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"Sanità in rosso per otto Regioni Irpef più cara dal prossimo anno", di Roberto Petrini

Dopo il caso Sicilia, declassata ieri da Moody’s da Baa2 a Baa3, scoppia quello Campania e si aggrava la situazione finanziaria delle Regioni. La sola spesa per interessi, su mutui, prestiti e operazioni finanziare, ammonta per tutte le Regioni italiane a circa 2,1 miliardi all’anno: una somma sostenibile solo se i trasferimenti arrivano a destinazione e se, come è accaduto in Sicilia nei giorni scorsi, la Ragioneria generale dello Stato firma, all’ultimo momento, un «assegno » da 400 milioni. Una situazione assai critica che, in momenti di grave difficoltà per la finanza pubblica, apre la strada ad un ulteriore aumento delle tasse. Un emendamento del Pdl al decreto sulla spending review, in discussione al Senato, rende possibile un rincaro delle addizionali Irpef per le otto Regioni attualmente in deficit sanitario conclamato o sotto stretta sorveglianza.
ANTICIPO DI UN ANNO
In pratica si anticipa di un anno, al 2013 invece del 2014, la possibilità di raggiungere il tetto dell’aumento dell’addizionale all’1,1 per cento. Il tetto è attualmente fissato, dalla legge sul federalismo fiscale, all’0,5 per cento per il 2013 e fino all’1,1 per cento per l’anno successivo. Le due aliquote si sommano naturalmente a quella di base, uguale per tutte le Regioni, elevata dal recente provvedimento «Salva-Italia» all’1,23% (dallo 0,9%). Per i contribuenti, se le misure verranno approvate dal Parlamento e messe in atto dalle Regioni, si profila un aumento dell’addizionale Irpef per il prossimo anno che costerà, secondo le stime della Uil servizio politiche territoriali, 138 euro a testa.
LE OTTO REGIONI
Il meccanismo non varrà tuttavia per tutte le Regioni ma solo per le otto che sono sotto osservazione o sono state commissariate per eccesso di deficit sanitario. Si tratta di Calabria, Campania e Molise, in «cartellino rosso», e obbligate dal maggio scorso ad un ulteriore aumento dello 0,30 per cento: attualmente tutte collocate al 2,03 per cento e potranno passare al 2,63 per cento. Ci sono poi le tre regioni in «cartellino giallo», Abruzzo, Calabria e Sicilia, che non hanno subito l’aumento di 0,30 per cento, ma sono comunque giunte alla quota obbligatoria dell’ 1,73 per cento: saliranno al 2,33 per cento. Infine ci sono Piemonte e Puglia che sono sotto piano di rientro della spesa sanitaria e non hanno avuto l’obbligo di aumento delle aliquote: hanno adottato autonomamente aumenti per fasce che rientrano nella forchetta 1,23-1,73 per cento. La situazione dei deficit sanitari continua del resto ad allarmare. Secondo dati della Ragioneria generale, esposti nell’ambito dei lavori della Commissione Giarda, nel periodo nel 2009 una Regione come il Lazio ha prodotto un deficit sanitario di 1,4 miliardi pari al 15,2 per cento del finanziamento (comprese del entrate proprie per i ticket). Il rapporto deficit-finanziamenti era in Campania dell’8,3 per cento, in Molise del 14,3 per cento, in Sicilia del 3,3 per cento.
DEBITI E INTERESSI
Anche la situazione dei debiti non rassicura. Le Regioni italiane pagano ogni anno 2,1 miliardi di interessi passivi: alla Cassa depositi e prestiti, per mutui bancari a breve e a lungo termine, per operazioni finanziarie e di cartolarizzazione. Il record della spesa per interessi è del Lazio con 579 milioni, al secondo posto la Sicilia con 256,2 milioni, segue la Campania con 222,2 milioni, al quarto posto il Piemonte con 160,6 milioni.
I TAGLIA AI COMUNI
Sul fronte dei Comuni l’allarme sul pagamento degli stipendi di agosto non si attenua. «Siamo di fronte ad un deficit di liquidità che, unito al taglio dei trasferimenti statali, può provocare anche situazioni di estrema gravità come quella denunciata dal vicepresidente dell’Anci Cattaneo», ha confermato ieri il presidente dell’Anci, Graziano Delrio. Ed ha aggiunto: «Di Comuni a rischio ce ne sono parecchi, molti al Sud, perché dipendono di più dai trasferimenti. Tra questi: Napoli, Reggio Calabria e Lecce». Il direttore generale dell’Anci Angelo Rughetti, ieri ha rincarato la dose: «Il decreto legge spending review della cosiddetta fase due, dispone per i Comuni una riduzione di 500 milioni per il 2012, che diventano di 2 miliardi a decorrere dal 2013».
BOCCATA D’OSSIGENO
Una boccata d’ossigeno è giunta tuttavia dall’esame del provvedimento della «spending review» ieri al Senato. Con un emendamento presentato in commissione Bilancio al Senato, firmato dai relatori Gilberto Pichetto Fratin per il Pdl e Paolo Giaretta per il Pd, sono stati sbloccati 800 milioni che, grazie ad un accordo già raggiunto tra governo, Regioni e Anci, arriveranno ai Comuni attraverso le Regioni.

