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Bersani: "La situazione è molto grave. Le istituzioni devono stare in allerta, a cominciare dalla Bce"

Dopo l’incontro con il premier Mario Monti a Palazzo Chigi, il Segretario del PD, Pier Luigi Bersani ha spiegato a margine di una conferenza stampa alla Camera, i temi al centro del colloquio. “Abbiamo riflettuto assieme su una situazione economica e finanziaria molto molto preoccupante, c’è l’esigenza di dare seguito alle decisioni del vertice europeo e la necessità di uno stato di allerta da parte di tutte le istituzioni”. Così il Segretario del PD, Pier Luigi Bersani ha spiegato a margine di una conferenza stampa alla Camera, uno dei temi al centro del colloquio con il premier Mario Monti, svoltosi questa mattina a Palazzo Chigi.

Tra le istituzioni, Bersani ha citato la Banca Centrale europea. “Siamo in una situazione veramente molto seria – ha avvertito – e penso che se le cose peggiorano ancora, la Banca centrale europea dovrà pensare a intervenire. Adesso il presidente Monti girerà per la Finlandia, l’Olanda… ci rendiamo conto tutti che le risposte tecniche ci sarebbero tutte, il problema è che nel continente c’è stato un ripiegamento su dimensioni nazionali, territoriali, anche con tratti egoistici e invece è in corso il meccanismo dei dieci piccoli indiani”.

Altro tema oggetto del colloquio con Monti è stato la spending review e Bersani ha fatto presente che “ci sono cose che sosteniamo e vogliamo rafforzare e 2-3 punti su Sanità e Regioni da cambiare. Contiamo che su questi punti ci sia una riflessione molto attenta. Cosí non va bene. Risparmiare si puó, ma non cosí tenendo i saldi, perchè non siamo agit prop, ma un partito di governo, bisogna riaprire i tavoli con i soggetti interessati’.

Bersani ha concluso richiamando la politica ad un senso di responsabilità: “ll problema non è Monti. Qui il problema è quello della maggioranza parlamentare che non abbiamo risolto. Quel che manca all’Italia è un indirizzo univoco di maggioranza parlamentare. E per questo vorrei richiamare tutti al senso di responsabilità: non so se non c’è più una maggioranza o ne abbiamo addirittura due. Se vediamo, come ieri, riproporsi la vecchia maggioranza, questo non è certo salute ne’ per stabilità nè per governo ne’ per nessuno”, ha detto attaccando il vergognoso ok del Pdl e della Lega sul semipresidenzialismo.

"Strappo Pdl-Lega: la maggioranza non c'è più", di Simone Collini

Un’ulteriore dimostrazione che del Pdl non ci si può fidare. E che è d’obbligo approvare in fretta una nuova legge elettorale. Per essere pronti, quale che sia la data delle elezioni. Lo dicono nel Pd, ma anche nell’Udc, dopo il voto al Senato sul semipresidenzialismo. Bersani si dice «veramente irritato» per la scelta del Pdl di ridar vita insieme alla Lega alla «vecchia maggioranza», per questa «operazione propagandistica» (oggi Berlusconi e Alfano terranno una conferenza stampa in via dell’Umiltà per cantare vittoria, anche se è chiaro che non ci sono i tempi per approvare la riforma) nel bel mezzo di un attacco speculativo nei confronti del nostro Paese.

E anche il segretario dell’Udc Cesa denuncia questa «bandierina inutile che fa perdere tempo al Parlamento», quando invece bisogna «rispondere con concretezza» agli appelli di Napolitano e alle attese degli elettori. Ma non c’è solo il voto sul semipresidenzialismo a rivelare la fondatezza dell’«allarme» lanciato da D’Alema nell’intervista di ieri a l’Unità, quel sottolineare il fatto che «la situazione si fa sempre più precaria a causa del comportamento del partito di Berlusconi».

