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"Ecco il dramma della questione meridionale", di Giuseppe Provenzano

Taranto, cuore d’acciamio e sangue avvelenato, si è fermata. Ma non può essere troppo tardi, di fronte a questo dramma economico e sociale. Gli operai dell’Ilva e dell’indotto sono pronti a tutto pur di non perdere il lavoro. E si tratta di ventimila famiglie, la maggior parte monoreddito. La città, due mari e polveri rosse, stretta tra il porto, l’Arsenale e questa grande fabbrica che fu di Stato, è la questione meridionale, il suo braccio forte che va in cancrena. Cos’è Taranto oltre l’acciaio?, si chiedono laggiù. E cos’è l’Ilva, quest’azienda che secondo le perizie in mano ai magistrati produce morte, nel Sud di oggi? Già fiore all’occhiello dell’industrializzazione di Stato che qualche intellettuale dalla pancia piena, qualche giovane scrittore come Mario Desiati, liquida alla buona, trasognando forse un Sud tutto di capperi e muretti a secco, non avendo mai conosciuto miseria e violenza delle campagne del dopoguerra dopo decenni di inefficienza pubblica, in cui la questione ambientale non fu mai posta, in pochi anni dalla privatizzazione ha volto, persino insperabilmente, le sue produzioni all’efficienza. Con l’impegno congiunto degli investimenti aziendali e dei lavoratori, ora produce il 40% del fabbisogno di acciaio dell’industria metalmeccanica nazionale e regge una buona fetta dell’export meridionale: successi economici che la crisi ha scalfito solo in parte. Però l’Ilva, un’azienda con un’età media molto bassa (31 anni), è soprattutto un monumento del lavoro nel Mezzogiorno: pressoché l’unico rimasto, in quel deserto industriale che sta diventando il Sud, da cui sono sparite anche le cattedrali, lasciando disastri ambientali altrettanto gravi e forse più, perché vi s’aggiunge quello peggiore della dimenticanza. Se l’impegno aziendale sulla sostenibilità degli impianti è stato tardivo e «forzato», l’allarmismo riflesso di queste ore non può far dimenticare infatti che la Puglia, dopo decenni di colpe e omissioni tarantine (in nome dell’occupazione o delle collusioni con l’azienda), ha cercato di affrontare la questione ambientale, approvando una legge sulla diossina che il resto del Paese si sogna e strumenti come la «valutazione di impatto sanitario», avviando un processo difficile di risanamento in un’area industriale avvelenata, che racchiude un grosso pezzo di economia nazionale (tra cui l’Eni che raffina il petrolio lucano), a ridosso della città già carica di amianto e inquinamento spesso di Stato. Sono troppe le responsabilità del passato, sulla salute e sull’ambiente, per cui occorre avere rispetto per l’operato della magistratura. Tuttavia, l’auspicio è che nel breve spazio di tempo rimasto, si riesca a scongiurare la chiusura dello stabilimento. Bisogna guardarle bene queste facce di operai, vecchi e giovani che indossano tute come corazze. La loro condizione umana è sempre più separata dalla città in cui pure vivono, in quel quartiere dei Tamburi, popolato un tempo dai metal-mezzadri con la loro identità divisa, che confina proprio con l’area a caldo. Proprio lì è maggiore l’incidenza di malattie e tumori derivanti dall’inquinamento industriale, e di morti pianti nel silenzio delle case, dopo aver pianto per anni quelli sul lavoro, sempre col ricatto della fame. Il dramma è che l’ambientalismo militante sembra essere loro distante e nemico affollato a Taranto da un certo «professionismo», con punte di miseria intellettuale quando è pronto a chiudere lo stabilimento, possa pure andare ad inquinare a mille km di cielo più in là, in Africa o in Albania. La città, in mezzo, vive contiguità e separatezza con la fabbrica, e con rassegnazione l’alternativa inevitabile tra disoccupazione e inquinamento: un poco pensa alla salute, che se ne va, e un po’ alla crisi, che non se ne va più. Così, è l’intero Mezzogiorno, nella sua spirale economica e sociale. Col futuro dell’acciaieria di Taranto, non è in gioco solo un’emergenza sociale, ma soprattutto una scommessa a cui non si può rinunciare: l’avvio di quel processo forse tardivo, ma ormai sancito per la bonifica e la riqualificazione dell’area industriale, e per l’ambientalizzazione dell’impianto, al fine di rendere ancor più sostenibile, come altrove, la produzione dell’acciaio. Questa è l’unica strada nello scenario meridionale di poli industriali in crisi e disastri ambientali, da Gela a Napoli. Spenti gli altiforni nottetempo, qualcuno potrebbe vagheggiare un Sud tutto giardini e bellezza – e chi riparerà alle bruttezze abbandonate, alla fine del benessere sociale di un lavoro produttivo? Sognano un luogo per farci solo le vacanze? Per troppi giovani emigrati è già così.