La Repubblica 27.06.12

"Ma gli speculatori non si arrenderanno", di Massimo Riva

Siamo pronti a tutto per salvare l’euro”. È bastato che Mario Draghi pronunciasse con fermezza queste poche parole. E, come d’incanto, la situazione sui mercati finanziari si è rovesciata. Dopo i disastri di inizio settimana la Borsa di Milano ha chiuso in rialzo del 5,62 per cento, mentre il fatidico differenziale dei nostri Btp rispetto ai Bund tedeschi ha recuperato di colpo 50 punti dall’allarmante 525 di mercoledì al 473 di ieri. Del tutto analoga la svolta per gli indicatori dell’altro Paese sotto il mirino della speculazione, la Spagna: la Borsa di Madrid ha registrato un balzo del sei per cento, mentre i Bonos iberici in corsa verso l’otto per cento sono ritornati sotto quota sette.
Poiché il mondo della finanza internazionale non è terra di miracoli, né improvvisi né duraturi, l’effetto spettacolare della sortita del presidente della Bce induce a due prime e sommarie considerazioni. L’una è che gli ultimi assalti sui mercati puntavano sì a saggiare la resistenza dei Paesi più esposti della zona euro ma anche e soprattutto a scommettere sull’incapacità politica delle istituzioni europee e dei singoli governi nazionali a mettere in campo una strategia efficace per spezzare l’assedio in atto. In quest’ultimo mese, in effetti, l’Europa ha saputo proiettare all’esterno la peggiore immagine di se stessa: solenni annunci di accordi unanimi, subito rimessi in discussione da dissensi resi inutilmente pubblici senza ritegno, un andirivieni di dichiarazioni contraddittorie col solo esito di versare nuova benzina sui fuochi della speculazione in un crescente marasma politico da nave senza nocchiero in gran tempesta.
Che in queste condizioni i manovratori di grandi capitali siano stati tentati di dare l’assalto finale alla traballante fortezza dell’euro era il minimo che potesse capitare. Mario Draghi ha avvertito che questa era diventata la posta in gioco e con encomiabile tempismo è andato a colpire al cuore simili aspettative schierando in battaglia l’unica istituzione del sistema euro che, pur senza avere i pieni poteri delle altre banche centrali, ha o può comunque trovare le munizioni per ingaggiare uno scontro con il fronte avverso rendendo più difficile e sicuramente più costosa la scommessa di chi punta alla disgregazione dell’euro. La ritirata di ieri non dice affatto che gli speculatori abbiano disarmato, ma indica che ora devono rifare i propri conti tenendo presente che a Francoforte c’è un’istituzione europea determinata a fargliela pagare in ogni caso molto più cara del previsto.
Quanto accaduto — ed ecco la seconda e forse più utile considerazione — è anche una controprova pratica della bontà dell’argomento messo sul tavolo da Mario Monti all’ultimo vertice di Bruxelles per convincere gli altri condomini dell’euro a far partire il cosiddetto scudo anti-spread. Agli esosi titubanti trincerati dietro il timore di dover impegnare grandiose quantità di denaro, il premier italiano ha insistito nel richiamare a tutti una regola elementare del gioco delle aspettative. Attenzione — ha sostenuto — basterà che il contestato scudo sia costituito attraverso una congrua dotazione di risorse per scoraggiare la baldanza degli assedianti con poca o forse addirittura nulla spesa.
Mai come a questo punto, insomma, appare di un’evidenza assoluta che il superamento almeno di quest’ultima fase acuta della tempesta monetaria dipende in primo luogo dalla capacità di battere un colpo risolutivo da parte dei governi dell’euro. Mario Draghi ha esercitato ieri una preziosa funzione di supplenza ma è essenziale che gli effetti positivi delle sue parole siano corroborati da pronte decisioni delle autorità politiche. Se sui mercati si dovesse diffondere l’impressione che la Bce sarà lasciata sola in battaglia per il protrarsi di ottuse dialettiche di dissenso fra le diverse cancellerie, la stessa sortita di Draghi raggiungerebbe lo scopo opposto a quello desiderato aggravando la situazione oltre il limite del sostenibile. A ben vedere, quindi, ieri il presidente della Bce ha lanciato un messaggio che contiene una duplice sfida. Agli speculatori da un lato, ma anche ai governanti riottosi e inconcludenti dall’altro.