Il Pdl, anche qui in sintonia con la Lega, sta frenando sia in Commissione che in Aula su diversi provvedimenti messi a punto dal governo e ha smesso di cercare convergenze, a cominciare dalla definizione degli emendamenti alla spending review, con gli altri due partiti che garantiscono la maggioranza in Parlamento. Un comportamento «ambiguo» che non sfugge a Cesa, che guarda con preoccupazione a questa «involuzione» del quadro politico. Indebolire l’azione del governo Monti, è il ragionamento che fa il segretario dell’Udc, significa indebolire il governo Monti stesso. «Francamente, non si capisce quanto possa durare una simile situazione», ha detto a l’Unità D’Alema.

E anche tra i centristi il quesito che ci si inizia a porre è questo: quanto cioè si possa andare avanti con la «doppia maggioranza». Non è un caso se anche nell’Udc ormai si metta in conto la “subordinata” del voto in autunno, accanto a quella fin qui sostenuta, e cioè che la legislatura debba arrivare a scadenza naturale e si debba andare alle elezioni nella primavera 2013. Non è un caso se Casini, a chi lo interpella sulla questione, risponde senza escludere alcuna ipotesi: «Vedremo quando ci saranno le elezioni, e noi saremo pronti».

Quel che è certo, per il leader dell’Udc, è che in caso di crisi l’unica strada sarebbero le elezioni, mentre non ci sarebbe spazio per un ipotetico governo balneare che traghetti l’Italia verso il 2013: «Che quello di Monti sia l’ultimo governo della legislatura non c’è dubbio». Ma né il Pd né l’Udc si arrendono all’idea che la «doppia maggioranza» in cui si muove il Pdl produca una precipitazione. Per questo Bersani è intenzionato non soltanto a chiedere un chiarimento ad Alfano, ma anche a sollecitare un intervento da parte del presidente del Consiglio.

APPELLO DI BERSANI A MONTI
Il leader del Pd oggi andrà a Palazzo Chigi per discutere con Monti della crisi economica (bisogna insistere a livello europeo e la Bce deve fare la sua parte), della spending review (Bersani chiederà al premier di rivedere i tagli alla sanità e agli enti locali e anche di convocare un tavolo con Comuni per ascoltare le loro proposte) ma anche della situazione politica e del comportamento del Pdl. Bersani intende chiedere a Monti «se non sia una questione che riguardi anche il governo», l’emergere in Parlamento di due diverse maggioranze. E anche che il Pd è un partito «responsabile e leale», ma non può ricadere solo sulle sue spalle il peso di misure anche dolorose, «mentre quando c’è da salvare dalla prigione un parlamentare o fare un’operazione propagandistica rispunta la vecchia maggioranza».

Per Bersani il presidente del Consiglio ha tutto l’interesse a intervenire per raddrizzare la situazione. Anche perché, come dice il vicesegretario del Pd Enrico Letta sollecitando l’approvazione di una nuova legge elettorale, «governare con un Parlamento screditato è impossibile». Bersani non vuole neanche discutere dell’ipotesi che la situazione precipiti per il comportamento del Pdl. Perché il Paese ha bisogno di stabilità e perché manca un tassello tutt’altro che secondario per poter andare alle urne. Quello sul voto in autunno è per il leader del Pd un dibattito «astratto», finché rimarrà in vigore il Porcellum. Questo è il tema che interessa a Bersani, cambiare la legge elettorale. «Subito, subitissimo».

Con Casini sono d’accordo sul fatto che prima della pausa estiva dei lavori parlamentari debba esserci il sì in almeno una delle due Camere. «Cominciamo a fare una nuova legge elettorale, senza non si può andare a votare. Fatta questa il Paese potrà decidere per il meglio».