L’Unità 28.07.12

"Angela e la Germania. La prova più difficile, di Gian Enrico Rusconi

La dichiarazione congiunta Merkel-Hollande che parla della «necessità di applicare velocemente le decisioni prese dal Consiglio europeo del 28 e 29 giugno» è impegnativa. Di fatto è un’approvazione della linea strategica di Draghi, secondo cui la Bce sosterrà la moneta europea anche con l’acquisto di titoli sovrani dei paesi in difficoltà. Bene. Adesso – dopo le parole – aspettiamo i fatti. Gli avversari più tenaci di questa linea si trovano in Germania. Non nel governo, ma nel cuore della classe dirigente tedesca. Ieri la Bundesbank aveva criticato apertamente e fortemente la posizione della Bce, trovando largo consenso sulla stampa. Unica voce autorevole discorde, di sostegno a Draghi, è stata quella del ministro dell’Economia Wolfgang Schäuble. In un secondo momento è stata la volta della cancelliera.

Che cosa sta accadendo in Germania? Stanno (finalmente) venendo alla luce le tensioni da tempo latenti all’interno della classe dirigente tedesca nel suo insieme? Diciamo subito che non si tratta semplicisticamente di falchi e colombe. Ma neppure – contrariamente alle apparenze – di contrasti tra istituti che hanno competenze e responsabilità differenti: tecnico-finanziarie da una parte e strettamente politiche dall’altra.
Al di là delle sue competenze formali, la Bundesbank è un istituto di primaria importanza politica.

Non c’ è bisogno di esser esperti di economia o di sistema bancario: basta leggere i commenti di approvazione alla nota della Bundesbank che sono apparsi sui grandi giornali. Accanto alle considerazioni tecnico-economiche viene fuori la vera ragione del no alla Bce. L’iniziativa di Draghi – si dice – illude gli Stati debitori che la loro crisi venga risolta «dall’Europa», senza che si diano da fare a mettere in ordine i propri bilanci e rendere competitive le economie delle nazioni. «La Bce rischia i soldi dei contribuenti senza essere legittimata democraticamente».

Quello di Draghi è «un cavallo di Troia, che non difende più i principi, ma un’Europa in cui è il Sud a comandare. La conseguenza sarà una redistribuzione a spese del Nord senza risolvere alcun problema». A questo punto mi chiedo quando l’aggettivo complimentoso di Draghi «il tedesco» sarà sostituito da quello di Draghi «l’italiano».
E’ triste scrivere queste cose, se non rappresentassero il bordone populista che sta sullo sfondo di tutte le considerazioni del discorso pubblico «politicamente corretto». Involontariamente il governo di Berlino e la stessa cancelliera Merkel ha sostenuto la sua strategia di rigore di questi anni con ampi difetti di incomprensione di altre situazioni nazionali certamente meno virtuose, ma non per questo immeritevoli di sostegno.