La Repubblica 27.06.12

"Se Formigoni si crede Giovanna D'Arco", di Francesco Merlo

L’arroganza auto compiaciuta di Roberto Formigoni è un inedito nella storia degli impuniti italiani. Asserragliato e isolato nella sua Regione ormai allo sfascio, questo governatore imputato per corruzione è il guelfo degenerato, è l’integralista in eccesso che non si rassegna neppure all’evidenza e continua da forsennato la sua battaglia contro lo stato laico e contro tutti, spavaldo e al tempo disperato come un verso di Leopardi: «L’armi, qua l’armi: io solo combatterò, procomberò sol io». Bollato dal successore di don Giussani Juan Carron per «l’attrattiva del potere, dei soldi, degli stili di vita», Formigoni è ormai trattato come un peccatore anche dai suoi ex fratelli di Comunione e Liberazione che gli rinfacciano «di avere trasformato la Comunione tra di noi», vale a dire la pratica spirituale di mettersi in comunità, «in solidarietà di cricca». Tutti infatti sanno che quel compiacere Daccò in cambio di feste, barche e danaro non è religiosità ma sicuramente simonia e probabilmente
anche reato.
Venti anni fa, l’individuo collettivo Roberto Formigoni prese per conto di Cl la Lombardia per farne la regione del Papa, «come la Polonia — dicevano allora — felice e liberata di Wojtyla». Ebbene adesso Formigoni, in nome dello stesso Cristo, non vuole lasciare il governo di una Regione che è il paradigma della corruzione più cupa e penitenziale: creste sulle mense, corsie di ospedali trasformate in scannatoi dove spremere danaro, mazzette sulle flebo che alimentano conti in Svizzera… I suoi ex fratelli non si abbandonano ad invettive né gli lanciano le monetine davanti al Pirellone perché lo stile di Cl non è quello normale dell’indignazione, dell’urlare e del battere i pugni o dello
stamparsi in faccia la delusione. I soldati di Cristo, “i nostri”, i cattolici totali, i Memores Domini consumano nel silenzio gli abbandoni e i tradimenti, non aggrediscono ma girano le spalle a chi sbaglia e qualche volta anche a chi è soltanto in difficoltà perché il fallimento non deve mai sporcare la macchina di Dio. Così si comportarono per esempio con il giornalista Antonio Socci quando si dimostrò inadeguato al ruolo di nuovo anchorman in tv. E così agirono con Giuliano Ferrara per quella lista antiaborto che pure insieme a lui avevano creato. Capirono che era destinata alla sconfitta e ritirarono il consenso e i candidati la notte della vigilia, a poche ore dalla consegna degli elenchi elettorali.
Ebbene, Formigoni sa di essere stato espulso per sempre dal quel suo mondo. Sente oggi su di sé la crudeltà di meccanismi che egli stesso ha praticato.
Riconosce se stesso negli altri. Tanto più che mai nessuno era stato così deludente, neppure Giubilo e Sbardella negli anni del saccheggio di Roma. Per i cattolici delusi di Cl solo Formigoni è il sepolcro imbiancato: il candore della biacca sul viso che nasconde e rivela i calli del peccato.
Ecco perché Formigoni è un guelfo degenerato, solo così si capisce la sua esibizione di arroganza esagitata. La foga allucinata è la stessa dei predicatori che erano stati condannati dall’Inquisizione e si avviavano danzando al supplizio. E dunque adesso affronta le conferenze stampa come un soldato di Cristo che ha perso l’esercito, ma ingaggia con i giornalisti combattimenti mistici.
Se provate ad osservarlo senza sonoro scoprirete la felicità del mimo scatenato, l’estasi del santo in cerca di un altare. Ma se, al contrario, alzate il volume ed eliminate il video, il linguaggio è quello delle storiacce di pretura, affaracci di commercio e di potere collocati dentro i tabernacoli. Ai cronisti non risponde perché sono « degnissimi gazzettieri della procura», cioè emissari del maligno. I giudici si muovono in preda a «cieco furore ideologico» come Anna e Caifa, gli inquisitori del Sinedrio.