l’Unità 25.07.12

"Ecco perché ci rinuncio L'Italia non è più un Paese per insegnanti", di Silvia Avallone

in quarta elementare, quando le maestre proposero alla classe d’interpretare l’ennesima fiaba di Andersen per la recita di fine anno, un gruppetto di scolarette dissidenti di cui facevo orgogliosamente parte alzò la mano in segno di protesta.
Era il 1993. Le nostre insegnanti sgranarono gli occhi. Noi, con l’impertinenza tipica dei nove anni, ribattemmo che no, non volevamo saperne di principi e principesse. «Benissimo» risposero loro «organizzatevela voi, la recita “alternativa”».
Credo sia stata la prima sfida della mia vita, il primo vero insegnamento che ho ricevuto (consapevolmente).
Nelle ore in cui gli altri bambini provavano le battute ufficiali, noi scrivevamo il testo del nostro spettacolo underground. Optammo per la satira e, senza esitazioni, decidemmo di prendere di mira loro: le autorità, quelle che volevano darci — letteralmente — una «bella lezione».
Tre imitazioni caricaturali (che, ripensandoci oggi, erano un dolcissimo e struggente riconoscimento della loro autorevolezza) provate e riprovate a casa e durante la ricreazione. Il risultato, alla fine, fu un successo e le prime a chiedere il bis furono proprio loro: i nostri (amatissimi) bersagli.
Il mestiere d’insegnare, come si fa a farlo stare dentro una definizione? Perché la prima cosa che fa, un insegnante, è imprimere una direzione, una matrice, alla tua vita. Nel ’93 le nostre maestre ci hanno dato fiducia, ci hanno rese responsabili. Hanno accettato di essere messe in discussione per dare a noi l’opportunità di crescere.
Naturale, dopo un’esperienza così, sognare un giorno di eguagliarle. Il punto non è tanto la materia che insegni. Non è il complemento oggetto, ma il verbo. Diventare il segugio che scova in ciascun ragazzino quel talento potenziale, a volte inaspettato, che è nascosto in tutti. La guida che porta i suoi studenti a immaginare quante possibilità abbiano in futuro. La scuola è stata questo per me: imparare sul campo il significato e il perimetro della parola libertà.
Ci tengo a cominciare così, con passione, perché è la passione che ti muove verso un mestiere del genere. Ciascuno di noi ha una madre, uno zio, una nonna che ha cresciuto intere generazioni e a cui magari, a distanza di anni, gli ex allievi telefonano ancora. La bambina riconoscente che sono stata premeva per raccogliere il testimone, per contribuire a migliorare la società nel modo più incisivo: in mezzo a una fila di banchi disposti a ferro di cavallo.
A questo io ho rinunciato. Ho visto la scuola pubblica smantellata pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l’università annichilirsi anno dopo anno. E, in parallelo, questo Paese perdere grinta, ambizione, ridursi a una cartolina del passato, in cui la cultura viene messa da parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia, quale vicolo cieco. Ho cominciato a registrare la frequenza di certe massime come: «La laurea non serve a niente». A una scuola pubblica peggiore può corrispondere solo un Paese peggiore.