Siamo ora ad una svolta? E’ probabile. O quanto meno me lo auguro. Non mi sorprende che la grande tattica Angela Merkel abbia finalmente capito che la sua posizione (e quella della Germania) in Europa è diventata insostenibile. E alla lunga dannosa per la stessa economia tedesca. Ma il lavoro di convincimento sull’opinione pubblica sarà molto impegnativo. Dovrà dare fondo a tutta la sua popolarità. Paradossalmente la cancelliera avrà vita meno difficile in Parlamento, dove la socialdemocrazia potrebbe darle una mano per tenere a bada i democristiani e i liberali ultrarigoristi. Questi con il loro atteggiamento non solo hanno isolato la Germania dall’Europa, ma non si rendono conto che a medio termine indeboliscono la stessa economia tedesca. L’economicismo è sempre ottuso.

Ma Angela Merkel potrebbe essere di fronte ad una prova molto difficile. Personalmente sono convinto che molti tedeschi in posizione di responsabilità economica e finanziaria (forse nella stessa Bundesbank), sono pronti a lasciar fallire l’euro e a costituire una comunità economica del Nord. Naturalmente non faranno nessuna azione «sovversiva». Semplicemente lasceranno andare le cose come vanno ora. Ci penseranno i mercati. L’Europa del Sud sarà alla deriva tra inevitabile rigore e rivolte sociali. E’ una prospettiva terribile che fa carta straccia di tutta la retorica europeista di cui si sono nutriti molti tedeschi sino ad un paio d’anni fa.

Spero naturalmente che questo sia solo un incubo. Ma ancora una volta dobbiamo guardare a Berlino per una alternativa, anche se – stavolta – come italiani abbiamo le carte in regola.

La Stampa 28.07.12

"Test sbagliati nei tirocini per insegnare i neo laureati pronti a una raffica di ricorsi", di Salvo Intravaia

Il ministero ammette implicitamente che alcune domande nei quiz di ammissione per i Tfa erano imprecise o sbagliate. Un autogol che si somma alla difficoltà che, in molti casi, hanno visto sufficienti molti meno candidati dei posti previsti. Test per insegnare a scuola nella bufera: in sette classi di concorso su 11 ci sono errori o domande ambigue. I nuovi quiz di ammissione per partecipare ai cosiddetti Tirocini formativi attivi – una novità introdotta dalla Gelmini per ottenere l’abilitazione all’insegnamento – sono partiti nel peggiore dei modi. I primi risultati pubblicati dal Cineca (il consorzio interuniversitario che gestisce la selezione) confermano che i quizzoni predisposti per selezionare i nuovi insegnanti, oltre ad essere molto difficili e a fare parecchie vittime, conterrebbero domande quantomeno ambigue o, secondo alcuni, anche errate.

Le prime polemiche si sono verificate alcuni giorni fa, quando sono stati resi noti i risultati per la classe di concorso A036: Filosofia, psicologia e scienze delle formazione nei licei delle Scienze umane, gli ex magistrali. In quella occasione, riuscirono a raggiungere il punteggio minimo – 21 punti su 30 – soltanto in 141 su cinquemila. E il numero di posti disponibili era di 588.

Secondo i laureati che hanno partecipato alla selezione, alcune domande riguardavano autori minori che a scuola non si studiano. Ma niente errori nei testi, pare.

Poi, sono stati pubblicati gli esiti per l’abilitazione in altre discipline d’insegnamento e le cose sono andate anche peggio. Nella classe di concorso per insegnare Francese alla scuola media e superiore si è verificata una situazione imbarazzante: 96 ammessi in tutta Italia per 765 posti disponibili: appena il 12,5 per cento. Ma questa volta due delle sessanta domande (la numero 21 e la numero 49) sono state considerate “sempre corrette” a prescindere da quello che avevano segnato i candidati, un modo che implicitamente ammette un errore nella formulazione. Una situazione che si è verificata, finora, per sette delle undici graduatorie pubblicate. E si prevede una raffica di ricorsi.