E quel paragonarsi a Gesù Cristo «al maestro che anche lui ha sbagliato nello scegliersi i collaboratori » va al di là della bestemmia, come ha scritto sul Corriere della Sera la moglie del suo amico di sempre, quell’Antonio Simone che fu amatissimo da don Giussani e ora si trova in galera, se non per lui per il loro “Avvenimento”. La lettera di Carla Vites in Simone, che lo conosce e lo frequenta da almeno trenta anni, è un trattato di malinconia, il documento di una comunità dissolta, un “come eravamo” dantesco, «Formigoni, io vorrei che tu Daccò e io…», una storia di lucciole pasoliniane spente dalla più miserabile delle corruzioni perché giocata sulle vite degli altri, sulla galera degli amici e dei complici, su Dio bestemmiato nelle barche di lusso e negli alberghi a 5 stelle, negli aperitivi e negli accappatoi a bordo piscina, la degradazione di Cristo ridotto a fuffa vip.
Davvero mai si era vista un’arroganza tanto isterica, e non più a conforto della sua identità di “diva” in camicie a fiori dal gusto eccentrico e cravatte sgargianti. Questo non è più il presidente
pop alla ricerca di un Andy Warhol che lo dipinga, qui non c’entrano il voto di castità e gli amorazzi e i paparazzi, i baci e le liti con le brune focose, la débauche scandalistica come contrappasso alla paralisi sessuale, l’ammiccamento al peccato che è l’ossessiva tentazione del supercattolico. Oggi l’arroganza di Formigoni segna anche la fine di qualsiasi estetica trasgressiva, non è più il fatalone alla prese con un fato ostile e ingrato, ma il recidivo sfrontato che scatena ormai solo la tifoseria degli ultimi ultras, quelli che misurano la vita a colpi di attributi, che non sono qualità ma il peso specifico dei soliti genitali. Ieri il Giornale lo ha lodato perché « ha tirato fuori gli attributi e ha risposto con un secco “ma vaffa” a pm e giornalisti». Come si vede la bizzarria è stata archiviata, siamo alla volgarità e alle bravate esibite come titoli di coda di un sistema di potere. Presto anche i tic hawaiani del credente appariscente dell’Italia dell’arraffo saranno dimenticati come le gag delle televisioni di provincia e di risulta.
La Lombardia ha infatti bisogno di seppellire l’epoca di quel governatore che pensava di promuovere i mobilieri locali lasciandosi fotografare in panciolle su un lettone. È Formigoni stesso a chiudere su di sé il libro del pittoresco: «la corruzione l’ha ghe minga», oppure «chiarirò ai giudici di che cosa si occupa un governatore di Regione» non sono più sbuffi di folclore da satrapo devoto, ma l’arroganza disperata dell’epilogo. E non solo non gli arriva più nessuna indulgenza, ma gli nega persino la pietas quella Milano della religiosità manzoniana che sempre lo aveva avversato ma non lo aveva ancora maledetto. Ed è orbato anche della “sussidiarietà” del centrodestra e di quel Berlusconi del quale avrebbe dovuto prendere il posto «quando finirà la ricreazione » dicevano i leader di Cl. Gli rimane solo l’appoggio della Lega a paradossale conferma che tutto è davvero finito, perché la Lega è appunto l’antistato ridotto a sgangherata armata Brancaleone. Per Formigoni è l’ultima flebo, come il metadone per il tossico o un Fernet per un ubriaco all’ultimo stadio. È vero che l’Italia è il Paese dove non si dimette mai nessuno, e nessun topo si sente fuori posto nel formaggio. Ma anche da questo punto di vista l’arroganza di Formigoni è oltre. Per lui le dimissioni sono ignobili, ripugnanti e vili perché non riconosce il Diritto che gliele impone. Nessuno può dimettere Giovanna d’Arco e nessuno che si crede Giovanna d’Arco si dimetterà mai davanti ai suoi nemici.
Questi di Cl hanno studiato tanto Giulio Andreotti per non arrivare a nulla. E difatti quando sono smascherati invece di usare l’ironia e la sapienza andreottiane abusano del vittimismo che è appunto il rifugio dei sepolcri imbiancati. Andreotti diventava il cireneo costretto a portare una croce non sua, Formigoni invece si vede già resuscitato e pensa che questa sia la sua passione, che alla fine del dolore e dell’umiliazione arriverà la palingenesi, il premio finale, un mondo dove non ci saranno più i magistrati ma quell’unico giudice benevolo che già gli strizza l’occhio: «Vieni Roberto, vieni, hai vinto dodici a zero».