Di insegnanti come quelli che ho avuto — fiduciosi, realizzati — in giro ormai ne vedo ben pochi. Un giorno sì e uno no incontro un ragazzo della mia età che scuote la testa avvilito e ripete sempre la stessa frase: «Sono in graduatoria, sto aspettando». Incontro anche cinquantenni che stanno aspettando. Conosco pressoché solo supplenti. La parola «graduatoria a esaurimento» ricorre con lo stesso alone sinistro del castello di Kafka. Ci sei, sei lì, proprio a un tiro di schioppo, eppure non ci sei mai. Non c’è verso di raggiungere quello che oggi, nel nostro Paese, è diventato uno dei mestieri più ardui. Non basta la laurea. Non bastava neppure la famigerata Ssis, scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario, che hanno allestito e dismesso nel giro di un decennio. Ostaggi del tempo e dei punti, dei master online a pagamento che devi collezionare per scalare una o due posizioni. Sfruttati, ricattati, in balia di un ingranaggio perverso che ti richiede esami su esami, tasse su tasse, precarietà su precarietà. Ho chiesto a un’amica (trentacinque anni, un dottorato, due figli) quando prevedeva, all’incirca, di entrare di ruolo. Mi ha risposto voltando gli occhi al cielo: «Mai».
Per il 2011/2012 hanno istituito un nuovo ponte per il castello kafkiano: il Tfa, tirocinio formativo attivo, che impegna per un anno a pieno ritmo e costa la bellezza di 2.500 euro. Dopodiché: chi lo sa? Chi ha la forza di non lasciarsi scoraggiare dalle montagne di burocrazia, dai tempi biblici, dall’incertezza che ottiene in cambio, lungo la strada ha lasciato un vagone d’entusiasmo a disperdersi nel niente.
Quattro supplenze l’anno in tre scuole diverse. Che senso ha? Non fai neppure in tempo a conoscerli, i tuoi studenti. Non ci sarà nessun percorso insieme, nessuna crescita. Ho visto troppi aspiranti professori con i volti segnati dalla disillusione mollare tutto all’ultimo momento perché «così, a questo prezzo, non ne vale la pena». Non sei nessuno. Non hai più nemmeno un centesimo di quell’autorevolezza che avevano i tuoi insegnanti dieci, vent’anni fa. Sei in graduatoria, sei un supplente. Uno che supplisce a un vuoto pazzesco.
C’è la dignità di mezzo. C’è un senso di frustrazione che ti attanaglia ogni mattina, ed è quello che ti leggono in faccia gli studenti le saltuarie volte in cui puoi varcare la soglia della classe. Dovresti trasmettere loro energia, fiducia, curiosità, e tu sei il primo a non averne (più).
Se conosco anche storie a lieto fine? Certo, ma sono eccezioni. Il 4 giugno scorso, il giorno in cui scadeva il bando d’iscrizione all’esame per il Tfa, i miei amici e io, tutti aspiranti professori ai tempi del liceo, ci siamo ritrovati intorno a un tavolo e ci siamo guardati in faccia. Tu ti sei iscritto? Io no, e tu? Neppure io. Troppo tardi, troppe poche certezze per un azzardo simile. Follia pura, pensare di raggiungere una cattedra. E dire che mia madre, a soli vent’anni, dopo aver vinto il concorso di Stato era già di ruolo.
Cos’è successo nel giro di un paio di generazioni alla scuola pubblica?
Non basta una vita per insegnare, non bastano quarant’anni di servizio per arrivare a saperlo fare davvero (me lo ripeteva sempre il mio prof d’italiano). E con un tempo determinato che non va dal lunedì al sabato, che ci fai? Come puoi dire ai tuoi studenti che il futuro si costruisce qui? Che i sacrifici ripagano sempre, se non riesci più a risultare persuasivo?
Continuo a credere che la scuola sia la sola opportunità uguale per tutti di diventare cittadini liberi e intraprendenti. Ma lo è solo a patto che lo siano anche gli insegnanti: liberi di diventarlo. Anziché arrivare come me, a portarsi dietro un rimpianto. Quello di non poter essere io la maestra che, di fronte a uno stuolo sfrontato di ragazzine, dice: «Va bene, inventate la vostra recita alternativa, provate a camminare con le vostre gambe. Io sono qui per questo».