In base alla riforma Gelmini sulla formazione iniziale, per diventare insegnanti di scuola media e superiori occorre iscriversi in un corso di studi magistrale, ovvero quinquennale, e successivamente partecipare ad un tirocinio di un anno sul campo. Soltanto dopo avere superato tutti gli esami e la tesi finale si otterrà l’abilitazione all’insegnamento. Ma in questa prima fase di transizione dal vecchio al nuovo sistema, il relativo decreto dello scorso anno prevede che coloro che sono già in possesso di una laurea possono partecipare al solo Tirocinio, rigorosamente a numero programmato. Sono gli atenei ad organizzare la selezione e il tirocinio per i pochi fortunati che vi accederanno.

Per la classe di concorso A042 (Informatica), una delle ultime pubblicate, le domande che il ministero ha preferito considerare “sempre corrette” – che cioè erano sbagliate, con più risposte corrette o ambigue – sono addirittura sei. Insomma, un vero pasticcio.

“Chi ha predisposto le domande?”, si chiedono in parecchi. Viale Trastevere tace, ma considerare alcune domande “sempre corrette” a prescindere, come direbbe Totò, ammette implicitamente gli errori nei test di ammissione che, da quest’anno rappresentano l’unica possibilità per i neolaureati per accedere alla carriera di insegnante.

La Repubblica 27.07.12

Errani, chiesto il processo: “Non mi dimetto”, di Luigi Spezia

La Procura sostiene di aver letto a fondo le carte e di aver trovato gli elementi sufficienti per mandarlo a processo. La difesa afferma il contrario e, anzi, non teme di dire che i pubblici ministeri «hanno commesso un grave errore». Sarà un battaglia durissima quella che andrà in scena il prossimo 7 novembre nell’ufficio del giudice Bruno Giangiacomo, dove si presenterà il governatore Vasco Errani. La Procura ne chiede il rinvio a giudizio con l’accusa di falso ideologico. Ma il presidente della Regione Emilia-Romagna non ha nessuna intenzione di arrendersi: «Vado avanti. Non parlatemi di dimissioni».
La Procura chiede il processo anche per il fratello del presidente, Giovanni, al centro della parte principale della vicenda: un finanziamento pubblico alla sua coop Terremerse, che, secondo le indagini della Finanza, non aveva diritto di ottenere. La vicenda nasce nel 2006, quando Giovanni Errani, presidente della coop, dichiarò con una autocertificazione di aver finito il 31 maggio i lavori per costruire un’innovativa cantina vinicola a Imola. Un anno dopo ottenne un milione di euro (che ora, finita l’inchiesta, il settore Aiuti alle Imprese della Regione ha chiesto indietro). Nell’autunno del 2009 l’opposizione sollevò il problema che i lavori della cantina di Terremerse non erano finiti il 31 maggio come invece era stato dichiarato. Il Giornale cavalcò la polemica. Vasco Errani reagì: «Quell’articolo aveva attaccato la mia onorabilità — ha spiegato ora il presidente al procuratore capo Roberto Alfonso e al pm Antonella Scandellari — così mi rivolsi ai funzionari della Regione per raccogliere le carte di quel finanziamento, del quale fino a quel momento nulla sapevo».
Errani scrisse una lettera alla Procura con la relazione sul caso preparata da due alti funzionari regionali, anch’essi ora chiamati a processo. Una lettera e una relazione non richieste che, finita l’inchiesta, gli inquirenti sono andati a rileggere. La Finanza, infatti, nel frattempo ha fatto una ricostruzione diversa da quella offerta in quella relazione che Errani si era affrettato a inviare in Procura. Quindi, ecco scattare un atto di fine indagine, nel marzo scorso, nel quale il presidente della Regione risultava indagato per falso ideologico, per aver preso quell’iniziativa di scrivere alla Procura, considerata in grado di fuorviare gli inquirenti.
C’erano due diversi “permessi a costruire” del Comune di Imola per quella cantina e il secondo, concesso solo una settimana prima del 31 maggio, era un vero e proprio nuovo progetto. Ma la cantina non si poteva certo costruire in una settimana. In Procura, con accanto l’avvocato Alessandro Gamberini, il presidente ha spiegato ancora: «Non lessi gli atti indicati in quella relazione la cui stesura avevo affidato ad un funzionario di cui mi sono sempre fidato. Mi limitai a trasmetterla alla Procura. La valutazioni espresse nella lettera non sono frutto di un mio esame. Evidentemente la valutazione del funzionario era tale per cui non riscontrava illegittimità». Ma per il procuratore capo Roberto Alfonso ci sono «elementi per sostenere l’accusa in giudizio» anche a carico del governatore. L’avvocato Alessandro Gamberini non è dello stesso avviso: «La richiesta di processo non ha alcun fondamento. Non si può tacciare di falso quella comunicazione di Errani alla Procura che era tecnicamente un esposto. E’ stata proprio quella lettera di Errani a fare aprire l’inchiesta».