La Repubblica 27.07.12

"Docenti inidonei, fumata nera. I sindacati non ci stanno", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Al Senato non fanno breccia gli emendamenti per evitargli il declassamento tra gli Ata e la penalizzazione previdenziale. Cisl: mandiamoli in pensione coi vecchi requisiti. Flc-Cgil: così si mortificano, servirebbe la dispensa dal servizio. Anief: impieghiamoli nelle biblioteche scolastiche. Lo Stato invece li metterà a sbrigare pratiche. Mentre il Governo per i 3.500 pensionandi rimasti bloccati dalla riforma Fornero sembra aver trovato i fondi per concedere la deroga e salvare quelli che con il servizio fino ad agosto raggiungeranno “quota 96”, la commissione Bilancio del Senato sembrerebbe aver respinto l’emendamento che diversi schieramenti politici avevano chiesto di per salvare dal depennamento tra gli Ata di una quota analoga di docenti non più inidonei all’insegnamento.
Durante la giornata è stato così un crescere di comunicati sindacali, che tanto avevano spinto verso i parlamentari perché caldeggiassero l’emendamento salva idonei. Tutti colmi di delusione verso un governo insensibile per questa fetta di lavoratori che se trasferita d’ufficio tra gli Ata rischierebbe fortemente di aggravare le proprie problematiche di salute: se, infatti, un docente ha dei problemi a insegnare la materia che dovrebbe conoscere, per la quale ha acquisito un’abilitazione e vinto un concorso, come potrebbe trovarsi quando a settembre verrà posto dietro ad una scrivania ad occuparsi di pratiche didattiche o amministrative? Come se non bastasse, il passaggio tra il personale non docente produrrebbe anche riflessi negativi sull’assegno di pensione, poiché i contributi che lo Stato verserebbe sarebbero inferiori agli attuali.
Secondo Francesco Scrima, segretario generale Cisl Scuola, i segnali negativi che arrivano da Palazzo Madama confermerebbero una sorta di “accanimento sui docenti inidonei per motivi di salute. Non basta l’inquadramento forzoso in mansioni di tipo amministrativo, nei loro confronti è in atto una vera e propria discriminazione anche in materia previdenziale. Non si capisce perché il Governo si ostini a negare quello che consentirà a tutti i lavoratori pubblici in esubero, ossia la possibilità di andare in pensione in base ai requisiti precedenti la riforma Fornero. Sarebbe il minimo dovuto a chi ha rinunciato, a suo tempo, al diritto di andare in pensione per inabilità”. Il sindacalista rende pubblica una versione che se confermata avrebbe del clamoroso: il governo avrebbe “timore di dover sostituire con supplenti eventuali docenti inidonei che cessino dal servizio. Chi sostiene questa tesi, a dir poco stravagante, evidentemente non sa di cosa parla: mai e poi mai – sottolinea Scrima – si potrebbe ipotizzare la sostituzione di personale che non è più all’opera come docente ed è per questo collocato fuori dai ruoli. Ci auguriamo che equivoci così grossolani siano presto chiariti”.
L’appello della Cisl è anche quello della Flc-Cgil. Che tramite il suo segretario generale, Mimmo Pantaleo, per gli inidonei ha chiesto “la necessità di attivare la dispensa dal servizio. Non si può tollerare che si utilizzano docenti con gravi problemi di salute, accertati da visite fiscali, in funzioni di servizi amministrativi. Oltre a mortificare la dignità di quei docenti, la conseguenza – sostiene Pantaleo – sarebbe licenziare 3.500 lavoratori precari attualmente occupati da tanti anni in quelle mansioni creando ulteriori forti disfunzioni nel funzionamento delle scuole”.
Per l’Anief la soluzione sarebbe a portata di mano: impiegare questi lavoratori non più in grado di insegnare nelle “biblioteche esistenti nelle sedi di direzione degli istituti scolastici, dove quasi sempre il patrimonio culturale e librario non viene valorizzato proprio per mancanza di personale”. Una soluzione, quella prospettata dall’Anief, che non minerebbe nemmeno più di tanto la dignità degli inidonei. I quali rimarrebbero comunque nelle scuole, ma mantenendo un ruolo più vicino a quello primario: operare per gli studenti.