Il Corriere della Sera 25.07.12

Cinecittà: Ghizzoni, ora Abete in Commissione Cultura

“Dopo aver illustrato il piano industriale alla stampa mi aspetto che Luigi Abete faccia altrettanto anche nelle sedi istituzionali competenti – lo dichiara Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura alla Camera dei Deputati – Lo Stato detiene il 20% di Cinecittà Studios, pertanto Governo e Parlamento dovrebbero essere informati, anche per prendere provvedimenti adeguati, se il Presidente decidesse di licenziare i lavoratori in occupazione. Non sono atti che possono essere compiuti unilateralmente senza portare a conseguenze. Domani ascolteremo la rappresentanza sindacale dei lavoratori di Cinecittà, nei prossimi giorni – ha spiegato Ghizzoni – formalizzerò nell’ufficio di Presidenza la richiesta di audire anche il Governo, rappresentato dal Ministro Ornaghi, e il Presidente Abete, affinché vengano a chiarire il destino dei lavoratori, oltre che di un luogo che rappresenta l’eccellenza cinematografica nazionale.”

"Abilitazione per laureati, il disastro dei nuovi test", di Giunio Luzzatto

DAL 2007 i laureati italiani non hanno avuto la possibilità di abilitarsi all’insegnamento nelle scuole secondarie; la scuola universitaria a ciò deputata, la Ssis, è stata infatti soppressa non con la contestuale creazione di un corso diverso, ma in attesa di una futura istituzione di esso. Tale irresponsabile decisione è nella lunga lista delle colpe della ministra Gelmini, avallata da quegli accademici che non accettavano una struttura interdisciplinare finalizzata a costruire la professionalità dell’insegnante in termini complessivi anziché come mero conoscitore di una materia. L’attesa è durata cinque anni, e solo ora si riparte con un corso annuale, a numero chiuso, di Tirocinio Formativo Attivo (Tfa). I candidati sono circa 175.000 per ventimila posti disponibili; la cifra è stata stabilita per avere un numero di abilitati non troppo superiore alle prevedibili assunzioni. Nelle università italiane si sta ora svolgendo, in giornate successive per le diverse classi di abilitazione, la prova preliminare a test: è idoneo, e passa alla fase successiva (prova scritta e prova orale), chi risponde esattamente a 42 quesiti sui 60. A causa delle dimensioni del problema, nonché dell’impegno necessario per proporre quesiti intelligenti oltre che ineccepibili nella formulazione, il Miur avrebbe dovuto sentire l’esigenza di chiamare alla collaborazione tutte le competenze disponibili, in particolare all’interno delle università. Si è invece rivolto ai rettori solo per chiedere aiuti organizzativi (i bandi, la gestione dei plichi sigillati, l’assistenza nelle aule delle prove); sulla sostanza, nonostante recentissimi episodi di pessima gestione di quesiti concorsuali, ha voluto operare autarchicamente. I risultati sulle classi sulle quali le prove già si sono svolte mostrano, purtroppo, che questa presunzione è fuori luogo. Alcuni quesiti erano sbagliati (più di una risposta corretta, oppure nessuna); quasi tutti erano squallidamente nozionistici. Ciò che è disastroso è che non si è trattato di un primo ragionevole filtro tra i concorrenti, bensì di una selezione del tutto irrazionale. L’elaborazione dei dati, svolta per le prime 5 classi da Francesco Coniglione sul sito www.roars.it, mostra quanto segue. La percentuale di candidati sufficienti ha come estremi l’81% (lingua araba) e il 3,5% (filosofia e pedagogia), mentre per le altre 3 classi varia tra il 25% e il 36%. Poiché non è credibile che vi siano tali enormi differenze nella qualità della preparazione fornita ai laureati delle diverse discipline, e neppure che meriti la sufficienza solo un quarto dei laureati in matematica (corso considerato severo), e solo uno su 29 in filosofia, ciò dimostra che non si è stati capaci di tarare correttamente l’insieme dei quesiti (erano disponibili 3 minuti per quesito). Si verifica poi che nel caso della filosofia solo una Università potrebbe coprire tutti i posti disponibili, mentre per le altre classi, pur essendoci in totale un numero di idonei superiore ai posti, si avrebbero molti posti scoperti in alcune sedi, un numero ancor maggiore di idonei esclusi in altre. Occorre che, anche in sede politica, si rifletta sulla situazione qui descritta e si propongano, per il futuro, adeguati correttivi. Proprio perché vogliamo docenti qualificati dobbiamo pretendere che i meccanismi di selezione siano credibili; altrimenti di dà spazio a chi vuole le chiamate dirette degli amici da parte delle scuole, o simili. In via immediata, è comunque indispensabile che il Miur adotti una norma che consenta agli idonei, in eccesso presso una sede, di optare per una ove vi è la disponibilità di posti scoperti.