La Repubblica 27.07.12

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Il governatore respinge l’accostamento ai casi di Formigoni e Vendola: vicende diverse, andrò dal giudice con serenità. “Penso a lavorare, qui c’è stato il terremoto”, di Luciano Nigro
«Mi presenterò davanti al giudice con piena fiducia per chiarire che non ho commesso reati e che non ho mai favorito o sfavorito qualcuno». Non avrebbe voluto aggiungere altro il presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani.
Avrebbe voluto fermarsi al comunicato di tre righe rilasciato all’ora di pranzo e rinviare al chiarimento davanti al magistrato convinto che le sue ragioni verranno accolte. Ma è anche presidente della Conferenza Stato-Regioni e da più di due mesi Commissario per la ricostruzione dopo il devastante terremoto
che ha colpito l’Emilia. Una cosa dunque se la lascia scappare, pensando ai sindaci ai quali ha promesso di portare a casa presto gli 8 miliardi necessari per rimettere in piedi scuole, case e campanili abbattuti dalle scosse. «Io continuo a fare il mio lavoro, a partire dal quello di commissario per il terremoto, un impegno che
sto portando avanti con la massima determinazione. Oggi, anche se tutti mi cercano per altro, ho convocato quattro riunioni».
È una risposta implicita alla Lega Nord che già chiede le sue dimissioni? «Non voglio neppure parlarne — risponde controvoglia Errani — . Perché dovrei dare argomenti a chi ha già deciso, in
ogni caso?». Forse perché il suo nome verrà accostato al caso Formigoni. Magari lo farà lo stesso governatore della Lombardia che ha già detto: perché non parlate di Vendola? «Ecco appunto, per questo non voglio neppure accennare la parola dimissioni. Lo capisce chiunque che sono cose diverse, che ciascuno ha i suoi percorsi. Io non mi ci metto in un frullatore mediatico. Per questo non risponderò agli attacchi, mi metterò al lavoro, come ho fatto in tutti questi mesi, in silenzio: perché questa terrà si attende risposte urgenti a problemi drammatici. E queste sono ore decisive per il piano di ricostruzione che abbiamo messo a punto con il governo». Fa una pausa Errani: «Se ho deciso di non dare interviste è anche per un’altra ragione. Dimostrerò nei toni e nello stile che c’è una differenza radicale. Io non mi metto a ingaggiare battaglie con i pm. Lavorerò serenamente, come ho sempre fatto, e quando sarà ora andrò dal giudice a chiarire la mia
posizione. Con la massima fiducia, come ho detto in quelle tre righe. Le uniche parole che considero necessarie in questo momento
».
Intanto i grillini dicono: se andrà a giudizio, Errani deve dimettersi. «E io perché dovrei accettare quel terreno?» insiste il presidente della Regione Emilia-Romagna. «A parte il fatto che chiarirò la correttezza del mio operato, anche Totò diceva: facciamo le debite proporzioni. No davvero: non voglio interviste, devo mettermi al lavoro, mi aspettano a una riunione».
Non deve essere facile, però, guidare l’Emilia-Romagna e la Conferenza Stato-Regioni, e fare il Commissario per il terremoto con un rovello del genere. «Ma no — taglia corto il presidente dell’Emilia Romagna — io vado avanti per la mia gente, come è giusto che sia in un momento così grave. Il resto, le polemiche, le strumentalizzazioni, le esagerazioni, mi scusi, preferisco lasciarle ad altri».

