", di Concita De Gregorio

Che meraviglia queste tre ragazze italiane, questi tre profili sul podio: un airone sottile, una bambola bambina, una madre con le prime rughe. Elisa, Arianna, Valentina. Che spettacolo queste tre donne così diverse così uguali, nemiche e compagne di squadra, rivali e vicine di letto. BELLE come il sole direbbero e diranno le loro mamme: sei bella come il sole. Ciascuna lo è. Che sorrisi, che impresa. Quanto dolore perdere di un soffio, quella lacrima che scende e la mano con le unghie blu di Arianna Errigo che la asciuga, che meraviglia vincere all’ultima stoccata, gli occhi che cercano il cielo di Elisa Di Francisca, in un secondo che ti giochi tutto in quell’attimo e non vedi non senti altro che sì, è la tua volta, è il tuo momento. È adesso. Che orgoglio risalire la china del terzo posto con la zampata della vecchia leonessa, che tempra il vecchio Cobra, Valentina Vezzali è ancora qui. Oro incenso e mirra hanno portato, venute da tempi diversi della vita: una ragazzina, una giovane donna, una campionessa alle soglie dei quaranta. Tre donne, tre destini che si annodano e si snodano in un soffio.
Vezzali era venuta con i suoi 38 anni, la madre e il figlio di 7 in tribuna, la storia della scherma già scritta per vincere il suo quarto oro ed entrare nella leggenda. Portabandiera della squadra olimpica. Invincibile, implacabile. Cattiva, in pedana. Solitaria fuori. Pochissimo amata dalle compagne di squadra: la vecchia, la chiamano. Ha affrontato Arianna Errigo, di 14 anni più giovane, tesissima. «Ho sbagliato la parte centrale della gara», dirà poi in lacrime, «niente da dire: ho sbagliato. Ha sempre ragione chi vince. Arianna attaccava molto, l’ho ripresa troppo tardi ».
Arianna attaccava molto, con i suoi 24 anni e le sue unghie blu fino a mezz’ora prima rosicchiate su una panchina lungo il Tamigi, nell’attesa. Prima olimpiade. Come va, Arianna? Come ti senti a dover affrontare la Vezzali? “Benissimo, mi sento bene. L’ho già sconfitta un mese fa, posso farlo ancora. Non ho voglia di aspettare altri quattro anni, non ditemi che ho tempo. Posso farlo ora”. E difatti sì, ecco: danzando in pedana come se fosse un ballo, una piroetta una mezza giravolta ad ogni stoccata, batte i piedi, urla, Valentina resta lì a guardarla a braccia conserte, 14 a 11, 14 a 12, non basta, è troppo tardi, la bambina col viso di bambola canta e danza veloce, troppo veloce. È un attimo, Vezzali è sconfitta.
Elisa Di Francisca, 30 anni, esce fuori a fumare. Una Marlboro, due. Ha eliminato la Nam, la coreana minuscola e veloce come un’ape, rimontando quando sembrava finita. Ora fuma, guarda il fiume. La finale
sarà contro Arianna. Sono compagne di stanza, al villaggio olimpico, proprio come Valentina Vezzali e Giovanna Trillini lo furono ad Atene. Una finale fa due rivali che stasera dormiranno in due letti gemelli, ciascuna con la sua medaglia sul comodino. Hanno già vinto entrambe, perché sconfiggere Valentina Vezzali – la rivale crudele – era la battaglia comune. Se lo erano dette alla vigilia: questa volta una delle due ce la fa, la battiamo. E infatti ecco, sì. Ora tutto
sembra più facile, Elisa ha un sorriso bello e malinconico, Arianna tiene la testa fra le mani. Chiunque vinca, la storia è scritta.
Valentina ancora in pedana, adesso. Mezz’ora dopo la sconfitta dalla ragazzina, con le lacrime ancora da ingoiare, sale a giocarsi il terzo posto. Agguanta la medaglia contro la Nam con un’impresa storica, una rimonta mai vista: se la mangia in 22 secondi,
gli ultimi. Rimonta da 8 a 12 con tre affondi negli ultimi 9 secondi, quello finale a un secondo dalla conclusione. Un secondo. Piange ancora, adesso. «Mamma mi ha detto che sono stata brava», dice. Mamma mi ha detto. Pietro la abbraccia e piange con lei. È comunque un bronzo, poteva essere oro o argento. «Ora faccio un altro figlio, poi vediamo a Rio». Ma l’occasione era questa e Valentina lo sa. Mi dispiace, ripete. Mi dispiace tanto. Ora le piccole, per la finale. Sembra non vogliano farsi male, sono sempre in pareggio. Elisa si muove dinoccolata e fluida, Arianna è più nervosa. Toglie la maschera, si tocca i capelli rame. «Arrivo sempre in fondo e non vinco mai», aveva detto ridendo poco prima sul fiume. Un destino. La stoccata finale arriva al minuto supplementare, dopo un match da infarto finito in pareggio. La lama di Elisa la colpisce al centro del petto, dove parte il respiro. Piange, la bambina. Sul podio piange ancora. La foto finale mostra tre donne di 20, 30, 40 anni. La piccola non riesce a sorridere nemmeno quando le mettono al collo la medaglia. La vecchia mostra tutti i denti in un ghigno di sfida e di orgoglio, sono ancora qui, eccomi, figuriamoci se non sorrido alle foto. Due sfingi, due modi di perdere. La campionessa olimpica leva la medaglia al cielo ed è felice, lei sì, e davvero bellissima. L’età di mezzo della vita, 30 anni. Arriva sempre il momento in cui anche i Cobra trovano un animale più giovane e più forte, magari un uccello in volo che plana, una bambina col viso rotondo che non ha paura. Non è una tragedia, è la vita. E’ il tempo che passa, tre stagioni che si avvicendano. Tre donne formidabili e forti, così diverse e così uguali. È proprio bello, ma molto bello così.

La repubblica 29.07.12