La Tecnica della Scuola 27.07.12

"Il dovere della responsabilità", di Carlo Galli

E’ morto, con D’Ambrosio, un capace e leale servitore dello Stato, un magistrato integerrimo che tra l’altro ha collaborato direttamente, a suo tempo, alla stesura dell’articolo 41bis, strumento cruciale della lotta alla mafia. Tutti se ne dolgono, senza infingimenti, come uomini civili e come cittadini democratici. E’ morto forse di crepacuore, per quanto se ne può sapere; in ogni caso, le ultime settimane della sua vita sono state segnate da quelle che un comunicato del Quirinale – di inusitata durezza, vibrante di emozione e di violento dolore – ha definito “ingiuriose insinuazioni” a suo carico.

Da chi questi attacchi siano provenuti quel comunicato non dice, com’è ovvio. Ciascuno può immaginarlo, se crede. Certo non da coloro che, in questo come in altri giornali, hanno rilevato nella vicenda delle telefonate del senatore Mancino ai collaboratori del Capo dello Stato, e anche nelle loro risposte – che forse non potevano non esserci, dato il rango dell’interlocutore – , comportamenti imprudenti e impropri. Nei quali può capitare a chiunque di incorrere, tanto più facilmente quanto più sono delicate le cariche che si ricoprono, e complesse le circostanze che si presentano. Se si operano le opportune distinzioni si coglie bene, in ogni caso, che un’imprudenza non è un reato, e che non le assomiglia neppure. Tanto è vero che D’Ambrosio, sentito come testimone dai magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia, non è stato rinviato a giudizio;

com’è invece accaduto, per falsa testimonianza, al senatore Mancino. D’Ambrosio, insomma, è morto senza che i magistrati – che hanno meritoriamente svolto il loro dovere senza guardare in faccia nessuno – eccepissero alcunché su di lui, dal punto di vista penale.

Gli attacchi veri e propri venivano invece da alcuni organi di stampa e da alcune parti politiche; non certo dai magistrati né dalla stampa che responsabilmente esercita il proprio diritto – dovere di critica e di informazione. Sia chiaro: la libertà di stampa è un bene primario in una democrazia; è una delle fonti della libertà civile – Kant diceva che la penna è il palladio della libertà – . Nessuno può pensare che per riguardi verso questo o verso quello essa debba essere limitata, compressa, attenuata. Ma è anche vero che della libertà di stampa va fatto un uso responsabile: che non vuol dire accomodante; vuol dire che di toni, modi, misure (o dismisure) della parola pubblica risponde chi quella libertà esercita, chi se ne serve. E ne risponde solo secondariamente in sede giudiziaria; in primo luogo, chi fa pubblico uso della ragione ne risponde davanti all’opinione pubblica, nello spazio pubblico in cui quella parola è stata pronunciata, in cui quegli argomenti sono stati avanzati. Se l’uso della libertà di stampa da parte di qualcuno, insomma, è stato improprio, lo decideranno prima di tutto i cittadini – quella parte di opinione pubblica che è abbastanza matura da giudicare se quella libertà non è stata confusa con la strumentalità, se la ragione, che può essere anche polemicamente orientata, non è stata invece trasformata in un teorema politicamente preconfezionato – .

Allo stesso modo, non c’è da stupirsi se la politica, come la stampa, è fatta anche di lotta e di attacchi. Ma anche la politica, pur nella sua durezza, pur nella sua intensità conflittuale, deve essere responsabile. Anche la politica deve rispondere ai cittadini. E quindi, se è sacrosanto pretendere che lo Stato cerchi tutta la verità sul proprio passato, cioè sulle trattative con la mafia, se è giusto polemizzare aspramente contro chi quella trattativa ha condotto e avallato e anche contro chi frenasse il lavoro della magistratura, non deriva dalla giustizia di questa causa – da tutti condivisa – che sia lecito servirsi di un comportamento imprudente di qualcuno (del tutto irrilevante) per attaccare l’intera Casta. E non deriva che sia giusto insinuare – attraverso la calunnia contro D’Ambrosio – dubbi sulla correttezza perfino di Napolitano. Se questa è politica, è cattiva politica. è una politica che alimenta la più primitiva antipolitica, il più qualunquistico populismo, credendo di servirsene, e non sa che invece corre il rischio di finirne vittima.