La Repubblica 27.07.12

"Milano dice sì alle unioni civili", di Giuseppe Vespo

Superato il non possumus dei cattolici democratici, a palazzo Marino la maggioranza ricompone almeno in parte la frattura sul voto al registro delle unioni civili. I quattro consiglieri che per due giorni hanno fatto temere un voto contrario alla delibera consiliare che istituisce il registro delle coppie di fatto si astengono dal voto. E il Consiglio può arrivare così all’approvazione del provvedimento senza troppe difficoltà. Anche perché la mediazione trovata con l’area cattolica del partito tiene conto di alcune richieste avanzate dai quattro consiglieri del Pdl favorevoli all’istituzione del registro. Fino a ieri il nodo stava tutto nel termine «famiglia».

Il Pdl aveva presentato un emendato per l’istituzione di un registro delle unioni civili distinto da quello delle «famiglie anagrafiche», che esiste già in ogni Comune e comprende per esempio i conviventi o gli studenti che dividono l’appartemento. Il Pdl avrebbe così evitato di inserire il termine «famiglia» nel registro.

La maggioranza a palazzo Marino avrebbe anche accettato l’emendamento, ma i cattolici del Pd si sono opposti minacciando il voto contrario. Il motivo sta nel fatto che, secondo i «dissidenti» democratici, un registro delle sole unioni civili avrebbe potuto portare in futuro alla celebrazione di matrimoni gay.

La soluzione trovata è una via di mezzo. La spiega così Carmela Rozza, capogruppo milanese del Pd: «Faremo un registro delle unioni civili diverso da quello della famiglia anagrafica ma collegato. In questo modo, si scongiurerà il rischio della poligamia e si darà dignità alle unioni civili. Sarà un registro a parte che mantiene le fondamenta nelle leggi della famiglia anagrafica. Escludo che questo possa aprire la strada ai matrimoni gay».

Un concetto ripreso anche dal sindaco Pisapia, accusato nei giorni scorsi dalla Lega di dover pagare pegno agli elettori omosessuali: «Escludo che questa delibera apra alla possibilità di matrimoni gay – ha detto il sindaco di Milano – Questo è un provvedimento di carattere amministrativo. Per avere i matrimoni gay servirebbe una legge del Parlamento e, probabilmente, un provvedimento di ordine costituzionale».

Dal testo della delibera verrà cancellato quindi il termine «famiglia anagrafica» e sarà sostituito con «unioni civili», ma verrà fatto un riferimento esplicito alla normativa nazionale del 1982 che disciplina la stessa famiglia anagrafica. Una soluzione che si avvicina a quanto richiesto dai favorevoli del Pdl e va bene soprattutto ai cattolici del Pd, come ha confermato in apertura di seduta il consigliere Andrea Fanzago. «Ci hanno tranquillizzato sui contenuti – ha spiegato – ma il nostro voto di astensione rimane».

È così che dopo tre giorni di dibattito e 75 emendamenti Milano si aggiunge all’elenco delle 86 città che già ospitano un registro delle unioni civili. Tra le ultime Torino e Cagliari. Ma in assenza di una legge nazionale sulle coppie di fatto, oltre a qualche Comune sono le aziende ad organizzarsi. Diverse garantiscono l’estensione dei benefici che di solito danno ai coniugi dei dipendenti anche alle coppie di fatto, comprese quelle omosessuali.