Università di Genova

L’Unità 25.07.12

Flc/Cgil E-R: “1000 docenti in più all’Emilia Romagna: quando?”, da Bologna 2000

Il Sottosegretario Rossi Doria il 5 luglio scorso nel corso di un convegno a Bologna, annunciava pubblicamente l’assegnazione aggiuntiva di mille docenti all’Emilia Romagna. “Ho una buona notizia, abbiamo destinato agli organici dell’Emilia Romagna mille posti in più che per il Ministero valgono 30 milioni di euro”…..”In una situazione delicata per i conti pubblici, abbiamo tenuto in forte considerazione la regione colpita dalle scosse del terremoto”.

Con queste parole, il Sottosegretario Rossi Doria il 5 luglio scorso nel corso di un convegno a Bologna, annunciava pubblicamente l’assegnazione aggiuntiva di mille docenti all’Emilia Romagna per fronteggiare la riapertura dell’anno scolastico nelle zone sismiche.

Avevamo interpretato quell’annuncio, ripreso con una certa enfasi dalle principali testate giornalistiche, come un significativo segnale di solidarietà nei confronti delle popolazioni terremotate e di positiva attenzione nei confronti della scuola come “luogo della ricostruzione”.

Quei posti rappresentano anche una concreta risposta alla richiesta di tempo scuola delle famiglie e al progressivo e costante aumento del numero degli studenti nella nostra regione (oltre 9000 nel 2012/2013 rispetto all’anno in corso), oltre che una parziale soluzione all’emergenza occupazionale nei settori dell’istruzione.

Di quei posti, ad oggi, nessuna traccia.

Le scuole stanno costruendo l’organico di fatto, siamo a pochi giorni dalla scadenza delle domande di utilizzo del personale e la spending review rischia di aggravare ulteriormente la carenza di organico esistente.

La riapertura dell’anno scolastico è alle porte.

Chiediamo al Ministero parole chiare e atti concreti, coerenti con gli impegni presi in questa regione di fronte alle Istituzioni e al sindacato.

Senza quelle risposte, è in pericolo la tenuta del nostro sistema scolastico e la credibilità delle Istituzioni.

Non possiamo accettare che le difficoltà causate dal terremoto, si sommino a quelle di altri provvedimenti in atto e ai tagli del precedente governo.

Chiediamo altresì, a tutti i soggetti istituzionali di questa regione di attivare ogni interlocuzione possibile, affinchè la scuola possa ripartire con le risorse necessarie per ricostruire quel senso della comunità che diventa ancora più importante in un contesto in cui il terremoto ha devastato territori, tessuti produttivi, ritmi della quotidianità e della vita sociale.