Forse i cittadini, anche i più inferociti contro il “sistema”, giudicheranno infatti sbagliato attaccare D’Ambrosio per insidiare il Capo dello Stato; e forse respingeranno come del tutto inutile una politica che si accanisce strumentalmente contro le imprudenze dei galantuomini anziché – e sarebbe questo il suo ruolo primario – analizzare (se lo sa fare) e cercare di risolvere (se ha qualche idea non meramente propagandistica al riguardo) i terrificanti problemi che l’Italia ha oggi davanti a sé. Se non altro, vale la pena di adoperarsi perché ciò accada.

La Repubblica 27.07.12

"Ilva, una sfida per Taranto e l'Italia", di Guido Ruotolo

L’Ilva è a un passo dalla chiusura, avendo il gip deciso il «blocco delle attività» di cinque aree dell’acciaieria. E se muore la fabbrica muore la città, Taranto. Ma nello stesso tempo il ricatto del lavoro al Sud non può più consentire che si lavori a tutti i costi. Anche a costo di morire di lavoro.
E’ terribile il ricatto. Ne sanno qualcosa i sopravvissuti di Casale Monferrato che hanno vissuto con l’Eternit. E che solo quando la fabbrica della morte era chiusa ormai da anni hanno avuto giustizia. Adesso, la vicenda di Taranto è più complessa. Intanto perché nello stabilimento lavorano, tra diretti e indiretti, quasi 15.000 addetti. E per la città sarebbe una tragedia la perdita di 15.000 posti di lavoro. Poi perché si scatenerebbe un effetto «domino» con la chiusura di altri impianti Riva che producono tubi e acciai, e le aziende clienti dell’Ilva soffrirebbero per la mancata consegna delle materie prime.

Ma come per l’Eternit di Casale Monferrato, così l’inchiesta della procura di Taranto ha accertato che la presenza dell’acciaieria ha provocato decine di decessi di cittadini che hanno respirato i veleni dell’Ilva.

La città naturalmente si interroga e assiste agli eventi. L’anno scorso ha dovuto prendere atto che il Mar Piccolo era «avvelenato» a tal punto che tutte le coltivazioni di cozze sono state distrutte. E’ accaduto anche quest’anno. Sembra che la fonte dell’inquinamento sia l’Arsenale militare.

Da sempre Taranto ha accettato la grande acciaieria che garantisce lavoro agli operai pugliesi, della Basilicata e persino della Calabria. Anche sapendo del prezzo da pagare. Quand’era Italsider, azienda pubblica, era un “«ssumificio», le assunzioni passavano attraverso il ministero delle Partecipazioni statali e dei ras democristiani locali. La produttività era un concetto astratto. Nella fabbrica prosperavano ben 546 imprese d’appalto, comprese quelle in odore di quarta mafia, di mafia pugliese. Si moriva di fabbrica e per la fabbrica, ma politici e sindacati erano impegnati a garantire lavoro.

Poi è arrivato il padrone delle ferriere. L’inglese che si insedia in India: Emilio Riva che si ritrova la più grande acciaieria d’Europa tra le mani. Per nulla. E si è continuato a morire di fabbrica e per la fabbrica.

Ma adesso che si stava intervenendo per sanare le ferite dell’inquinamento, con un’azione congiunta tra governo, regione, azienda, enti locali e sindacati, arrivailprovvedimentodelgip.Chissàperchéitempi della giustizia sono sempre così anacronistici. Patron Riva si è fatto da parte, ha nominato ai vertici dell’Ilva l’ex prefetto Bruno Ferrante. Il governo dei «tecnici» con molta sensibilità politica ha capito l’urgenza di investire 330 milioni per l’ambiente di Taranto. Il gip ha posto una condizione perché l’Ilva rimanga aperta: che si rendano compatibili con l’ambiente i reparti e le aree di produzioni. E’ una sfida che si deve accettare. Per Taranto e l’Italia. E ieri sera, nel corteo operaio che ha invaso la città, lo slogan che si gridava parlava di questo: «Lavoro e ambiente, connubio intelligente».