Avviene già da qualche mese all’Ikea, dove i benefit riservati ai coniugi dei dipendenti e alle coppie di fatto sono stati estesi da maggio anche alle coppie omosessuali. Anche in Alitalia avviene qualcosa di simile. I cosiddetti «biglietti staff», scontati per dipendenti e familiari, vengono garantiti ai conviventi senza alcuna discriminazione di sesso. Alle Fs, invece, la Carta di Libera Circolazione, riferiscono i sindacati, viene concessa solo al coniuge e può essere ritirata in caso di divorzio. In alcuni settori, poi, come nel recapito alcune multinazionali hanno inserito nei contratti di secondo livello il termine «coppie di fatto».

Avviene alla Tnt per quanto riguarda la «banca ore» che si aggiunge ai permessi di paternità e maternità. Stessi accordi sono presenti nel mondo bancario e assicurativo. Mentre la cassa di assistenza integrativa dei giornalisti (Casagit) contempla tra i «familiari» dell’iscritto che hanno titolo all’assistenza (sempre a pagamento) il «coniuge o la convivente more-uxorio anche dello stesso sesso».

L’Unità 27.07.12

Spending Review: Ghizzoni, passi avanti su ricerca e cultura, occasione persa su scuola

“Nel difficile esame della Spending Review sono stati compiuti considerevoli passi avanti sulla ricerca, con la cancellazione dei tagli di 30 milioni di euro, e sulla cultura, con la soppressione della norma che prevedeva la chiusura di importanti enti culturali. – lo dichiara manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati – Purtroppo per la scuola si registra ancora una situazione di stallo. Un esempio per tutti – spiega Ghizzoni – il mancato emendamento dell’errore compiuto dalla riforma Fornero, che non ha tenuto conto della specificità della scuola e che ha impedito a 4000 unita di andare in pensione pur avendone maturato i requisiti. Una occasione che è stata invece colta, durante l’esame del provvedimento, a favore dei 24 mila dipendenti del pubblico impiego. Con rammarico e preoccupazione osserviamo che il sistema della conoscenza non riesce ad essere considerato nel suo complesso. Se da un lato si sta imparando a riconoscere il valore della ricerca come motore di sviluppo, dall’altro – conclude la Presidente della Commissione Cultura – ci sono ancora pregiudizi nei confronti della formazione e dell’istruzione come fattore di crescita, sociale e culturale.”