(Segreteria FLC CGIL Emilia Romagna)
da Bologna 20000

"Una legge anti-cemento per salvare i contadini", di Carlo Petrini

Ieri il ministro delle Politiche agricole e forestali, Mario Catania, ha convocato a Roma una conferenza intitolata “Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione”. Un evento piccolo, ma a suo modo storico, perché in Italia è finalmente caduto un pesante velo istituzionale. Per la prima volta un ministero riconosce apertamente che il consumo di suolo è un problema grave e quindi una priorità. È Stato presentato un rapporto ufficiale con statistiche eloquenti e, un po’ a sorpresa, un disegno di legge «in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo» che, tra le altre cose, propone con grande coraggio l’abolizione dell’uso da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente.
Il suolo è un bene comune. Una volta cementificato perde fertilità in maniera irreversibile, smette per sempre di produrre cibo, bellezza, cultura. Tre elementi che sono le nostre migliori ricchezze, che continuiamo a sperperare senza ritegno. A tal proposito, sia sufficiente una citazione attribuita all’economista John K. Galbraith: «Penso alla vostra patria, alla bellezza del suo paesaggio, alle vestigia storiche, alla sua agricoltura, al suo turismo. Se voi oggi siete in crisi è colpa vostra».
È colpa nostra bruciare risorse uniche: secondo il rapporto del ministero dal 1971 al 2010 abbiamo perso il 28% della superficie agricola utilizzata, un’area grande come Lombardia, Liguria ed Emilia- Romagna. Ogni giorno si cementificano 100 ettari di suolo e l’agricoltura italiana soddisfa soltanto più l’80% del nostro fabbisogno alimentare.
Se per alcuni decenni l’agricoltura ha sopperito alla diminuzione dei terreni con l’incremento delle rese delle coltivazioni, oggi ciò non è più possibile per motivi strutturali e di sostenibilità ambientale. L’agricoltura industriale non può andare tanto oltre quanto non si sia già spinta. Intanto il sistema di produzione del cibo soffre profondamente.
Scarsa remunerazione ai contadini, una filiera iniqua che penalizza soprattutto gli agricoltori e una mancanza cronica di giovani che rigenerino le nostre campagne sono un perfetto apripista per la perdita dei nostri terreni fertili, sia per cementificazione, sia per abbandono. La crisi del mondo agricolo è la prima causa del male, perché se distruggiamo i presidi principali del territorio, ovvero le persone che lo lavorano e lo curano, non ci sarà più speranza. Per ritrovarla servono nuovi paradigmi, creatività, nuove priorità. Ciò che giustamente Catania vuole incentivare: «Serve una battaglia di civiltà, per rimettere l’agricoltura al centro del modello di sviluppo che vogliamo dare al nostro Paese. Immagino uno Stato che rispetti il proprio territorio e che salvaguardi le proprie potenzialità. Noi usciremo vincenti da questa crisi se lo faremo con un nuovo modello di crescita».
Dalla buona agricoltura non si prescinde, e quindi non si deve prescindere dalla tutela dei terreni. Il disegno di legge presentato ieri è un primo passo importante. Intanto perché è una novità assoluta, che recepisce una sensibilità sempre più diffusa tra la società civile. Sono tante le associazioni già al lavoro, e ricordo che è partita la campagna per un “Censimento del Cemento” da parte del Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio – Difendiamo i territori”: è stata spedita a tutti i Comuni d’Italia una scheda per censire gli edifici costruiti e inutilizzati, ma in pochi hanno già risposto. Che si diano da fare però, perché avere dati certi è una base indispensabile per lavorare a una legge più giusta possibile. Intanto il ministero, attraverso il metodo della concertazione, ieri ha saggiamente invitato le associazioni ambientaliste, degli agricoltori e tutte le altre istituzioni a pronunciarsi sul disegno di legge, suggerendo modifiche e migliorie al testo (che potete scaricare dal sito www.slowfood.it). Questo è incoraggiante, a prescindere da alcuni limiti che l’attuale stesura contiene.
Nel disegno di legge c’è però una proposta quasi rivoluzionaria: l’ultimo articolo del testo propone di abolire l’uso degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni. Ciò significa spezzare il secondo meccanismo principale che porta alla sciagurata cementificazione del nostro Paese: la continua emergenza economica degli enti locali che quasi non possono più esimersi dal sacrificare le proprie terre fertili per fare cassa. Andranno sicuramente previste delle compensazioni, perché è arduo pensare di togliere una risorsa così importante mentre si fa fatica a garantire i servizi essenziali, ma il meccanismo prima o poi si dovrà rompere: è un po’ come se durante un inverno freddissimo, quando non funziona più il riscaldamento di casa, iniziassimo a bruciare tutti i nostri mobili. Alla fine rimarremmo senza mobili e intanto il freddo non sarebbe passato: un lentissimo doppio suicidio. È invece necessario puntare alla vita, che può essere ben rappresentata dall’immagine di un suolo fertile che produce cibo, bellezza, piacere e, ve l’assicuro, potenzialmente così tanta nuova economia da riuscire a sovvertire anche la crisi più nera.

La Repubblica 25.07.12