La Stampa 27.06.12

Errani: «Non firmiamo il patto per la salute», di Massimo Franchi

«Tagli insostenibili» e «profili di incostituzionalità» che portano le Regioni a dire di »non poter sottoscrivere il nuovo Patto per la salute 2013-2015». È durissima la posizione della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome sulla spending review. La tesa riunione di ieri con il governo in Conferenza Stato-Regioni si è conclusa con la consegna da parte degli enti locali di un documento dai toni molto alti. La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome «valuta negativamente i contenuti del decreto-legge – si legge – le disposizioni del decreto-legge apportano tagli insostenibili» e »si chiede al governo di attivare un tavolo di lavoro congiunto con il su pporto dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Age.Na.S.) per la verifica puntuale sui prezzi di riferimento, sui dati relativi al settore dei beni e servizi e delle tariffe». Le Regioni sono infatti intenzionate a dimostrare «con dati reali che l’impianto del Decreto-legge, combinato agli effetti delle precedenti manovre finanziarie, non consente di sottoscrivere il Nuovo Patto per la Salute 2013-2015, compromettendo la sostenibilità e la gestione del Sistema sanitario nazionale».

Dopo mesi di lavoro e di confronto con il governo il nuovo Patto, che doveva vedere la luce dopo l’estate, rimane dunque lettera morta. Il Patto è lo strumento con cui governo e Regioni decidono il riparto del fondo sanitario nazionale fra le varie regioni. L’attuale scade a fine anno e il mancato rinnovo provocherebbe la conseguenza che sia il governo in modo unilaterale a decidere come suddividere i fondi. Ma c’è di più: «Con questi tagli il rischio è di non poter non solo siglare il Patto della salute ma neanche gestire la sanità dal prossimo anno», lancia l’allarme il governatore delle Marche, Gianmario Spacca.
BALDUZZI: IL CONFRONTO VA AVANTI
A niente sono servite le rassicurazioni del ministro Balduzzi. «Sul Patto per la salute abbiamo iniziato un lavoro insieme alle Regioni: confido che, almeno su alcuni specifici, importanti temi, possa continuarci ad essere una condivisione», ha dichiarato il ministro per la Salute al termine della Conferenza Stato-Regioni. Il provvedimento sulla spending review, ha ricordato Balduzzi, «si intitola “Revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi per i cittadini”: il governo è convinto che così dovrà essere, altrimenti non lo avrebbe intitolato in questo modo. Il confronto con le Regioni è aperto», ha concluso il ministro.
Oltre alla sanità, le Regioni, assieme ai Comuni, si scagliano contro il taglio al fondo per le politiche sociali che passa «da un miliardo alla cifra ridicola di Il milioni», come denuncia il presidente dell’Anci Graziano Delrio che parla (come Renata Polverini) di «funerale dello Stato sociale» e di enti locali «non siamo più in grado di garantire i servizi alle persone». «Con il pesante depauperamento del fondo nazionale per le politiche sociali – si legge nel documento – che per l’anno 2012 risulta pressochè azzerato, la riforma degli assetti istituzionali locali non può trovare l’accordo delle Regioni laddove venissero confermate le disposizioni attuali che realizzano la riforma non con un intervento dal basso, più rispettoso dell’articolo 133 della Costituzione, ma attraverso la definizione di criteri e parametri predeterminati a livello centrale determinando una compressione nell’autonomia dei territori alla definizione delle scelte». Per tutte queste ragioni «è evidente – continuano le Regioni – come tali norme, presentino anche profili di incostituzionalità, ledendo fortemente l’autonomia organizzativa degli enti territoriali ed in particolare delle Regioni». [n settori come «l’ambiente o la protezione civile» ci sarebbero «frammentazioni nell’attribuzione di responsabilità, con rilevanti conseguenze per i livelli occupazionali e un possibile aumento complessivo della spesa venendo meno le economie di scala». Infine, il trasporto pubblico locale, «con il taglio dei 700 milioni di euro per il 2012 e di 1.000 milioni per gli anni successivi», con la Conferenza che «ribadisce le richieste di mettere a disposizione in maniera strutturale congrue risorse che consentano tra l’altro di riorganizzare il settore».
Sempre sul fronte sanità, oggi è invece prevista la serrata delle farmacie, anche se una quota di punti vendita è previsto che rimanga aperta per garantire i servizi essenziali e 4mila parafarmacie non sciopereranno. Secondo la presidente di Federfarma, Annarosa Racca, i tagli «rappresentano una misura iniqua e insostenibile per le farmacie». «Gli interventi di quest’anno si sommano alla manovra 2011: l’intesa è impossibile».

L’Unità 26.07.12