"Messaggio forte azione limitata" di Paolo Guerrieri

Sono bastate alcune nette e decise affermazioni del presidente Draghi a favore di un intervento della Bce a sostegno dell’euro per provocare una spettacolare conversione a U nei mercati europei, con le Borse in forte ripresa e un allentamento della tensione sui debiti sovrani. Lo spread dei nostri Btp è retrocesso fino a 473 punti base rispetto agli oltre 530 punti toccati ieri.
Se le affermazioni di Draghi, fatte intervenendo alla Global Investment Conference di Londra, confermano, da un lato, la decisione della Bce di scendere apertamente in campo perché consapevole della fase drammatica in cui versa la crisi europea, rimane aperto, dall’altro, il quesito di come interpretare la portata e il possibile impatto di questi interventi. Al riguardo, le dichiarazioni più rilevanti sono state soprattutto due: la Bce è pronta a intervenire facendo tutto quello che è necessario per salvare la moneta unica, sempre nell’ambito del mandato affidatole come banca centrale, qualora l’euro rischiasse l’estinzione; la soluzione del problema degli spread se i premi richiesti dal mercato sui costi di finanziamento dei paesi dovessero danneggiare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria rientrerebbe pienamente nel mandato della Bce. Ora che la crisi dell’Eurozona sia ormai giunta a uno stadio così avanzato da mettere a rischio l’intero sistema e la stessa sopravvivenza della moneta unica è un dato di fatto da settimane sotto gli occhi di tutti. Allo stesso tempo, un altro fatto è che la situazione dei Paesi debitori – a partire da Spagna e Italia – si sia deteriorata drammaticamente nel periodo più recente, a causa di livelli anomali degli spread determinati più da aspettative legate ai rischi e ai fallimenti sistemici del funzionamento dell’area euro che a comportamenti e responsabilità dei singoli Paesi. Se teniamo conto di tutto ciò, una prima possibile interpretazione della presa di posizione di Draghi è quella di un messaggio forte inviato ai mercati che proietta l’immagine di una Bce pronta a realizzare massicci acquisti di titoli di Stato attraverso operazioni di mercato aperto, fatte non per finanziare i Paesi interessati (in quanto espressamente vietato alla Bce) ma per fornire la liquidità necessaria a ripristinare un ordinato funzionamento dei mercati e la conseguente trasmissione della politica monetaria. Interventi di questo genere possono non aver limiti e in quanto tale assumere un effetto deterrente di grande portata nei confronti dei mercati così da determinare una rapida intensa discesa degli spread e dei tassi di interesse dei Paesi più indebitati. In questo caso saremmo di fronte a un segno di forte discontinuità rispetto a quanto accaduto finora, con rendimenti dei titoli sovrani di Paesi come l’Italia e la Spagna che sono stati totalmente in balia di valutazioni erratiche dei mercati finanziari e delle forze speculative in essi operanti. Va considerato il fatto, tuttavia, che la Bce opera all’interno di un mandato molto più limitato delle altre banche centrali, per esempio proprio rispetto alle operazioni di mercato aperto. Ciò può sollevare forti dubbi sulla possibilità di veder realizzati nelle prossime settimane interventi del genere sopra richiamato. Per non parlare della forte opposizione che questi ultimi incontrerebbero da parte della Bundesbank. C’è allora un secondo modo di interpretare la mossa di Draghi, che ridimensiona la portata degli interventi realizzabili da parte della Bce e quindi anche il prevedibile impatto sulla crisi. Da mesi la Bce ha sospeso il programma acquisto di titoli di stato dei Paesi più indebitati (il cosiddetto Smp), tra cui quelli spagnoli e italiani, che era stato avviato sotto la guida dell’ex presidente Jean-Claude Trichet. Alla luce delle affermazioni di Draghi tale programma potrebbe essere ripreso. In questa eventualità, la Bce potrebbe mirare a alleggerire, innanzitutto, la pressione sui bonos spagnoli e dal momento che la Spagna ha già firmato un Memorandum di impegni per ottenere il pacchetto di aiuti di 100 miliardi in favore delle sue banche, gli acquisti di titoli sovrani spagnoli, attraverso il Smp, avverrebbero con le condizionalità che interventi di questo genere richiedono. La probabile riduzione degli spread sui bonos spagnoli avvantaggerebbe, di riflesso, anche i nostri titoli sovrani. Ma è evidente che interventi della Bce di questo genere avrebbero tempi e limiti ben definiti, come già avvenuto in passato, e potrebbero garantire solo una fase di transizione in attesa che il fondo salva-Stati – l’Esm – sia reso operativo e in grado di sostituirsi quale meccanismo anti-spread. Mario Draghi ha in effetti ribadito sia che l’Istituto centrale non vuole affatto sopperire ad azioni che possono essere messe in atto dai governi dell’euro sia che gli accordi stipulati al summit europeo di fine giugno rappresentano un passo avanti fondamentale e vanno resi operativi. Il che finirebbe per ridare la palla ai governi dell’euro e alla necessità che mettano in piedi, al più presto, adeguati sostegni di liquidità per intervenire in futuro sui mercati dei debiti sovrani a favore di quei Paesi – come Italia e Spagna – che seppur in regola con le raccomandazione delle politiche economiche comuni non vedono i loro sforzi di aggiustamento riconosciuti dai mercati. In questa seconda interpretazione, la Bce rilancerebbe un programma di acquisti attraverso l’Smp avviando interventi di liquidità diretti a riportare ordine sui mercati, ma con l’effetto più limitato di guadagnare solo un po’ di tempo e garantire una fase di transizione i cui esiti resterebbero tutti nelle mani dei governi e della politica europei. Per quanto visto in questi ultimi tempi c’è dunque molto da temere.

L’Unità 27.07.12